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LO STATO.

( Journal des Débats, 25 settembre 1848).

Mi piacerebbe che si fondasse un premio, non di cinquecento franchi, ma di un milione di franchi, con corona, croce e nastro, in favore di colui che fosse capace di dare una buona, semplice e intelligibile definizione di una parola: lo stato.

Che immenso servizio avrebbe reso alla società! Lo stato: che cosa è? dove sta? che cosa fa? che cosa dovrebbe fare? Tutto quello che sappiamo, è che si tratta di un personaggio misterioso; ma il più sollecitato, il più tormentato, il più affaccendato, il più consigliato, il più accusato, il più invocato e il più provocato, che ci sia al mondo.

Perché, Signor Tale, anche se non ho l’onore di conoscervi, scommetto dieci contro uno che da sei mesi voi fabbricate alle utopie; e se voi fate utopie, io scommetto dieci contro uno che voi incaricate lo stato di realizzarle. Anche voi, Signora Tal’altra, sono certo che anche voi desiderate dal fondo del cuore di guarire tutti i mali di questa triste umanità, e che non vi sentireste per niente imbarazzata se lo stato volesse prestarsi a farlo.

Ma, lo sfortunato stato, come Figaro, non sa né chi ascoltare, né da che parte girarsi. Le centomila bocche della stampa e delle tribune gridano tutte insieme:
«Organizzate il lavoro ed i lavoratori.
Estirpate l’egoismo.
Reprimete l’insolenza e la tirannia del capitale.
Fate delle esperienze sul letame e sulle uova.
Coprite il paese con delle ferrovie.
Irrigate le pianure.
Rimboscate le montagne.
Fondate delle fattorie modello.
Fondate delle officine armoniche.
Colonizzate l’Algeria.
Allattate gli infanti.
Istruite la gioventù.
Soccorrete la vecchiaia.
Mandate nelle campagne gli abitanti delle città.
Equilibrate i profitti delle industrie.
Prestate denaro senza interesse a chi lo chiede. 
Liberate l’Italia, la Polonia e l’Ungheria.
Allevate e perfezionate il cavallo da sella.
Incoraggiate l’arte, formateci dei musicisti e delle ballerine.
Proibite il commercio e contemporaneamente date vita ad una marina mercantile.
Scoprite la verità e gettate nelle nostre teste un granello di ragione. Lo stato ha come missione di illuminare, sviluppare, ingrandire, rafforzare, spiritualizzare e santificare l’anima dei popoli.»

«Ehi, Signore e Signori, un poco di pazienza – risponde lo stato con aria penosa – io proverei a soddisfarvi tutti, ma per farlo mi servono un poco di risorse. Io ho predisposto dei progetti su cinque o sei imposte del tutto nuove e tra le migliori del mondo. Vedrete che piacere a pagarle.»

Allora un gran grido si alza: «Dagli, Dagli! Bel merito fare le cose con delle risorse! Non varrebbe la pena di chiamarsi stato. Non solo non mettete su nuove tasse: noi vi imponiamo di ritirare le vecchie. Sopprimete l’imposta sul sale, l’imposta sulle bevande, l’imposta sulle lettere, il dazio, le autorizzazioni; le prestazioni obbligatorie.»

In mezzo a questo tumulto, e dopo che il paese ha cambiato due o tre volte il suo stato per non aver soddisfatto tutte queste richieste, io ho voluto far osservare che esse erano contraddittorie. Di cosa sono andato ad impicciarmi, buon Dio! Non potevo tenere per me questa malaugurata osservazione? Eccomi discreditato per sempre; ed è ormai noto che io sono un uomo senza cuore e senza viscere, un filosofo asciutto, un individualista, un borghese e, per dire tutto in una parola, un economista della scuola inglese o americana. Perdonatemi, sublimi scrittori che nulla ferma, neppure le contraddizioni. Io ho torto, senza dubbio, e mi faccio indietro di gran cuore. Io non chiedo meglio, siatene certi, che voi abbiate davvero scoperto, fuori di noi, un essere beneficente e inesauribile, di nome stato, che ha pane per tutte le bocche, lavoro per tutte le braccia, capitali per tutte le imprese, credito per tutti i progetti, olio per tutte le piaghe, balsami per tutte le sofferenze, consigli per tutte le perplessità, soluzioni per tutti i dubbi, verità per tutte le intelligenze, distrazioni per tutte le noie, latte per gli infanti, vino per gli anziani, che provvede a tutti i nostri bisogni, che previene tutti i nostri desideri, che soddisfa tutte le nostre curiosità, raddrizza tutti i nostri errori, tutti i nostri sbagli, e ci dispensa ormai previdenza, prudenza, giudizio, sagacità, esperienza, ordine, economia, temperanza, attività.

