Bisogna assolutamente che questa questione della spogliazione legale si chiarisca e non ci sono che tre modi. O che i pochi spoglino i molti. O che tutti spoglino tutti. O che nessuno spogli nessuno. Spogliazione parziale, spogliazione universale, assenza di spogliazione : bisogna scegliere. La Legge non può che perseguire questi tre risultati. Spogliazione parziale. E’ il sistema che ha prevalso finché l’elettorato è stato parziale, sistema al quale si ritorna per evitare l’invasione del socialismo. Spogliazione universale. E’ il sistema del quale siamo stati minacciati quando l’elettorato è divenuto universale, quando la massa ha concepito l’idea di legiferare sulla base del principio applicato dai legislatori che l’avevano preceduta. Nessuna spogliazione. E’ il principio della giustizia, della pace, dell’ordine, della stabilità, della conciliazione, del buon senso, che io proclamerò con tutte le forze, ben insufficienti purtroppo, dei miei polmoni, fino al mio ultimo respiro.
E, in sincerità, può qualcosa di altro essere richiesto alla Legge? La Legge, avendo come strumento necessario la forza, può essere ragionevolmente impiegata per altro scopo che non quello di conservare ognuno entro il proprio diritto? Io sfido chiunque a farla uscire da questo confine senza capovolgerla e, di conseguenza, senza volgere la forza contro il diritto. E poiché quella è la perturbazione sociale più funesta e più illogica che si possa immaginare, occorre ben riconoscere che la vera soluzione, tanto cercata, del problema sociale, è racchiusa in semplici parole: la Legge è la Giustizia organizzata.
Ora, rammentiamolo bene : organizzare la Giustizia per mezzo della Legge, cioè per mezzo della forza, esclude l’idea di organizzare per mezzo della Legge o per mezzo della forza una qualunque manifestazione della attività umana: il lavoro, la carità, l’agricoltura, il commercio, l’industria, l’istruzione, le belle arti, la religione; perché non è possibile che una di queste organizzazioni secondarie non annulli l’organizzazione essenziale. Come si potrebbe immaginare, in effetti, una forza che agisca sulla libertà dei cittadini, senza portare offesa alla Giustizia, senza agire contro il proprio scopo? Io mi sto scontrando con il più popolare dei pregiudizi della nostra epoca. Non soltanto si vuole che la Legge sia giusta; si vuole anche che sia filantropica. Non ci si contenta che garantisca ad ogni cittadino il libero e non offensivo esercizio delle sue facoltà, applicato al suo sviluppo fisico, intellettuale e morale; si esige dalla Legge che essa sparga direttamente sulla nazione il benessere, l’istruzione e la moralità. E’ il lato seducente del socialismo. Ma, lo ripeto, queste due missioni della Legge si contraddicono. Bisogna scegliere. Il cittadino non può nello stesso tempo essere libero e non esserlo. De Lamartine mi scriveva una volta: “La vostra dottrina non è che la metà del mio programma; voi vi siete fermato alla libertà, io sono arrivato alla fraternità”. Io risposi: “La seconda parte del vostro programma distruggerà la prima”. E, in effetti, mi è del tutto impossibile separare la parola fraternità dalla parola volontaria. Mi è del tutto impossibile concepire la fraternità forzata, legalmente, senza che la Libertà ne sia legalmente distrutta, e la Giustizia legalmente calpestata. La spogliazione legale ha due radici : la prima, l’abbiamo visto, nell’egoismo umano ; la seconda è la falsa filantropia.
Prima di andare oltre, credo mi debba spiegare sulla parola spogliazione. Io non la prendo, come si fa troppo spesso, in una accezione vaga, indeterminata, approssimativa, metaforica : me ne servo in modo del tutto scientifico, come esprimendo l’idea opposta a quella di proprietà. Quando una porzione di ricchezza passa da colui che la ha acquisita, senza il suo consenso e senza alcuna compensazione, a colui che non la ha creata, che sia per forza o che sia per rapina, io sostengo che vi è un attentato alla proprietà, che vi è spogliazione. Io sostengo che è proprio là che la Legge dovrebbe reprimere, sempre e ovunque. E quando la Legge stessa commette un atto che dovrebbe reprimere, io dico che non vi è minore spogliazione; anzi, socialmente parlando, vi sono circostanze aggravanti. Soltanto, in questo caso, non è quello che approfitta della spogliazione il colpevole; è la Legge, è il legislatore, è la società: questo ne fa un pericolo politico.
E’ increscioso che questa parola abbia qualcosa che ferisce. Io ne ho inutilmente cercata un’altra, perché mai, tantomeno oggi, io vorrei gettare nel mezzo delle nostre discordie una parola irritante. Così, che lo si creda o non, io dichiaro che non intendo accusare le intenzioni o la moralità di chicchessia. Io attacco una idea che ritengo falsa, un sistema che mi appare ingiusto, ingiusto così oltre le intenzioni, che ognuno di noi ne approfitta senza volerlo e ne patisce senza saperlo. Bisogna scrivere sotto l’influenza di uno spirito di partito o della paura per mettere in dubbio la sincerità del protezionismo, del socialismo e persino del comunismo, che non sono che una sola ed identica pianta, in tre momenti diversi della sua crescita. Tutto ciò che si potrebbe dire, è che la spogliazione è più visibile, per la sua parzialità, nel protezionismo, per la sua universalità, nel comunismo; da cui segue che dei tre sistemi il socialismo è ancora il più vago, il più indeciso e di conseguenza il più sincero. Comunque sia, convenire che la spogliazione legale abbia una delle sue radici nella falsa filantropia, è, evidentemente, lasciare le intenzioni fuori dalla discussione.
