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Giustizia e Fraternità.

Articolo inserito nel numero del 15 giugno 1848
del Journal des Économistes.

La scuola degli economisti è in disaccordo, su una quantità di punti, con le numerose scuole socialiste, che si dicono più avanzate, e che sono, concordo volentieri, più attive e più popolari. Noi abbiamo come avversari (non vorrei dire detrattori) i comunisti, i fourieristi, gli owenisti, Cabet, Louis Blanc, Proudhon, P. Leroux e molti altri. Ciò che vi è di singolare, è che queste scuole differiscono tra loro almeno tanto quanto differiscono dalla nostra. Occorre perciò, prima di tutto, che esse ammettano un principio comune a tutte, che noi non ammettiamo; poi, che questo principio si presti all’infinita diversità che noi vediamo tra loro.

Io credo che ciò che ci separa radicalmente, sia questo: l’economia politica e la sua scuola si definiscono nel non chiedere alla legge che la giustizia universale; il socialismo, nei suoi diversi rami, e con applicazioni dal numero infinito, richiede in più alla legge la realizzazione del dogma della fraternità.

Ora, che cosa è accaduto? Il socialismo ammette, con Rousseau, che l’ordine sociale intero si trovi nella legge. E’ noto che Rousseau fa poggiare la società su un contratto. Louis Blanc, dalla prima pagina del suo libro sulla Rivoluzione, dice: “Il principio della fraternità è quello che, considerando come solidali i membri della grande famiglia, tende ad organizzare ad un certo punto le società, opera dell’uomo, sul modello del corpo umano, opera di Dio”. Partendo da questo punto, che la società è opera dell’uomo, opera della legge, i socialisti dovrebbero indurne che nulla esiste nella società, che non sia stato prima ordinato e sistemato dal legislatore. Di conseguenza, vedendo l’economia politica limitarsi a chiedere alla legge la giustizia ovunque e per tutti, la giustizia universale, essi hanno pensato che l’economia politica non ammettesse la fraternità nelle relazioni sociali. Il ragionamento è serrato: “Poiché la società è tutta nella legge, dicono, e poiché non domandate alla legge che la giustizia, voi perciò escludete la fraternità dalla legge e di conseguenza dalla società”. E di qui accuse di rigidezza, di freddezza, di asprezza, di aridità, che sono state accumulate sulla scienza economica e su coloro che la professano.

Ma la premessa maggiore è ammissibile? E’ vero che tutta la società sia racchiusa nella legge? Si vede bene che qualora non fosse così, tutte quelle accuse crollerebbero. E che! Dire che la legge positiva, che agisce sempre con autorità, per mezzo di vincoli, appoggiata su una forza coercitiva, mostrando come sanzione la baionetta o la galera, finendo sempre con una clausola penale; dire che la legge che non decreta né l’afflizione, né l’amicizia, né l’amore, né l’abnegazione, né la devozione, né il sacrificio, non possa in più decretare ciò che tutto riassume, la fraternità, , significa dunque annullare o negare questi nobili attributi della nostra natura? No certamente; significa solo che la società è più vasta che la legge; che un grande numero di atti sono potati a termine, che una folla di sentimenti si muovono, al di fuori e al di sopra della legge.

Quanto a me, nel nome della scienza, io protesto con tutte le mie forze contro questa interpretazione miserabile, secondo la quale, dal momento che noi riconosciamo alla legge un limite, noi siamo accusati di negare tutto ciò che sta al di là di quel limite. E anche se non lo si vorrebbe credere, anche noi salutiamo con trasporto questa parola fraternità, caduta circa diciotto secoli fa dall’alto della montagna santa e iscritta per sempre sulla nostra bandiera repubblicana. Anche noi desideriamo vedere gli individui, le famiglie, le nazioni, associarsi, aiutarsi reciprocamente, soccorrersi reciprocamente, nel doloroso viaggio della vita mortale. Anche noi sentiamo battere il nostro cuore e scorrere le nostre lacrime al racconto delle azioni generose, sia che esse brillino nella vita di semplici cittadini, sia che esse ravvicinino e confondano classi diverse, sia soprattutto che esse precipitino i popoli predestinati all’avanguardia del progresso e della civilizzazione.