E perché io non dovrei desiderare tutto ciò? Dio mi perdoni, ma più ci rifletto, più trovo che la cosa sia ben comoda, e non vedo l’ora, anch’io, di avere alla mia portata questa fonte inesauribile di ricchezza e di conoscenza, questo medico universale, questo tesoro senza fondo, questo consigliere infallibile che chiamate lo stato.

E’ per questo che io chiedo che me lo si mostri, che me lo si definisca; è per questo che propongo la fondazione di un premio per il primo che scoprirà questa fenice. Perché, infine, mi si concederà bene che questa scoperta preziosa non è ancora stata fatta, poiché, fino ad oggi, tutto ciò che si presenta con il nome di stato, il popolo lo condanna ben presto, precisamente perché non assolve alle condizioni un poco contraddittorie del programma. Bisogna dirlo? Io temo che noi siamo, a questo riguardo, i gonzi vittime di una delle più bizzarre illusioni che mai abbiano abitato lo spirito umano.

L’uomo rifiuta la fatica e la sofferenza. E tuttavia è condannato per natura alla sofferenza della privazione, se non assume la fatica del lavoro. Non vi è dunque scelta che tra due mali. Come fare per evitarli entrambi ? Fino ad oggi non si è trovato, e non si troverà mai, che un solo mezzo: godere del lavoro altrui; è come riuscire a fare sì che la fatica e la soddisfazione non tocchino ad ognuno secondo la proporzione naturale, ma che tutta la fatica sia per alcuni e tutta la soddisfazione per altri. Da qui proviene la schiavitù, da qui proviene la spogliazione, qualunque forma essa assuma: guerre, menzogne, violenze, razionamenti, frodi, abusi mostruosi, ma coerenti con il pensiero che ha dato loro nascita. Gli oppressori, bisogna combatterli: non si può dir loro che sbagliano nel ragionare. La schiavitù, grazie al Cielo, se ne va; d’altra parte, la nostra disposizione a difendere i nostri beni, fa sì che la spogliazione diretta e semplice non sia proprio facile. Una cosa tuttavia è rimasta. E’ questa malaugurata tendenza primitiva, che portano in sé tutti gli uomini, a far due parti del destino della vita, gettando la fatica su altri e conservando la soddisfazione per se stessi. Rimane da vedere sotto quale forma nuova si manifesta questa triste tendenza.

L’oppressore non agisce più con le proprie forze sull’oppresso. No, la nostra coscienza è divenuta troppo meticolosa per quello. Ci sono ancora il tiranno e la vittima, ci sono: ma tra di loro si piazza un intermediario che è lo stato, vale a dire la legge stessa. Che cosa è più adatto a far tacere i nostri scrupoli e, cosa forse più apprezzata, che cosa è più adatto a vincere le resistenze? Dunque, tutti, a qualunque titolo, con un pretesto o l’altro, tutti noi ci rivolgiamo allo stato. Noi gli diciamo: «Io non trovo che ci sia, tra le mie felicità e il mio lavoro, una proporzione che mi soddisfi. Io vorrei, per stabilire l’equilibrio che desidero, prender qualcosa dei beni altrui. Ma questo è pericoloso. Non potrebbe, lei stato, rendermi la cosa più facile? Non potrebbe darmi un buon posto? Oppure mettere in difficoltà l’industria dei miei concorrenti? Oppure prestarmi gratuitamente dei capitali che ha preso dai loro possessori? O allevare i miei figli a spese pubbliche? O accordarmi dei premi di incoraggiamento? O assicurarmi il benessere quando avrò cinquanta anni? In questo modo, io raggiungerò il mio obiettivo in tutta tranquillità di coscienza, perché la stessa legge avrà operato per mio conto, ed io avrò della spogliazione tutti i vantaggi, senza incorrere né nei rischi né nel detestabile.