Inteso questo, esaminiamo che cosa valga, da dove venga e dove finisca questa aspirazione popolare che pretende di realizzare il bene generale attraverso la spogliazione generale. I socialisti ci dicono : poiché la Legge organizza la Giustizia, perché non dovrebbe organizzare il lavoro, l’insegnamento, la religione? - Perché? Perché non potrebbe organizzare il lavoro, l’insegnamento, la religione, senza disorganizzare la giustizia.
Ricordate che la Legge coincide con la forza e che, di conseguenza, il dominio della Legge non potrebbe superare legittimamente il dominio legittimo della forza. Quando la Legge e la forza trattengono un uomo nella Giustizia, non gli impongono altro che una pura negazione: gli impongono di astenersi dal nuocere. Non attentano né alla sua personalità, né alla sua libertà, né alla sua proprietà; esse salvaguardano soltanto la personalità, la libertà e la proprietà degli altri. Si tengono sulla difensiva; difendono il diritto uguale per tutti. Compiono una missione la cui innocuità è evidente, l’utilità palpabile e la legittimità incontestata. Ciò è vero al punto che, come mi faceva notare un amico, dire che lo scopo della Legge è quello di far regnare la Giustizia, equivale ad impiegare una espressione non proprio esatta rigorosamente. Bisognerebbe infatti dire: lo scopo della Legge è quello di impedire alla non-giustizia di regnare. In effetti, non è la Giustizia ad avere esistenza propria, è la non-giustizia. L’una risulta dalla assenza dell’altra.
Quando la Legge – per mezzo del suo agente necessario, la forza, impone un modo di lavoro, un metodo o una materia di insegnamento, una fede o un culto, non è più negativamente che agisce sugli uomini, ma positivamente. Essa sostituisce la volontà del legislatore alla loro propria volontà, l’iniziativa del legislatore alla loro propria iniziativa. Essi non devono più consultarsi, confrontare, prevedere: la Legge fa tutto quello per loro. L’intelligenza diviene allora un arredamento inutile, smettono di essere uomini, perdono la loro personalità, la loro libertà, la loro proprietà. Cercate di immaginare una forma di lavoro imposta dalla forza, che non sia un attentato alla libertà ; un trasferimento di ricchezza imposto dalla forza, che non sia un attentato alla proprietà. Se non ci riuscite, accettate allora che la Legge non possa organizzare il lavoro e l’industria senza organizzare la non-giustizia.
Quando, dal fondo del suo studio, un intellettuale getta il suo sguardo sulla società, è colpito dallo spettacolo di disuguaglianza che gli si offre. Egli geme sotto le sofferenze che sono il destino toccato ad un così grande numero di nostri fratelli, sofferenze delle quali l’aspetto è reso ancora più rattristante dal contrasto del lusso e dell’opulenza. Egli dovrebbe forse domandarsi se una tale situazione sociale non abbia per causa delle antiche spogliazioni, esercitate con il mezzo della conquista, e delle nuove spogliazioni, esercitate per mezzo delle Leggi. Egli dovrebbe chiedersi se, considerata come certa l’aspirazione di tutti gli uomini al benessere e al perfezionamento, il regno della Giustizia non sia sufficiente per realizzare la più grande attività del progresso e la più grande somma di eguaglianza, insieme compatibili con quella responsabilità individuale che Iddio ha stabilito come giusta retribuzione delle virtù e dei vizi.
Ed il nostro intellettuale non sogna soltanto. Il suo pensiero si muove verso combinazioni, accordi, organizzazioni legali o fittizie. Cerca il rimedio nel perpetuare o nell’esagerare ciò che ha prodotto il male. Perché al di fuori della Giustizia che, come abbiamo visto, non è altro che una negazione, vi è forse qualcuna di queste sistemazioni legali che non racchiuda il principio della spogliazione? Voi dite : ecco degli uomini in povertà – e vi rivolgete alla Legge. Ma la Legge non è una mammella che si riempia da sola e le cui vene lattifere vadano a prelevare altrove che nella società. Nel tesoro pubblico non entra nulla, in favore di un cittadino o di una classe, se non quello che gli altri cittadini e le altre classi siano state obbligate a metterci. Se ciascuno non prendesse che l’equivalente di ciò che ha versato, la vostra Legge, è vero, non sarebbe spogliatrice; ma così non farebbe nulla a favore di questi che sono in povertà, non farebbe nulla per l’uguaglianza. La Legge non può essere uno strumento di eguaglianza che fino al momento nel quale prende agli uni per dare agli altri; ed in quel momento è uno strumento di spogliazione. Esaminate da questo punto di vista la protezione delle tariffe doganali, i sussidi di incoraggiamento, il diritto al profitto, il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, il diritto all’istruzione, l’imposta progressiva, la gratuità del credito, la fabbrica sociale: sempre, alla base, troverete la spogliazione legale, l’assicurazione dell’ingiustizia. Voi dite : ecco degli uomini cui mancano i lumi – e vi rivolgete alla Legge. Ma la Legge non è una fiaccola che sparga una luce sua propria. Essa aleggia su una società dove ci sono degli uomini che sanno e degli altri che non sanno; dei cittadini che hanno bisogno di apprendere e degli altri che sono disposti ad insegnare. La Legge non può che fare una sola scelta, tra le due: o lasciar svolgere liberamente questo genere di transazioni, lasciando che questo tipo di bisogni si soddisfi liberamente; oppure forzare in questo senso le volontà e prendere agli uni di che pagare dei professori incaricati di istruire gratuitamente gli altri. Ma essa non può fare sì che non vi sia, nel secondo caso, un attentato alla libertà e alla proprietà, cioè una spogliazione legale. Voi dite : ecco uomini cui mancano religione e moralità – e vi rivolgete alla Legge. Ma la Legge è la forza e non credo vi sia bisogno di dire quanto sia impresa folle e violenta, quella di fare intervenire la forza in queste materie.
