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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(PACE E GUERRA)

I teorici delle relazioni internazionali si interrogano se, ai fini di una corretta interpretazione della natura dei fenomeni in esame, sia preferibile partire dallo schema tradizionale, di derivazione hobbesiana, relativo alla originaria anarchia internazionale, o piuttosto dal concetto di ordine internazionale implicante necessariamente una revisione critica della idea di sovranità nazionale.
Secondo Hobbes c'è analogia tra il meccanismo costitutivo del Leviatano e quello costitutivo dell'ordine internazionale. Nel primo gli individui, operanti nello stato di natura, possiedono un potere personale illimitato al quale rinunciano totalmente per evitare l'autodistruzione reciproca e per ottenere in cambio la sopravvivenza, la sicurezza, la pax. Analogamente gli stati sono naturali portatori di un potere sovrano illimitato che genera una situazione di guerra permanente, di anarchia, dalla quale non è possibile uscire se non rassegnandosi ad accettare una sovranità internazionale. L'analogia può proseguire anche se dal piano strutturale e genetico ci si sposta su quello dinamico ed evolutivo. Come le rivoluzioni, rimettendo in discussione l'autorità interna dello stato, creano le condizioni per rinegoziare un nuovo pactum subectionis, così le grandi guerre, quelle che coinvolgono il maggior numero degli stati, hanno un valore costitutivo, poiché assegnano agli stati vincitori e all'equilibrio dei loro rapporti, il ruolo di veri sovrani internazionali. Si tratta, dunque, di guerre che hanno un vero e proprio valore costituente nei confronti del nuovo ordine internazionale. Nello schema hobbesiano, l'anarchia costituisce lo stato di natura, per gli individui come per gli stati. L'ordine è l'opposto, nel senso che non è possibile passare ad esso per gradi, ma solo attraverso la radicale negazione dello stato di natura; il che è impossibile.

Anche nel modello giusnaturalistico di Grozio si parte dall'idea naturale di anarchia ma si individua una strada graduale attraverso la quale è possibile raggiungere l'ordine. La gradualità è costituita dal fatto che alla pratica della guerra si sostituisce quella della contrattazione tra gli stati. Ogni stato cerca attraverso la contrattazione di occupare un certo peso, di accontentarsi anche di un ruolo inferiore rispetto ad altri stati, e persino di accettare la sottomissione di tutti gli stati alla volontà di uno solo. Anche in questo caso il dato di potenza è l'anarchia, l'ordine può essere un risultato che si snoda gradualmente attraverso molteplici livelli intermedi. Non viene escluso il processo di reversibilità che dall'ordine reintroduce l'anarchia, ma è proprio l'anarchia, e solo essa, a costituire il prius logico e storico del processo.

Ancora più accentuato è il processo tradizionale, di passaggio cioè dall'anarchia originaria all'ordine, nei modelli teorici cosiddetti pluralistici, da quello di Kant a quelli più recenti. Kant riconosce che il punto di partenza è un inevitabile antagonismo tra gli stati; ma essi sono spinti al superamento di questa condizione non già attraverso processi di mera sottomissione al sovrano internazionale, ma piuttosto mediante una tendenza alla federazione, fino alla nascita di una grande federazione di popoli che potrà garantire a tutti la pace perpetua. Nello scritto In che consiste il progresso del genere umano verso il meglio? (1795), Kant riconosce la validità della rivoluzione francese, perché essa ha segnato il diritto di un popolo di darsi la propria costituzione civile. È un diritto di natura: nessun popolo può essere impedito nell'esercizio di questo suo diritto naturale. In ciò sta la moralità della rivoluzione francese e la sua forza in direzione della pace piuttosto che della guerra. Una tappa verso il federalismo dei popoli e non già verso l'anarchia. I pluralisti più recenti sottolineano il fatto che gli stati non sono più gli unici soggetti internazionali. Fra gli stati poi, possono svilupparsi integrazioni, processi di partecipazione politica, forme di federalismo, fino ad una vera e propria democrazia internazionale.