Poiché mi sembra certo, da un lato, che noi tutti indirizziamo allo stato qualche richiesta credibile, dall’altro lato, che lo stato non può dare soddisfazione agli uni senza aggiungere qualcosa al lavoro degli altri, in attesa di una nuova definizione dello stato, mi ritengo autorizzato a dare qui la mia. Chissà che non ottenga il premio. Eccola: lo stato è quella grande finzione per mezzo della quale tutto il mondo si sforza di vivere a spese di tutto il mondo.

Perché, oggi come sempre, ognuno di noi, un poco più, un poco meno, vorrebbe approfittare del lavoro altrui. Di questo desiderio, non osiamo fare pubblicità, lo dissimuliamo persino a noi stessi; e allora cosa facciamo? Immaginiamo un intermediario, ci rivolgiamo allo stato, ed ogni classe sociale a proprio turno gli dice: «Voi che potete prendere legittimamente, onestamente, prendete al pubblico, e noi divideremo». Lo stato non ha bisogno di molta spinta per seguire il consiglio diabolico: perché è composto di ministri, di funzionari, di uomini, alla fine, i quali, come tutti gli uomini, portano nel proprio cuore il desiderio colgono sempre con premura l’occasione di veder ingrandire le proprie ricchezze o la propria influenza. Lo stato capisce perciò in fretta e bene il vantaggio che può trarre dal ruolo che il pubblico gli affida. Esso sarà l’arbitro, il padrone di tutti i destini: prenderà molto, perciò molto resterà a lui stesso; moltiplicherà il numero dei suoi agenti, allargherà il cerchio delle sue competenze; finirà per acquisire delle dimensioni schiaccianti.

Ma ciò che bisogna rimarcare, è l’incredibile cecità del pubblico su tutto questo. Quando dei soldati felici riducevano i nemici in schiavitù, erano dei barbari, ma non erano assurdi. Il loro obiettivo, come il nostro, era quello di vivere a spese degli altri, e, come a noi, gli antri non mancavano. Che cosa dobbiamo pensare di un popolo al quale non passa per la testa di dubitare che il saccheggio reciproco non sia meno saccheggio perché è reciproco; che non è meno criminale perché viene eseguito legalmente e con ordine; che non aggiunge nulla al benessere totale; che al contrario lo diminuisce di tanto, quanto costa quell’intermediario spendaccione che chiamiamo stato?

E questa grande chimera, noi l’abbiamo piazzata, per edificazione del popolo, in testa alla Costituzione. Eccovi le prime parole del preambolo: «La Francia si è costituita in Repubblica per … chiamare tutti i cittadini a un grado sempre più elevato di moralità, di lumi e di benessere». Così è “la Francia”, l’astrazione, che chiama “i francesi”, la realtà, alla moralità, al benessere, eccetera. Non è esagerare il senso di questa bizzarra illusione che ci conduce ad attenderci tutto da un’altra forza che non la nostra? Non è dare ad intendere che ci sia, a fianco e al di fuori dei Francesi, un essere virtuoso, illuminato, ricco, che può e deve versare su di loro la sua benevolenza? Non è supporre, e ben gratuitamente, che vi sia tra la Francia ed i Francesi, tra la semplice denominazione abbreviata, astratta, di tutte le individualità, e quelle stesse individualità, un rapporto da padre a figlio, da tutore a pupillo, da professore a scolaro? So bene che talvolta si dice metaforicamente che la Patria è una tenera madre. Ma per sorprendere in flagrante reato di insignificanza la proposizione costituzionale, sarà sufficiente dimostrare che può essere capovolta, non dico senza inconvenienti, ma addirittura con dei vantaggi. Ne avrebbe a soffrire l’esattezza se il preambolo dicesse «I Francesi si sono costituiti in repubblica per chiamare la Francia ad un grado sempre più elevato di moralità, di lumi e di benessere»? Ora, quale è il valore di una proposizione nella quale il soggetto e il predicato possono essere reciprocamente scambiati senza inconvenienti? Tutto il mondo può comprendere: si dice; la madre allatterà il bambino. Ma sarebbe ridicolo dire: il bambino allatterà la madre.

