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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(LIBERTÀ: UNA, DUE, O TRE?)

Nella nostra tradizione filosofica ci sono due modi opposti di affrontare il problema libertà: uno, tutto teorico, che ragiona sulla natura della libertà umana, sul suo fondamento, sulle implicazioni logiche; l'altro, piuttosto empirico, attento a valutare le esperienze storiche concrete, a raccogliere elementi oggettivi e differenziati di riferimento.

Per quanto sia sicuramente auspicabile che i due punti di vista possano incontrarsi per concorrere a formulare una interpretazione di alto profilo, bisogna purtroppo constatare che raramente, e solo nell'opera di alcuni grandi, ciò è avvenuto. Si tratta di modi e punti di vista quasi sempre antitetici.
I filosofi teoretici, prima ancora di assumere la libertà quale categoria della filosofia pratica, come accade ad esempio in Aristotele, discutono del suo fondamento metafisico. Ad esempio, gli esistenzialisti, ancorati all'idea di libertà come scelta estrema, esplorano gli abissi su cui essa si colloca, tra l'essere ed il nulla, tra l'infinita possibilità e l'assoluta necessità. Solo se si entra in questo contesto è possibile interpretare pensieri del tipo: "non vi è libertà autentica, nel senso della autodeterminazione più originale, se non quando la scelta stessa non è più né possibile né necessaria".(M. Heidegger).

Che ci sia bisogno di assolutezza di fondamento è anche la tesi, tra gli altri, di un filosofo della politica come Leo Strauss: solo così la sacralità della sfera privata, che sta alla base del liberismo, trova una adeguata giustificazione e può essere assunta a fondamento di una teoria politica della libertà.

Gli empiristi partono dalla constatazione che nella cultura medievale, a partire dalla stessa magna charta, libertà significa privilegio (poter fare ciò che altri non possono) o immunità (essere esonerati da ciò che per altri è obbligo). E poi, nella storia moderna, i principi di libertà trovano positive concretizzazioni nell' habeas corpus, nelle dichiarazioni dei diritti, Inglese e Francese, nella costituzione Americana. Le forme storiche del liberalismo mostrano i segni della libertà con chiari elementi di riconoscibilità: la tolleranza religiosa, la libertà di discussione, la sicurezza personale, la libertà di associazione, le elezioni libere, la divisione del potere, lo sviluppo economico ed altri. 

Ma la discussione sul liberalismo, oltre alla sua rilevanza storica e teorica, appare di stretta attualità. Uno delle tesi oggi più accreditate sostiene che ci sarebbe una netta frattura fra il liberalismo classico e quello del nostro secolo, incentrato il primo sulla filosofia del fai da te, il secondo su programmi sociali e imposte progressive. Che sia difficile riportare ad unità le differenze filosofiche e politiche dei liberali classici da Baruch Spinoza a John Locke, da Immanuel Kant a Stuart Mill, è evidente a chi conosce pur sommariamente il loro pensiero. Ciò nondimeno sul piano politico molte convergenze sono riscontrabili e non sono certo riconducibili solo all'individualismo atomistico, spesso giudicato dai critici come incompatibile con quello di bene comune.

L'identikit dei liberali classici è ottimamente disegnato da Stephen Holmes: "... erano per lo più anticlericali e antimilitaristi. Erano altresì avversi, in varia misura, ai monopoli ereditari di talune grandi famiglie. Spregiavano i vincoli di vassallaggio e di sudditanza e miravano a universalizzare condizioni di indipendenza personale. Credevano generalmente nel valore dell'istruzione e di una educazione laica per tutti, in un sistema sociale più equo e nella libertà della mobilità... Erano sostenitori del diritto di divorziare ... L'autorità legittima, argomentavano, si fonda sul consenso popolare, non sul diritto divino o sulla successione dinastica. Perciò difendevano non soltanto l'uso del metodo elettorale nella vita politica, ma anche, in certe forme, il diritto di ribellione. Erano fautori del pluralismo politico... speravano che ai contrasti sanguinosi tra fazioni armate potessero sostituirsi in qualche misura negoziati e discussioni razionali. Proponevano un costante allargamento del suffragio più o meno di conserva con il diffondersi dell'istruzione... Auspicavano altresì l'autonomia del potere giudiziario e leggi chiaramente formulate... Propugnavano l'abolizione della tortura, controlli legali sulla polizia e garanzie contro arresti arbitrari... Erano fautori del controllo civile sulle forze armate. E ammiravano la scienza e la libera indagine... Caldeggiavano non solo l'eguaglianza giuridica, ma l'eguaglianza di opportunità economica... invocavano una larga e rapida diffusione della proprietà privata. Credevano nella necessità di far rispettare i contratti. Erano favorevoli all'abolizione delle barriere doganali, al libero accesso a mestieri e occupazioni e alla libertà di scambiare beni e servizi..."