E ci ridurremo a parlare di noi stessi? Ebbene! Che si osservino i nostri atti. Certo, noi vogliamo ben ammettere che questi numerosi intellettuali che, ai nostri giorni, vogliono gettarsi nel cuore dell’uomo fino al sentimento dell’interesse, che si mostrano così spietati verso quello che chiamano l’individualismo, la cui bocca è sempre piena delle parole devozione, sacrificio, fraternità; voi vogliamo ben ammettere che essi obbediscano esclusivamente a questa sublime motivazione che consigliano agli altri, che essi diano esempi tanto quanto danno consigli, che essi abbiano avuto cura di porre la loro condotta in armonia con le loro dottrine; noi vogliamo ben crederli, sulla loro parola, pieni di disinteresse e di carità; ma, alla fine, ci sarà permesso di dire che sotto questi punti di vista non temiamo il confronto.

Ognuno di questi Decii ha un piano che deve realizzare la felicità dell’umanità, e tutti hanno l’aria di dire che se noi li combattiamo, è perché noi temiamo o per la nostra fortuna, o per degli altri vantaggi sociali. No; noi li combattiamo, perché riteniamo che le loro idee siano false, i loro progetti tanto puerili che disastrosi. Perché se ci fosse stato dimostrato che si può far scendere per sempre la felicità sulla terra per mezzo di una finta organizzazione, o decretando la fraternità, ve ne sarebbero tra noi che, benché economisti, avrebbero firmato con gioia questo decreto con l’ultima goccia del loro sangue. Ma non ci è stato dimostrato che la fraternità possa essere imposta. Al contrario, se ovunque essa si manifesti, essa eccita così vivamente la nostra simpatia, è perché agisce fuori da qualunque vincolo legale. La fraternità, o è spontanea, o non è. Decretarla, significa annullarla. La legge può ben obbligare l’uomo ad essere giusto; ma proverà inutilmente a forzarlo ad essere devoto. Non sono io, del resto, ad avere inventato questa distinzione. Come ho sempre detto, diciotto secoli fa, queste parole uscirono dalla bocca del divino fondatore della nostra religione: “La legge vi dice: non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. Ed io, io vi dico: fate agli altri quello che vorreste che gli altri facessero per voi”. Io credo che queste parole fissino il limite che separa la giustizia dalla fraternità. Io credo che traccino una linea di demarcazione, non dico assoluta e insuperabile, ma teorica e razionale, tra il dominio circoscritto della legge e la regione illimitata della spontaneità umana.

Quando un grande numero di famiglie, che per vivere, svilupparsi e perfezionarsi, hanno tutte bisogno di lavorare, sia isolatamente, sia associandosi, mettono in comune una parte delle loro forze, che cosa possono essi richiedere a questa forza comune, che non sia la protezione di tutte le persone, di tutti i lavori, di tutte le proprietà, di tutti i diritti, di tutti gli interessi? Questa, è altra cosa dalla giustizia universale? Evidentemente, il diritto di ognuno ha per limite il diritto del tutto simile di tutti gli altri. La legge non può perciò fare altro che riconoscere questo limite e farlo rispettare. Se permettesse a qualcuno di superarlo, ciò avverrebbe a danno di qualcun altro. La legge sarebbe ingiusta. E lo sarebbe ancora di più se, invece di tollerare questo sconfinamento, essa lo ordinasse.

Che si tratti, per esempio, di proprietà: il principio è che ciò che ciascuno ha fatto con il suo lavoro, quello gli appartiene, ancorché quel lavoro sia stato comparativamente più o meno abile, perseverante, fortunato, e poi più o meno produttivo. Perché se due che lavorano vogliono unire le loro forze, per dividere il prodotto secondo delle proporzioni convenute, o scambiare tra loro i loro prodotti, o se uno vuol fare all’altro un prestito o un regalo, che cosa c’entra la legge? Nulla, mi sembra, che non sia esigere l’esecuzione degli accordi, o impedire o punire il dolo, la violenza o la frode.Ciò vuol dire che la legge interdirà gli atti di devozione o di generosità? Chi potrebbe avere una tale idea? 