A capo dei suoi sistemi e dei suoi sforzi, sembra che il socialismo, qualunque compiacenza abbia per se stesso, non possa impedire a se stesso di intravedere lo spettro della spogliazione legale. Ma che cosa fa? La nasconde abilmente a tutti gli occhi, persino ai suoi, sotto i nomi seducenti di fratellanza, solidarietà, organizzazione, associazione. E dal momento che noi non chiediamo così tanto alla Legge, poiché da quella non esigiamo che Giustizia, esso suppone che noi rigettiamo la fratellanza, la solidarietà, l’organizzazione, l’associazione, e ci getta addosso l’epiteto di individualisti. Sappia perciò che quello che rigettiamo non è l’organizzazione naturale, ma quella forzata. Che non è la libera associazione, ma le forme di associazione che pretende di imporci. Che non è la fratellanza spontanea, ma quella legale. Che non è la solidarietà provvidenziale, ma quella artificiale, che non è altro che un trasferimento ingiusto di responsabilità.
Il socialismo, come la vecchia politica dalla quale emana, confonde il governo e la società. E’ per questo che ogni volta che noi non vogliamo che una certa cosa sia fatta dal governo, il socialismo conclude che non vogliamo che quella cosa sia fatta del tutto. Noi rigettiamo l’istruzione di stato; perciò non vogliamo alcuna istruzione. Noi rigettiamo la religione di stato; perciò non vogliamo alcuna religione. Noi rigettiamo l’eguaglianza di stato, perciò non vogliamo l’eguaglianza, &cc. E’ come se fossimo accusati di non volere che gli uomini mangino, perché siamo contrari alla coltivazione del grano di stato.
Come ha potuto prevalere, nel mondo politico, l’idea bizzarra di far provenire dalla Legge quello che non contiene: il bene positivo, la ricchezza, la scienza, la religione ? Gli intellettuali moderni, particolarmente quelli della scuola socialista, fondano le loro teorie più diverse su una ipotesi comune e in assoluto la più strana e la più orgogliosa, che possa uscire da un cervello umano. Essi dividono l’umanità in due parti. L’universalità degli uomini, meno uno, forma la prima; l’intellettuale, tutto solo, forma la seconda e, di molto, la più importante. In effetti, essi cominciano con il supporre che gli uomini non portino in se stessi né un principio di azione, né un mezzo di discernimento; che sono privi di iniziativa; che sono materia inerte, molecole passive, atomi senza spontaneità, al massimo una vegetazione indifferente al suo proprio modo di esistere, suscettibile di ricevere, da volontà e mani esterne, un numero infinito di forme più o meno simmetriche, artistiche, perfezionate. Poi ciascuno di loro suppone con disinvoltura di essere proprio lui, con il nome di organizzatore o rivelatore o legislatore o istitutore o fondatore, quella volontà e quella mano, questo motore universale, questa potenza creatrice la cui sublime missione è di riunire in società quei materiali sparsi che sono gli uomini.
Movendo da questi dati, come ogni giardiniere, secondo il suo capriccio, taglia i suoi alberi a piramide, a parasole, a cubo, a cono, a vaso, a spalliera, a fuso, a ventaglio; così ogni socialista, seguendo la sua chimera, taglia la povera umanità in gruppi, in serie, in centri, in sottocentri, in alveoli, in fabbriche sociali, armoniche, contrastate, &cc., &cc. E come il giardiniere, per tagliare gli alberi, ha necessità di asce, di seghe, di roncole e di forbici, l’intellettuale, per sistemare la sua società, ha necessità di forze che può trovare solo nella Legge: leggi di dogana, leggi di imposte, leggi di assistenza, leggi di istruzione. E’ ben vero che i socialisti considerano l’umanità come materia dalle combinazioni sociali; e che se, per caso, non sono ben sicuri del successo delle loro combinazioni, essi reclamano almeno una particella di umanità come materia da esperimento: si sa quanto sia popolare tra loro l’idea di sperimentare tutti i sistemi; ed abbiamo anche visto uno dei loro capi presentarsi seriamente per domandare alla Assemblea Costituente una comune con tutti i suoi abitanti, per fare le sue prove. Nello stesso modo di ogni inventore, che fa la sua macchina in piccolo prima di costruirla in grande; nello stesso modo del chimico che sacrifica qualche reattivo, dell’agricoltore che sacrifica qualche semenza ed un angolo del suo campo, per mettere alla prova una idea. Ma quale incommensurabile distanza tra il giardiniere ed i suoi alberi, tra l’inventore e la sua macchina, tra il chimico ed i suoi reattivi, tra l’agricoltore e le sue sementi! Il socialista crede in buona fede che una analoga distanza lo separi dalla umanità.
