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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(STATO, ORDINAMENTO GIURIDICO E POLITICA)

Molte ragioni inducono un numero crescente di studiosi a parlare di crisi dello stato nel nostro tempo. C'è innanzitutto la crisi specifica del modello welfaristico. Fino agli anni '70 la critica era soprattutto politica: da destra si esprimeva l'opposizione sociale e culturale dei vecchi ceti privilegiati nei confronti della diffusione del benessere; da sinistra si contestava l'estraneità politica del welfarismo rispetto ai modelli di socialismo, ma soprattutto si evidenzia l'estensione della povertà e non la sua scomparsa. Ma dagli anni '70 le speranze che una nuova fase espansiva potesse aprire la strada ad una spesa sociale finalizzata all'estensione ulteriore della cittadinanza, sono venute meno. I rallentamenti espansivi e la stagnazione hanno indotto a ritenere che i benefici dello stato sociale non potessero venir estesi a tutti. L'egoismo di singoli e di gruppi prendeva il sopravvento e la politica andava sempre più esprimendosi come mera capacità mediatoria e contraddittoria tra le diverse parti sociali.

Alla messa in discussione dei costi dello stato sociale si è accompagnata la critica relativa alla sua efficienza ed efficacia. Gli effetti perversi dello statalismo erano molti, come il rafforzamento del potere burocratico, la formazione di rapporti di tipo clientelare tra destinatari e beneficiari dei servizi da un lato ed uffici pubblici ed apparati politici dall'altro. Insomma, lo stato sociale, finalizzato per natura a garantire la sicurezza piena del cittadino, dalla culla alla tomba, è andato a poco a poco rivelandosi pericoloso per la sua stessa libertà. Ma la crisi dello stato appare ancora più radicale non solo in rapporto alle sue moderne funzioni sociali, ma anche nei confronti di quelle funzioni che gli appartengono peculiarmente fin dalle origini dello stato moderno. Innanzitutto vi è il problema della crescente dipendenza degli stati nazionali da organizzazioni politiche e logiche soprannazionali. In un mondo in cui i livelli di integrazione e di interdipendenza sono totali, è inevitabile che molte funzioni politiche propriamente considerate appannaggio esclusivo della sovranità statale vengano trasferite altrove, a livelli più alti ed estesi. Il processo non è riconducibile a puri problemi di internazionalizzazione delle economie, ma investe l'integrazione culturale in atto nel villaggio globale.

Di fronte a questo aspetto della crisi c'è un numero crescente di studiosi che vagheggia qualche forma di stato mondiale che garantisca a tutti gli abitanti della terra una cittadinanza mondiale, comprensiva dei diritti civili, vecchi e nuovi, dei diritti politici, ma anche dei diritti sociali con tutte le opportunità e chance in essi racchiuse. Eppure, a ben guardare, questa sembra essere una fuga verso l'utopia. Non sembra possibile rinunciare ad una pluralità di stati, che godano di un alto grado di legittimità da parte dei loro abitanti, entro un sistema di relazioni internazionali meglio fondato. È pericoloso pensare a costruzioni politiche che certamente assumono i peggiori vizi degli stati nazionali. Tanto più che la crisi dello Stato si manifesta anche, per così dire, dal basso. I cittadini, cioè, tendono sempre più ad assegnare funzioni politiche ad organizzazioni sub-statali, come le città o le aree regionali e, in molte parti del mondo, ad aggregazioni di carattere etnico e culturale. La crisi dello stato va diventando critica della politica. Ciò comporta la critica sociologica alla politica come professione, su cui si fonda il peso parassitario dei grandi apparati burocratici di stato e di partito, ma soprattutto la ricerca di strade diverse per lo svolgimento delle funzioni legislative, giudiziarie ed amministrative. La critica si spinge fino al punto da rimettere in discussione l'idea stessa di nuove forme di democrazia diretta. In questo contesto riprende quota l'idea che si possa fare a meno dello stato, dato che non è più in grado di dare una risposta adeguata alle esigenze per le quali è sorto. Per esempio, garantire l'ordine e la sicurezza, assieme ai diritti fondamentali alla vita, alla proprietà e alla libertà. La criminalità individuale ed organizzata è in costante aumento, come pure il numero dei delitti impuniti, la libertà di espressione è gravemente compromessa dalle concentrazioni e dal controllo politico dei mass-media, la rappresentanza politica si è trasformata in rappresentanza di interessi.

I più esposti nella polemica antistatalista sono i libertari che si avventurano alla ricerca di modelli politici alternativi allo Stato. Ma anche i liberali più tradizionali, ancorati all'idea di stato minimo, rifiutano sempre più i modelli statali elaborati in nome di rigorose costruzioni razionalistiche. La storia viene rivisitata allo scopo di mostrare "di che lacrime grondi e di che sangue" tutto il processo che ha portato alla nascita degli stati moderni. Essi non nacquero come prodotto di un disegno razionale ma sotto la spinta di forze contingenti; ne sono prova le differenze di forme, di ritmo, di durata. Il loro merito storico maggiore è di aver posto fine, mediante la costituzione di un ordinamento giuridico, alle guerre di religione. Alla lunga si è andata estendendo la convinzione che solo lo stato può porsi come elemento regolatore dei conflitti e del dinamismo sociale. In tutti i casi, per questi, lo stato moderno non è l'unico modo in cui si configura l'associazione politica.

