Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca
(FORZA, POTERE, AUTORITÀ)
Il rapporto dello stato con l'individuo appare nella sua immediatezza come forza. La volontà dello stato si manifesta all'interno attraverso la forza pubblica ed in campo internazionale mediante le forze armate. Che si tratti di forza allo stato puro è dimostrato dalla sua intrinseca capacità di coercizione. "Chi comanda è padrone", afferma Trasimaco nella Repubblica. Poco importa che comandi uno solo, un gruppo ristretto o una maggioranza: chi comanda è portatore di una forza che si impone anche nei confronti dei recalcitranti. Asserisce Canetti che il potere è verticalità: chi sta in alto è più potente di chi sta in basso. Orizzontalità è segno di morte, verticalità di potere. Il dispiegarsi effettivo della forza di uno stato si misura unicamente dal grado di sottomissione e di ubbidienza. Dice Pareto: "Il meno che possiamo fare è dividere la società in due strati, uno superiore, in cui stanno solitamente i governanti, ed uno inferiore, dove solitamente si trovano i governati. Tale fato è così potente che in ogni tempo si è imposto all'osservatore, anche poco esperto". E già prima di lui Machiavelli, fermamente convinto che sia solo la forza ad assicurare la funzionalità dello stato, aveva cercato realisticamente di distinguere i vari tipi di stato, proprio sulla base dei diversi modi in cui la forza viene esercitata. Per il segretario fiorentino se si vuole fondare, conservare e far prosperare uno stato, bisogna necessariamente valutare l'esistenza o meno di una forza adeguata. E lo stesso Marx, pur sottolineando che è alle classi sociali e non ai meri individui che bisogna rifarsi per valutare le logiche politiche, ha sempre evidenziato la riducibilità del rapporto politico a rapporto di forza.
Il discorso relativo al ruolo costitutivo che la forza esercita all'interno dello Stato ha comunque solo carattere descrittivo poiché prescinde da ogni ragionamento valutativo o giustificativo. È bene tener presente questa distinzione, perché talvolta avviene con troppa facilità che il passaggio dal descrittivo al valutativo avvenga in modo automatico o quasi per naturale scivolamento. Sarebbe sicuramente troppo semplicistico dedurre dalla sola presenza di gruppi dominanti e di élites politiche che detengono il potere e ne esercitano la forza, che si tratti di un potere legittimo. È chiaro che si è di fronte a due ordini di problemi distinti: il primo di tipo empirico, relativo alla forza ed al suo uso all'interno delle strutture del potere statale; il secondo relativo alla autorità, cioè alla legittimità di tale esercizio. È comprensibile che alcune posizioni filosofiche che si definiscono realistiche siano così ostili ad ogni divaricazione tra essere e dover essere, che le due posizioni finiscano per coincidere; ma ciò deve essere esplicitato e opportunamente argomentato, come se l'unico criterio valutativo che legittima l'uso della forza statale e conferisce autorità a chi lo esercita, sia l'esercizio stesso. In questo caso l'autorità dello stato coinciderebbe con la sua forza effettiva.
Eppure, oggi più di ieri, si avverte da più parti che lo Stato deve fornire una giustificazione della sua autorità che si ponga ad un livello superiore rispetto al semplice fatto dell'effettivo esercizio della forza. La crisi del nostro tempo ci impone uno sforzo di ricerca che vada al di là delle strade tradizionalmente seguite in questa perenne ricerca di giustificazione che grava sul potere politico.
La tradizione occidentale, fin dall'antichità greca, ha indirizzato la sua ricerca al nomos, ossia alla legge, al modo in cui la forza viene esercitata. La forza bruta non è più tale se il suo esercizio avviene in modo conforme alle regole dell'ordinamento giuridico. Cambia radicalmente la natura della forza se la sua intrinseca ybris viene guidata dal nomos della ragione. Una cosa è il governo degli uomini, altra è il governo della legge: sono sempre gli uomini a comandare, ma nel primo caso secondo il loro arbitrio, nel secondo in modo conforme a razionalità. Per i Greci il nomos non è una costruzione meramente umana, giacché affonda le sue radici nel diritto di natura, ossia nella stessa natura razionale dell'uomo. Il diritto positivo deve ispirarsi costantemente ad un modello cosmologico dato. L'eunomia è scritta nelle leggi di natura, almeno come criterio fondamentale cui ogni legislazione deve ispirarsi.