A metà tra ragionamento logico e richiamo ai fatti si colloca la nota posizione di Isahia Berlin che, riprendendo i temi della divisione tra libertà degli antichi e libertà dei moderni di Benjamin Constant, giunge a proporre una netta dicotomia tra una libertà negativa ed una libertà positiva. Da qui è partita buona parte della riflessione che si è sviluppata (quasi ininterrottamente) sull'argomento. Una distinzione, dunque, che, secondo l'autore, non ammette alcun superamento dialettico. 

Libertà negativa è quella a cui ci si riferisce nel rispondere alla domanda: qual è l'area entro cui si deve lasciare al soggetto, individuo o gruppo organizzato, di fare o di essere ciò che è capace di fare e di essere, senza interferenze di altre persone? Se mi si impedisce di fare qualcosa che altrimenti potrei fare io non sono libero. Se quest'area viene ridotta oltre un certo obiettivo minimo, si può dire che io sia coartato o ridotto in schiavitù. Si può parlare di mancanza di libertà politica se altri, privati o pubblici, mi impediscono il raggiungimento di un obiettivo. Esiste, per i pensatori liberali classici (Locke, Constant, Mill, Tocqueville) un'area minima di libertà personale che neppure lo Stato può violare. Quale deve essere l'estensione di quest'area minima? Quella a cui un uomo non può rinunciare senza violare l'essenza stessa della natura umana. Ma cosa sia questa essenza e come si misuri la sua area è materia di infinite discussioni. Se agli individui non viene lasciato questo spazio, vengono meno la spontaneità, la creatività, il coraggio morale, la libera circolazione delle idee. La società viene appiattendosi sotto il peso della mediocrità collettiva (Stuart Mill).

Libertà positiva: il senso positivo deriva dal desiderio da parte dell'individuo di essere padrone di sé, soggetto e non oggetto, padrone delle proprie decisioni, una persona "autodiretta" e non una su cui agiscono la realtà esterna e gli altri uomini. Soprattutto voglio essere consapevole di me stesso come essere che pensa e che agisce secondo le proprie idee e valori. Mi sento libero nella misura in cui sono convinto che le mie idee siano vere. E tendo a pensare che gli altri, se non conoscono la verità, non siano davvero liberi, ma vittime di cecità, ignoranza, corruzione. E arrivo persino a pensare di costringere gli altri per il loro bene a comportarsi secondo il mio criterio. Una volta che ho assunto questa posizione, sono in grado di ignorare i desideri attuali delle persone e di tiranneggiarle, opprimerle, nella certezza che ciò che rappresenta la vera finalità dell'uomo coincida necessariamente con la sua libertà.

L'agenda delle questioni controverse viene così articolandosi: è lecita ed utile la distinzione tra libertà negativa e positiva? La libertà è una o due? La libertà positiva non è radicalmente altro aspetto a quella negativa? È corretto assumere la libertà negativa come idea del liberalismo moderno e quella positiva come riferimento della democrazia? E dunque, tra liberalismo e democrazia c'è continuità o c'è conflitto?

