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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(POLITICA/POLITICO)

È opportuno fare chiarezza sul significato dei termini politica e politico, dato lo stato di incertezza che esiste sull'argomento. Il più delle volte si cerca la definizione per contrapposizione o per distinzione da altri termini come economia o diritto, e si dà per scontato che comunque si tratti di qualcosa che afferisce alla statualità. Ma l'equiparazione politico = statuale non può essere data per scontata. 

I Greci, che per primi compirono esperienze significative su questo terreno, cominciarono ad usare il termine politico come aggettivo: un modo di qualificare tutto ciò che appartiene alla polis. Politici erano, prima di tutto, i cittadini in quanto appartenenti alla polis; l'appartenenza politica divenne elemento centrale ed i cittadini acquistarono il senso della propria identità politica. Ciò accadde non solo ad Atene, dove il processo giunse al suo punto più alto con la nascita della democrazia, ma in misura significativa in tutte le altre polis. Benché i meteci e le donne, oltre naturalmente agli schiavi, rimanessero esclusi dai diritti politici in senso stretto, il numero delle persone politicamente attive era nettamente superiore a quello degli esclusi. Un tale processo di politicizzazione compattò tutto il corpo sociale, conferendo alla polis l'idea di una totalità al di sopra degli interessi privati. Così la sfera politica riuscì ad isolarsi, come ordinamento politico-giuridico in senso stretto, contrapponendosi per il suo carattere artificiale alle caratteristiche naturali della società. I cittadini erano sicuramente legati alla propria casa ed ai propri affari ma da questo punto di vista i loro comportamenti erano privati, cioè egoistici ed interessati; altro era il legame che si creava quando le azioni erano finalizzate agli interessi di tutti, al bene comune, all'interesse generale: là e solo là il comportamento poteva dirsi propriamente politico. 

Anche quando l'unità interna della polis si trovò, a causa di molteplici conflitti, ad essere esposta a forti rischi, non venne mai meno l'idea che si dovesse guardare agli interessi generali della collettività. Ed in effetti è difficile negare che anche i cittadini di condizione sociale modesta, finissero per acquistare una certa capacità di azione politica, riuscendo in qualche misura ad influenzare gli eventi. In tal modo nei greci si formò un senso politico, come consapevolezza che non è possibile delegare ad altri la decisione, laddove, al contrario, è necessario porsi come protagonisti effettivi di ogni azione politica.

Era dunque implicito nell'aggettivo politico un giudizio di valore positivo: è bene che tutti i cittadini siano politicamente attivi, partecipando effettivamente alla vita della città, mossi esclusivamente dalla visione del bene comune. Da questo punto di vista il contrario di politico, diventò allora il dispotico, l'ybris, il dominio di pochi su molti, l'arbitrio del tiranno, la negazione della giustizia. Così si può comprendere perché Tucidide definisse politica non una costituzione qualsiasi, ma solo quella che si fonda sulla isonomia, cioè sull'uguaglianza dei cittadini nella partecipazione; e perché Aristotele stesso definisse politica quella costituzione dello Stato che si fonda sulla eguaglianza dei cittadini nella partecipazione, evitando sia la ricerca smoderata del potere, sia la docilità nella sottomissione al comando altrui; e perché più tardi, Demostene lamentasse che solo una parte di cittadini voglia ancora vivere nell'uguaglianza, nella pace e nella legalità, senza dominare né essere dominati. Al termine di questa evoluzione, appare persino ovvia l'affermazione aristotelica che l'uomo sia per sua natura un animale politico, assai più delle api e di ogni altro animale.

Il politico andò così diventando l'elemento centrale della vita, improntando le più diverse manifestazioni, dalla religione alla filosofia, dalla letteratura all'arte. L'intera civiltà greca venne così configurandosi come una civiltà politica. Anche un aristocratico come Platone, partito da una posizione che assegnava solo ai migliori il compito della direzione politica, finì per riconoscere esplicitamente che tutti i cittadini, e non solo una élite, debbono partecipare alla vita pubblica, e a questo fine devono essere educati.