Non bisogna stupirsi se gli intellettuali del diciannovesimo secolo considerano la società come una creazione artificiale uscita dal genio del legislatore. Questa idea, frutto della educazione classica, ha dominato tutti i pensatori e tutti i grandi scrittori del nostro paese: tutti hanno visto tra l’umanità e il legislatore lo stesso rapporto che esiste tra l’argilla ed il vasaio. Ben oltre, se hanno consentito a riconoscere, nel cuore dell’uomo, un principio di azione, e nella sua intelligenza, un principio di discernimento, essi hanno pensato che Dio aveva fatto loro, in quello, un dono funesto e che l’umanità, sotto l’influenza di questi due motori, tendeva fatalmente verso la sua degradazione. Essi hanno stabilito di fatto che, abbandonata alle sue tendenze, l’umanità non si sarebbe occupata di religione che per giungere all’ateismo, di insegnamento che per giungere all’ignoranza, di lavoro e di scambi che per gettarsi nella miseria. Fortunatamente, secondo questi stessi scrittori, ci sono alcuni uomini, chiamati governanti o legislatori, che hanno ricevuto dal cielo non solo per se stessi, ma per tutti gli altri, delle opposte tendenze. Mentre l’umanità oscilla verso il male, essi inclinano al bene; mentre l’umanità marcia verso le tenebre, essi aspirano alla luce; mentre l’umanità è trascinata verso il vizio, essi sotto attratti dalla virtù. Posto questo, essi reclamano la forza, affinché quella li metta in condizione di sostituire le loro tendenze a quelle del genere umano.
E’ sufficiente aprire, persino a caso, un libro di filosofia o di politica o di storia, per vedere quanto sia fortemente radicata nel nostro paese questa idea, figlia degli studi classici e madre del socialismo, che l’umanità sia una materia inerte che riceve dal potere la vita, l’organizzazione, la moralità e la ricchezza; o anche, ed è peggio, che da sola l’umanità tenda verso il suo degrado e non si fermi su questa china che grazie alla mano misteriosa del legislatore. Ovunque il convenzionalismo classico ci mostra, dietro alla società passiva, una potenza occulta la quale, sotto il nome di Legge, legislatore, o sotto espressioni più comode e più vaghe, muove l’umanità, la anima, l’arricchisce e la moralizza.
Bossuet: “Una delle cose che erano più fortemente impresse nello spirito degli Egizi, era l’amor di patria… Non era consentito essere inutili allo stato; la legge assegnava a ciascuno il suo impiego, che si perpetuava di padre in figlio. Non si poteva né avere una doppia professione, né cambiare di professione… Ma c’era una occupazione che doveva essere comune, ed era lo studio delle leggi e della saggezza. L’ignoranza della religione e della politica del paese non era scusata in alcuna condizione. Del resto, ogni professione aveva il suo spazio che le era assegnato (da chi?)… In mezzo a buone leggi, ciò che vi era di meglio, è che tutti erano nutriti (da chi?) nello spirito della loro osservanza… I loro mercurii hanno colmato l’Egitto di invenzioni meravigliose, e non gli avevano lasciato ignorare quasi nulla di ciò che poteva rendere la vita comoda e tranquilla…”. Così, secondo Bossuet, gli uomini non traggono nulla da se stessi: patriottismo, ricchezza, attività, saggezza, invenzioni, agricoltura, scienze, tutto proveniva loro dall’attività delle leggi o dei re. Non si trattava, per loro, che di lasciarsi fare. E’ a questo punto che Diodoro avendo accusato gli Egizi di rifiutare la lotta e la musica, viene ripreso da Bossuet. Come è possibile ciò, dice, dal momento che quelle arti furono inventate dal Trismegisto? Ugualmente avviene presso i Persiani : “Una delle prime preoccupazioni del principe era di far fiorire l’agricoltura… Allo stesso modo che vi erano incarichi stabiliti per la guida degli eserciti, così ve ne erano per sovrintendere ai lavori rurali… Il rispetto verso l’autorità reale che era ispirato ai Persiani andava fino all’eccesso…”. I Greci, benché pieni di spirito, non erano comunque meno estranei ai loro propri destini, al punto che, da se stessi, non si sarebbero elevati, come cani o come cavalli, all’altezza dei giochi più semplici. Classicamente, è un fatto sul quale tutti concordano che ai popoli tutto venga dal di fuori. “I Greci, per natura pieni di spirito e di coraggio, erano stati sviluppati fin dall’antico da re e da colonie venute dall’Egitto. Di là avevano imparato gli esercizi fisici, la corsa a piedi, a cavallo e sui carri… ma ciò che gli Egizi avevano loro insegnato di meglio era di lasciarsi fare docili, di lasciarsi formare da delle leggi destinate al bene pubblico…».
