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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(LA VIOLENZA ED IL SACRO)

Nella lingua ebraica, ed in qualche misura anche in quella greca e latina, il termine sacro indica ciò che è separato, mentre rappresenta il supremo distacco tra Dio e l'uomo. Dio è onnipotente ed in quanto tale totalmente eterogeneo sul piano della forza: ogni contatto con Lui comporta un rischio e perciò non sono sufficienti le virtù morali della persona; occorre una condizione di sacralità che può essere riconosciuta ad alcune persone nonché ad alcuni luoghi. Si tratta naturalmente di luoghi sacri, di templi, separati da tutto ciò che è umano. Ecco perché la topografia del sacro corrisponde esattamente alla topografia del potere, della sua disseminazione, agli intrecci che lo determinano nelle sue manifestazioni. 

La mappa del sacro corrisponde alla mappa dei luoghi. Ciò significa che è proprio il santo, per il suo statuto ambiguo tra celeste e terreno, ad avere la capacità di santificare e sacralizzare un luogo rendendolo centro di diffusione della potenza del sacro. La potenza del sacro diviene coincidente con il potere di chi lo detiene, di chi lo controlla. La topografia del sacro fornisce dunque una mappa del potere, definisce la estensione dei rapporti sociali e della distribuzione dei beni e della ricchezza. 

La natura dei luoghi sacri cambia nella storia. Nella società medioevale, ad esempio, essa si rapporta prevalentemente con le tombe o con il possesso delle reliquie. La detenzione delle reliquie o la sepoltura nelle vicinanze della tomba del santo rappresenta la detenzione di un potere o la vicinanza ad esso (più ci si allontana dal sacro, più diminuisce il potere). In altre epoche storiche la situazione risulta diversa.. 

Ma se cambiano i portatori della potenza, simulacri del potere, cambia certamente anche la geografia del potere pur non mutando i meccanismi della sua affermazione e gli schemi di diffusione. Può anche cambiare radicalmente l'immaginario collettivo relativamente al sacro, come se cambiasse il significato semantico dei termini, ma possono rimanerne immutati gli schemi e le strutture, cioè la grammatica e la sintassi del potere. Non è necessario pensare sempre a tombe o a reliquie dei santi; la divinità può intervenire in altri luoghi; ad esempio nell'atto fondativo di una città, quando essa viene consacrata ad un Dio. Quante volte Dio si è avvicinato e poi si è allontanato da Gerusalemme! Quando i sovrani non sono più degni del potere e dunque non possono più esercitarlo, allora la città contaminata non può più ospitare la manifestazione del potere divino. La fonte del potere in quanto tale resta, passa di mano, si sceglie un altro luogo o un altro rappresentante. 

Il tempio, simulacro del potere, può essere distrutto o violato nella sua sacralità. La divinità spesso avverte in anticipo che sta per abbandonare i luoghi sacri al loro destino, quando chi gestiva il sacro non è più riconosciuto come tale. Un sovrano che si ritrova un tempio abbandonato da Dio sa che deve contare solo sulle sue forze e non più sulla protezione divina. Gli antichi dei, declassati a demoni, fuggono dai loro templi. Tempio è stato in tempi moderni la Bastiglia, insignificante sul piano pratico del potere ma simbolo emblematico di esso. La cacciata del Dio-Re coincide con la presa e la distruzione della Bastiglia. A volte il nuovo potere occupa gli stessi spazi di quello vinto e così li riqualifica; il nuovo sistema simbolico si integra con quello precedente. Gerusalemme stessa è sede di un antico culto e di antiche promesse prima di divenire la capitale di un nuovo regno e di un nuovo tempio. I luoghi di culto delle antiche divinità femminili diventano la sede privilegiata dei nuovi culti mariani. La topografia del potere tende a perpetuarsi, incurante di rivoluzioni e di cambiamenti dinastici. 