Ma in questa discussione, i cui termini stanno tutti all'interno della tradizione liberale e democratica (o liberal-democratica), si inserisce il pensiero di ispirazione socialista, che propone una terza categoria, appunto la libertà socialista, di cui la libertà marxiana è la specificazione più rilevante. Come è possibile collocare questa terza libertà nello schema? È proponibile l'idea che la libertà sia una, e che le tre forme siano solo diversi punti di vista di un'unica realtà, oppure esistono davvero tre forme di libertà, quella liberale, quella democratica e la socialista? C'è continuità o rottura nel nuovo passaggio tra democrazia e socialismo?

In effetti la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva, seppure a prima vista appare allettante, è in sé piuttosto fragile. Essa può costituire un buon modello di lavoro per un ricercatore storico-sociale, ma se assunta come valore assoluto appare intimamente contraddittoria. Libertà, infatti, è l'esercizio della scelta in quanto tale. L'individuo che decide riempie sempre di un qualche contenuto positivo la sua scelta. Libertà negativa è solo l'esplicitazione della necessità di eliminare ogni impedimento arbitrario o restrizione, rispetto alla scelta dell'individuo. Ma a questo punto il discorso si complica. Ed il pensiero teorico si riprende la rivincita sull'empirismo. Qual è il campo completo e sistematico degli impedimenti alla libera scelta? Lasciamo pure da parte la discussione astratta sul libero arbitrio, ma lo spessore teorico del problema resta.

La sola libertà che conta, dunque, sembra essere quella positiva. Ma, essa liberata da ogni impedimento o restrizione, diventa, come hanno insegnato gli esistenzialisti, assoluto non-senso.
Gli impedimenti agiscono, al contrario, come portatori di senso e di significato nelle scelte. 
Essendo l'uomo condannato ad essere libero, egli porta sulle sue spalle il peso del mondo intero; l'uomo è responsabile del mondo e di se stesso quanto al modo di essere. "Ho libera scelta di me stesso e tutto ciò che faccio mi rappresenta e mi simbolizza. Non sono forse io che decidendo di me stesso, decido del coefficiente di avversità delle cose e persino alla loro imprevedibilità?" (J. P. Sartre).

Per quanto paradossale sia l'affermazione, è il condizionamento in quanto tale che definisce la libertà. Si tratta allora di stabilire quali condizionamenti risultino accettabili e quali no."Liberare l'immaginazione in modo che possano esserle concessi tutti i suoi mezzi di espressione, presuppone la repressione di molte cose che ora sono libere e perpetuano una società repressiva... Come possono gli individui amministrati, che hanno tratto dalla loro mutilazione le loro libertà e soddisfazioni, e così la riproducono su larga scala, liberarsi di se stessi non meno che dei loro padroni?" (Marcuse).

Il fondamento di ogni libertà risiede nella libertà di coscienza. Le direzioni più consistenti del condizionamento sono: il legame sociale (idola specus); il legame politico (idola fori); il legame culturale (idola theatri). Ogni definizione concreta della libertà avrà necessariamente un carattere convenzionale e cercherà di definire le condizioni di tollerabilità di questi legami. Oppure ci si può chiedere in che misura il senso di cui tali legami sono portatori, sia accettabile. La discussione, ovviamente ha carattere prescrittivi e non descrittivo, attiene non all'essere ma al dover essere, alla filosofia e non alla sociologia.

Attorno al senso del legame sociale si scontrano, come abbiamo detto, individualisti e comunitari.
Sul piano meramente descrittivo non è difficile constatare che l'organicismo comunitario era più frequente nelle società antiche, che in esse le funzioni sociali erano differenziate e il potere tendeva ad assumere una natura monocratica; al contrario l'individualismo è prevalentemente moderno e più facilmente si proietta in direzione delle uguaglianze e dell'organizzazione democratica del potere. Ed allora l'esito estremo dell'individualismo egualitario appare il nichilismo. Il legame comunitario, che pure è più costruttivo, è anche maggiormente portatore di senso; la visione individualistica, che è la più libera, è anche la più insensata.