Fénelon. Nutrito nello studio e nell’ammirazione dell’antichità, testimone della potenza di Luigi XIV, Fénelon non poteva sfuggire all’idea che l’umanità sia passiva e che i suoi mali come la sua prosperità, le sue virtù come i suoi vizi, provengano all’umanità da una azione esterna, esercitata su di essa dalla Legge o da chi la fa. Così, nel suo utopico Salento, egli pone gli uomini, con i loro interessi, le loro facoltà, i loro desideri ed i loro beni, alla assoluta discrezione del Legislatore. In qualunque questione, non sono mai loro che giudicano per se stessi, è il Principe. La nazione non è che materia informe, della quale il Principe è l’anima. In lui risiede il pensiero, la preveggenza, il principio di ogni organizzazione, di ogni progresso; di conseguenza, in lui risiede la responsabilità. Per provare questa asserzione, dovrei trascrivere qui tutto il decimo libro del Telemaco. Io vi rinvio il lettore, e mi contento di citare qualche passaggio preso a caso nel celebre poema, al quale, sotto altri aspetti, sono il primo a rendere giustizia. Con quella credulità sorprendente che caratterizza i classici, Fénelon ammette, malgrado l’autorità del ragionamento e dei fatti, la felicità generale degli Egizi, che attribuisce non alla loro saggezza, ma ai loro re. “Noi non possiamo gettare gli occhi sulle due sponde senza vedere città opulente, case di campagna ben situate, terre che si ricoprono tutto l’anno di frumento dorato, senza mai riposare; praterie piene di bestiame; lavoratori piegati sotto il peso dei frutti che la terra spandeva dal suo seno; pastori che facevano ripetere il dolce suono dei loro flauti e dei loro oboe a tutti gli echi d’intorno. Felice, diceva Mentore, il popolo che è governato da un Re saggio. Poi Mentore mi faceva rimarcare la gioia e l’abbondanza sparse in tutta la campagna d’Egitto, dove si contavano fino a ventiduemila città, la giustizia esercitata in favore del povero contro il ricco; la buona educazione dei bambini che erano abituati all’obbedienza, al lavoro, alla sobrietà, all’amore delle arti e delle lettere; l’esattezza in tutte le cerimonie religiose, il disinteresse, il desiderio di onore, la fedeltà agli uomini ed il timore degli dei, che ogni padre trasmetteva ai propri figli. Egli non cessava di ammirare tutto quel bel ordine. Felice, diceva, quel popolo che un re saggio conduce in questo modo.” Fénelon, scrive, su Creta, un idillio ancora più seducente. Poi aggiunge, per bocca di Mentore: “Tutto quello che vedrete in questa isola meravigliosa, è frutto delle leggi di Minosse. L’educazione che egli faceva dare ai bambini rende il corpo sano e robusto. Dapprima li si abitua ad una vita semplice, frugale e laboriosa; si suppone infatti che i piaceri rammolliscano il corpo e lo spirito; mai si propone loro altro piacere che quello di essere invincibili nella virtù ed acquisire molta gloria… Qui si puniscono tre vizi che restano impuniti presso gli altri popoli, l’ingratitudine, la dissimulazione e l’avarizia. Per quanto riguarda il fasto e la mollezza, non vi è mai bisogno di reprimerli, perché sono sconosciuti a Creta… non ci si permette né mobili preziosi, né abiti magnifici, né deliziosi festini, né dorati palazzi”. E’ così che Mentore prepara il suo allievo a triturare ed a manipolare, senza dubbio dal punto di vista più filantropico, il popolo di Itaca, e per maggiore sicurezza, gli fornisce l’esempio di Salento. Ecco come riceviamo le nostre prime nozioni di politica. Ci viene insegnato a trattare gli uomini all’incirca come Olivier de Serres insegna agli agricoltori a trattare e mescolare le terre.