L'assunzione del diritto quale criterio di legittimazione del potere statale è al centro della elaborazione di tutto il diritto romano. La legittimità del potere statuale non può coincidere con il mero esercizio della forza. È il diritto in quanto tale che garantisce l'esercizio del potere. Certo, neppure nel diritto romano sparisce del tutto il riferimento al diritto naturale, inteso come fondamento ontologico di ogni legislazione positiva; ma il diritto naturale è fatto solo di principi generalissimi, spetta al legislatore positivo svilupparne tutte le implicazioni secondo una complessità di procedimenti che porta la norma fino ad aderire alle situazioni più empiriche. Neppure il pensiero politico moderno sfugge al problema se la giustificazione del potere e della forza da parte dello Stato possa essere trovata nella legge e nel modo in cui essa viene ordinata oppure se sia necessario andare al di là della norma, alla ricerca di un fondamento che stia oltre il diritto e l'ordinamento giuridico.
Il tentativo più consistente compiuto in età moderna per trovare nell'ordinamento giuridico il fondamento della legittimità del potere, partendo dal modo concreto in cui esso sviluppa le sue norme, è il modello denominato stato di diritto. La specificità di tale dottrina consiste nell'assumere lo stato esclusivamente come ordinamento giuridico. Stato di diritto è quello in cui tutto è regolato dalla legge e solo da essa. La legge permea di sé ogni angolo, anche il più nascosto, della vita sociale. Ma davvero lo stato di diritto è solo questo? Se così fosse avrebbe ragione H. Kelsen a sottolineare che ogni stato in quanto tale, proprio per la generale espansione delle sue leggi, finirebbe per essere uno stato di diritto e perciò l'espressione sarebbe una mera tautologia. In realtà non è solo al concetto di stato di diritto che ci si appella con questa formula, ma allo stato liberale, che trova nella tutela delle libertà del cittadino la sua effettiva giustificazione. L'interesse formalistico per l'ordinamento, per i caratteri generali ed astratti della legge, per quanto forti essi siano, non può sostituirsi al riferimento a più precisi valori sostanziali quali la divisione del potere tra gli organi dello stato e la delimitazione della sfera di libertà negative, comprensiva di tutti quei comportamenti che risultano vietati allo stato nei confronti dei cittadini.
Del resto l'intreccio stretto tra il modello dello stato di diritto e la più complessa elaborazione liberale del ruolo e delle funzioni dello stato è messo in evidenza da molti autori del costituzionalismo anglo-americano e dalla scuola giurispubblicistica tedesca (Jellinek, Mayer...). L'espansione enorme del ruolo dello stato all'interno delle società industriali avanzate e la drammatica crisi che investe tante organizzazioni statuali del nostro tempo rendono ancora più urgente la esplorazione di spazi che vadano al di là dello stretto concetto di stato di diritto. Se non altro a partire dalla constatazione che le norme giuridiche stesse non sono regole neutrali, dato che esse incorporano in sé dei valori esterni. È necessario, dunque, passare ad esaminare quelle giustificazioni della legittimità del potere che hanno un carattere di merito, di sostanzialità.
La più tradizionale di queste giustificazioni sostanziali dell'esercizio del potere è la necessità di mantenere l'ordine. Questo è il significato vero della norma del diritto naturale pax est quaerenda. Affidati a sé stessi, diceva Hobbes, nello stato di libertà naturale, gli individui si aggredirebbero reciprocamente fino al punto da non riuscire a salvaguardare la propria vita. Guidati perciò dalla razionalità, stipulano un patto di sottomissione rispetto ad un potere che viene costituito e che trova nella capacità di garantire l'ordine la sua effettiva ed unica giustificazione. La legittimità sta dunque solo nel fatto che lo stato, fornito di un potere sovrano ed operante mediante l'ordinamento giuridico positivo, adempia effettivamente il compito per il quale è nato. L'ordine, dunque, come valore in sé, sinonimo di sicurezza, pace, tranquillità, è il valore primario al quale tutti devono sottostare. A tal proposito le obiezioni che sono state mosse riguardo le modalità di risoluzione del problema sono molte e non prive di valide argomentazioni.
