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Le ragioni della politica - dieci temi di ragionamento e di ricerca

(TEORIA POLITICA E PRIMATO DELLA GIUSTIZIA)

Concetti come: libertà, sacro, eguaglianza, contengono dentro di sé non solo elementi valutativi (la maggiore o minore desiderabilità) ma anche descrittivi ed empirici. Al contrario, la giustizia non è una cosa visibile, anzi non è neppure una cosa, è solo una valutazione. A meno che non si dia per scontato che giustizia coincida con legalità, oppure, come hanno sostenuto molti, con eguaglianza. Ma in questo caso la confusione tra fatti e valori sarebbe piena, nel senso che l'eguaglianza verrebbe assunta, aldilà del suo dato empirico, come valore di giustizia. 

Il pensiero greco partiva dall'idea che giustizia e moralità fossero sinonimi (Platone) o strettamente collegati. Per Aristotele la giustizia è una parta della virtù, nel senso che non si riferisce al giudizio sul comportamento di un singolo individuo, ma a quello di classi di individui, quando tra di essi bisogna distribuire oneri e/o benefici. Giustamente Hume faceva notare che se gli uomini fossero buoni e non egoisti e se le risorse non fossero scarse rispetto ai bisogni, il problema della giustizia non esisterebbe ed essa verrebbe sostituita da altre e più nobili virtù. Dunque egoismo e scarsità delle risorse sono i punti di riferimento per ogni teoria della giustizia. Sempre Aristotele identifica il cuore del problema nella distribuzione di beni, di cariche, di oneri e considera la giustizia riparativa, quando una persona ha subito danni ingiusti, come una sottoclasse di quella distributiva. Il compito di una teoria della giustizia è perciò quello di fornire la "macchina" con cui valutare meriti e demeriti relativi alla distribuzione.

Entrando nel merito, si constata che talora i criteri di giustizia sono vuote ripetizioni. Così, ad esempio, dire che è giusto "dare a ciascuno il suo" è una pura tautologia. Questo criterio ci fornirebbe una valida giustificazione anche nel rinchiudere alcune persone in un lager, o nell'escludere alcuni cittadini dal diritto di voto. Altre volte i criteri di giustizia sono meramente formali, ma non vuoti o tautologici. Tale è la teoria che identifica il giusto con la legalità. Le azioni giuste si adeguerebbero sempre alle norme giuridiche positive. Questa è la posizione di Hobbes: nello stato di natura non ci sono norme giuste nel senso che non ci sono norme; è solo quando lo stato coercitivo, nato dal contratto, costringe tutti a rispettare le norme, che si realizza la giustizia. Ma i teorici di una concezione sostanziale della giustizia obiettano che certamente possono esistere leggi ingiuste; perciò si impone la ricerca di un criterio sostanziale. Le risposte, come è ovvio, sono diverse. Alcune teorie assumono come riferimento le caratteristiche personali e sociali degli individui (sesso, razza, religione, posizione sociale...) per sostenere o che sia giusto fornire chance maggiori per i più avvantaggiati oppure il suo contrario, che è giusto fornire un qualche compenso per gli svantaggi iniziali. E ciò almeno fino ad un livello minimo che garantisce a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Altre teorie si rifanno al criterio del merito, calcolato secondo quantità e qualità del lavoro.

Tutte le teorie hanno dovuto, comunque, confrontarsi con il tema dell'eguaglianza. Le posizioni oscillano su tutti i punti intermedi tra i due estremi (per Platone le norme distributive per essere giuste devono essere ineguali, secondo lo schema della divisione tripartita della società, per Rousseau la giustizia è solo l'eguaglianza). Oggi molti tendono a pensare che l'eguaglianza sia giusta per quanto riguarda i diritti civili e quelli politici; giusta pure per quanto riguarda la soddisfazione di bisogni minimi essenziali; ma oltre questi livelli sembra più giusto introdurre principi di differenziazione in base al merito.