Nell'età moderna l'aggettivo politico ha cambiato piuttosto radicalmente significato e collocazione. Possono essere definiti politici, solo i comportamenti che appaiono operati da organi o rappresentanti dello Stato. Nel caso della monarchia assoluta, l'unico vero soggetto politico è il monarca: ciò che piace al principe ha valore di legge; con la nascita dello Stato costituzionale, gli organi statali si moltiplicano con specifiche divisioni e un appropriato bilanciamento di potere: soggetti politici sono coloro che agiscono all'interno di questi apparati statali.

In un contesto così mutato, dato il carattere elitario dei soggetti politici, cambia, rispetto all'antichità classica, l'intenzionalità politica che li muove. Si può ancora parlare di ricerca del bene comune, di res publica, ma ciò che emerge in modo inconfutabile è la logica del potere, il modo in cui lo si conquista, lo si espande e lo si rafforza, il modo in cui lo si perde. Un modo di agire, ben illustrato da Machiavelli e da altri scrittori politici moderni, che diventa riconoscibile per la sua radicale separazione rispetto all'etica: ciò che davvero conta è l'efficacia, cioè l'adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini, piuttosto che la valutazione etica dei fini stessi. Le caratteristiche determinanti del comportamento politico diventano, in questo contesto, la scaltrezza e l'abilità: il politico deve padroneggiare l'arte di saper apparire, anche diversamente da ciò che si è, l'arte del saper parlare, anche diversamente da ciò che si pensa, insomma la capacità di indirizzare tutto ciò che viene fatto e detto, esclusivamente al raggiungimento dei propri fini di potere. 

Certamente anche i greci conoscevano la natura di questa politiché téchné, ma essa non era separabile dal legame stretto che univa la società allo stato, l'etica alla politica. Ben lo aveva evidenziato lo stesso Tucidide laddove, dopo aver riferito il discorso di Pericle sui caratteri della democrazia ateniese, sottolineava la grande abilità politica di Pericle nel difendere e rafforzare il suo potere monocratico.

Nello stato moderno la politica si divide dalle altre attività umane, si restringe e si specializza; la maggior parte delle persone le resta estranea. La società civile è il luogo ideale in cui tutti operano, mossi dalla specificità degli interessi, ma la politica le è estranea e le viene sovrapposta, per via amministrativo-giuridica, dallo stato, che è il luogo dove si accentra il potere politico, attraverso la istituzionalizzazione degli accessi e delle regole del potere. Così lo Stato assume per sé il monopolio della politica.

La distinzione netta della società civile dallo Stato raggiunge il suo livello più alto nella hegeliana filosofia del diritto. Il punto centrale di questa dottrina è il pieno riconoscimento della autonomia dello stato rispetto agli individui, anche laddove essi associandosi costituiscono la società civile. La natura e gli scopi della società civile non possono venir confusi con quelli dello stato. Ciò non significa che lo stato debba affermarsi con la oppressione degli individui, ma che è autonomo, che non deriva il proprio potere dal popolo, il quale senza lo stato è una moltitudine uniforme. Hegel è del tutto d'accordo con Machiavelli, nel respingere il giudizio morale individuale qualora esso venga assunto come giudizio sulla azione degli stati: le scelte degli stati si configurano all'interno della autonomia del politico; scompare persino la distinzione tra guerra e non guerra, proprio nel senso di von Clausewitz, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con lo strumento delle armi, così come la politica è una guerra combattuta con armi altre rispetto a quelle militari.

Con la nascita e lo sviluppo della società industriale il ruolo dello stato è venuto accrescendosi ed i suoi ambiti di azione si sono ramificati in direzioni precedentemente impensabili; ogni settore dell'intervento pubblico tende a configurarsi come un nuovo capitolo della politica: sono nate la politica economica, quella sociale, quella culturale e quella scolastica. La consistenza degli apparati di Stato è andata crescendo enormemente, la loro espansione funzionale è divenuta totale, fino alle moderne forme di welfare state, nelle quali lo stato deve assicurare il totale benessere del cittadino, dalla culla alla tomba, e per far ciò assorbe quote di risorse nazionali fino a tetti del 70% e trasforma la maggioranza dei lavoratori in dipendenti e collaboratori pubblici.