Ma la legge si spingerà fino ad ordinarli? Ecco precisamente il punto che divide gli economisti ed i socialisti. Se i socialisti vogliono dire che, per circostanze straordinarie, per casi urgenti, lo stato deve preparare delle risorse, soccorrere certi infortuni, gestire certe transizioni, per Dio, noi saremo d’accordo; questo è già fatto, noi desideriamo che sia fatto meglio. C’è tuttavia un punto, su questa strada, che non bisogna superare: quello nel quale la previdenza di stato arriverebbe ad annullare la previdenza individuale, sostituendola. E’ del tutto evidente che la carità organizzata farebbe, in questo caso, assai più mali permanenti che bene passeggero. Ma non si tratta qui di misure eccezionali. 

Ciò che noi ricercheremo, è questo: la legge, considerata dal punto di vista generale e teorico, ha per missione di constatare e far rispettare il limite dei diritti reciproci preesistenti, oppure di fare direttamente la felicità degli uomini, provocando degli atti di dedizione e di abnegazione e dei sacrifici reciproci? Ciò che mi colpisce, in questo ultimo sistema (ed è per questo che in questo lavoro scritto in fretta ci tornerò spesso), è l’incertezza che fa planare sull’attività umana e sui suoi risultati, è lo sconosciuto di fronte al quale si pone la società, sconosciuto che è di natura tale da paralizzare tutte le sue forze. La giustizia, che cosa sia, è noto; è un punto fisso, immobile. Se la legge la prende come guida, ognuno sa a che cosa far riferimento, e si adatta di conseguenza. Ma la fraternità, dove ha il suo luogo? Quale è il suo limite? Quale è la sua forma? Evidentemente è l’infinito. La fraternità, in definitiva, consiste nel fare un sacrificio per gli altri, nel lavorare per gli altri. Quando è libera, spontanea, volontaria, io la comprendo e la applaudo. E ammiro tanto di più il sacrificio, quando è completo. Ma quando si pone in seno ad una società questo principio, che la fraternità sarà imposta dalla legge, vale a dire, in buon francese, che la ripartizione dei frutti del lavoro sarà fatta per legge, senza riguardo ai diritti del lavoro stesso; e chi può dire in quale misura agirà questo principio, di quale forma il capriccio di un legislatore potrebbe rivestirlo, in quali istituzioni un decreto potrebbe, dalla sera alla mattina, incarnarlo? Cioè, io mi chiedo, a queste condizioni, una società può esistere? Badate che il sacrificio, per sua natura, non è, come la giustizia, una cosa che abbia un limite. Può estendersi, dal dono dell’obolo gettato nella scodella del mendicante, fino al dono della vita, usque at mortem, mortem autem crucis. Il Vangelo, che ha insegnato la fraternità agli uomini, la ha spiegata con i suoi consigli. Ci ha detto: “Quando sarete colpiti sulla guancia destra, offrite la guancia sinistra. Se qualcuno vuole prendervi l’abito, dategli anche il mantello”. Ha fatto più che spiegarci la fraternità: ce ne ha dato il più completo, il più toccante ed il più sublime esempio sulla sommità del Golgota. E bene! Diremo che la legislazione deve spingere fino a là la realizzazione, con metodi amministrativi, del dogma della fraternità? O si fermerà su un tale cammino? Ma a quale grado si arresterà, e secondo quale regola? Questo dipenderà oggi da un voto, domani da un altro. Stessa incertezza per quanto riguarda la forma. Si tratta di imporre dei sacrifici a qualcuno per tutti, o a tutti per qualcuno. Chi può dirmi come si comporterà la legge? Perché non si può negare che il numero delle forme della fraternità sia infinito. Non passa giorno che non me ne arrivino cinque o sei per posta, e tutte, badate bene, molto differenti. In verità, non è follia credere che una nazione possa godere qualche riposo morale e qualche prosperità materiale, quando ammesso per principio che, dalla sera alla mattina, il legislatore possa gettarla tutta intera in uno dei centomila stampi di fratellanza che in quel momento preferisce?