Naturalmente resta irrisolta l'antica disputa filosofica se esista in sé, in re o ante rem, il vero modello di giustizia; o se invece sia solo alla convenzione umana ed all'artificio che ci si debba rifare. Coloro che credono nel modello in sé o sono intuizionisti, nel senso che la nostra mente possiede questa facoltà di "presa diretta" con il modello, o sono naturalisti nel senso che il modello può essere scoperto anche attraverso procedure empiriche descrittive. Quelli che non credono al modello sottolineano che il termine giustizia contiene giudizi di valore il cui fondamento è solo l'emotività. Interessante al riguardo è il punto di vista di J. Rawls, secondo il quale persone auto-interessate e relazionali, chiamate ad impegnarsi per produrre un modello di giustizia, senza sapere quale sia la propria condizione particolare, sarebbero in grado di farlo sulla base di un istituto razionale che li spingerebbe alla stipulazione di un contratto sociale giusto. Una posizione, non priva di problematicità, che si ricollega a quella di Kant. La teoria più radicale in materia di giustizia è quella che, identificandola con l'eguaglianza, si spinge fino alla condanna della proprietà privata come fonte di tutti i mali. Cominciò Platone dicendo che ricchezza e povertà sono entrambe nocive per la giusta società. E gli diede ragione T. Moro (Utopia, 1516): "dovunque c'è la proprietà privata non è possibile che la vita dello Stato si svolga giusta e prospera...non è possibile il progresso dell' umanità se prima non sarà abolita la proprietà privata". Ed anche T. Campanella (La città del sole; 1923): "la proprietà è la principale ragione che rende gli uomini vili, furbi, fraudolenti, ladri...egoisti". Rousseau, pur considerando la disuguaglianza un male e la proprietà come la sua causa, più che all'abolizione di essa pensava ad una sua distribuzione minuta e capillare per tutti. Ai socialisti utopisti moderni, inclini a ripetere temi e modelli platonici, Marx contrapponeva una idea di società giusta legata al superamento della forma capitalistica. Il male non sta nella proprietà in sé ma nella proprietà esclusiva dei mezzi di produzione industriali, soprattutto quando essi vengono restringendosi in mano a gruppi oligopolistici. L'uguaglianza da questo punto di vista consiste inevitabilmente in un prendere ad alcuni, i capitalisti, per dare ad altri, i lavoratori. Tanto più che secondo la teoria del valore-lavoro sono questi ultimi gli unici veri creatori del valore delle merci. Ma questo risultato di uguaglianza va perseguito non con il mero trasferimento della proprietà privata dei mezzi di produzione quanto con la socializzazione di essi. Il possesso comune dei mezzi produttivi eliminerebbe, secondo l'autore del Manifesto, ogni forma di sfruttamento di una classe sull'altra; e con l'abolizione delle distinzioni di classe tutte le disuguaglianze sociali e politiche derivanti da esse scomparirebbero automaticamente.

Ma il completo livellamento dei beni viene da molti considerato utopistico perché esclude le disuguaglianze personali tra gli individui. Già Aristotele confutò aspramente l'ideologia comunistica e livellante. Egli non ignora gli inconvenienti anche gravi di un sistema basato sulla proprietà privata e sulle differenze sociali; ma il livellamento utopico presenta rischi peggiori. La disuguaglianza sociale è per Aristotele fonte permanente di conflitto tra coloro che hanno alti redditi e lavorano poco e i più che lavorano molto e ricevono poco. Aristotele, anticipando talune teorie moderne, consiglia una strada correttiva, un sistema di leggi varie che ridistribuisca i beni in modo equo. "È possibile che la proprietà sia privata, ma che essa per l'uso diventi comune. L'ingenerare nei cittadini tale coscienza è compito del legislatore." Platone assegna ai filosofi, divenuti legislatori, il compito di "ripulire la tela" cioè di ricostruire su basi egualitarie una società totalmente nuova. Per Aristotele, e per tanti altri dopo di lui, fino a K. Popper, questa teoria di fare della società una tabula rasa e ricominciare da capo e tracciare su di essa un sistema sociale del tutto nuovo è un'idea assurda e pericolosa. 

Ai principi aristotelici sembra ispirarsi tutto il contrattualismo moderno cioè tutte quelle teorie politiche che vedono l'origine della società ed il fondamento del potere politico in un accordo tacito o espresso tra più individui. L'intrinseca razionalità della posizione contrattualistica spinge a ritenere che sia possibile dare fondamento ad una accettabile teoria della giustizia. Tale è la strada recentemente esplorata da J. Rawls. Egli formula la sua teoria della giustizia a partire dalla concezione tradizionale del contratto sociale, Locke, Rousseau, e soprattutto Kant, abbandonando invece la strada imboccata dagli utilitaristi (Hume, Smith, Bentham, Mill...) per le intrinseche contraddizioni riscontrate nel concetto di utilità ed anche nelle varianti ad esso apportate dalla scuola intuizionistica. 