Forse le più grandi fratture della storia sono definite proprio dal modificarsi radicale della mappa geografica e politica del potere. Quando gli Inca furono conquistati da Pizarro (1535), la loro capitale, Cusco, che significa "ombelico", dovette cedere il potere a Lima; la stessa cosa accadde in molti altri casi. Il luogo sacro non è pura geografia; esso si intreccia con l'aspetto umano. Il tempio è legato al sacerdozio; a fianco del tempio ci sono sempre il profeta ed il santo. Il palazzo del potere politico non è lontano dal tempio: staccato e segregato da esso c'è il popolo che è profano cioè fuori dal tempio. Il significato funzionale degli elementi topografici definisce insomma la rete simbolica del potere, il dispiegarsi di tutta la gerarchia di forze e di valori. Il luogo santo è immagine del potere in un duplice senso: sia perché è l'immagine visibile del fondamento trascendente, sia perché rispecchia lo stato di fatto dei rapporti di potere all'interno della società.

Sacro non è solo il topos ma anche il nomos. Schmitt, ripercorrendo la strada intrigata dei significati collegabili alla parola nomos, strada che comprende operazioni come prendere e conquistare ma anche spartire e dividere, coltivare e produrre, giunge alla conclusione che nomos rimanda sempre a qualcos'altro che gli è esterno, ad un principio superiore trascendente e superordinato. Qualcosa che è datore di ordine e che riferisce alla vita sociale. Solo così il nomos può aspirare a quei caratteri di universalità, di ordine e di giustizia di cui è irrimediabilmente privo: il nomos è dunque sacro. Qualsiasi riferimento alla legge o ai sistemi politici che non ne scopra il carattere sacro (che sempre lo accompagna a livello simbolico ed ideologico) è impossibile. Sia la legge che i sistemi politici sono gestiti dagli uomini e per gli uomini, ma sono gestiti sempre in nome e per conto di un principio più alto, attivo e presente nelle vicende individuali e storiche degli uomini. La massima sacralizzazione della legge e del potere coincide con la massima sacralizzazione della coscienza umana. Da questo punto di vista diventa comprensibile che proprio i sacerdoti siano i custodi dell'ordine, e come il potere che si esprime nei sistemi politici debba essere sempre consacrato. Tutta la simbologia politica e giuridica assume dunque i connotati della sacralità. 

Il percorso moderno, a partire dalla Riforma, è caratterizzato dalla desacralizzazione o secolarizzazione. Si è passati da una concezione teologica ad una metafisica del potere e da ultimo al potere del mercato. A livello di coscienza individuale è venuta meno l'ipotesi di una partecipazione diretta, mediante l'anima, alla sfera del sacro. Il nomos, per non perdere il suo carattere di universalità, di ordine e di giustizia si è aggrappato alle ideologie, mascherate sotto la parvenza di un ordine e di una giustizia universale. Questo ancoraggio si è però rivelato precario. Dopo la crisi delle ideologie, oggi del tutto evidente, è difficile negare l'esistenza del rischio che il caos diventi il nuovo signore del mondo. Ne sono segni il disordine interiore e quello esterno, la nevrosi dell'uomo e la malattia sociale. Nuove mitologie e nuovi archetipi si affacciano all'orizzonte. Il ritorno al sacro, per chi sostiene questa posizione, si pone come unica speranza per riportare il mondo alla salvezza ed alla razionalità. 

Molti studi antropologici anche recenti, si sono indirizzati, nell'individuare l'essenza del sacro, propriamente al sacrificio, inteso come l'insieme di tutti i riti miranti a stabilire o rinsaldare i rapporti con Dio. Alla fine del secolo scorso gli studi di Marcel Mauss evidenziarono come attraverso il sacrificio, nel quale la vittima fa da mediatore, si ristabilisce un legame tra ciò che è propriamente sacro e ciò che è profano. Di conseguenza la sfera del sacro tende ad estendersi nel suo significato. Diventa sacro anche ciò che sta fuori dalla sfera religiosa in senso stretto, a partire dalla magia. Su questa strada Emile Durkeim concepì (1912) la dicotomia sacro/profano come un modo di vedere e di intendere, da parte di singoli e di gruppi, la realtà nella sua totalità. Tutte le principali strutture culturali prodotte dall'uomo, e dunque anche le regole giuridiche e le istituzioni politiche, sono specificamente dirette a determinare questo collegamento con qualcos'altro di più ampio ed elevato. Ciò vale per i cosiddetti "riti di passaggio" ed in generale in quella ampia sfera rituale che si richiama alla distinzione tra "puro" ed "impuro". L'impurità è l'indice più eloquente della separazione del sacro dal profano in quasi tutte le culture e tende a definirsi in base al ricorso alla sessualità. Il sacro in senso tradizionale si manifesta con una separatezza che deve essere superata ed il rapporto con il sacro è anche attesa del bene; al contrario il rapporto con l'impuro si risolve in repulsione ed emarginazione. Sacro e profano, così come puro ed impuro, sono aspetti funzionali di una stessa realtà. In molte culture tale complementarietà ha fornito la base per giustificare divisioni e gerarchie sociali di vario tipo, come l'inferiorità sociale della donna, il razzismo, la divisione della società in caste.