In questo contesto oggi si assiste ad un vasto e complesso processo di riconquista della politica da parte della società civile. In alcuni casi (nazismo, comunismo) si giunge al totale dominio dello Stato sulla società stessa, ma anche nelle esperienze dei paesi democratici la conquista di spazi politici da parte della società civile è vistosa.

Il terreno primario è stato quello della fissazione di confini invalicabili per l'azione statale nei confronti dei cittadini. L'ambito dei diritti civili, una vera e propria actio finium regundorum, sancita solennemente della Dichiarazione del '89 e confermata in tutte le costituzioni democratiche moderne, è stato il primo terreno di riconquista; e la battaglia ivi combattuta non è stata leggera né indolore.

Poi è venuto il crescente pluralismo delle forze economiche e sociali, come le grandi società di capitale, i sindacati, le associazioni con la consistente politicizzazione di molte di esse, fino alla nascita dei moderni partiti di massa. Alla sfera dei diritti civili si sono aggiunte quelle dei diritti sociali e dei diritti politici. A questo punto è stato impossibile non accorgersi che aldilà dello Stato, molti erano i soggetti della politica e che di conseguenza era necessario ridefinire le specificità dei comportamenti propriamente definibili come politici.

I termini dell'approccio marxiano al problema sono ampiamente noti: veri soggetti politici sono le forze economiche e sociali, aggruppate in fronti contrapposti di lotta, le classi, il cui conflitto potrà essere eliminato solo in una palingenetica società finale. A volte il dominio di classe giunge fino alla piena conquista del potere statale, altre volte tale dominio viene esercitato mediante veri e propri consigli di amministrazione a ciò delegati. Il momento politico non è altro che un mero spostamento del terreno di lotta, senza che ne cambino i combattenti ed i fini. Una concezione tanto funzionalista da giungere più volte fino al più completo determinismo, non lascia spazio all'idea di autonomia del politico. Da una strettoia di tale natura hanno sempre fatto fatica a liberarsi anche gli interpreti più critici della tradizione marxista; il fatto è che in quella tradizione, anche quando sia consapevolmente rifiutato il terreno pericoloso del determinismo economico, si approda quasi sempre, anziché sul campo dell'autonomia del politico, su quello, più generico, della sociologia. Alla lettura semplificata del conflitto sociale si sostituisce una analisi più raffinata dei blocchi in campo, degli spostamenti di forza, del ruolo della coscienza di classe e della sua relativa autonomia. Ma la politica non diventa mai autonoma, essa si aggira sempre in mezzo alle forze sociali in lotta ed è sempre funzionale, anche quando opera come mediatrice, alle forze sociali dominanti sul campo.

A risultati analoghi a quelli marxisti giunge pure l'interpretazione idealistica crociana. Nella filosofia della pratica la determinazione della attività economica assume la piena autonomia spirituale rispetto all'ambito morale, così come l'intera attività pratica si distingue da quella teorica propria dell'arte e della filosofia. L'attività economica non è né morale né immorale ma amorale.
Oltre questi quattro momenti non si dà alcuna forma autonoma di attività: é dunque all'attività economica che vanno ricondotti il diritto e la politica. Per Croce non si può in alcun modo rivendicare il valore morale delle leggi, ma solo quello dell'utilità; e ciò vale per tutta l'attività dello stato e per la politica in generale. Su questo punto Croce, come Hegel, si vanta di proseguire la dottrina di Machiavelli e sa di non essere fuori dalle coordinate marxiane; piena è anche l'accettazione della tesi di von Clausewitz sul carattere politico della guerra.