Gli Americani avevano altre idee sulle relazioni tra i cittadini e lo stato, mentre mettevano in testa alla loro Costituzione queste semplici parole: «Noi, il popolo degli Stati Uniti, per formare una unione perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere alla difesa comune, aumentare il benessere e assicurare i benefici della libertà a noi stessi e ai nostri figli, decretiamo….». Qui nessuna creazione chimerica, nessuna astrazione alla quale i cittadini domandino di tutto: non si aspettano nulla, se non da se stessi e dalla loro propria forza.

Se io mi sono permesso di criticare le prima parole della nostra Costituzione, è perché non si tratta, come si potrebbe credere, di una pura sottigliezza metafisica. Io affermo che questa personalizzazione dello stato sia stata nel passato e sarà nell’avvenire, una fonte feconda di calamità e di rivoluzioni. Ed ecco il Pubblico da una parte, lo stato dall’altra, considerati come due esseri distinti, il secondo tenuto a espandersi sul primo, il primo con il diritto di richiedere al secondo il torrente delle umane felicità. Che cosa deve capitare? Di fatto lo stato non è disattento e non lo può essere. Ha due mani, una per ricevere e l’altra per dare, o come si dice, la mano rude e la mano dolce. L’attività della seconda è necessariamente subordinata all’attività della prima. A rigore, lo stato potrebbe prendere e non rendere. Ciò si è ben visto, e si spiega con la natura porosa e assorbente delle sue mani, che trattengono sempre una parte e talora tutto quello che toccano. Ma quello che non si è mai visto, che non si vedrà mai e neppure si riesce a concepire, è che lo stato renda al Pubblico più di ciò che gli abbia preso. E’ dunque folle assumere di fronte a lui l’attitudine dei mendicanti. Gli è radicalmente impossibile assegnare un vantaggio particolare a qualcuna delle individualità che costituiscono la comunità, senza infliggere un danno superiore alla intera comunità.

Lo stato si trova dunque, a causa delle nostre esigenze, in un circolo vizioso evidente. Se rifiuta il bene che si esige da lui, è accusato di impotenza, di cattivo volere, di incapacità. Se prova a realizzarlo, si riduce a colpire il popolo con tasse raddoppiate, a far più di male che di bene, e ad attirarsi, da un’altra parte, la disaffezione generale. Così è: nel pubblico le speranze, nel governo due promesse: tanti benefici e poche imposte. Speranze e promesse che, essendo in contraddizione, non si realizzeranno mai.

Non è lì la causa di tutte le nostre rivoluzioni? Perché tra lo stato, prodigo di promesse impossibili, ed il pubblico, pieno di speranze irrealizzabili, si mettono in mezzo due categorie di uomini: gli ambiziosi e gli utopisti. Il loro ruolo è tutto tracciato dalla situazione. A questi cortigiani della popolarità è sufficiente gridare alle orecchie del popolo: «Il potere si sbaglia; se noi fossimo al suo posto, noi ti riempiremmo di benefici e ti libereremmo dalle tasse». E il popolo crede, il popolo spera, il popolo fa una rivoluzione. I suoi amici non sono mai così pronti agli affari, che quando ricevono l’ordine di obbedire. «Datemi dunque del lavoro, del pane, dell’aiuto, del credito, dell’istruzione, delle colonie, dice il popolo, e inoltre, secondo le vostre promesse, liberatemi dalle tenaglie del fisco».

Lo stato nuovo non è meno imbarazzato che lo stato vecchio, perché, in fatto di cose impossibili, può ben promettere, ma non può mantenere. Cerca di guadagnare del tempo, che gli serve per maturare i suoi vasti progetti. Poi, fa qualche timida prova: da una parte, estende un poco l’istruzione primaria; dall’altra, modifica un poco l’imposta sulle bevande (1830). Ma la contraddizione si innalza sempre di fronte a lui: se vuole essere filantropo, deve rimanere fiscale; se rinuncia alla fiscalità, deve rinunciare anche alla filantropia. Queste due promesse si ostacolano reciprocamente sempre e necessariamente. Impiegare del credito, cioè divorare l’avvenire, è certamente un mezzo di moda per conciliarle, cercando di fare un poco di bene nel presente a spese di molto male nell’avvenire. Ma questo sistema evoca lo spettro della bancarotta che allontana il credito. Che fare allora? Allora il nuovo stato prende le proprie difese con ardimento; riunisce delle forze per mantenersi, soffoca l’opinione, fa ricorso all’arbitrio, tratta da ridicole le sue vecchie idee, dichiara che non può amministrare senza essere impopolare; in breve, si dichiara governativo.