Il legame politico, ossia la definizione del senso e del ruolo dello stato, oscilla tra i due estremi del totalitarismo e dell'abolizione di ogni potere organizzato. Le molteplici esperienze storiche di stato totalitario (teocrazia, assolutismo, nazismo, comunismo) sono tutte giunte fino all'estremo della negazione della libertà e della stessa vita degli individui. La mancanza di stato, al contrario, coincide sempre con la barbarie ed il tribalismo; o al massimo resta un sogno utopico.

Il liberalismo ha sempre cercato di limitare il potere dello Stato a vantaggio della libertà individuale, di impedire che un governo ipertrofico opprima individui e gruppi. L'attenzione dei liberali si è sempre concentrata contro la tirannia e contro ogni abuso del potere politico. Tuttavia, non si può negare che in questa ricerca di una essenzialità della funzione statale, il liberalismo non solo non ha mai distrutto lo Stato in quanto tale, ma ha costruito realtà statali molto più forti di quanto comunemente si creda. Ad esempio, l'esperienza dell'Inghilterra durante l'ottocento dimostra che un paese liberale ben governato è più capace di uno autoritario nel mobilitare le energie dei suoi cittadini per il raggiungimento di obiettivi comuni. I diritti di libertà non sono incompatibili con il potere statale, anzi solo l'autorità dello stato può effettivamente definirli e garantirli. Il potere dello stato si riscatta, si redime, si legittima quando è intrinsecamente ragionevole; e tale è la natura dello stato liberale. Mancanza di stato, dunque, significa mancanza di diritti; stato liberale significa certezza dei diritti e della loro tutela. Così la libertà di discussione non è solo un riconoscimento sacrosanto della sfera dei diritti individuali, ma un modo per il governo di acquisire informazioni vitali per la capacità di governare. Insomma, "i liberali non erano anarchici. Avversavano un'autorità arbitraria ed oppressiva, non l'autorità in quanto tale. Erano fautori del potere statale come mezzo sia per impedire l'anarchia, sia per applicare in modo imparziale le leggi". (S. Holmes).

Ogni teoria della libertà si pone in realtà come un tentativo, storicamente contingente, di costruire una giusta mediazione tra estremi, definendone i confini. È una vera e propria actio finium regundorum, tra mos maiurum e novità, nazionalismo e internazionalismo, spirito etico e anarchia, tradizionalismo e libertinaggio, confessionalismo religioso e ateismo. Non esistono dunque tre libertà, ma tre modelli storicamente significativi di definizione dei confini. Ciò che viene chiamato libertà negativa è in realtà il modello liberale, libertà positiva quello democratico, libertà socialista quello comunitario.

Il modello liberale e quello democratico risultano storicamente e logicamente assai contigui. Quanto al legame sociale i liberali sono sicuramente più individualisti che comunitari. Ma identificare l'individualismo con l'ultra-egoismo proprietario è sicuramente una caricatura. Basta aver letto attentamente Hobbes per capire che siamo davanti ad un tentativo di razionalizzazione dei comportamenti, contro condotte costrittive e non già ad un egoistico riduzionismo di motivazioni. Solo una tale razionalizzazione del modello può introdurre una vera uniformità isonomica. Nei classici liberali la cura razionale del proprio interesse non esclude affatto la benevolenza, la simpatia, l'altruismo, la partecipazione al bene comune.

Che nel mondo degli affari si possa fare a meno dell'etica è convinzione molto diffusa, soprattutto nell'ambito della cultura economica. La scienza economica, sviluppatasi negli ultimi due secoli, è diventata così precisa ed estesa da poter fungere essa stessa come unica e migliore guida delle azioni umane. Una tale valutazione viene attribuita al padre della moderna scienza economica. Basta poter soddisfare i propri interessi individuali, al resto pensa il mercato che consente scambi reciprocamente vantaggiosi. "Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che dobbiamo aspettarci il nostro pranzo, bensì dalla loro aspirazione a soddisfare il proprio interesse. Noi dunque non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo".(Adam Smith).