La teoria di Rawls si basa su alcune idee intuitive fondamentali. Si parte dal presupposto che nessuna comunità umana può essere ritenuta accettabile se non esiste tra i suoi membri un certo grado di accordo su cosa si intende per giustizia, sui principi che la regolano, sulle istituzioni fondamentali in grado di soddisfarla. La teoria della giustizia, poi, ha come oggetto principale le strutture fondamentali della società, il modo in cui esse definiscono diritti e doveri per ciascuno ed i criteri di suddivisione dei benefici e non tanto i comportamenti dei singoli. È difficile dire con esattezza quali siano queste strutture fondamentali; tali sono ad esempio la famiglia, il mercato, la proprietà...sono esse che devono venir valutate rispetto ad una concezione della giustizia che fornisca uno standard di riferimento. Così facendo non si giunge a definire in modo completo un ideale sociale ma se ne individua un aspetto importante. Da questo punto di vista la giustizia va intesa come equità e cioè come un "accordo originario che persone libere e razionali, preoccupate di proseguire i propri interessi, accetterebbero in una posizione di uguaglianza per definire i termini fondamentali della associazione"; un contratto sociale, dunque nel quale lo stato di natura è definito come condizione per le scelte razionali, cioè di adeguatezza di mezzi rispetto ai vantaggi che ciò comporta. Le istituzioni di sfondo della giustizia richiedono poi anche qualche attenzione a meccanismi, come il risparmio, tendenti a proiettare nel tempo le dinamiche economiche e sociali, interessando così le generazioni future. In conclusione, non esiste un modello assoluto e perfetto di istituzioni giuste. La teoria proposta da Rawls si proietta anche in campo morale, nel senso che interferisce con il concetto di bene o di male, dei diritti e dei doveri applicati agli individui. Insomma, la giustizia e la bontà sono congruenti fra di loro, all'interno di una società bene ordinata; la teoria della giustizia si collega al bene dell'individuo ed a quello della collettività. Persino le strutture familiari ed educative producono effetti di socializzazione idonei a costruire modelli razionali di personalità, quei modelli che Rawls ha preso in considerazione nella condizione originaria.

La teoria di Rawls, che pure incontra molti sostenitori, non è esente da critiche e limiti. Ed in effetti c'è da dubitare che la gente comune in carne ed ossa, con un forte senso dell'identità, in possesso di propri beni, possa mai comportarsi secondo il modello della scelta razionale imparziale di Rawls. M. Walzer preferisce partire da una angolatura di tipo pluralistico. In fatto di giustizia distributiva la storia mostra una grande varietà di ideologie e di assetti. Cercare sempre l'unità porta ad un fraintendimento della giustizia distributiva. La giustizia è una costruzione dell'uomo e pertanto non c'è una sola strada per realizzarla. Il particolarismo storico e culturale porta alla constatazione che esistono concezioni diverse di beni sociali e quindi differenti procedure di distribuzione. Eppure nel pluralismo delle forme e delle procedure, l'idea di giustizia rimane strettamente legata a quella di eguaglianza. Ma l'eguaglianza non può essere quella imposta dalla repressione da parte del potere politico contro quei gruppi sociali e professionali che grazie alle proprie qualità inevitabilmente rivendicano una parte dei vantaggi sociali che appare sproporzionata. L'uguaglianza non può essere una società livellata e resa piatta dalla repressione politica. In origine il significato di eguaglianza è negativo: bisogna abolire non tutte ma un insieme particolare di differenze, ritenute ingiuste. I suoi obiettivi sono sempre stati specifici: il privilegio aristocratico, la ricchezza capitalistica, il potere burocratico, la supremazia razzista e sessuale.

La politica egualitaria non nasce perché esistono le differenze, ma dal rapporto che si crea tra i diversi, quando i poveri sono tali perché camminano sulle loro teste, quando chi ha il potere opprime chi non lo ha. Lo scopo dell'egualitarismo politico è una società libera dal dominio. "Questa è l'estrema speranza nominata dalla parola eguaglianza; mai più inchini e prostrazioni, mai più abolizioni e senilismi, mai più tremare per la paura, mai più altezza ed eccellenza, mai più servi né padroni. Non è la speranza di abolire le differenze...gli esseri umani sono eguali quando nessuno possiede o controlla gli strumenti del dominio"(M. Walzer). Ciò che si vuole raggiungere con l'eguaglianza è una società in cui nessun bene sociale serva da strumento di dominio.

Fuori da questi principi comuni l'analisi concreta dei contenuti di una teoria della giustizia deve essere particolaristica, calata nelle molteplici articolazioni delle esperienze storiche e concrete. Bisogna affrontare i significati concreti che hanno per noi la sicurezza ed il benessere, il denaro, le cariche pubbliche, l'istruzione, il tempo libero, il potere politico e così via; cosa rappresentano nella vita di ognuno di noi e come questi beni sociali possano essere condivisi, spartiti, scambiati quando si fosse liberi da ogni dominio. Ciò che rende interessante la ricerca di M. Walzer, o tante altre analoghe, è che si preferisce mettere al centro della teoria non una concezione universalistica ed astratta della persona umana e della sua natura, ma piuttosto una visione ricca di beni sociali.

Elenco testi

Introduzione

Premessa

Politica / Politico

Natura e genesi del legame sociale
Forza, potere, autorità
La violenza ed il sacro
Libertà: una, due o tre?
Teoria politica e primato della giustizia
Valori e regole della democrazia
Stato, ordinamento giuridico e politica
Miti, riti e simboli della politica
Pace e guerra

Conclusione

Bibliografia

 

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