Un vero e proprio salto teorico nell'impostazione del problema si compie con la riflessione di C. Schmitt. Egli è consapevole di voler raggiungere una definizione concettuale del politico mediante la scoperta e la fissazione di categorie spirituali specificatamente politiche. Il momento politico dello spirito non solo non può essere ricondotto a quello morale, estetico, o logico, ma neppure a quello economico: ecco allora che se la polarizzazione dialettica dell'economico sta nella coppia utile/dannoso, redditizio/non redditizio, quello estetico in bello/brutto e quello morale in buono/cattivo, la specifica distinzione alla quale è possibile ricondurre le azioni ed i motivi politici è quella tra amico/nemico (Freund/Feind). Più che di una definizione concettuale, si tratta di una marcatura di confini. In questo modo non si nega il carattere conflittuale del politico, ma lo si isola e lo si riconosce sul terreno della individuazione del nemico che viene fatta dai protagonisti del conflitto. Il nemico non è necessariamente cattivo o brutto, anche se talvolta può essere vantaggioso farlo apparire come tale; egli è solo un antagonista da eliminare. Amico e nemico non sono due metafore, sono i soggetti concreti del conflitto. E neppure si tratta di una dimensione meramente psicologico-privatistica. Il nemico è solo pubblico, è un insieme di uomini in lotta, è un popolo in lotta, è la cristianità contro l'islam. Amate i vostri nemici, dice Gesù, ma si tratta dei nemici privati, (inimici) non di quelli pubblici (hostes) che vanno combattuti.

Politico è pure il conflitto che si sviluppa, seppure in modo affievolito, all'interno dell'unità politica e dello stato, fino al limite della guerra civile, e persino quello all'interno di un partito. Del resto, la controprova di ciò che sta nello stesso linguaggio politico, i cui concetti ed espressioni (lotte, battaglie, forze, tattiche, strategie, militanza...) sono quasi sempre di carattere polemico. Non è importante che la lotta sia in atto, ciò che conta è che essa è sempre presente potenzialmente nell'azione politica, fino al limite dell'uccisione fisica del nemico. Un mondo pacificato, senza guerra, dove pure sopravvivessero conflitti e contrasti di varia natura, sarebbe un mondo senza politica. Ma ciò non è dato, aldilà di ciò che pensano i pacifisti, la cui azione tanto più diventa efficace quanto più diviene guerra contro la guerra.

Ogni contrasto, anche quelli religiosi o estetici, assume un carattere politico quando la sua intensità diventa così forte da raggruppare effettivamente le persone in due schieramenti antagonisti di amici e nemici. Anche una classe sociale, in senso marxiano, diventa effettivo soggetto politico, se e quando giunge a trattare seriamente l'avversario come nemico da eliminare. Politico, insomma, è ogni conflitto quando raggiunge il grado massimo di intensità.

Schmitt, che pure fa compiere al problema un salto qualitativo, resta fondamentalmente hegeliano, nel ricondurre comunque la totalità del processo politico all'interno dell'unità statuale. Si riconosca pure il pluralismo dei soggetti politici all'interno dello stato, ma lo stato non diventerà mai un mero soggetto che si affianca agli altri. Che lo stato sia unità, anzi l'unità decisiva, dipende dal suo carattere politico. È allo stato che compete lo jus belli, cioè la possibilità reale di determinare il nemico da combattere: lo stato ha dunque diritti di vita e di morte sui suoi cittadini. Una chiesa può ottenere che i propri membri affrontino il martirio per salvare la propria anima; ma se chiama in massa a difesa della comunità ecclesiale in quanto tale contro i suoi nemici si trasforma in una entità politica. Ogni guerra ha il suo vero significato nell'essere combattuta contro un nemico reale, aldilà degli ideali e delle norme. Uno Stato può dichiarare di condannare la guerra, ma non quella difensiva. Non può disconoscere il nemico. Se uno Stato si arrende, se un popolo teme le fatiche della guerra, finirà inevitabilmente per cadere sotto il dominio dei nemici. Sarebbe davvero sciocco credere che un popolo inerme abbia solo amici, e sarebbe ridicolo pensare che il nemico potrebbe essere commosso dalla mancanza di resistenza. È pure evidente che i rapporti tra gli stati non possono essere ispirati a generici criteri di umanità o a filantropismi da Società delle Nazioni, ma solo a rapporti di forza tra nemici potenziali.