A parte la discutibile propensione di Hobbes al pessimismo più cupo nella valutazione della natura antropologica degli esseri umani, si è fatto notare che l'esercizio effettivo della autorità statale così intesa, finisce necessariamente per coincidere con il precedente riferimento alla centralità della norma e del diritto, giacché è pur sempre alla qualità dell'ordinamento giuridico, alla sua completezza ed alla sua concretezza che si finisce per far riferimento nel conseguimento dei desiderati effetti di ordine. Né si può dimenticare la facilità con cui sulla scena storica si sono offerti spettacoli nei quali l'ordine è stato quello dei massacri, dei cimiteri e delle città distrutte a ferro e fuoco. Così compromesso è il concetto di ordine che molti hanno ritenuto necessario per qualificare la propria posizione politica, far riferimento ad un ordine nuovo. Ma è ugualmente tragico dover constatare che anche sotto questa nuova sigla si siano nascoste molte nefandezze tra le più atroci che si siano mai viste sulla scena storica.
Ed ancora: appare discutibile la tesi che solo il ricorso alla autorità dello Stato possa garantire quella funzione d'ordine che si può convenire essere comunque necessaria per il buon funzionamento della società. Potrebbe non avere torto neppure Mandeville quando nella sua favola delle api ipotizza che persino i vizi ed i difetti dei singoli possano trasformarsi in un beneficio per tutti, a condizione però che la forza dello Stato non sia diretta a stravolgere le tendenze naturali degli uomini ma solo ad agevolarle e favorirne in modo armonico lo sviluppo.
In conclusione: se si vuole definire con esattezza ed in modo univoco il valore ordine, si finisce inevitabilmente per entrare nel pieno della disputa assiologica relativa al concetto di giustizia. In questo modo riprende corpo l'antica discussione relativa alla esistenza di un modello dato, assoluto, esterno all'uomo, al quale fare riferimento; oppure al carattere totalmente convenzionale ed umano di una tale ricerca. Dal primo punto di vista si ripresenta la teoria del carattere sacro e divino del potere. Non può esistere alcun potere legittimo, diceva S. Paolo, che non derivi da Dio, ed in ciò non c'è alcuna differenza tra potere temporale e spirituale. La tendenza alla secolarizzazione propria della cultura moderna, tendenza così forte da apparire per certi versi inarrestabile, rende assai arduo un tale percorso giustificativo. E tuttavia a rilanciare l'attualità di questo pensiero, anche in epoca secolarizzata, è la constatazione dei risultati catastrofici di molte esperienze del nostro secolo, fino ai disastri del nazismo e del comunismo. Trovare il fondamento in Dio potrebbe risultare il più secolare dei ragionamenti di fronte alla constatazione del fallimento della rivoluzione copernicana antropocentrica compiuta dalla cultura moderna. Pensatori come Agostino o Lutero ci hanno insegnato che nulla di buono può uscire dalle mani e dalla mente degli uomini, condannati a causa del peccato originale ad una condizione di malvagità irredimibile. Tale pessimismo radicale sembra coincidere con le forme più secolari di giudizio sul nostro tempo. Ma neppure queste constatazioni sono sufficienti a rilanciare in modo ingenuo le forme di deificazione del potere che si erano formate e diffuse nel mondo antico. Insomma, è difficile, oggi, per lo stesso pensiero religioso, essere persuasivi nel sostenere che solo il riconoscimento del carattere sacro del potere possa costituire un valido principio di legittimazione.