I teorici della priorità originaria dell'ordine, rispetto all'anarchia, non sono molti. Il loro punto di partenza è il ricorso al mito dell'età dell'oro. Oppure, nella cultura moderna, è l'idea della cooperazione che si sostituisce a quella dell'anarchia. Nelle impostazioni organicistiche cooperare è il verbo costitutivo della stessa essenza umana, ma anche nelle formulazioni più individualistiche la cooperazione rispunta fuori nelle più svariate modalità. È cooperazione, ad esempio, anche quella che si sviluppa senza che vi sia alcun piano di coordinamento, nella situazione descritta dai logici come dilemma del prigioniero.

Riuscire a districarsi in modo soddisfacente tra le diverse posizioni non è facilissimo. Prima di tutto bisogna tenere conto del fatto che i modelli propri delle scienze sociali e politiche non sono omogenei. Alcuni, in ossequio al criterio di piena adesione alla realtà così com'è, hanno un carattere essenzialmente descrittivo, cioè cercano di interpretare i fenomeni sociali secondo principi interni alle cose stesse (iuxta propria principia), con l'aspirazione quindi ad espugnare ogni giudizio valutativo proveniente dallo scienziato sociale. Altri studiosi, al contrario, ritengono impossibile prescindere dalle valutazioni proprie dello studioso e le assumono consapevolmente ed esplicitamente come elementi fondativi del modello. E' facile intuire, nel caso degli studi relativi all'ordine internazionale, la netta prevalenza di modelli esplicitamente valutativi: quei modelli che abbiamo definito "anarchici" assumono una valutazione positiva delle funzioni di autorità; negli altri, di carattere federalista e pluralista, prevale nettamente la fiducia nel metodo democratico sia nella vita interna degli stati che nelle relazioni internazionali vere e proprie.

E dunque, neppure la netta prevalenza, negli studi internazionalistici, del modello anarchico non può prescindere da questo elemento valutativo. In effetti non può essere privo di significato il fatto che, continuando nell'analogia interno-internazionale, mentre negli studi sulla politica interna il termine anarchia compare, con qualche eccezione, perlopiù con significati negativi, al contrario nella letteratura internazionalistica la lettura anarchica prevalga nettamente. Eppure i fenomeni di disordine interno, da esplosioni di terrorismo a vere e proprie guerre civili destabilizzanti (basti pensare alla recente situazione della ex-Jugoslavia), non sono meno intensi né meno numerosi delle guerre di carattere internazionale. Addirittura, se ci riferiamo al periodo 1948-1980 si può constatare che il numero delle guerre internazionali sia stato tre volte inferiore a quello delle guerre civili, per le quali tuttavia quasi mai si parla di situazione di anarchia.

In verità, l'elemento valutativo che risulta essere al fondo della teoria anarchica, è l'intangibilità dell'idea della sovranità statale. È l'antica tesi hegeliana che domina, secondo la quale non si dà alcun momento oggettivo superiore a quello dello stato e le stesse guerre tra gli stati offrono grandi vantaggi, primo fra tutti quello di contribuire (soprattutto le guerre di vasta portata), a fondare un nuovo ordine internazionale migliore del precedente, una tappa del progresso costante della storia umana. In fondo questa era la tesi di cui erano convinti, pur con sfumature diverse, Kant, Costant e Tocqueville.

Nel 1926 G. Lowes Dickinson scriveva che "la guerra internazionale, nella nostra età come in qualsiasi altra, è uno scontro tra stati sovrani armati". E trent'anni dopo analoghi concetti venivano espressi da K. N. Waltz. Nella sua opera maggiore, Teoria della politica internazionale (1956), egli definisce anarchia la situazione internazionale non già perché sia caratterizzata da uno stato di guerra permanente, ma perché anarchico è il comportamento degli stati. Gli stati, dunque, concepiti come forniti di potere sovrano, sono essi a generare con la loro azione l'ordine internazionale, il quale è un prodotto derivante da quella azione. Anarchico è il sistema di relazione internazionale se anarchico è il modo in cui si comportano gli stati. 

