Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca
(VALORI E REGOLE DELLA DEMOCRAZIA)
È migliore il governo di pochi o quello di molti? Oggi la convinzione più largamente diffusa è che la democrazia, cioè il governo di molti, sia preferibile rispetto alle forme politiche oligarchiche. La maggior parte dei governanti proclama la propria fede democratica e persino i regimi più dispotici assegnano la qualifica di democratica alla propria identità politica. Eppure, nel corso della storia umana, la preferenza più diffusa è stata a favore del governo di pochi, da scegliere tra le diverse classi di soggetti ritenuti migliori (clero, soldati, tecnici).
Nell'antichità furono dapprima i Greci a passare dall'idea e dalla pratica del governo dei pochi all'idea e alla pratica del governo di molti. E furono essi a creare il concetto stesso della democrazia. Dopo di loro, anche se in alcuni periodi storici quell'idea sembrò estinta, essa non perdette mai la capacità di esercitare un fascino sull'immaginazione politica.
Pericle, leader della democrazia ateniese, era orgoglioso della costituzione democratica e della sua originalità, unica forma politica capace di coniugare la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. La democrazia è una grande scuola, un vero e proprio sistema di città educante, permanentemente attiva, capace di accrescere e nobilitare le qualità morali dei cittadini. Ma ciò che più rendeva Pericle umanamente orgoglioso, era la convinzione di poter sconfiggere gli spartani persino sul piano dell'efficienza, smentendo così coloro che ritenevano la democrazia buona ma inconcludente.
Platone avversava la democrazia perché innaturale: solo una oligarchia negligente ed incapace di svolgere il proprio compito di governo può favorire lo scivolamento verso la democrazia, che è decadenza e corruzione. Il democratico è un cittadino che usa la libertà come licenza, facendo tutto ciò che gli piace, movendosi al di fuori di ogni regola, gettandosi sfrenato verso il lusso ed il consumismo, abbandonando l'austerità che è il fondamento di ogni virtù. Anche Aristotele vede la democrazia come forma politica corrotta: infatti, se la politica, come governo di molti, è intrinsecamente buona, è del tutto prevedibile che essa scivoli verso il governo a vantaggio dei poveri, cioè il governo di una parte contro l'altra.
La democrazia greca era diretta perché chiamava tutti i cittadini (esclusi schiavi, donne..) alla partecipazione attiva dell'assemblea generale (ecclesia) e, a rotazione o mediante sorteggio, alle cariche di governo ed a quelle giudiziarie. Questo livello così alto di partecipazione ha spinto qualche studioso a parlare di una falsa democrazia, anzi, di un vero e proprio totalitarismo che distruggeva ogni spazio privato ai suoi cittadini o addirittura di una vera e propria dittatura del proletariato. Ma tale critica mi pare esagerata. Ridurre la relazione tra cittadini e polis al modello della militanza, come se la polis assomigliasse ad un partito politico totalitario, che assorbe totalmente l'individuo, appare una forzatura. Pericle sostiene che i diritti personali sono garantiti a tutti, che esiste per tutti una vera privacy, insomma che non è in atto nessuna forma di giacobinismo. La democrazia greca si fondava sul presupposto che l'ordine politico giusto non è un sistema astratto.
I Romani inventarono il concetto di repubblica che per certi aspetti assomiglia all'idea greca di democrazia, in quanto ne condivide molti presupposti mentre per altri se ne differenzia e si contrappone. Comune è la convinzione che un buon ordinamento politico è quello che riflette e promuove le virtù morali dei cittadini, ma diverso è il significato del concetto di popolo. Mentre il demos era un tutto omogeneo, organico, con identici interessi, per i repubblicani vi sono differenze tra componenti aristocratiche o oligarchiche e componenti popolari o democratiche. Il buon governo deve avere una costituzione mista capace di equilibrare gli interessi e le aspirazioni delle diverse componenti; e così i consoli, il senato ed i tribuni del popolo sono i tre pilastri del governo misto. L'equilibrio di una tale costituzione mista piacque molto agli inglesi che, nel '700, incentrarono il loro ordinamento su tre ordini analoghi: la Corona, i Lord e la Camera dei comuni. Il repubblicanesimo, quello romano e quello moderno, è andato così distinguendosi tra un orientamento aristocratico ed uno democratico.