Assai discutibili appaiono anche quei tentativi che hanno cercato di trovare la giustificazione del potere statale in una qualche componente etica o etnica. La concezione etica dello Stato, nella stessa formulazione hegeliana, affonda le sue radici in quell'organicismo sociale che è tanto lontano dall'esperienza moderna della democrazia da risultare ben funzionale alle diverse forme di totalitarismo sperimentate anche recentemente. Antistorico risulta ormai anche il richiamo al carattere nazionale dello stato. Che il valore di nazione o quello di patria abbiano agito da principali veicoli delle trasformazioni sociali della storia moderna, è fuori discussione. E così pure il fatto che l'omogeneità nazionale, fondata sull'unità etnica, linguistica, culturale di un popolo, possa assumere una maggiore importanza rispetto alle tendenze cosmopolite, universalizzanti, proiettate verso leggi astratte e valide per tutti, può essere vero. Si può persino apprezzare come valore in sé la custodia gelosa delle proprie particolarità culturali, delle tradizioni, rispetto alle tendenze omogeneizzanti della modernità. Non si può però ignorare che ormai viviamo in un villaggio globale e che il grado di integrazione e di interdipendenza che si produce nel nostro mondo a tutti i livelli è tale da rendere anacronistica la possibilità di risolvere i problemi strategici che competono allo stato, all'interno di dimensioni che risultano sempre più localistiche.
Le tendenze moderne della politica sembrano indicare che lo stato nazionale, come lo abbiamo conosciuto, risulta troppo piccolo per le dimensioni transnazionali della politica e troppo grande per quelle locali che sembrano le uniche adatte a ricostruire su piccola scala la necessaria comunanza di vita e di interessi che da sempre ha caratterizzato la natura sociale e politica dell'animale uomo. Larga parte del pensiero moderno ha cercato di fondare la giustificazione del potere e la sua legittimità nel grado di consenso di cui esso gode presso i suoi cittadini: e sicuramente questa sembra essere la strada più feconda.
Presupposto naturale di tale teoria è una scelta di tipo egualitario. Non esistono per natura uomini o razze destinate a comandare ed altre ad ubbidire. E la stessa constatazione, in sé realistica, che esistono sempre e comunque delle élites che riescono di fatto ad imporsi ed a farsi ubbidire, non è sufficiente a giustificare la legittimità dell'esercizio del potere di fatto, trasformando la forza in autorità. In poche parole, persiste la questione: se si sostiene che le disuguaglianze sono di per sé la prova di una superiore abilità o attitudine al comando, in tal caso la forza trionfa come mero dato di fatto. Nel caso in cui l'élite debba proporsi ed essere riconosciuta come tale per esercitare legittimamente il potere diventa invece prioritario il grado di consenso.
Dopo le solenni dichiarazioni dei diritti proprie della storia moderna, non sembra possibile trovare una valida giustificazione del potere fuori da questa ricerca del consenso. Anche un marxista non dogmatico, come è stato Gramsci, preoccupato che l'idea di dittatura del proletariato finisse per legittimare l'autorità statale esclusivamente come forza, ha cercato di evidenziare come neppure l'investitura naturale del proletariato a rappresentare l'interesse generale della società possa consentirci di prescindere dal grado di consenso del potere. Alla dittatura del proletariato, che esprime in sé la sola idea di dominio, egli ha perciò preferito sostituire il modello di egemonia, la cui forza discende dall'intreccio profondo tra dominio e consenso. La ricerca del consenso, oltre a presupporre l'uguaglianza degli uomini, non può neppure prescindere dalla assunzione piena della libertà e della democrazia come valori in sé.