La sovranità è un concetto politico-giuridico, formato nei secoli XV e XVI, che indica la pienezza del potere statale inteso come unico potere legittimamente autorizzato all'uso della forza su una determinata popolazione insediata in un territorio. La dimensione concreta della popolazione e del territorio è il risultato del processo storico che ha consentito allo stato moderno di affermarsi come monopolista del potere di contro alle vecchie concezioni universalistiche del Papato e dell'Impero e ai nuovi ceti particolaristici di origine feudale. Il sovrano diventa l'unico centro di potere che ha il compito di garantire la sicurezza tra i sudditi del suo regno. Il sovrano ha un potere esclusivo ed onnicomprensivo; solo lui può disporre di eserciti e gruppi armati. Sul piano interno sovranità significa politicizzazione della società e dei corpi intermedi, trasformazione di ogni politica in amministrazione, eliminazione di ogni guerra privata. Sul piano esterno il sovrano ha il monopolio della decisione sulla pace e sulla guerra. È così che egli viene a trovarsi in una condizione di parità con gli altri stati e di conseguenza il diritto internazionale può essere elaborato come sistema pattizio.

Sin dall'inizio, dunque, la sovranità è concepita come potere assoluto perché non riconosce alcuna autorità superiore, perpetuo in quanto non destinato a morire con la morte della persone che temporaneamente ricoprono quel ruolo, inalienabile ed imprescrittibile in quanto non appartenente al numero delle funzioni private, come è la semplice proprietà, concettualmente indivisibile anche quando l'affermazione della teoria settecentesca sulla separazione tra gli organi che esercitano il potere sovrano sembrava spingere in direzione diversa.

Certamente l'idea di potere sovrano era presente nella cultura politica antica e medioevale, ma con una collocazione alquanto diversa. Infatti esso doveva confrontarsi con un ordine naturale e razionale del mondo che esiste come dato e che implica in sé il parametro di jus e di justum. Il sovrano antico medioevale non può andare contro quest'ordine, non ha perciò un potere assoluto; mentre il sovrano moderno sostituisce Dio, che è onnipotente solo in cielo, mentre ogni ordine politico su questa terra dipende esclusivamente dal sovrano. Tutto il diritto viene ridotto a semplice comando: quod principi placet, legis habet vigorem. La laicizzazione e secolarizzazione della cultura moderna avviata dalla Riforma dispiega i suoi effetti in ogni piega dell'ordine sociale.

A ben guardare, però, anche nei massimi teorici moderni della politica il problema del limite della sovranità viene a riproporsi in varie forme. Non mancano coloro che in modo nuovo ripropongono le vecchie esigenze della legge divina e naturale. Altri ne avanzano di nuove. Hobbes stesso, che pure interpreta il potere sovrano come libero da ogni vincolo giuridico ed etico, rifiuta di identificare assoluto con arbitrario. Gli imperativi del sovrano non devono essere espressione di un capriccio, ma frutti di una razionalità tecnica capace di individuare i mezzi adatti al raggiungimento dello scopo che è la pace sociale necessaria alla sicurezza dei singoli cittadini. Per Rousseau il potere sovrano è vincolato da una razionalità sostanziale, espressa dalla volontà generale, una istanza etica che corrisponde alla volontà dell'uomo nuovo e non ad una mera sommatoria democratica delle volontà dei singoli.

A porre in termini espliciti il problema dei limiti della sovranità sono, in età moderna, prima i giusnaturalisti e poi i costituzionalisti. Ai primi spetta la riproposizione in forma aggiornata della teoria dei diritti naturali, intesi come diritti soggettivi degli individui che nessuno può violare. Sotto la qualifica di naturale rinasce l'idea della razionalità umana che fa da barriera contro ogni imbarbarimento di fatto dell'esercizio del potere. Il primo dei costituzionalisti è sicuramente Locke. I limiti che egli pone al potere sovrano sono noti: la costituzione affida il potere legislativo ad una assemblea di rappresentanti, sottoposta costantemente al controllo del popolo e garantisce una sfera di diritti di libertà degli individui che risultano inviolabili per lo Stato. Le esperienze costituzionali successive sono andate arricchendo sempre più questi limiti, fino a definire il quadro concettuale di una frattura tra il potere concepito come sistema di regole formali, astratte, spersonalizzate, ed il potere effettivo.