Mi sia permesso di mettere di fronte, nelle loro conseguenze più salienti, il sistema degli economisti ed il sistema dei socialisti. Supponiamo per cominciare che una nazione adotti per base della sua legislazione la giustizia, la giustizia universale. Supponiamo che i cittadini dicano al governo: “Noi prendiamo su di noi la responsabilità della nostra esistenza; noi ci facciamo carico del nostro lavoro, delle nostre transazioni, della nostra istruzione, del nostro progresso, del nostro culto; per voi, la vostra sola missione sarà quella di tenerci tutti, e sotto ogni rapporto, nei limiti dei nostri diritti”. Davvero, si sono sperimentate così tante cose, che io vorrei che un giorno il mio paese, o un paese qualunque, sulla superficie del globo, fosse preso da fantasia, di provare anche quello. Certo, il meccanismo, non si può negare, è di una semplicità meravigliosa. Ciascuno esercita ogni suo diritto come lo intende, purché non sconfini sui diritti altrui. La prova sarebbe tanto più interessante, perché sulla base dei fatti, i popoli che più si avvicinano a questo sistema, superano tutti gli altri in sicurezza, in prosperità, in uguaglianza e in dignità. Si, se mi rimangono dieci anni da vivere, ne darei volentieri nove per assistere, durante un anno, ad una tale esperienza fatta nella mia patria. Perché mi sembra che sarei felice testimone di quello che segue.

In primo luogo, ciascuno sarebbe tranquillo sul suo avvenire, per quanto potrebbe essere interessato dalla legge. Così come ho fatto rimarcare, la giustizia esatta è una cosa talmente determinata, che una legislazione che non abbia come obiettivo che quella, sarebbe quasi immobile. Essa non potrebbe variare che sui mezzi per avvicinare sempre di più questo unico scopo: fare rispettare le persone ed i loro diritti. Così, chiunque potrebbe dedicarsi a qualunque impresa onesta senza timore e senza incertezza. Tutte le carriere sarebbero aperte a tutti; ognuno potrebbe esercitare le sue facoltà liberamente, secondo ciò che sarebbe determinato dal suo interesse, le sue inclinazioni, le sue attitudini, o le circostanze; non ci sarebbero né privilegi, né monopoli, né restrizioni di qualunque tipo. Poi, dal momento che tutte le forze del governo sono impegnate a prevenire e reprimere il dolo, le frodi, i delitti, i crimini, le violenze, si può pensare che otterranno questo scopo assai meglio che non essendo disperse, come oggi, su una quantità infinita di oggetti estranei ai loro attributi essenziali. Persino i nostri avversari non negheranno che prevenire e reprimere l’ingiustizia non sia la missione principale dello stato: Perché allora questa arte preziosa della prevenzione e della repressione ha fatto così pochi progressi da noi? Perché lo stato la esegue male, a causa dei mille altri compiti dei quali lo si è caricato. Così la sicurezza, della quale ben poco importa, non è il tratto distintivo della società francese. Essa sarebbe completa invece nel regime del quale, per il momento, mi sono fatto analista; sicurezza del futuro, perché nessuna utopia potrebbe imporsi prendendo a servizio la forza pubblica; sicurezza nel presente, perché quella forza sarebbe esclusivamente consacrata a combattere ed annientare l’ingiustizia.