Alcuni sociologi contemporanei hanno sicuramente saputo scavare ancora più a fondo nell'analisi della fenomenologia del potere (Popitz) o del rapporto che esiste tra potere e massa (Canetti). Nell'analisi di Popitz si cerca impietosamente di descrivere come gli stessi meccanismi di formazione del consenso siano condizionati nel processo di formazione e gestione del potere. Popitz presenta tre casi simbolici. Il primo è quello di una nave che compie un lungo viaggio attraverso il Mediterraneo. La sua struttura è aperta; un gran numero di viaggiatori sale e scende in ciascun porto, determinando un gran trambusto. Non c'è posto a sedere per tutti poiché il numero di sedie-sdraio disponibili corrisponde a circa un terzo del numero dei viaggiatori. Il primo giorno le sedie sembrano quasi sufficienti per tutti a causa dell'alta mobilità dei passeggeri ma nei giorni seguenti, con un crescendo inesorabile, la situazione viene cambiando: alcuni passeggeri cominciano ad esercitare un possesso duraturo sulle sedie. Il processo viene consolidandosi rapidamente mediante una serie di rituali simbolici e con evidenti azioni intimidatorie contro tutti coloro che tentano di impossessarsi di esse senza titolo. Non passa molto tempo dal formarsi di due classi distinte di passeggeri: i possessori di sdraio ed i nullatenenti. Nei giorni successivi si assiste alla formazione di una terza classe intermedia tra le prime due: quella dei delegati (per conto dei possessori "legittimi") ad esercitare funzioni di custodia. A questo punto ci si può chiedere come sia stato possibile che una minoranza abbia conquistato il potere senza incontrare opposizione e praticamente con il consenso di tutti. Sicuramente è da escludere l'ipotesi che il gruppo dei possessori costituisse un clan inizialmente già organizzato, dal momento che il loro incontro è avvenuto occasionalmente. Agli inizi del processo la validità della legittimità a possedere la sdraio si basa sul principio di reciprocità, su una reciproca attestazione tra eguali. Il fatto di trovarsi d'accordo tra tutti gli aspiranti possessori crea un notevole effetto di suggestione. Nasce un riconoscimento reciproco della legittimità delle proprie aspirazioni. La convinzione di compiere qualcosa di giusto e di equo diventa contagiosa. Il passaggio decisivo è però quello successivo; quando il gruppo dei possessori affida ad altri la funzione di custodia in quanto si crea un esteso meccanismo di cooperazione che determina l'estromissione completa dei nullatenenti. Essi, in teoria, possono opporsi facendo leva sulla evidente ingiustizia della distribuzione, ma non riescono più a creare consenso; possono chiedere di ritornare alla situazione iniziale, ma se lo fanno davvero diventano perenni disturbatori della quiete pubblica. Il loro eventuale tentativo di ribaltare la situazione appare ormai troppo radicale e senza speranza. Il potere si è ormai cristallizzato, si è creato un ordine e tutto è avvenuto con il consenso. Ma la domanda resta: come mai accade che una minoranza riesca con relativa facilità ad assumere il dominio nei confronti di una maggioranza? La risposta possibile sulla base del caso esposto sembra consistere nel fatto che il possesso effettivo di beni fornisce ai titolari una capacità organizzativa di tipi superiore. Gli atti di conquista e di esercizio del potere, oltre ad essere in connessione diretta con la capacità di organizzazione, sono collegati anche con il potere di usufrutto esclusivo sui beni più o meno scarsi o anche nei processi di riconoscimento dei nuovi ordinamenti, in relazione al concetto di legittimità; come dimostrano gli due altri casi tipici narrati da Potpitz.
Primo caso: in un campo di prigionia vengono ammucchiati casualmente dei reclusi. La loro condizione iniziale di indifferenziazione determina la cooperazione tra di essi ma ben presto nasce un gruppo molto coeso, formato da quattro persone. Utilizzando le proprie distinte capacità e lavorando alacremente con una precisa divisione dei compiti, essi riescono a costruire un fornello a gas e ad offrirsi come fornitori di un numero elevato di servizi utili a tutti: negli altri nasce la dipendenza. Anche in questo caso si forma un gruppo intermedio di clientela privilegiata che viene oggettivamente associato al gruppo dei quattro. Si determina così uno scaglionamento in tre gruppi oltre a quello dominante: gli associati, che sono i clienti privilegiati, le persone che assistono al processo come spettatori neutrali ed un terzo gruppo di esclusi, di veri e propri servi della gleba. Ogni tentativo di costruire un secondo fornello e di eliminare il monopolio viene di fatto impedito come atto sovversivo. Anche in questo caso il dominio si è creato con il consenso ed è stata la superiorità produttiva connessa al monopolio della produzione a determinare il nuovo ordine.