Strettamente collegato al sacro è il mito. Esso ne costituisce il racconto multiforme e scintillante. Sulla vera natura del mito esiste una lunga discussione ed una vasta letteratura. I più ritengono che il mito appartenga ad un mondo non esplorabile scientificamente. Fra le tesi che vanno controcorrente, particolarmente originale mi sembra quella dell'antropologo Renè Girard. Per lui il mito, che è parte integrante del sacro, ha una struttura ed un significato leggibile in modo netto. Questo vale per tutti i miti, aldilà della differenza di racconto: e questo significato non è fantasioso in quanto si riferisce, nella sua struttura elementare, ad eventi che sono effettivamente accaduti e che accadono continuamente sulla scena della storia umana: si tratta di un meccanismo sociale che si ripete e si istituzionalizza. Ovvero il mito ha radici storiche che cerca di occultare. 

Edipo, ad esempio, depurato dell'aura poetica di Sofocle e di tutti gli elementi eroici e sovrannaturali, è la storia di una violenza che si sviluppa all'interno di un mondo chiuso e statico in cui le coscienze dei singoli sono tormentate da sensi di colpa e da necessità di punizioni e soprattutto dalla ricerca del colpevole che deve pagare per tutti. Così interpretata la storia di Edipo si è ripetuta infinite volte sulla scena umana, in ogni parte della terra. Questo racconto è perciò presente in forme narrative svariate, nella mitologia di tutti i popoli: storie di streghe e di untori, di malattie e di guarigioni, di perseguitati e di ebrei, infinite forme di ricerca del capro espiatorio. Da tutte queste storie e da tutti i miti si può ricavare uno schema di lettura piuttosto lineare. Si parte sempre da una condizione di crisi sociale. Poco importa che si tratti di guerra, di carestia, di epidemia; quello che conta è che la crisi sia così forte da travolgere ogni idea di ordine sociale. Tutto è rimesso in discussione, nulla mantiene il suo valore e la sua forma, tutto diventa indifferenziato. La confusione è grande, il disordine regna sovrano, dappertutto la violenza si manifesta in forma cieca e selvaggia. Lo stato di crisi coinvolge tutti a tal punto che la domanda ricorrente diventa necessariamente quella sulla identità del colpevole. Di chi è la colpa? Non può non esserci un colpevole. All'origine di tutto ci deve essere qualcuno che si è reso colpevole di un sacrilegio, di un tradimento o di un atto gravissimo (incesto, parricidio..). La cosa più importante è stabilire come questa ricerca debba essere fatta, quali saranno i segni dai quali sarà riconoscibile il colpevole. È inutile pensare di trovare nessi causali meccanici poiché nella ricerca di questi segni si scatena tutto il materiale dell'immaginario più profondo. E subito appaiono come potenziali vittime privilegiate coloro che mostrano i segni di una diversità rispetto agli altri. La crisi di indifferenziazione ha travolto tutto ma i diversi continuano a rimanere tali: donne, ebrei, handicappati, stranieri, miscredenti. Non occorrono prove poiché sono le persone stesse a recare i segni della loro colpevolezza. Individuato il colpevole, egli deve essere punito. E poiché è la sola esistenza del diverso che definisce la sua colpevolezza, egli dovrà essere eliminato. Meglio se alla punizione della legge si sostituisca il linguaggio collettivo. Unita nel punire il colpevole, la comunità è in condizione di ritrovare o di ricostruire i suoi valori, le sue regole, i suoi sistemi di ordine.