Qui bisogna bene che io dica una parola sulle conseguenze che genera la sicurezza. Ecco la proprietà nelle sue diverse forme, fondiaria, mobiliare, industriale, intellettuale, manuale, completamente garantita. Eccola al riparo dagli assalti del malfattori e, ancora di più, degli assalti della legge. Qualunque sia la natura dei servizi che i lavoratori rendono alla società o si rendono tra loro, o scambiano all’esterno, questi servizi avranno sempre il loro valore naturale. Questo valore sarà ancora ben colpito dagli avvenimenti, ma almeno non potrà mai esserlo dai capricci della legge, dalle esigenze delle imposte, dagli intrighi, dalle pretese e dalle influenze parlamentari. Il prezzo delle cose e del lavoro subirebbe allora il minimo possibile di fluttuazione, e sotto l’insieme riunito di tutte queste condizioni, non è possibile che l’industria non si sviluppi, che le ricchezze non si accrescano, che i capitali non si accumulino con prodigiosa rapidità. Ora, quando i capitali si moltiplicano, essi si fanno concorrenza tra loro ; la loro remunerazione diminuisce, o, in altri termini, l’interesse si abbassa. Pesa sempre meno sul prezzo dei prodotti. La parte proporzionale del capitale nell’opera comune decresce senza fine. Questo agente del lavoro più diffuso arriva alla portata di un più grande numero di persone. I prezzi degli oggetti di consumo sono ridotti di tutta la parte che il capitale preleva in meno; la vita è a buon mercato, il che è una prima condizione essenziale per l’affrancamento delle classi lavoratrici. Nello stesso tempo, e per effetto della stessa causa (la crescita rapida del capitale), i salari aumentano necessariamente. I capitali, infatti, non danno assolutamente alcuna rendita, se non sono messi in opera. Più questo fondo di salari è grande ed occupato, in relazione ad un numero fisso di lavoratori, più il salario aumenta. Così, il risultato necessario di questo regime di giustizia esatta, e di conseguenza di libertà e di sicurezza, è quello di innalzare la classe sofferente in due modi, dapprima offrendo loro la vita a buon mercato, poi alzando il livello dei salari. E non è possibile che la sorte dei lavoratori sia così naturalmente e doppiamente migliorata, senza che la loro condizione morale non si innalzi e non si purifichi anch’essa. Noi siamo perciò sul cammino dell’uguaglianza: ed io non parlo solo di questa uguaglianza di fronte alla legge, quella che il sistema evidentemente implica dal momento che esclude ogni ingiustizia, ma della uguaglianza di fatto, nel fisico e nel morale, quella che risulta dall’aumento della remunerazione del lavoro in tanto quanto e per causa stessa, che la remunerazione del capitale diminuisce.

Se noi gettiamo lo sguardo sui rapporti di questo popolo con le altre nazioni, scopriamo che tutti sono favorevoli alla pace. Premunirsi contro ogni aggressione, ecco la sua sola politica. Non minaccia, e non è minacciato. Non ha diplomazia, tanto meno ancora diplomazia armata. Dal momento che, in virtù del principio di giustizia universale, nessun cittadino può, nel suo proprio interesse, fare intervenire la legge per impedire ad un altro cittadino di acquistare o di vendere all’estero, le relazioni commerciali di quel popolo saranno libere e quanto mai estese. E nessuno può contestare che queste relazioni contribuiscano al mantenimento della pace. Esse costituiranno per quel popolo un vero e prezioso strumento di difesa, che renderà quasi inutili gli arsenali, le piazzeforti, la marina militare e gli eserciti permanenti. Così, tutte le forze di quel popolo saranno dedicate a dei lavori produttivi, nuova causa di accrescimento dei capitali, con tutte le conseguenze che ne derivano. E’ poi facile vedere che in seno a questo popolo, il governo è ridotto a delle proporzioni assai esigue, e le procedure amministrative ad una grande semplicità. Di che cosa si tratta? Di assegnare alla forza pubblica la missione unica di far regnare la giustizia tra i cittadini. Ora, ciò può essere fatto con poca spesa e, persino oggi, non costa in Francia che ventisei milioni. Allora questa nazione non pagherà, per così dire, nessuna imposta. E’ anche certo che la civilizzazione ed il progresso tenderanno a rendervi il governo sempre più semplice ed economico, perché più la giustizia sarà il frutto delle buone abitudini degli associati, più sarà opportuno ridurre la forza organizzata per imporla.