Molta parte del pensiero politico otto-novecentesco ha voluto nuovamente cercare il potere reale, nascosto sotto la ragnatela di regole e di norme: c'è chi lo ha visto nella classe economicamente dominante (Marx) chi nelle élites politiche (Mosca, Pareto), chi nell'esercizio del potere in situazione di eccezionalità (C. Schmitt) (salus rei pubblicae suprema lex est). Ma in realtà la progressiva giuridicizzazione dello stato e la sua conseguente riduzione ad ordinamento giuridico rende assai ardua ogni ermeneutica sostanziale della sovranità. L'ordinamento giuridico si manifesta sempre nella duplice forma di potere costituito in forme date, ma anche di potere costituente, capace di creare ordinamento nuovo tutte le volte che c'è discontinuità e frattura. Insomma, anche il caso d'eccezionalità è in genere previsto dall'ordinamento proprio di uno stato di diritto. Persino lo smembramento di stati sovrani, come è avvenuto recentemente nell'ex URSS, pur seguendo linee di fatto legate a rapporti di forza tra gruppi, eserciti, classi, si è di fatto risolto entro la forma-principe delle regole limitative della sovranità: il ricorso alla volontà popolare espressa in forma diretta o mediante apposite assemblee. Insomma, l'esperienza del costituzionalismo risulta vincente rispetto all'assolutismo, proprio perché toglie al concetto di sovranità ogni arbitrarietà o forse persino la elimina.

Ci sono almeno altre due esperienze importanti del mondo moderno che si muovono in direzione opposta rispetto a quella di sovranità: sono il federalismo ed il pluralismo poliarchico. In uno Stato federale, ad esempio gli USA, è difficile identificare la sovranità come facente corpo esclusivamente a sé, dal momento che ciascuno stato membro dovrebbe esserne ugualmente fornito. In realtà vi è in questo caso una divisione verticale del potere sovrano che si aggiunge a quelle costituzionali di tipo orizzontale e producono il risultato di una duplice appartenenza del cittadino. Né risulta teoricamente fondata la tesi della particolare debolezza dello stato federale: per esso operano le stesse ragioni generali di crisi che colpiscono gli stati unitari e mai il federalismo appare come forma di debolezza specifica. Il pluralismo poliarchico, che rappresenta una teoria politica piuttosto che una concreta forma storica, tende a mettere in evidenza la diffusione del potere tipico delle società complesse. In esse il processo della decisione politica è sempre il risultato di complesse procedure di mediazione. Basti pensare al potere dei mezzi di informazione, delle tecnologie informatiche e comunicative per rendersi conto che, se sovranità politica esiste, essa può essere interpretata solo come la risultante di un insieme di forze estremamente esteso e sofisticato. La società viene ri-politicizzandosi anche nelle sue dimensioni intermedie: basti pensare al ruolo di partiti, sindacati, associazioni, imprese pubbliche e private. Ampi settori di diritto privato vengono assumendo rilevanti dimensioni pubblicistiche. 