Montesquieu: “Per mantenere lo spirito del commercio, occorre che tutte le leggi lo favoriscano; che queste stesse leggi, per loro disposizione, dividano le fortune a misura che il commercio le ingrandisca, ponendo ogni cittadino povero in una così grande agiatezza da poter lavorare come gli altri, ed ogni cittadino ricco in una tale mediocrità che abbia bisogno di lavorare per conservare o per acquistare…”. Così le leggi dispongono di tutte le fortune. “Benché nella democrazia l’uguaglianza reale sia l’anima dello stato, tuttavia essa è così difficile da stabilire, che una esattezza estrema, a questo riguardo, non sarà mai conveniente. E’ sufficiente che sia stabilito un censo che riduca o blocchi le differenze ad un certo punto. Dopo di che dovranno essere delle leggi specifiche a rendere uguali le disuguaglianze, per mezzo delle imposte che imporranno ai ricchi e degli aiuti che concederanno ai poveri…”. Di nuovo, ecco l’uguaglianza delle fortune per mezzo della Legge, per mezzo della forza. “Vi erano in Grecia due tipi di repubbliche. Alcune erano militari, come Sparta; altre erano commercianti, come Atene. Nelle prime si voleva che i cittadini fossero oziosi, nelle altre si cercava di insegnare l’amore per il lavoro.” “Io prego che si dedichi qualche attenzione all’estensione del genio che è stato necessario a quei legislatori per capire che, urtando tutti gli usi ricevuti, confondendo tutte le virtù, essi avrebbero mostrato all’universo la loro saggezza. Licurgo, mescolando il furtarello con lo spirito di giustizia, la schiavitù più dura con l’estrema libertà, i sentimenti più atroci con la più grande moderazione, diede stabilità alla sua città. Sembrava toglierle tutte le risorse, le arti, il commercio, il denaro, le mura: c’è ambizione senza speranza di migliorare; ci sono i sentimenti naturali, e non si è né bambini, né mariti, né padri; persino il pudore è tolto alla castità. Per questa strada, Sparta fu condotta alla grandezza e alla gloria…”. “Questo straordinario che si vedeva nelle istituzioni della Grecia, noi lo abbiamo invece visto nella feccia e nella corruzione dei tempi moderni. Un legislatore onest’uomo ha formato un popolo al quale la onestà sembrava così naturale come il coraggio presso gli Spartiati. Il Penn è un vero Licurgo, e sebbene l’uno abbia avuto come obiettivo la pace mentre l’altro aveva la guerra, essi si rassomigliano nella via singolare sulla quale hanno messo il loro popolo, nell’ascendente che hanno avuto su uomini liberi, nei pregiudizi che hanno vinto, nelle passioni che hanno sottomesso…”. “Il Paraguay ci può fornire un altro esempio. Se ne è voluto fare un crimine per la società, di guardare al piacere di comandare come il solo bene della vita; ma sarà sempre bello il governare gli uomini rendendoli più felici…”. “Coloro che vorranno costruire delle istituzioni simili, stabiliranno la comunità dei beni della repubblica di Platone, quel rispetto che egli chiedeva per gli dei, quella separazione dagli stranieri per conservazione dei costumi, e dalle città che costruiscono commerci e non cittadini; essi daranno le nostre arti senza il nostro lusso, ed i nostri bisogni senza i nostri desideri…” L’infatuazione volgare avrà un bel gridare: è di Montesquieu, dunque è magnifico! sublime! Io invece avrò il coraggio della mia opinione e di dire: Che cosa? Avete la faccia per trovare tutto questo bello? E’ orrendo! E’ abominevole! Questi estratti, che potrei moltiplicare, mostrano che, nelle idee di Montesquieu, le persone, le libertà, le proprietà, l’umanità intera non sono che materiali adatti per esercitare la sagacità del legislatore.
E Rousseau. Benché questo intellettuale, suprema autorità dei democratici, faccia riposare l’edificio sociale sulla volontà generale, nessuno ha ammesso così compiutamente come lui l’ipotesi dell’intera passività del genere umano di fronte al legislatore. “Se è vero che un grande principe è un uomo raro, che cosa si deve dire di un grande legislatore? Il primo non ha altro da fare che seguire il modello che l’altro deve proporre. Uno è il meccanico che inventa la macchina, l’altro non è che l’operaio che la monta e che la fa funzionare”. E cosa sono gli uomini in tutto ciò? Quella macchina che si monta e che funziona, o piuttosto la materia bruta della quale la macchina è fatta!
Così tra il legislatore ed il principe, tra il principe ed i suoi sudditi, ci sono gli stessi rapporti che tra l’agronomo e l’agricoltore, l’agricoltore e la gleba. A quale altezza al di sopra dell’umanità si è dunque posto il intellettuale, che comanda agli stessi legislatori e insegna loro il mestiere in termini imperativi? “Volete dare consistenza allo stato? Avvicinate gli estremi fintantoché è possibile. Non sopportate né delle persone opulente né dei mendicanti. Il suolo è sterile o ingrato, o il paese troppo piccolo per gli abitanti? Rivolgetevi all’industria e alle arti, la produzione delle quali scambierete contro le derrate che vi mancano…Il terreno è buono, ma scarseggiano gli abitanti? Dedicate tutti i vostri sforzi all’agricoltura, che moltiplica gli uomini, e allontanate le arti, che non fanno che riuscire a spopolare il paese… Occupatevi di rive ampie e comode, coprite il mare di navi, avrete una esistenza brillante e corta. Il mare sulle vostre coste non bagna che rocce inaccessibili? Restate barbari e ittiofagi, vivrete più tranquillamente, forse meglio, e, a colpo sicuro, più felici. In una parola, ogni popolo, oltre alle conoscenze comuni a tutti, racchiude in se stesso qualche principio che lo ordina in modo particolare, e rende la sua legislazione adatta solo a lui. E’ per questo che in altri tempi gli Ebrei, e recentemente gli Arabi, hanno avuto come loro oggetto principale la religione; gli Ateniesi, le lettere; Cartagine e Tiro, il commercio; Rodi, la marina; Sparta, la guerra, e Roma, la virtù. L’autore dello Esprit des Lois ha mostrato con quale arte il legislatore diriga l’istituzione verso ciascuno di questi oggetti… Ma se il legislatore, sbagliandosi nel suo obiettivo, assume un principio differente da quello che nasce dalla natura delle cose, che uno tende alla servitù e un altro alla libertà, l’uno alle ricchezze, l’altro alla popolazione; l’uno alla pace, l’altro alle conquiste, si vedrà la legge indebolirsi sensibilmente, la costituzione alterarsi, e lo stato non smetterà di essere agitato finché non sia distrutto o cambiato e l’invincibile natura non abbia ripreso il suo comando”. Ma se la natura è così invincibile da riprendere il suo comando, perché Rousseau non ammette che essa non ha bisogno del legislatore per prendere il suo impero fin dall’origine? Perché non ammette che obbedendo alla loro propria iniziativa gli uomini si dedicherebbero da se stessi verso il commercio su coste estese e comode, senza che un Licurgo o un Solone o un Rousseau ci si mescolino, a rischio di sbagli? Comunque sia, si comprende la terribile responsabilità che Rousseau fa pesare sugli inventori, istitutori, conduttori, legislatori e manipolatori della società. A loro riguardo, è assai esigente. “Colui che osa cominciare ad istituire un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo che, di per se stesso, è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande, dal quale questo individuo riceve, in tutto o in parte, la sua vita ed il suo essere; di alterare la costituzione dell’uomo per rinforzarla, di sostituire una esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che tutti noi abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le sue proprie forze per dargliene altre che gli siano estranee…”. Povera specie umana, che cosa faranno di te gli adepti di Rousseau?