Secondo caso: riguarda un gruppo di adolescenti reclusi in un istituto di rieducazione. Ad ogni ragazzo vengono distribuite due fette di pane al giorno. A poco a poco si determina la costituzione di tre gruppi: quello che deve consegnare una delle due fette; quello degli ausiliari che provvedono al ritiro e quello dei capi che è riuscito ad imporre la propria legge. In questo caso il potere si è strutturato in modo del tutto gerarchico: ci sono i capi, non ci sono i neutrali, la maggioranza è sottomessa ed in caso di ribellione essa è punita severamente. Ma anche in questa situazione il dissenso se c'è non esplode: gli sfruttati temono con una insurrezione fallita di veder peggiorata la loro posizione, il gruppo degli ausiliari teme di essere sostituito nel suo ruolo, il gruppo dei capi è riuscito a costituire un valore d'ordine che tutto sommato dà sicurezza. Il potere è ritenuto da tutti legittimo.
In conclusione: il potere, conquistato sempre con un atto di forza, tende ad istituzionalizzarsi fino a diventare dominio, che è appunto potere istituzionalizzato; e l'istituzionalizzazione passa attraverso un processo che va dalla spersonalizzazione alla formalizzazione, alla integrazione, alla stabilizzazione. La trasformazione del potere in dominio istituzionalizzato attraversa cioè diverse fasi: dal potere sporadico ed occasionale si passa a quello standardizzante e ripetitivo e poi a quello posizionato a dominante. Da qui il potere si consolida mediante apposite strutture o apparati di dominio fino a giungere al dominio sovrano dello stato. Così la visione di Popitz confluisce in una prospettiva radicalmente pessimista sul ruolo che la violenza esercita nelle vicende umane. Essa non può essere eliminata, anzi, tende ad espandersi oltre ogni limite, fino alla morte. La violenza alimenta il cerchio diabolico della repressione ed ogni ordinamento, benché proiettato ad eliminare la violenza, non fa altro che alimentarla.
A conclusioni analogamente pessimiste giunge la riflessione di Elias Canetti: per lui il potere non è mai legittimo. Esso non è altro che la forza bruta che perdura nel tempo. Il potere è più ampio della forza. La forza è il gatto che afferra il topo; il potere è il gatto che gioca con il topo tanto sa che può mangiarlo in ogni momento. Il potere è velocità di raggiungere ed afferrare qualunque obiettivo, come il fulmine, simbolo del Dio onnipotente. Potere è quello dell'inquisitore, quando la domanda viene usata come un coltello che affonda nel corpo dell'interrogato; potere è il piacere sadico di condannare ergendosi a giudice...ed è potere persino il perdono. Il potere si esercita soprattutto eseguendo un ordine: così accade nell'esercito ed in tutte le strutture di comando. Gli uomini che agiscono in seguito a comandi si considerano perfettamente innocenti. Da qualunque parte lo si consideri, il comando, nella sua forma compatta che oggi gli è propria, dopo secoli di storia, è l'elemento più pericoloso della vita collettiva degli uomini. Pur di esercitare il potere l'uomo possiede una straordinaria attitudine mimetica alla metamorfosi.
Il potere si erge e si stacca sulla massa: vuole sempre crescere; invece, all'interno della massa dominano la compattezza e l'eguaglianza. La massa ha bisogno di concentrazione, ma soprattutto ha bisogno del potere perché vuole essere diretta. Il potere riesce ad aizzare le masse, a metterle in fuga, ad agitarle fino alla rivoluzione. Il potere riesce a mettere le masse in contrapposizione tra di loro, in guerra. Insomma, il potere è intrinsecamente paranoico: il delirio del dottor Schreber, un presidente di Corte d'Assise che ha illustrato la sua malattia mentale (corredato dalle visioni e dalle concezioni del mondo che lo animano), è il delirio stesso del potere; Hitler è l'estremizzazione di un delirio che opera in tutti i potenti. Secondo Canetti non c'è molto spazio per speranza e redenzione.
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