Ora, la tesi che qui si vuole sostenere parte proprio dall'assunto della crisi irreversibile che ha colpito l'idea di sovranità statale nel nostro tempo. Ci si riferisce ancora agli aspetti interni di questa crisi. "La pienezza del potere statuale è ormai al tramonto; ed è un fenomeno di cui bisogna prendere atto. Con questo, però, non scompare il potere, scompare solo una determinata forma di organizzazione del potere" (Walz), quella che si era avviata con la nascita degli stati nazionali moderni. Ora, se tutto questo discorso sulla nascita e crisi di sovranità risulta plausibile, non si capisce perché non se ne debbano trarre le conseguenze anche sul piano delle relazioni internazionali. Continuare ad assumere come riferimento il modello anarchico non può essere di grande utilità nel momento in cui risulta implicito il suo fondamento, l'idea di sovranità assoluta degli stati. "Bisognerà ora procedere, attraverso una lettura politica dei fenomeni che oggi si danno, ad una nuova sintesi politico-giuridica, che razionalizzi e disciplini giuridicamente le nuove forme di potere, i nuovi superiori che stanno emergendo"(Walz). È proprio all'abolizione della sovranità nazionale che il pensiero federalista demanda il raggiungimento della pace universale.

Il modello anarchico mostra altre difficoltà, teoriche e pratiche. Walz, pur parlando di anarchia internazionale, è costretto ad ammettere che un "ordine anarchico" deve pur esistere e che l'insieme dei modi nei quali questo ordine si determina costituisce una struttura. Gli stati sono le unità che agiscono, ma l'interazione dei loro rapporti avviene secondo la struttura del sistema politico internazionale. Dunque, i sistemi internazionali sono il prodotto della azione degli stati. È assurdo pensare che in essi non esista una istituzionalizzazione. Anche solo assumendo il principio dell'autodifesa dello stato quando è minacciato si è formulata una regola di comportamento internazionale e si è istituzionalizzato un rapporto. È legittimo continuare a parlare di anarchia, ma prioritaria a questo punto è l'istituzione, cioè l'ordine. La libertà di azione degli stati risulta dunque limitata, e sono individuabili alcuni comportamenti statali incompatibili con la logica del sistema. 

Il problema del rapporto tra stati (attori) e sistema internazionale (struttura) è stato accuratamente studiato da alcuni autori americani. Essi mettono in evidenza l'intrinseca contraddittorietà del modo in cui viene assunto il modello anarchico. Anarchico deve piuttosto definirsi il comportamento degli stati al di fuori di un qualunque sistema di regole. Eppure solo per consuetudine ed in modo spontaneo il comportamento degli stati dà vita ad una rete di relazioni almeno per costituire un sistema di autodifesa. È dunque evidente che il sistema delle relazioni internazionali, se non altro per gli elementi di costrizione che contiene, non può coincidere in modo essenziale, cioè connaturato, inevitabile, perpetuo, con l'anarchia. La scelta di alcuni stati di comportarsi in modo anarchico sulla scena internazionale è il risultato delle loro scelte politiche e non certo di una stato di necessità che discende dall'essenza stessa della relazioni internazionali.

C'è, inoltre, un argomento pratico che merita di essere preso in attenta considerazione. Esso si presenta nella forma di un ragionamento per assurdo. Se l'anarchia costituisse davvero il dato essenziale delle relazioni internazionali, la condizione di guerra di tutti (gli stati) contro tutti (gli stati) dovrebbe essere continua e perpetua. I periodi di cosiddetta pace sarebbero interpretabili esclusivamente come pause di equilibrio determinate dal terrore. Le guerre, nel corso della storia, si sarebbero sviluppate in modo pressoché ininterrotto e nessuna guerra avrebbe caratteristiche specificatamente proprie, essendo tutte riferibili alla stessa unica causa generale: l'anarchia. Non è negabile che nei periodi intermedi tra una guerra e l'altra gli stati sviluppino tra di loro forme di alleanza anche complesse e cerchino di mettere in atto una serie di strategie tendenti ad evitare il ricorso alla guerra, se non in casi straordinari.