La posizione di Schmitt rafforza la convinzione hobbesiana dell'uomo come essere cattivo, incapace di vivere senza nemici. Non c'è spazio per un ottimismo antropologico di alcuna natura, né per quello laico, ma neppure per quello religioso, il cui dogma fondamentale resta quello della peccaminosità e dunque della malvagità degli uomini.

E' facile comprendere perché dalle convinzioni generali di Schmitt derivino giudizi fortemente critici verso il liberalismo e verso la forma politica democratica: essi sono intrinsecamente deboli e contraddittori. La concezione liberale dell'uomo immagina che ogni individuo sia interiormente combattuto da due passioni, quella che lo porta a scegliere tra il bene e il male, che si sviluppa solo nella sfera interiore di ciascuno e che costituisce l'etica, un mondo sacro da cui la politica deve rimanere lontana e separata , e l'altra che si riferisce alla scelta tra ciò che è utile e ciò che è dannoso. In questo campo sta tutta la dimensione economica ed anche tutta la politica: comporre l'interesse dei singoli nell'interesse sociale è un problema di sommatoria, di calcolo algebrico. Ed allora dal punto di vista liberale la scena politica è quella dove i soggetti fanno i loro calcoli economici, contrattano, discutono, stipulano accordi. La complessità dell'animo umano viene ricondotta esclusivamente alla capacità di calcolo. Non ci sono passioni collettive. Non esistono nemici contro cui combattere ma solo controparti con cui confrontarsi. La razionalità politica in fondo non è altro che un agire economico. Non esistono soggetti collettivi, non c'è il popolo, ci sono i cittadini; i partiti politici sono in ultima analisi delle aziende speciali; la ricerca del consenso elettorale è solo una operazione di marketing.

Non rendendosi conto della forza e dell'intensità della politica, capace nel suo vortice inappagabile, di scatenare passioni devastanti, la democrazia si presenta come forma politica neutra, ed assolutamente incapace di garantire la sua stessa sopravvivenza. In fondo nella concezione liberal-democratica non solo lo Stato deve ridursi al minimo, quasi al solo diritto penale, ma potrebbe persino sparire lasciando lo spazio al mercato. Un mondo che funzioni bene può quasi fare a meno della politica, sostituita dall'autogoverno degli interessi. Ed invece, secondo Schmitt, la politica è incancellabile dalla storia umana, perché radicata nel cuore più profondo dell'uomo: la sua incapacità di vivere senza nemici.

A partire dagli anni sessanta, la filosofia politica ha riscoperto alcune categorie proprie del pensiero classico, in particolare con la filosofia pratica di matrice aristotelica. In questa direzione si muovono autori con E. Voegelin o L. Strass; ma è soprattutto nell'opera di H. Arendt che il concetto di agire, di prassi, riacquista la pienezza del suo significato politico. La posizione di Arendt consiste nel rivendicare la radicale politicità della condizione umana. L'essenza umana non sta nel suo carattere razionale, né in quello di lavoratore, ma nella politicità. Aristotelicamente, l'uomo è animale politico, nel senso che appartiene in modo attivo ad una comunità. Politica è l'essenza antropologica dell'uomo, l'idea fondativa dell'umanità, il tratto costitutivo di ciò che è veramente umano. Sul piano filosofico, la tesi della Arendt rovescia la tendenza storica che ha svalutato l'azione in favore della teoria; dal punto di vista politico rivaluta il senso autentico della prassi, distorto dalla modernità in direzioni utilitaristiche, comportamentistiche o amministrative, e lo riconsegna alla politica.