Ma è proprio vero che, nel pensiero di Smith, tutto il mondo degli affari si riduce all'egoismo dell'homo economicus ed alla conseguente rete di scambi instaurata con il mercato? La risposta è no, secondo l'economista anglo-indiano Amartya Sen. Smith avrebbe solo riconosciuto nell'interesse individuale la fondamentale motivazione allo scambio. Ma questo non esclude che secondo lui sia necessario andare aldilà della massimizzazione del profitto. Tutta la tradizione utilitaristica inglese, da Locke a Keynes, ispirata al proposito di migliorare le condizioni essenziali di vita delle persone, senza cadere né in miti arcaici né in velleitarie utopie palingenetiche, è in realtà pervasa dalla ricerca del nesso tra economia e moralità, tra egoismo e generosità. "È la moralità che ci dice a che cosa mirare e che cosa evitare; essa non solo ispira le norme della correttezza e della civiltà nella vita quotidiana, ma anche il desiderio di vedere migliori chance di vita estese a tutti gli esseri umani, e le azioni che derivano da questo desiderio". (Ralf Dahrendorf).

La realizzazione dell'interesse individuale è di tale disarmante franchezza antropologica da costituire il più efficace riferimento per norme universali, contro le quali nessuno potrà invocare l'eccezione. Dire che gli individui sono motivati dall'interesse è un modo per affermare l'uguaglianza di tutti. Nessuno può sostenere di avere interessi moralmente superiori a quelli degli altri: gli interessi sono interessi ed in quanto tali equivalenti. Anche i governanti sono mossi da interessi personali. Perciò occorrono istituzioni e regole dalla valenza universalistica. La ricerca dell'utile personale non ha in sé nulla di scandaloso, di cui sia richiesto di vergognarsi. Lo diceva già Aristotele in polemica contro l'utopista Platone. L'egoismo non è depravazione o viltà. Esso piuttosto è parziale e limitato. Perciò il governo è necessario. Ognuno di noi, diceva Kant, avrebbe interesse a fare di sé una eccezione, ma non deve essere consentito a nessuno di auto-esentarsi da leggi e norme universalmente valide.

Sul piano politico il modello liberale di stato è ragionevole. L'autorità statale si fonda sul consenso e non sul diritto divino del sangue. Il potere viene esercitato da organi divisi e autonomi. I giudici devono essere indipendenti e rispettosi della legge. I reati vanno definiti in modo preciso, giacché il diritto penale costituisce l'unico effettivo e inderogabile limite alla libertà dei singoli. Ed anche la pena non può consistere in trattamenti disumani. Il fisco deve essere equo e controllabile. I diritti di cittadinanza, compresi quelli politici, devono estendersi sempre di più. Insomma, il liberalismo si basa su uno spirito etico che guarda con sospetto il potere. E proprio per evitare l'esercizio tirannico del potere, esso cerca di definire una correlazione ottimale tra diritti individuali e funzioni statali. Insomma il liberalismo non è mai stato tout-court antistatalista, ed anche quando si fa propugnatore dello stato minimo non giunge affatto a vanificare le funzioni pubbliche. Stato minimo è pur sempre lo stato necessario, lo stato giustificato, lo stato vantaggioso; non è l'anarchia.

Dalle argomentazioni qui svolte risulta, in conclusione, che il modello liberale, sommariamente descritto, non poggi solo sulla cosiddetta libertà negativa. Esso postula valori e scelte, richiede sì un professionismo della politica ed una delega, ma non riduce affatto il cittadino al borghese egoista, preoccupato solo di tutelare i propri interessi e di tutelarsi rispetto al potere. La partecipazione politica è necessaria, soprattutto in modo volontario e part-time. Il cittadino deve essere informato, e quindi in qualche misura egli deve essere in grado di scegliere le leggi con le quali convivere. Egli elegge i propri rappresentanti politici ma mantiene su di essi un costante diritto di controllo.