Quando una nazione è caricata di imposte, nulla è più difficile, e vorrei dire impossibile, che il ripartirle egualmente. Gli statistici ed i finanziari ci hanno rinunciato. Ma c’è una cosa ancora più impossibile, ed è quella di farle ricadere su coloro che sono ricchi: lo stato non può ricavare molto denaro che esaurendo tutti, e soprattutto le masse. Ma in un regime così semplice, al quale io dedico questa inutile arringa, regime che non reclama che qualche decina di milioni, nulla è più semplice di una ripartizione equa. Una contribuzione unica, proporzionale alla proprietà, prelevata in famiglia e senza spese presso i Consigli Municipali, è sufficiente. Non più la fiscalità tenace, la burocrazia divorante, che sono il marciume parassita del corpo sociale; non più le contribuzioni indirette, il denaro strappato per forza o per astuzia, le trappole fiscali tese su tutte le vie del lavoro, gli ostacoli che ci fanno ancora più male per le libertà che ci tolgono che per le risorse di cui ci privano.

Ho forse bisogno di dimostrare che l’ordine sarebbe un risultato infallibile di un tale regime? E da dove potrebbe venire il disordine? Non vi è miseria; essa sarebbe probabilmente sconosciuta nel paese, almeno nel suo stato cronico; e se, dopo tutto, comparissero delle sofferenze accidentali e passeggere, nessuno si sognerebbe di prendersela con lo stato, con il governo, con la legge. Ora che si è stabilito che lo stato è istituito per distribuire ricchezza a tutti, è naturale che gli si chieda conto del suo impegno. Per mantenerlo, lo stato moltiplica le tasse e crea più miseria di quella che non guarisca. Nuove esigenze da parte del pubblico, nuove tasse da parte dello stato, e noi non potremo che marciare da una rivoluzione all’altra. Ma se fosse ben inteso che lo stato non deve prendere ai lavoratori che ciò che sia rigorosamente indispensabile per garantirli contro ogni frode ed ogni violenza, io non posso capire da quale parte arriverebbe il disordine.

Vi sono taluni i quali penseranno che, sotto un regime così semplice, così facilmente realizzabile, la società sarebbe ben uggiosa e triste. Che cosa diverrebbe la grande politica? A che cosa servirebbero gli uomini di stato? La stessa rappresentanza nazionale, ridotta a perfezionare il codice civile e quello penale, non cesserebbe di offrire alla curiosa avidità del pubblico lo spettacolo dei suoi dibattiti appassionati e delle sue lotte drammatiche? Questo singolare scrupolo proviene dall’idea che governo e società siano una sola ed identica cosa; idea falsa e funesta quant’altre mai. Se esistesse una tale identità, semplificare il governo equivarrebbe, in effetti, a sminuire la società. Ma si vuol forse dire che il solo fatto che la forza pubblica si limiti a far regnare la giustizia, sottrarrebbe qualcosa all’iniziativa dei cittadini? Ma la loro azione non è già, anche oggi, ristretta entro i limiti fissati dalla legge? Non sarebbe loro perfettamente possibile, purché non si allontanino dalla giustizia, formare infinite combinazioni o associazioni di qualunque natura, religiosa, caritatevole, industriale, agricola, intellettuale, persino falansteriana o icariana? Al contrario, non è forse certo che l’abbondanza di capitale favorirebbe qualunque impresa? Solo, ognuno ci si assocerebbe volontariamente, a suo rischio e pericolo. Al contrario, quello che si vuole con l’intervento dello stato, è associarsi a rischio e a spese del pubblico.