La logica sviluppata da Girard è sicuramente molto rigorosa, soprattutto in relazione ai cosiddetti "testi di persecuzione" di cui la storia è piena. Sicuramente più difficile è dimostrare sia sempre una tale storia ad annidarsi dietro i miti, dietro tutti i miti. Eppure secondo Girard tutti i miti sono racconti di persecuzione e tutti parlano di una violenza che crea e ricrea le condizioni di una ordinata convivenza sociale. Ai fini del nostro discorso non interessa tanto se la spiegazione dei miti sia davvero convincente e scientifica; del resto si può notare che tutti gli studiosi dei miti tendono unilateralmente a creare una unica chiave interpretativa rispetto alla complessità del campo di ricerca. A noi interessa capire perché i miti parlino così frequentemente di violenza. L'ipotesi che si può formulare a riguardo è che la violenza stessa sia alla base della fondazione di quell'ordine simbolico che sta a fondamento di ogni forma politica. 

La spiegazione di Girard prende le mosse dal mimetismo proprio del mondo animale. La comunicazione avviene sempre con il comportamento e l'apprendimento con l'imitazione. Ma il meccanismo mimetico contiene in sé le potenzialità di un conflitto distruttivo. Non è possibile che due mani tendano contemporaneamente allo stesso oggetto e che entrambe se ne approprino. Se poi l'oggetto è il cibo è evidente che non è possibile l'imitazione dato che il primo, appropriandosi di esso, lo consuma. C'è un solo modo per risolvere radicalmente il problema: uccidere l'altro. Così il mimetismo, che costituisce l'essenza fondante del legame sociale, è anche la causa prima dell'aggressività. Nel mondo animale il conflitto mimetico viene in genere risolto mediante la fuga e la conseguente costituzione di una gerarchia sociale. Nel mondo umano, al contrario, il mimetismo permane, anzi si intensifica, soprattutto a causa del lungo protrarsi dell'infanzia. Il desiderio che sta alla base dei processi mimetici non si orienta solo sugli oggetti del conflitto ma si concentra contro la persona antagonista, che è ad un tempo modello ed ostacolo. Mimesi e desiderio di eliminazione si sviluppano, si raddoppiano, dato che ciascuna delle due parti è specchio dell'altra, e si moltiplicano. La crisi di indifferenziazione rischia di diventare generale e di esplodere come in un hobbesiano bellum omnium contra omnes. 

Come nel modello hobbesiano anche nello schema di Girard questa condizione di naturalità avrebbe portato la specie umana alla totale autodistruzione. Ma se essa è riuscita a salvarsi ciò significa che è stata trovata una strada efficace. E non si tratta tanto del patto sociale di sottomissione al potere, quanto del processo di ricerca e di punizione di una vittima. Così è nata la società, con un atto di violenza nei confronti di una vittima, eliminando lo stato di indifferenziazione ed imponendo il suo annientamento. La società non è mai iniziata con un contratto ma con l'eliminazione di una vittima innocente. Questo è accaduto alle origini della civiltà, questo si ripete innumerevoli volte nel corso della storia umana, con la differenza che solo la prima volta tutto accade allo stato puro; successivamente subentra la mediazione di simbologie e di istituzioni. L'eliminazione della vittima induce tutti a riconoscersi uniti ed uguali attorno ad essa ma ognuno con la sua individualità ed il suo ruolo diverso dagli altri. La fine dell'indifferenziazione crea le condizioni di pace. È la morte della vittima che ricrea l'ordine; la vittima è dunque sacra; la comunità si percepisce come del tutto passiva nei confronti della sua vittima che appare la sola responsabile di tutta la vicenda. 

La tesi di Girard assomiglia per alcuni aspetti a quella freudiana dell'orda primitiva che sarebbe giunta all'ordine sociale mediante la punizione, da parte del padre, dei figli colpevoli di desideri ed atti incestuosi. Ma le differenze non sono poche. Prima di tutto nella ipotesi di Girard il desiderio non ha un carattere sessuale ma nasce da un più generale spirito mimetico. In secondo luogo non c'è alcun senso di colpa nella eliminazione della vittima, mentre per Freud è il senso edipico che sta alla radice di ogni colpa; ma soprattutto, il parricidio originario è per Freud un atto unico che mantiene la sua efficacia nelle generazioni successive a causa di una sorta di ereditarietà dei caratteri psichici, mentre per Girard, la violenza vittimaria si ripete continuamente sulla scena storica. Con una differenza di intensità più che di natura. Insomma, se la prima volta tutto accade per superare una crisi di indifferenziazione giunta al punto limite, successivamente il sacrificio vittimario serve a prevenire la crisi stessa. Il sacrificio diventa dunque la più importante istituzione sociale, la più sacra nel senso religioso del termine. 