Raynal: “Il clima, vale a dire il cielo ed il sole, è la prima regola del legislatore. Le sue risorse gli dettano i suoi doveri. E’ prima di tutto la sua posizione locale ciò che deve studiare. Una popolazione gettata sulla costa del mare avrà leggi dedicate alla navigazione… Se la colonia si trova a terra, un legislatore dovrà prevedere e il loro genere e il loro grado di fecondità…”. “E’ soprattutto nella distribuzione della proprietà che brillerà la saggezza della legislazione. In generale, in tutti i paesi del mondo, quando si fonda una colonia occorre dare delle terre a tutti gli uomini, vale a dire a ciascuno una estensione sufficiente per il mantenimento di una famiglia…”. “In una isola selvaggia che sarà popolata di bambini, si dovrà solo lasciare schiudersi i germi della verità nello sviluppo della ragione… Ma quando si stabilisce un popolo già vecchio in un paese nuovo, l’abilità consiste nel non lasciargli che quelle opinioni ed abitudini dannose delle quali non può essere né guarito, né corretto. Volendo impedire che si trasmettano, si veglierà sulla seconda generazione per mezzo di una educazione pubblica e comune dei bambini. Un principe, un legislatore, non dovrà mai fondare una colonia senza prima inviare degli uomini saggi per l’istruzione della gioventù… In una colonia nascente, tutte le agevolazioni sono aperte alla precauzione del legislatore che voglia epurare il sangue ed i costumi di un popolo. Che egli abbia genio e virtù, e le terre e gli uomini che avrà nelle proprie mani ispireranno alla sua anima il piano di una società, quale uno scrittore non potrebbe mai tracciare che in modo vago e soggetto alla instabilità delle ipotesi, che variano e si complicano con una infinità di circostanze troppo difficili da prevedere e da combinare..”. Non sembra di sentire un professore di agricoltura che dice ai suoi allievi: Il clima è la prima regola dell’agricoltore? Che dice: “Le sue risorse gli dettano i suoi compiti. Prima di tutto deve studiare la sua situazione locale. Se sta su un suolo argilloso, deve comportarsi in tal modo. Se vi è sabbia, ecco cosa deve fare. Tutte le agevolazioni sono aperte all’agricoltore che vuole pulire e migliorare il suo terreno. Se avrà delle abilità, le terre e i concimi che avrà disponibili gli ispireranno un piano di lavoro, che un professore non potrebbe mai tracciare che in modo vago e soggetto alla instabilità delle ipotesi, che variano e si complicano con una infinità di circostanze troppo difficili da prevedere e da combinare”. Ma, o sublimi scrittori, volete ricordarvi qualche volta che questa argilla, questa sabbia, questo letame, di cui disponete così arbitrariamente, questi sono uomini, uguali a voi, esseri intelligenti e liberi come voi, che hanno ricevuto da Dio, come voi, la facoltà della vista, della previsione, del pensiero e del giudizio autonomi?
Malby (Egli suppone che le leggi siano consumate dalla ruggine del tempo, dalla negligenza della sicurezza, e prosegue così): “In queste circostanze, occorre essere convinti che le molle del governo si sono rilassate. Date loro una nuova tensione (è al lettore che il Mably si indirizza), e il male sarà guarito… Pensate meno a punire degli errori che ad incoraggiare le virtù delle quali avete bisogno. Con questo metodo renderete alla vostra repubblica il vigore della giovinezza. Ma se i progressi del male sono tali che i magistrati ordinari non possano rimediarvi efficacemente, ricorrete ad una magistratura straordinaria, dai tempi rapidi e dal potere considerevole. L’immaginazione dei cittadini deve allora essere colpita…”. E via così in questo stile per venti volumi. C’è stata un’epoca nella quale, sotto l’influenza di questi insegnamenti, che sono la base dell’educazione classica, ciascuno ha voluto porsi al di fuori ed al di sopra dell’umanità, per sistemarla, organizzarla, darle istituzioni a suo modo.