Sulla scia dell'insegnamento di Heidegger è sulla natura dell'esserci che occorre indagare. Ma mentre il maestro sviluppa la riflessione in una direzione impolitica (l'essere per la morte), o quando si avvicina alla politica si compromette verso il nazismo, l'allieva Arendt si spinge verso una rivalutazione del mondo, e del carattere attivo della presenza umana. L'essere nel mondo risulta inadeguatamente definito da tutte quelle filosofie che vedono l'essenza umana nella riflessione, nella contemplazione, nella mera conoscenza teorica, nella meccanica della necessità e del desiderio, nella chiusura dentro la propria soggettività fino ai limiti dell'autismo e del solipsismo. La supremazia del politico rispetto a tutte queste forme sovverte molte delle gerarchie consolidate del pensiero tradizionale, comprese quelle del marxismo incentrate sulla prassi sociale, di cui l'azione politica è vista come mera conseguenza. Autonomia del politico è il segno che definisce la posizione della Arendt. Nel cuore del politico c'è il discorso, l'esporsi degli uomini agli altri uomini mediante la comunicazione. La comunicazione ha bisogno di luoghi e spazi per esplicarsi; non si tratta di meri spazi fisici, ma di luoghi discorsivi, di campi di regole, di capacità comunicative anche aldilà della propria polis di appartenenza. L'ebrea Arendt non è sionista perché ritiene che la sua appartenenza alla comunità ebraica debba esplicitarsi anche al di là della diaspora. La politica è dunque sintesi di discorso e di tradizione. Solo in un mondo comune, in una ideale città-stato, può svolgersi il discorso politico.

La tradizione aveva separato la vita activa da quella contemplativa, assegnando a questa seconda un vero primato. Arendt ritiene che la vita activa, pienamente intesa, incorpori il pensiero. C'è una profonda unità tra pensiero ed azione. Neppure i critici più intransigenti della tradizione, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, nonostante l'accento posto sul primato della pratica, avevano operato una rivalutazione della politica.

Qualcuno, a proposito della Arendt, ha parlato di nostalgia della polis greca; ma a ben guardare si tratta di ben altro. Ciò che viene recuperato dal modello greco è la distinzione tra la sfera privata, quello della necessità, del lavoro, e della famiglia, e la scena pubblica. Il soddisfacimento dei bisogni privati è il presupposto della appartenenza alla città, ma la appartenenza si manifesta solo nella sfera pubblica, nella quale non si agisce per soddisfare i bisogni ma per l'eccellenza (arété). La realizzazione politica è possibile solo nella vita pubblica, nel parlare e nell'agire: stato e società non possono essere separati. Va chiarito altresì che all'interno dello spazio comune in cui si esplica l'agire politico, il discorso e l'interazione avvengono essenzialmente in modo agonistico. La competizione è anche gioco, come aveva insegnato Huizinga in Homo ludens, è apparire ed è mascherarsi. Nella comunicazione sociale la sincerità porta alla follia; è perciò necessario mascherarsi. Agonismo e pubblicità sono le condizioni essenziali della vita attiva, come tipologia ideale della politica.

Sulla scia della lezione della Arendt si muove J. Habermas che, nel tentativo di liberarsi dal concetto marxista di prassi, individua l'agire comunicativo come il più adeguato modello di attività politica. In questo recupero della tradizione, e segnatamente dall'aristotelismo, si inserisce pure Leo Strauss per il quale la politica deve essere riunificata con l'etica, i fatti con i valori, poiché l'uomo non può abbandonare la questione della società "giusta". I giudizi di valore non possono essere rifiutati e la politica non può essere separata dalle istanze normative. La critica della modernità si spinge in Strauss fino al recupero della metafisica intesa come apertura verso la trascendenza.

Si potrebbe pensare che con questo recupero di temi e valori politici della classicità si sia giunti al termine di un lungo ciclo che si chiude con un ritorno alle origini. Ma siamo sufficientemente laici e smaliziati per non cadere in trappole siffatte. Abbiamo solo delineato dei percorsi che rendono conto della complessità dei problemi e della molteplicità di strade tentate per risolverli: ma non ci sorreggono più né una filosofia della storia, né una certezza proiettata su tempi medio-lunghi. 

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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