Con la istituzione del sacrificio, il conflitto mimetico è stato inquadrato con alcune regole, le prime regole sociali. La pre-costituzione di regole consente di conoscere in anticipo i criteri di identificazione delle vittime potenziali. I risultati precedenti alla eliminazione sono prestabiliti: la vittima verrà separata dalla comunità in spazi simbolici, sarà additata all'odio furioso per essere portatrice del male ma anche alla venerazione per il suo prossimo potere salvifico. La vittima, già scelta e non ancora eliminata, sarà per qualche tempo al centro della comunità perché deve mostrare a tutti la sua colpevolezza ma contemporaneamente deve mostrare anche la sua infinita capacità salvifica. Ecco perché in origine la principale vittima designata è il re e lo spazio originario in cui esso si mostra è proprio quello del potere. L'investitura del re reca tutti segni della scelta vittimaria; verso di lui c'è odio e disprezzo ma anche rispetto ed obbedienza. L'effettivo sacrificio del re deve essere stato, almeno in origine, la regola, non l'eccezione. Successivamente egli è diventato una sorta di vittima permanente che senza essere uccisa assume su di sé tutta la violenza nascosta nella società. Il re diventa una sorta di Dio vivente. Ma si sa già che se si produrrà una grave crisi di indifferenziazione egli è pur sempre la vittima designata. Carlo I o Luigi XVI non sono stati uccisi per le loro responsabilità oggettive, ma proprio in quanto re. Questo è il destino amaro del potere, con la sua intrinseca violenza. Nell'ordine politico non ci sarà mai la salvezza, perché dove c'è violenza non c'è salvezza. Nessun meccanismo sociale è esente dalla violenza; essa non può mai essere eliminata, può solo essere depotenziata e guidata; ma è sempre pronta a riesplodere. 

La forma più efficace ed alta di controllo razionale della violenza si è realizzata con la nascita dei sistemi giudiziari. Il processo penale è una vera sostituzione del sacrificio. La vendetta, che è al centro del meccanismo sacrificale, viene sostituita. Formalmente si tratta di una vendetta, cioè di una punizione del colpevole e non di una vittima sacrificale innocente, ma quel che più conta è che in questo caso non agiscono la vittima o il suo gruppo ma un terzo, che è rimasto estraneo al processo di violenza. Il giudizio sostituisce il vendicatore. La pena è una vendetta, ma la sua applicazione riesce a fermare la spirale vendicativa a causa della sua struttura asimmetrica. Infatti il giudice non sta sullo stesso piano delle parti in lite, la sua autorità è riconosciuta, egli rappresenta l'umanità sociale, non è il doppio né dell'offeso né del criminale. La violenza giudiziaria è definitiva perciò è straordinariamente efficace sul piano sociale. Eppure non ci si deve illudere che la civiltà giudiziaria rappresenti una conquista definitiva e sicura. Basta guardare la grande facilità con cui, nei regimi totalitari, la situazione regredisce verso il terreno sacrificale. La quantità di violenza intrinseca nei sistemi totalitari è tale per cui l'apparato di punizione torna ad essere apparato per la scelta della vittima. I sistemi giudiziari negli stati totalitari vanno alla ricerca costante di capri espiatori, scatenando contro di loro l'odio di massa. I giudici diventano strumenti tesi ad estorcere le confessioni e non sono più collocati in una posizione asimmetrica tra le parti. Essi diventano tribunali speciali per la sicurezza dello stato del potere. 

Dopo una analisi così fortemente pessimistica Girard indica nella trascendenza cristiana l'unica vera via di uscita. Il cristianesimo è la sola religione non sacrificale, nel senso che ha messo a nudo il grande arcano, che la vittima è sempre innocente, mentre colpevoli sono i persecutori. Colpevole è il potere, colpevole è la violenza annidata nell'animo di tutti. Conclusioni fortemente discutibili, come del resto tutto l'argomentare di Girard, ma non prive di una capacità di penetrazione negli anfratti più sepolti della nostra psiche, rispetto ai quali un desiderio positivista non si mette neppure in condizione di tentare l'avventura conoscitiva.

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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