La strada di una diversa associazione politica parte da una assunzione piuttosto ottimistica della capacità dei singoli di porsi come soggetti razionali. Da qui nasce la propensione alla ricerca dell'utile in un contesto ricco di informazioni, nel quale la competizione più acuta, non è tale da distruggere quel tanto di spirito collaborativo che serve a garantire una comune concorrenza. Insomma, si assiste al rilancio della cultura utilitaristica e del suo assioma di fondo, che l'ordine politico possa nascere dallo spontaneo comporsi delle scelte individuali, in un contesto che escluda il dominio. La politica, da questo punto di vista, perde ogni primato ed ogni progetto razionalistico rischia di generare costruzioni mostruose. Neppure il diritto sfugge a questa logica, giacché si disconosce la sua intrinseca statualità e si riconosca che il sociale è esso stesso pervaso da una propria giuridicità. In Italia la crisi dello Stato è forse più acuta che altrove ed anche da noi un numero crescente di studiosi propone una ricetta neoliberista. Anzi, è accaduto in modo alquanto paradossale che l'antistatalismo abbia acquisito grande spazio a destra, dove le suggestioni dello stato forte sono state sempre molto avvertite.

Le insufficienze delle ricette liberali e libertarie in tema di crisi della statualità sono alquanto evidenti. Sono innanzitutto le ragioni del pessimismo antropologico, sostenuto da evidenti prove di realismo, che introducono alla rinnovata riflessione sulla necessità dello stato. Hobbes aveva definito la condizione naturale originaria dell'uomo come radicalmente conflittuale ed aggressiva. Le scienze psicologiche e sociologiche contemporanee hanno arricchito e specificato questo quadro, senza negarlo alla radice. Per alcuni l'aggressività è radicata nell'istinto sessuale, per altri nell'inferiorità biologica originaria dell'uomo, per altri ancora nella paura o persino nel senso di frustrazione o alienazione prodotta in nome della civiltà. Certo è difficile oggi accedere alla tesi ingenuamente ottimistica sulla naturale bontà dell'uomo. Anche il pensiero teologico cristiano aveva finito per accettare la radicale permanenza dell'animale nel cuore dell'uomo e giungere al necessario riconoscimento dello stato come ad uno dei rimedi. A tutte queste culture, e soprattutto al peso enorme che il male e la violenza hanno esercitato e continuano ad esercitare sulla scena storica, non si può contrapporre il fideismo ottimistico degli utilitaristi, con la rappresentazione olografica dell' homo economicus in qualità di moderno salvatore. La conflittualità è insita nella naturale uguaglianza degli atomi-uomini. Ma lo stesso Hobbes aveva individuato l'unica vera via d'uscita della situazione. L'esercizio della forza ed il suo uso generalizzato toglie all'individuo quell'unico bene che gli sta davvero a cuore cioè la sopravvivenza e la sicurezza. Il suo problema diventa perciò il seguente: cosa fare, a quale principio appellarsi per evitare questo risultato disastroso? Non c'è altro strumento che la ragione empirica. Insomma, per quanto forti siano nell'uomo l'istinto di sopraffazione, le passioni e la vanagloria, esse non sono tali da distruggere in lui l'uso della ragione. La legge naturale non affonda la sua natura in alcun principio oggettivo; però è radicata nella soggettività umana. Ciò non toglie che i suoi imperativi debbano essere perseguiti se si vuole evitare il disastro. 

Bisogna cercare la pace, cioè l'ordine e la sicurezza, e ciò può avvenire solo con un patto tra persone ragionevoli, capaci di calcolare in modo razionale ciò che serve davvero alla sicurezza. L'insieme delle regole razionali proposte da Hobbes costituisce un vero e proprio sistema di etica che sta a fondamento della proposta politica.

S. Freud ha individuato tre direzioni possibili per le tendenze istintive: una repressiva per quanto riguarda le componenti aggressive e pericolose, una sublimante, cioè di deviazione verso sistemi culturali strutturati e accettati, ed una terza, per quelle tendenze più esplicitamente di carattere sessuale, realizzativa in quanto tale. Anche per lui, perciò, come per Hobbes, l'essenza della civiltà sta nella repressione. Dei modi, delle forme, delle intensità di questa repressione si può e si deve discutere lungamente, ma la somma di tanti studi sociali porta a concludere che una società non repressiva è proprio impossibile. 