Benché gli aristocratici concordassero nel ritenere pericolosa ogni concentrazione del potere, essi divergevano nella scelta costituzionale. Il governo misto piace agli aristocratici perché consente ad una élite di governare, ma sempre nell'interesse e per conto del popolo; i democratici invece credono che il bene pubblico coincida con l'interesse del popolo ed è quindi necessario proteggersi contro l'inevitabile tendenza al dominio di una minoranza. Per dare risposte a queste divergenti visioni vennero escogitati due capisaldi della moderna teoria politica: la divisione del potere nelle sue tre branche principali, legislativo, esecutivo e giudiziario (Montesquieu) e la teoria della rappresentanza. Che il popolo potesse delegare l'esercizio del potere a dei rappresentanti era un'idea assente nel mondo antico, che si sviluppò marginalmente nella cultura medioevale e trovò grande successo durante la rivoluzione inglese del '600 tra i Levellers.
Fu però nel settecento che la teoria riuscì a trionfare e piacque soprattutto (a Montesquieu, in parte a Rousseau, a James Mill ed altri) per la capacità di rendere praticabile la democrazia su stati di grande estensione territoriale. La teoria e la prassi della rappresentanza creavano molti problemi nei confronti della tradizione democratica pura: spariva l'assemblea sovrana, cardine della democrazia diretta, e nascevano associazioni politiche autonome in una crescente dimensione pluralistica e conflittuale; ma la sua vera forza era nella logica dell'eguaglianza politica che veniva espandendosi, in base alla quale tutti i membri di una associazione sono adeguatamente qualificati per partecipare su posizioni paritarie al processo di formazione della volontà comune.
Lungo tutto il secolo XIX la discussione e la concreta esperienza politica attorno alla democrazia avvenne sulla opportunità di ancorarla principalmente all'idea di libertà e di rappresentanza, come volevano Tocqueville o Mill, o all'idea di uguaglianza, come preferivano Rousseau o Marx. Prevalsero la prima ipotesi e la libertà politica, benché concettualmente diversa dalle libertà civili in quanto contenente un elemento di positività partecipativa estranea alle prime, viene affiancata ad esse. Così il diritto di voto, originariamente ristretto ad una esigua classe di cittadini, selezionati principalmente in base al censo, si va estendendo in modo costante verso la totalità dei cittadini d'ambo i sessi (suffragio universale); e si accresce il pluralismo delle assemblee e degli enti che partecipano al processo democratico.
Critici severi della democrazia sono quei pensatori, presenti in ogni epoca storica, che hanno sottolineato il carattere puramente di facciata della democrazia. Una facciata ideologica che cerca di mascherare l'essenza stessa del potere che è sempre dominio. Nel pensiero moderno questo punto di vista è stato assunto espressamente da un gruppo di pensatori elitisti. Scrive Gaetano Mosca: "in tutte le società... esistono due classi di persone: quella dei governanti e quella dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta o regolata dalla prima in modo più o meno arbitrario e violento....". Insomma, il dominio di una minoranza è inevitabile, e la democrazia è un desiderio che va aldilà delle possibilità umane. Se le maggioranze non possono governare, la democrazia può esistere. Già la teoria politica di Marx aveva evidenziato come nella storia si realizza sempre il dominio di una classe minoritaria sfruttatrice nei confronti di maggioranze sfruttate. Ma per Marx è possibile, con l'ingresso in scena del proletariato, porre fine a tale situazione di sfruttamento. Per la teoria delle élite (Mosca, Pareto, Michels) tale speranza liberatoria è una illusione. Sperare di poter porre fine al dominio di una minoranza è cosa inutile.
Basta guardarsi attorno per scoprire come, anche in organizzazioni ostentatamente democratiche, le decisioni effettive sono prese sempre da gruppi ristretti. In realtà in ogni ordinamento ci sono strutture e istituzioni relativamente durevoli che plasmano le scelte e le opportunità. Sono queste strutture che influiscono sulla composizione specifica della classe dominante ed è all'interno di tali strutture che individui e gruppi conseguono il proprio dominio. Le qualità personali aiutano, ed in particolare la scaltrezza, lo spirito d'iniziativa, l'ambizione, l'intelligenza e persino la crudeltà. Ed anche i dominati devono essere in qualche misura inclini a subire la dominazione. Per Michels le masse hanno il bisogno di essere guidate e sono grate verso i capi in grado di guidarle. Alle qualità personali dei capi vanno aggiunte le risorse ed i vantaggi determinati dall'ordine sociale. Riguardo ai nessi con cui la minoranza mantiene il proprio dominio, tutti i teorici concordano nel dare un certo peso sia alla forza coercitiva che alla capacità di persuasione, ma si differenziano tra di loro sul ruolo che attribuiscono a ciascun fattore. La minoranza dominante da qualcuno è definita "classe borghese" (Marx), da altri "classe governante" (Pareto) o "élite politica" (Michels), ma vi è contrasto rispetto all'importanza specifica che vi hanno uomini d'affari, imprenditori, politici, burocratici, militari. Secondo Pareto il moderno governo popolare è in realtà una plutocrazia di speculatori che traggono profitto dalla vita politica e che si servono del governo a proprio vantaggio personale. Mosca e Pareto insistono su questa inevitabile legge della società umana con una ripetitività quasi ossessiva. I fenomeni sociologici provano aldilà di ogni dubbio che non può esistere nessuna società senza una classe politica dominante. Le correnti democratiche si susseguono come ondate, che si infrangono contro gli scogli e poi si rimuovono di continuo.