Non tutte le guerre che si sono sviluppate nella storia umana hanno avuto la stessa efficacia. Alcune hanno prodotto effetti limitati, soprattutto all'interno dei singoli stati. Altre, per l'ampiezza geografica della loro incidenza , per il numero degli stati coinvolti, per la centralità della posta in gioco, hanno avuto un ruolo determinante nel modificare i rapporti di forza tra gli stati, costituendo così la premessa per determinare un nuovo ordine internazionale. Nella storia moderna può essere riconosciuto un valore costituente alla guerra dei trent'anni con le conseguenti paci di Westfalia (1648), alla guerra di successione spagnola, con le conseguenti paci di Utrecht e Rastaadt (1713-1714), alle guerre napoleoniche seguite dal Congresso di Vienna (1814) ed alle guerre mondiali del nostro secolo, seguite rispettivamente dai trattati di Versailles (1919) e da quelli di Yalta (1945).

Forse, nella guerra iniziata l'11 settembre del 2001, si possono intravedere i caratteri fondativi di un nuovo ordine internazionale. 

Esaminando la natura del tessuto sociale che intercorre tra queste grandi guerre è difficile negare che gli stati al loro interno cerchino di darsi assetti efficaci e che il sistema internazionale venga accettato dagli stati, che intanto sviluppano tra di loro commerci, intese politiche,alleanze militari. Che tutto questo ordine nuovo che viene instaurandosi in questi periodi piuttosto lunghi sia semplicemente il prolungarsi degli effetti bellici e quasi il progetto di una nuova guerra appare riduttivo, poiché è indubbio che i nuovi rapporti sembrano instaurarsi in modo pacifico. È davvero singolare che la violenza bellica sia di per sé portatrice di tale forza costruttiva. È chiaro che per dare una risposta soddisfacente a queste domande, occorre dare una risposta precisa alla domanda centrale del perché della guerra. La convinzione che la guerra sia ineliminabile perché espressione diretta di una natura umana nella quale gli istinti aggressivi e le passioni violente devono necessariamente realizzarsi, non solo è discutibile dal punto di vista psico-antropologico (lo stesso Freud legava la possibilità della pace ad una educazione capace di introdurre nella coscienza degli individui l'accettazione della morte come realtà naturale), ma, se assunto con assolutezza quasi metafisica, genera una totale sottovalutazione delle cause specifiche e dei significati propri di ciascuna guerra. Così assunte le guerre, anziché costituire momenti drammatici e carichi di significati specifici, finiscono per rappresentare una sorta di farsa caricaturale delle passioni umane recitate sul teatro della scena internazionale.

Richiamandosi invece alle guerre specifiche, non è difficile constatare che esse sono prodotte non già da una generica anarchia ma dall'azione di singoli stati che mirano ad acquisire nella situazione che seguirà la guerra un potere politico diverso e maggiore del precedente. Non sempre il risultato che si ottiene è quello voluto dai singoli stati, né si può imputare ad ogni singolo momento o personaggio storico una piena conoscenza di ciò che poi sarebbe effettivamente accaduto. Ben altre erano, ad esempio, le ambizioni che spingevano Napoleone sui campi di guerra di tutta Europa, a confronto con i risultati che effettivamente vennero sanciti dal Congresso di Vienna. Ma per quanto folle il suo disegno politico avrebbe anche potuto realizzarsi: allora l'ordine internazionale conseguente sarebbe stato certamente diverso.

Insomma, è chiaro che il comportamento degli stati sulla scena internazionale non obbedisce solo a ragioni di ordine strategico-militare, ma a più generali significati politici di cui le armi e le guerre sono solo strumento.

Che la pace dipenda esclusivamente dalle armi e dagli equilibri del terrore è tesi certamente assai diffusa nell'età in cui si è vista la possibilità minacciosa dell'olocausto nucleare: e pur tuttavia anche in questo caso c'è un primato della politica che va riconfermato. Infatti, se non fosse vera la tesi parossistica secondo cui ogni stato sarebbe costretto dall'atteggiamento minaccioso degli altri ad accrescere la sua forza militare determinando così un'ulteriore spinta degli altri verso gli armamenti maggiori, non si capirebbe come questo circolo vizioso possa essere fermato, rallentato o rovesciato e come le esplosioni belliche non abbiano una maggiore frequenza e come non si sia giunti a scontri finali.