Hobbes è estremista poiché accentua la radicale insicurezza dell'uomo per meglio evidenziare la necessità della nascita dello stato e della condizione giuridica umana. Egli si rende conto che sta elaborando un modello generale che deve essere adattato alle diverse situazioni storiche. Il patto con cui si dà vita allo stato non è un patto di governo, non serve a scegliere o a giustificare i governanti, ma mira esclusivamente a spiegare l'origine e la natura della organizzazione giuridica. È solo un tale patto che trasforma una moltitudine di individui-atomi in un vero corpo politico, cioè in uno stato. Si tratta di una persona artificiale ma dotata di una propria volontà. Le ragioni e le volontà individuali sono un mero presupposto di fatto nei confronti di quella volontà artificiale in cui consistono lo stato o il sovrano. Ecco perché la giuridicità propria delle norme statali e solo di esse, costituisce la condizione indispensabile ed autonoma per definire politicamente ciò che è utile e giusto, onesto e disonesto. La politica è giuridicità, non è morale o altro. La sfera giuridica è autonoma da ogni altra e si realizza completamente nell'ordinamento giuridico positivo. 

Più discutibile appare tutta la parte di pensiero politico hobbesiano più chiaramente diretto alla giustificazione di quella particolare forma di governo che fu la monarchia assoluta europea. Ma in questa sede il discorso non interessa, perché lo scopo che ci sta davanti è quello di dare risposte alle crisi di statualità specifiche del nostro tempo e la lezione di Hobbes ci è indispensabile non per proporre un modello mostruoso di Stato, ma piuttosto per coglierne la insostituibile funzione costituente. Pensare che la vita di una collettività possa essere utilmente diretta al di fuori di un sistema giuridico, è una pericolosa illusione, un vero ritorno indietro rispetto a tutta la civiltà moderna. È solo il diritto che trasforma lo spirito di vendetta in spirito di giustizia, l'utile individuale in utile collettivo. Lo spirito giuridico è tutt'uno con il senso politico ed è la condizione perché un popolo, una comunità, agisca in quanto tale. Il problema del nostro tempo non è quello di andare oltre lo stato, di riscoprire l'autonomia della società civile dalla politica, ma quello di costruire uno stato ed una coscienza politica aggiornate al nostro tempo. 

Certo non ha molto senso guardare allo stato, come faceva Hegel, come la più compiuta realizzazione dell'idea etica. La definizione generale che Hegel dà alla costituzione statale, è che esso consiste nella sintesi organica delle istituzioni economiche ed etiche di cui si compone la società civile. Ancor più estranea al nostro tempo è la tesi hegeliana dello stato come suprema incarnazione della ragione universale: basta pensare che Hegel finiva per ontologizzare la forma prussiana dello stato. Ma rifiutare la hegeliana filosofia del diritto non significa necessariamente accedere all'ipotesi della destatualizzazione dell'ordinamento giuridico o addirittura della possibilità della abolizione della forma statuale.

Non si può fare a meno dello stato come centro unitario e custode della sovranità e come centro di imputazione delle dinamiche politiche. Il liberalismo ha le sue buone ragioni nel definire i confini, in termini di libertà individuali e collettivi, oltre i quali lo stato non può penetrare se non vuole trasformarsi in un nuovo Leviatano. Lo stato non può essere una forza compatta che schiacci il soggetto, ma non può neppure essere messa in discussione la sua sovranità. Lo sviluppo costituzionale degli stati europei conferma la validità dello stato di diritto ed in generale dei processi decisionali propri dei metodi democratici.

I termini della crisi devono essere affrontati con una elaborazione specifica, diretta a risolverli nella loro esatta dimensione. Le dimensioni propositive sembrano essere tre:
a) rafforzamento del diritto internazionale e dei suoi strumenti operativi con conseguente rinuncia ad aspetti consistenti della sovranità che risultino pericolosi per l'ordine mondiale; si pensi alla corsa agli armamenti, ai pericoli di inquinamento su vasta scala o ai problemi demografici e di mobilità;
b) ridefinizione territoriale verso il basso con ampliamento dei poteri autonomi delle unità sub-statuali, e ridefinizione verso l'alto con lo sviluppo di confederazioni tra stati su aree geografiche vaste;
c) riforma dello stato sociale in senso qualitativo; ciò è possibile non solo in senso negativo, come la riduzione di apparati pubblici nei settori che più utilmente possono essere svolti dal privato e particolarmente dal cosiddetto "privato-sociale" (volontariato, associazionismo...) o come la riscrittura dei rapporti tra leggi specifiche ed atti amministrativi in una corretta visione della gerarchia delle fonti normative, ma anche in senso positivo con la individuazione di settori strategici anche nuovi e con la formulazione di normative quadro. In sostanza si tratta di riconfermare e rinforzare gli apparati repressivi dello Stato, compresi quelli giudiziari, di riconvertire radicalmente quelli ideologici e culturali, di revisionare quelli socio-assistenziali secondo criteri di efficienza, di attenta valutazione dei costi e dei benefici, di tutela animale dei soggetti più deboli. 
Facile da dirsi, assai arduo da realizzare.

Il dominio della legge rimane una condizione indispensabile di libertà. Il venir meno della legge solo apparentemente moltiplica gli spazi di libertà, in realtà crea tutte le premesse per il passaggio al totalitarismo. Ciò di cui si avverte la necessità potrebbe essere definita con una vecchia espressione, una costituzione mista, che sia in grado di conciliare la libertà con il rispetto della legge, lo sviluppo dei processi democratici di tipo partecipativo con la necessità di apparati burocratici e politici capaci di decidere in modo efficiente e tempestivo.

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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