Si dirà senza dubbio: “in questo regime vediamo bene la giustizia, l’economia, la libertà, la ricchezza, la pace, l’ordine e la legalità, ma non ci vediamo la fraternità”. Ancora una volta, non vi è altro nel cuore dell’uomo che quello che il legislatore ci ha messo? E’ stato necessario, perché comparisse sulla faccia della terra, che la fraternità uscisse dall’urna di uno scrutinio? Forse che la legge impedisce la carità, per il solo fatto che non impone che la giustizia? Si pensa che le donne smetteranno di mostrare devozione ed un cuore aperto alla pietà, perché la devozione e la pietà non sono ordinate da un qualche codice? E’ quale è allora quell’articolo del codice che strappa la giovane alle carezze della madre e la spinge verso quei tristi asili dove si spargono le piaghe orribili del corpo e quelle ancor più orribili dell’intelligenza? Quale quell’articolo del codice che determina le vocazione del sacerdote? A quale legge scritta, a quale intervento governativo, bisogna far risalire la fondazione del cristianesimo, lo zelo degli apostoli, il coraggio dei martiri, la beneficenza di Fénelon o di Francesco da Paola, l’abnegazione di tanti uomini che, ai nostri giorni, hanno mille volte esposto la loro vita per il trionfo della causa popolare? Ogni volta che noi giudichiamo un atto buono e bello, noi vorremmo, come è naturale, che fosse generalizzato. Ecco che, osservando nella società una forza cui tutto cede, il nostro primo impulso è di farla concorrere a decretare ed imporre l’atto del quale si tratta. Ma la questione è capire se in tal modo non di depravi la natura della forza o dello stesso atto, reso obbligatorio da volontario che era. Per quello che mi concerne, non può entrarmi nella testa che la legge, che è la forza, possa essere utilmente applicata ad altro che alla repressione dei torti e al mantenimento dei diritti.

Ho appena descritto una nazione dove accadrebbe così. Supponiamo ora che tra quel popolo prevalga l’opinione che la legge non debba più limitarsi ad imporre la giustizia; ma essa debba anche imporre la fraternità. Che cosa accadrebbe? Non mi dilungherò a spiegarlo: il lettore non ha che da rifare al contrario i ragionamenti che ci hanno condotto fin qui. All’inizio, una spaventosa incertezza, una insicurezza mortale, planeranno su tutto il campo dell’attività privata; perché la fraternità può assumere miliardi di forme sconosciute, e di conseguenza, miliardi di decreti imprevisti. Innumerevoli progetti verrebbero ogni giorno a minacciare le relazioni stabilite. Nel nome della fraternità, qualcuno chiederà l’uniformità dei salari: ed ecco le classi laboriose ridotte allo stato delle caste indiane; né abilità, né coraggio, né assiduità, né intelligenza potranno sollevarle; una legge di piombo peserà su tutto. Questo mondo sarà come l’inferno di Dante: “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”. Nel nome della fraternità, qualcuno chiederà che il lavoro sia ridotto a dieci, a otto, a sei, a quattro ore; ed ecco la produzione ferma. Appena non ci saranno più pane per mettere a tacere la fame o vestiti per proteggersi dal freddo, un altro immaginerà di sostituire pane e vestiti con carta moneta a circolazione forzosa. Non è con della moneta che acquistiamo le cose? Moltiplicare la moneta, si dirà, è moltiplicare il pane ed i vestiti; moltiplicare la carta, è moltiplicare la moneta. Traete da soli le conclusioni. E qualcuno esigerà che si decreti l’abolizione della concorrenza; un altro, l’abolizione dell’interesse personale; questo vorrà che lo stato fornisca del lavoro; quello, che fornisca l’istruzione, un altro, che fornisca la pensione a tutti i cittadini. E ancora, chi vuole abbattere tutti i re del globo e decretare, in nome della fraternità, la guerra universale. Mi fermo qui… E’ ben evidente che, per questa strada, la sorgente delle utopie è inesauribile. Saranno respinte, si dirà. Sia pure; ma può anche darsi che non lo siano, e ciò è sufficiente a creare incertezza, il più grande flagello del lavoro. Sotto un tale regime, i capitali non potranno formarsi. Saranno rari, costosi, concentrati. I salari diminuiranno, l’ineguaglianza approfondirà, tra le classi, un abisso sempre più profondo. Le finanze pubbliche non tarderanno ad arrivare ad un completo smarrimento. Come potrebbe essere diversamente quando lo stato è incaricato di fornire tutto a tutti? Il popolo sarà caricato di imposte, si faranno debiti su debiti; dopo avere esaurito il presente, si divorerà l’avvenire. E poi, non appena sarà ammesso per principio che lo stato è incaricato di fare della fraternità in favore dei cittadini, tutto il popolo sarà lì a chiedere. Proprietà fondiaria, agricoltura, industria, commercio, marina, compagnie industriali, tutti si agiteranno per reclamare i favori dello stato. Il tesoro pubblico sarà letteralmente al saccheggio. Ognuno avrà delle buone ragioni per provare che la fraternità legale deve essere estesa in questo senso: “I vantaggi per me e i carichi agli altri”. Lo sforzo di tutti tenderà a strappare alla legislazione un lembo di privilegio fraterno. Le classi sofferenti, benché ne abbiano più diritto, non avranno sempre un buon successo; al contrario, il loro numero crescerà senza limite, da cui segue che non si potrà che muovere da rivoluzione a rivoluzione. In una parola, si vedrà scorrere tutto il triste spettacolo del quale, per avere adottato questa funesta idea di fratellanza legale, alcune società moderne già ci forniscono l’anteprima. 