Ed è là che altri nuovi cortigiani della popolarità lo attendono. Essi sfruttano la stessa illusione, passano per la stessa via, ottengono lo stesso successo, e vanno ben presto a gettarsi nello stesso baratro. E’ così che noi siamo arrivati a Febbraio. A quell’epoca, l’illusione di cui si parla in questo articolo era andata più avanti che mai, nelle idee del popolo, condottavi dalle idee socialiste. Più che mai, ci si attendeva che lo stato, in forma repubblicana, aprisse al massimo la fonte dei benefici e chiudesse quella delle imposte. «Mi sono sbagliato spesso, ma starò attento a me, di non sbagliarmi ancora una volta», diceva il popolo. Che cosa poteva fare il governo provvisorio? Quello che si fa in simili congiunture: promettere e guadagnare tempo. Non gliene manca; e per dare alle sue promesse più solennità, le fissa entro dei decreti. «Aumento del benessere, diminuzione del lavoro, aiuto, credito, istruzione gratuita, colonie agricole, dissodamenti; nello stesso tempo, riduzione della tassa sul sale, sulle bevande, sulle lettere, sulla carne, tutto sarà accordato… arriva l’Assemblea Nazionale». L’Assemblea Nazionale è arrivata, e poiché non può realizzare due contraddizioni, il suo compito, il suo triste compito, si è ridotto a ritirare, il più silenziosamente possibile, uno dopo l’altro, tutti i decreti del governo provvisorio. Tuttavia, per non rendere la delusione troppo crudele, è stato necessario transigere un poco. Alcuni impegni sono stati mantenuti, altri hanno avuto un minimo avvio di esecuzione. Così l’attuale amministrazione si sforza di immaginare nuove tasse.

Adesso io mi trasporto con il pensiero a qualche mese avanti nel futuro; e mi domando, con la tristezza nell’anima, che cosa accadrà quando degli agenti fiscali di nuova creazione andranno per le campagne a prelevare le nuove imposte sulle successioni, sui redditi, sui profitti dello sfruttamento agricolo. Che il Cielo smentisca i miei presentimenti, ma io ci vedo ancora un ruolo da giocare per i cortigiani della popolarità. Leggete l’ultimo manifesto dei Montagnardi, quello che hanno emesso a proposito della elezione presidenziale. E’ un poco lungo, ma, dopo tutto, si riassume in due parole: lo stato deve dare molto ai cittadini e prendere poco. E’ sempre la stessa tattica; se volete, lo stesso errore. 

«Lo stato deve fornire gratuitamente l’istruzione e l’educazione a tutti i cittadini. Deve «un insegnamento generale e professionale il più appropriato possibile ai bisogni, alle vocazioni e alle capacità di ogni cittadino». Deve «insegnargli i suoi doveri verso Dio, verso gli uomini e verso se stesso; sviluppare i suoi sentimenti, le sue attitudini e le sue facoltà, dargli infine la formazione per il suo lavoro, la comprensione dei suoi interessi e la conoscenza dei suoi diritti». Deve «mettere alla portata di tutti le lettere le arti, il patrimonio del pensiero, il tesoro dello spirito, tutte le gioie intellettuali che elevano e fortificano l’anima». Deve «riparare tutti gli incidenti, gli incendi, le inondazioni, ecc. (eccetera dice ben di più di quanto è scritto) subiti da un cittadino». Deve «intervenire nei rapporti tra capitale e lavoro e farsi regolatore del credito». Deve «all’agricoltura seri incoraggiamenti e una efficace protezione». Deve «nazionalizzare le ferrovie, i canali, le miniere» e senza dubbio amministrarle con quella capacità industriale che le caratterizza. Deve «sostenere le imprese generose, incoraggiarle e aiutarle con tutte le risorse capaci di farle trionfare. Regolatore del credito, finanzierà largamente le associazioni industriali e agricole, al fine di assicurarne il successo». Lo stato deve tutto ciò, senza pregiudizio dei servizi ai quali fa fronte già oggi; e, per esempio, occorre che nei confronti degli stranieri abbia sempre un atteggiamento minaccioso; perché, dicono i firmatari del programma «legati da questa sacra solidarietà e dai precedenti della Francia repubblicana, noi portiamo i nostri voti e le nostre speranze al di là delle barriere che il dispotismo alza tra le nazioni: il diritto che noi vogliamo per noi, noi lo vogliamo per tutti coloro che sono oppressi dal giogo delle tirannie; noi vogliamo che il nostro glorioso esercito sia ancora, se ve ne fosse bisogno, l’armata della libertà».