In altri termini i teorici dell'anarchia internazionale assumono la potenza, soprattutto militare, di uno stato come fine in sé e non come mezzo finalizzato a diversi valori politici. La volontà di potenza, dunque, sarebbe sempre e dovunque la stessa forza diabolica che spinge gli stati a praticare la stessa politica. Solo la vittoria sul campo di guerra sanzionerebbe le ragioni politiche del più forte. L'ordine mondiale che sarebbe nato dalla vittoria della Germania hitleriana e dal Giappone non sarebbe stato diverso, dal punto di vista qualitativo, da quello che si è effettivamente determinato a vantaggio degli USA e dell'URSS.

La logica anarchica, dunque, rende impossibile l'assegnazione di un qualche significato specifico alle stesse ragioni della guerra. Non è perciò ipotesi inverosimile, né astratta, quella che assume l'ordine internazionale come un dato prioritario, in sé fondato, che di tanto in tanto viene messo in discussione dall'esplodere del comportamento di stati che pensano, con il ricorso alle armi, di modificare le cose a proprio vantaggio. Ciò equivale non già ad espungere dalla storia quella tendenza anarchica e violenta, che pure costituisce la forza dirompente che confligge con ogni modello di ordine, ma ricollocarla nel suo campo specifico, sottraendole quella priorità che sembrava essersi conquistata nella elaborazione teorica.

Né si può dire che la nuova posizione, quella che poggia sulla priorità dell'ordine, non sarebbe diversa da quella anarchica, giacché si limiterebbe esclusivamente ad un cambiamento di ottica. Cambia radicalmente la natura del giudizio sul significato della politica, sul ruolo degli Stati, persino sul comportamento dei singoli individui. La nuova prospettiva consente di produrre ulteriori argomenti contro la tesi tradizionale della sovranità assoluta degli stati, già entrata in crisi per le ragioni anzidette.

Le esperienze dei nostri anni ci inducono a riflettere sulla natura delle attese politiche che stanno alla base dei movimenti tendenti alle conquiste di una sovranità statale autonoma per molti popoli (come quelli dell'ex impero russo o dell'ex Jugoslavia). Certamente alla base vi è il nazionalismo, la percezione della appartenenza comune ad una stessa nazione, e che ad una nazione di uomini debba corrispondere uno e un solo stato, è considerato quasi un assioma per la sua evidenza originaria. Ma un conto è la sovranità per così dire interna, altra quella esterna (Bonanate). La prima si riferisce all'organizzazione sociale e politica della collettività statale e alla regolamentazione dei rapporti interindividuali, mentre la sovranità esterna si esprime innanzitutto nel diritto alla non ingerenza degli affari interni da parte di altri stati. 

Ora è chiaro che il senso profondo della sovranità è da ricercarsi essenzialmente nella dimensione interna: l'elemento dominante è la costruzione di una società. Il legame tra popolazione e territorio è un elemento incancellabile di ogni identità nazionale e l'organizzazione statale rappresenta ciò che dà unità giuridica ed operativa a questo stato più profondo. La funzione della sovranità interna è dunque di piena utilità per i cittadini che compongono la comunità. Al contrario la funzione esterna è utile solo se serve a stabilire il limite della non ingerenza, ma non appena assume aspetti tendenti ad affermare una propria superiorità esterna diventa pericolosa. La sovranità interna non può dare il diritto ad una proiezione sconfinata all'esterno, fino a configurarsi, come purtroppo è accaduto in molte situazioni storiche, come delirio di onnipotenza.

In conclusione, lo Stato di anarchia nelle relazioni internazionali non rappresenta una condizione naturale degli stati ma il risultato di atti di volontà degli stati esplicitamente progettati in quanto tali. Le guerre non sono una condizione naturale, ma in linea di massima atti ingiustificati di affermazione di una propria sovranità esterna da parte di alcuni stati. È allora possibile formulare una teoria delle relazioni internazionali che assuma come punto di partenza un modello di ordine e che abbia a suo fondamento un principio etico-giuridico legato alla riflessione critica sull'idea di sovranità.

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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