È indubbio che le teorie sul dominio delle minoranze contengono elementi di verità. La storia documenta ad abundantiam il prevalere di situazioni di disuguaglianza nell'esercizio del potere e anche nelle società democratiche i cittadini sono ben lontani dall'essere uguali per risorse, per cultura, per influenza politica. Un grado elevato di ineguaglianza politica esiste in tutte le società umane. Tuttavia la tendenza ad assegnare alle disuguaglianze un valore assoluto tale per cui l'approssimazione alla democrazia sarebbe impossibile, risulta non adeguatamente motivata. La teoria delle élite è così generica che è difficile trovar prove che possano confutarla o verificarla. Concetti come potere, dominio, controllo, egemonia, eccetera, appaiono del tutto inadeguati in una rigorosa ricerca empirica.
Il nostro giudizio sulla validità delle teorie del dominio della minoranza dipende essenzialmente dal modo in cui esse si inseriscono nella nostra preesistente visione del mondo. Sostenendo l'esistenza di una minoranza dominante, queste teorie ci distolgono da una verifica realistica dei limiti e delle potenzialità della democrazia del mondo moderno. Offrono o un illusorio rifugio nell'utopia, oppure un rassegnato invito all'antica visione di una società di soggetti liberi e uguali.
Dal punto di vista democratico non si nega l'esistenza di élite, anche in forte contrapposizione tra di loro. Ma ciò non significa monolitismo. La via d'uscita più persuasiva da questi contrasti è quella formulata da J. Schumpeter sul suo Capitalismo, socialismo e democrazia (1942). La democrazia è essenzialmente quel metodo o insieme di regole che riporta la competizione tra individui e gruppi tesi alla conquista del potere, alla gara per ottenere il consenso popolare mediante il voto. La democrazia non implica che non vi siano élite, ma definisce un principio specifico con cui procedere alla formazione delle élite stesse.
A questo punto è possibile formulare una teoria completa del processo democratico. Al riguardo molto precisa ed utile è la elaborazione di R. Dahl. Si parte dalle giustificazioni: la democrazia, comparata empiricamente ad altre forme di governo, mostra di saper produrre sistemi politici migliori. Tale valutazione positiva discende dal principio di uguaglianza intrinseca incorporata nella teoria democratica. Lo aveva formulato chiaramente già J. Locke : non ci si riferisce alla eguaglianza in generale, ma a quel diritto riconosciuto a ciascuno a non essere soggetto alla volontà ed al dominio di altri. Nessuno può essere sottoposto al potere politico di un altro senza il proprio consenso. "Tutti devono valere per uno, nessuno più di uno" (Bentham). La democrazia, fornendo a tutti l'opportunità di partecipare attivamente alla vita politica, promuove, più di ogni altro sistema politico, l'autonomia personale, il senso critico e tutte le qualità personali migliori. In ultima analisi, come diceva J. S. Mill, anche gli interessi personali sono meglio tutelati in un ordinamento democratico, dato che gli individui hanno la forza e gli strumenti per proteggerli direttamente. E dunque "se il bene o gli interessi di ciascuno devono avere uguale peso e se ciascun adulto è in generale il miglior giudice del proprio bene e dei propri interessi allora tutti i membri adulti di una associazione sono nel complesso sufficientemente ben qualificati a partecipare alle decisioni collettive vincolanti" (Dahl). Se queste sono le giustificazioni ideali, i criteri alla luce dei quali andrebbero valutate le procedure precauzionali democratiche sono:
a) partecipazione effettiva: "durante tutto il processo a conclusione del quale vengono prese le decisioni vincolanti, i cittadini dovrebbero avere adeguate ed eguali possibilità di esprimere la loro preferenza rispetto al risultato finale. Devono avere adeguate ed uguali possibilità di inserire la questione che desiderano nell'agenda e di esprimere le ragioni per appoggiare un risultato piuttosto che un altro".
b) uguaglianza di voto: "nella fase decisionale di opzioni collettive, ad ogni cittadino deve essere garantita uguale possibilità di esprimere una scelta che sarà considerata di peso uguale a quella espressa da qualunque altro cittadino. Nella determinazione dei risultati nella fase decisionale si devono considerare queste scelte, e soltanto queste scelte".
c) comprensione illimitata: "ogni cittadino dovrebbe avere adeguate ed uguali possibilità di individuare e rendere valida (nei tempi consentiti dalla necessità della decisione) la scelta sulla questione da decidere che meglio soddisfa gli interessi del cittadino".
d) controllo dell'agenda: "il demo deve avere la possibilità esclusiva di decidere come i problemi vadano inseriti nell'agenda delle questioni da risolvere mediante il processo democratico".