Vedete che la mano dolce dello stato, quella mano che dona e che distribuisce, sarà assai occupata sotto il governo dei Montagnardi: credete che possa capitare che sia lo stesso per la mano rude, di quella mano che penetra e prende nelle nostre tasche? Disilludetevi. I cortigiani della popolarità non conoscerebbero il loro mestiere, se non possedessero l’arte, mostrando la mano dolce, di nascondere quella rude. Il loro regno sarà sicuramente il giubileo del contribuente. «E’ il superfluo, non il necessario, quello che l’imposta deve colpire», dicono. Non sarebbe un bel momento, quello nel quale il fisco, per colmarci di benefici, si contenterà di intaccare il nostro superfluo?

Ma non è tutto. I Montagnardi aspirano a che «l’imposta perda il suo carattere oppressivo e non sia più che un atto di fraternità». Bontà del cielo! Io sapevo bene che è di moda cacciare la fraternità ovunque, ma non avrei mai pensato che la si potesse mettere sul conto di chi la riceve. In dettaglio, i firmatari del programma dicono: «noi vogliamo l’abolizione immediata delle imposte che colpiscono i beni di prima necessità, come il sale, le bevande, eccetera. Noi vogliamo la riforma dell’imposta fondiaria, dei dazi e delle licenze. Noi vogliamo la giustizia gratuita, vale a dire la semplificazione delle formalità e la riduzione delle spese». Così imposta fondiaria, dazi, licenze, bolli, sale, bevande, poste, tutto vi rientra. Questi signori hanno scoperto il segreto di dare una attività forsennata alla mano dolce dello stato, mentre ne paralizzano la mano rude.

Ebbene, io chiedo al lettore imparziale, non è questo infantilismo, e infantilismo pericoloso? Come smetterà il popolo di fare una rivoluzione dopo l’altra, se una volta per tutte si è deciso a non fermarsi che quando realizzerà questa contraddizione «non dare nulla allo stato ma riceverne molto»? Qualcuno pensa che se i Montagnardi arrivassero al potere, non sarebbero le vittime dei mezzi che impiegano per impadronirsene?

Cittadini, in tutti i tempi due sistemi politici sono esistiti, ed entrambi possono sostenersi con delle buone ragioni. Secondo il primo, lo stato deve fare molto, ma molto deve anche prendere. Secondo il secondo, la sua doppia azione deve farse sentire il meno possibile. E’ tra questi due sistemi che bisogna scegliere. Ma quanto al terzo sistema, che combina gli altri due, e che consiste nell’esigere tutto dallo stato senza dargli nulla, è un sistema chimerico, assurdo, puerile, contraddittorio, pericoloso. Coloro che lo portano avanti, per avere il piacere di accusare tutti i governi di impotenza e per poterli così esporre ai vostri colpi, quelli vi blandiscono e vi ingannano, o quanto meno si sbagliano.

Quanto a noi, noi pensiamo che lo stato, che non è e non dovrebbe essere altra cosa che la forza comune istituita, non per essere tra tutti i cittadini uno strumento di oppressione e di spogliazione reciproche, ma al contrario, per garantire a ciascuno il suo, e far regnare la giustizia e la sicurezza.

Frédéric Bastiat

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Quello che si vede e quello che non si vede.

 

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