Condillac : « Erigetevi, mio Signore, a Licurgo o a Solone. Prima di proseguire la lettura di questo scritto, divertitevi a dare leggi a qualche popolo selvaggio dell’America o dell’Africa. Stabilite in dimore stabili questi uomini erranti; insegnate loro a nutrire delle greggi…; lavorate a sviluppare le qualità sociali che la natura ha posto in loro… Ordinate loro di cominciare a praticare i doveri verso l’umanità… Avvelenate con delle punizioni i piaceri che promettono le passioni, e voi vedrete quei barbari, ad ogni articolo della vostra legislazione, perdere un vizio ed assumere una virtù”. “Tutti i popoli hanno avuto delle leggi. Ma pochi tra loro sono stati felici. Quale ne è la causa? E’ che i legislatori hanno quasi sempre ignorato che l’oggetto della società è di unire le famiglie per mezzo di un interesse comune”. “L’imparzialità della Legge consiste in due cose: a stabilire l’uguaglianza nella fortuna e nella dignità dei cittadini… A misura che le vostre leggi stabiliranno una superiore uguaglianza, esse diverranno più care ad ogni cittadino… Come l’avarizia, l’ambizione, la voluttà, la pigrizia, l’oziosità, l’invidia, l’odio, la gelosia, potranno agitare degli uomini uguali nella fortuna e nella dignità, e ai quali le leggi non lasceranno speranza di rompere l’uguaglianza?” (segue l’idillio…). “Ciò che vi è stato detto della repubblica di Sparta deve darvi grande luce su questa questione. Nessun altro stato ha mai avuto leggi meglio conformi all’ordine della natura e dell’uguaglianza”
Non è sorprendente che il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo abbiano considerato il genere umano come una materia inerte in attesa, che riceve tutto, forma, figura, impulsi, movimento e vita, da un grande principe, da un grande legislatore, da un grande genio. Questi secoli erano nutriti dello studio dell’antichità, e l’antichità ci offre dovunque, in effetti, in Egitto, in Persia, in Grecia, a Roma, lo spettacolo di pochi uomini che manipolano a loro piacimento l’umanità asservita con la forza o con l’impostura. Che cosa prova ciò? Che, poiché l’uomo e la società sono perfettibili, l’errore, l’ignoranza, il dispotismo, la schiavitù, la superstizione, devono accumularsi già all’inizio dei tempi. Il torto degli scrittori che ho citato non è di aver costatato il fatto, ma di averlo proposto, come regola, all’ammirazione e all’imitazione delle razze future. Il loro torto è di avere, con una incomprensibile assenza di critica, e sulla fede di un convenzionalismo puerile, ammesso ciò che è inammissibile, cioè la grandezza, la dignità, la moralità ed il benessere di queste società artificiose del mondo antico; di non aver compreso che il tempo produce e propaga la luce; che, a misura che luce sia fatta, la forza passa dalla parte del diritto, e la società riprende possesso di se stessa. Ed in effetti, quale è il lavoro politico al quale assistiamo ? Non è altro che lo sforzo istintivo di tutti i popoli verso la libertà. E che cosa è la libertà, questa parola che ha il potere di far battere tutti i cuori e di agitare il mondo, se non l’insieme di tutte le libertà, libertà di coscienza, di insegnamento, di associazione, di stampa, di movimento, di lavoro, di scambio; in altri termini, l’esercizio franco, per tutti, di tutte le facoltà inoffensive; in altri termini ancora, la distruzione di tutti i dispotismi, anche il dispotismo legale, e la riduzione della Legge ai suoi soli attributi razionali, che sono di regolarizzare il diritto individuale alla legittima difesa o di reprimere l’ingiustizia. Questa tendenza del genere umano, bisogna convenirne, è grandemente contrariata, particolarmente nella nostra patria, dalla funesta disposizione, frutto dell’insegnamento classico, comune a tutti i intellettuali, di porsi al di fuori dell’umanità per sistemarla, organizzarla e darle istituzioni secondo il loro modo di vedere. Così, mentre la società si muove per realizzare la libertà, i grandi uomini che si pongono alla sua testa, imbevuti dei principi del diciassettesimo e del diciottesimo secolo, non sognano che di piegarla sotto il filantropico dispotismo delle loro invenzioni sociali e a farle portare docilmente, secondo l’espressione del Rousseau, il giogo della pubblica felicità, così come lo hanno immaginato.
Lo si vide bene nel 1789. Non appena l’antico sistema legale fu distrutto, subito ci si mise al lavoro per sottomettere la nuova società ad altre sistemazioni artificiose, sempre movendo da un solo punto convenuto: l’onnipotenza della Legge.
Saint-Just: “Il legislatore comanda all’avvenire. A lui tocca volere il bene. A lui tocca di rendere gli uomini quelli che egli vuole siano.”
Robespierre: “La funzione del governo è di dirigere le forze fisiche e morali della nazione verso lo scopo della sua istituzione”.
Billaud-Varennes: “Bisogna ricreare il popolo che si vuole rendere alla libertà. Poiché bisogna distruggere degli antichi pregiudizi, cambiare delle antiche abitudini, perfezionare delle passioni depravate, ridurre dei bisogni superflui, estirpare dei vizi inveterati ; è dunque necessaria una azione forte, un impulso veemente… Cittadini, l’inflessibile austerità di Licurgo divenne a Sparta la base indistruttibile della repubblica ; mentre il carattere debole e confidente di Solone rigettò Atene nella schiavitù. Questo parallelo racchiude tutta la scienza del governo”.
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Quello che si vede e quello che non si vede.
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