Partendo da queste regole è possibile affrontare i numerosi problemi che ne derivano:
* per quanto riguarda l'evoluzione dal demo si deve sottolineare, aldilà delle contingenze storiche che hanno portato verso l'espansione del suffragio, che tutti i membri adulti dell'associazione, tranne i non residenti ed i minorati mentali accertati, hanno diritto di far parte del demo;
* la regola centrale per una decisione democratica è quella maggioritaria, ma essa può concretamente articolarsi in una famiglia di possibili regole che vanno valutate caso per caso e sono tutte soggette a difetti e limiti. Tuttavia non è possibile trarne alternative migliori, né nella ricerca di unanimità o di supermaggioranza né in direzione di una limitazione della democrazia alle sole regole della partecipazione al voto;
* riemerge costantemente la distinzione tra democrazia formale (o delle regole) e democrazia sostanziale. Va ribadito che il diritto ad auto-governarsi in un processo democratico non è un mero processo formale, giacché le regole incorporano oggettivamente i valori sostanziali di giustizia distributiva.
Nel momento in cui le regole ed i valori democratici definiti nella teoria vengono applicate al mondo reale, è evidente che si determina un livello di approssimazione più o meno soddisfacente. Oggi un numero considerevole di paesi moderni è giunto ad un importante livello di democrazia. Ma proprio allo scopo di non confondere il modello teorico di democrazia con le molteplicità della concreta esperienza storica, è preferibile definire gli stati concreti come poliarchie, forme politiche nelle quali il governo non è affidato né ad uno solo né a pochi ma a molti.
È anche possibile procedere ad importanti classificazioni tra di esse. Rilevante è la distinzione tra democrazie presidenziali e democrazie parlamentari. Nel primo caso il capo dell'esecutivo è eletto direttamente dal popolo e ad esso risponde; nel secondo è il potere legislativo, eletto dal popolo, che dà fiducia e legittima il governo. La scelta tra queste due alternative suscita molte discussioni, ma è chiaro che nessuna delle due è in assoluto preferibile all'altra e nessuna si colloca al di fuori del processo democratico. Prendendo in considerazione il numero dei partiti ed escludendo dalla democrazia il monopartitismo, si distinguono i sistemi bipartitici da quelli multipartitici, oppure i sistemi bipolari, quando i molti partiti esistenti si raccolgono attorno ai due poli del governo e dell'opposizione, da quelli multipolari.
Molte considerazioni interessanti sui vantaggi e svantaggi dei diversi sistemi sono stati illustrati anche recentemente da G. Sartori che in rapporto alla situazione italiana vede vantaggioso un multipartitismo moderato spinto dalla logica delle alleanze ad operare secondo un sistema bipolare. Con accezione prevalentemente negativa si fa riferimento al concetto di democrazia consociativa, tipica dei paesi dalla cultura politica molto frammentata, in cui le élite politiche sono più disposte a cercare accordi che a competere come rivali, ed anche a quello di democrazia plebiscitaria o populistica nella quale si crea un rapporto delle élite con il popolo, di tipo massificato e strumentale.
Molti autori si sono soffermati ad esaminare l'evoluzione politica dei sistemi democratici nelle società industriali avanzate o postindustriali. Tra di essi merita di essere segnalato il libro di P. Zolo, Il principato democratico (Feltrinelli, 1995), per la acuta consapevolezza dei limiti ai quali la democrazia va incontro nelle società complesse. L'integrazione e l'interdipendenza sistemica a livello mondiale, le rivoluzioni nel campo delle telecomunicazioni e le altre innovazioni tecnologiche creano le condizioni per una manipolabilità degli ordinamenti di massa e per una ricerca strumentale di consenso, minano la possibilità stessa di autonomia personale che sta alla base del modello democratico e confermano il carattere difficilmente superabile delle teorie elitistiche. Da queste basi realistiche occorre ripartire per disegnare i nuovi criteri di una democrazia effettiva.
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