La democrazia è qualcosa di più ma certamente niente di meno del liberismo. Il presunto salto qualitativo che si realizzerebbe con l'entrata in azione della libertà positiva, è difficile da capire. Che il liberalismo sia intrinsecamente ostile alla democrazia è tesi piuttosto ardua, né trova riscontri storici credibili. La democrazia tende ad universalizzare il suffragio, e perciò richiede una consapevolezza partecipativa più estesa e matura; conferisce un maggiore valore fondativo, oltre che agli individui, alle forme associate in cui gli individui realizzano la propria personalità. Ma tutto questo sta completamente all'interno delle coordinate liberali. Che ci sia stata una resistenza dei liberali moderati di fronte alle direzioni espansive dei democratici è vero, ma non credo sia corretto parlar di incompatibilità.

La differenza tra democrazia e liberalismo risulta chiara, come suggerisce von Hayek, se si tiene conto che il contrario di liberalismo è totalitarismo, mentre l'opposto della democrazia è l'assolutismo. Di conseguenza è possibile, almeno in linea di principio, che un governo democratico possa essere totalitario, con il potere illimitato della maggioranza, come pure che un governo assolutista possa essere rispettoso di principi liberali (sovrano illimitato).

La dimensione e le forme assunte dall'intervento statale nelle società complesse del nostro tempo sono oggetto di valutazioni discordi. Ma anche esaminando il modello welfaristico più forte, quello scandinavo ad esempio, che oltre alla sicurezza riesce a garantire il benessere dei suoi cittadini, non si esce dalla cornice dei valori liberali di riferimento. Il ruolo dello stato tende a diventare interno all'equilibrio del sistema, anziché svolgere una funzione direttiva dall'esterno. Lo stato liberale ha il dovere di accrescere le chance della totalità dei suoi cittadini. Ma avremo occasione di approfondire l'argomento nel capitolo relativo alla democrazia.

Ben altro discorso va fatto per la libertà socialista. A meno che all'aggettivo socialista non venga conferito un significato generico, che Marx più d'ogni altro avrebbe rifiutato, è difficile innanzitutto identificare l'oggetto di cui si parla. La forza propulsiva di questa posizione è sempre consistita nella sottolineatura dei soggetti esclusi. Ma l'equivoco si è sempre annidato su questo punto: una cosa è dire e lottare perché i valori della libertà e della democrazia siano estesi e garantiti a sfere sempre più ampie, altra cosa è accusare la concezione liberale e democratica di essere vuoto formalismo, svalutandola per contrapporle un progetto di democrazia sostanziale. Il modello marxista di socialismo sta fuori dal sistema liberal-democratico di riferimento. Infatti:
* sul piano del legame sociale all'individualismo contrappone la comunità (solo nella comunità diventa possibile la libertà personale), alla proprietà e alla iniziativa dei singoli, il mito della proprietà collettiva;
* sul terreno delle istituzioni non propone alcuna mediazione ma disloca in una successione cronologica i due estremi: prima dittatura del proletariato, poi abolizione dello Stato;
* sul piano culturale accentua tanto la positività dell'egualitarismo da trasformare la cultura in prototipi di coscienza di classe.
Ha ben ragione il marxista della Volpe a sottolineare che il vero prototipo della libertà comunista è l'operaio Stakanov. Egli, conformemente alla mitologia del socialismo reale, è comunitario, perché lavora non solo per sé ma per tutti; è cosciente, perché ha superato l'alienazione, è felice perché si sente realizzato. Dunque, egli è veramente libero. Dal punto di vista del pensiero liberal-democratico, Stakanov è il moderno schiavo, privato di ogni esigenza personale, incapace di esprimere idee, totalmente asservito, praticamente e mentalmente, ad un sistema tirannico. E chi parli ancora oggi con leggerezza di libertà comunista, forse ha già rimosso la dimensione immane della tragedia storica del comunismo nel nostro secolo. All'interno della tradizione marxista c'è solo il revisionismo socialista iniziato da Bernstein, seppure ancora pervaso dall'intrinseco finalismo verso una società di uguali, che si colloca tutto sul terreno della democrazia. Il suo limite è che considera ancora la democrazia come transizione verso un sistema superiore, nel quale è negata la proprietà. Solo con le risoluzioni di Bad Godensberg la socialdemocrazia tedesca ruppe quest'ultimo cordone ombelicale.

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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