Io non ho bisogno di dirlo: questo pensiero ha la sua fonte in sentimenti generosi, in intenzioni pure. E’ anche per questo che si è conciliato così rapidamente la simpatia delle masse; ed è anche per questo che apre un abisso sotto i nostri piedi, se è sbagliato. Aggiungo che sarei felice, per mia parte, se mi si dimostrasse che non lo è. Eh, buon Dio, se si potesse decretare la fratellanza universale, e dare efficacemente a questo decreto la sanzione della forza pubblica; se, come vuole Louis Blanc, si potesse far sparire dal mondo con un voto parlamentare, la molla dell’interesse personale; se si potesse realizzare per legge questo punto del programma della Democrazia Pacifica: fine dell’egoismo; se si potesse fare che lo stato dia tutto a tutti, senza nulla ricevere da alcuno, che lo si faccia. Siatene certi: io voterò quel decreto e sarò felice che l’umanità arrivi alla perfezione e alla felicità attraverso un cammino così corto e così facile.

Ma, bisogna pur dirlo, idee di quel tipo ci sembrano chimeriche e futili fino alla puerilità. Che esse abbiano risvegliato delle speranze nella classe che lavora, che soffre e che non ha il tempo per riflettere, non è sorprendente. Ma come possono mettere fuori strada degli intellettuali di valore? Di fronte alle sofferenze che colpiscono un grande numero di nostri fratelli, questi intellettuali hanno pensato che esse fossero imputabili alla libertà che è la giustizia. Essi sono partiti da questa idea, che il sistema della libertà e della giustizia esatta, era stato messo legalmente all’opera ed aveva fallito. Essi ne hanno concluso che fosse venuto il tempo di far fare alla legislazione un passo in più, e che la legge doveva alla fine impregnarsi del principio della fraternità. Ecco allora queste scuole sansimoniane, fourieriste, comuniste, oweniste; ecco allora questi tentativi di organizzazione del lavoro; queste dichiarazioni secondo le quali lo stato deve la sussistenza, il benessere, l’educazione, a tutti i cittadini; che deve essere generoso, caritatevole, presente a tutto, rivolto a tutto; che sua missione è di allattare l’infanzia, istruire la giovinezza, assicurare il lavoro ai forti e dare delle pensioni ai deboli; in una parola, che lo stato deve intervenire direttamente per alleviare tutte le sofferenze, soddisfare e prevenire tutti i bisogni, fornire dei capitali a tutte le imprese, dei lumi a tutte le intelligenze, dei balsami a tutte le piaghe, degli asili a tutti gli infortuni, e persino del soccorso e del sangue francese a tutti gli oppressi sulla superficie del globo.

Ancora una volta, chi non vorrebbe vedere tutti questi beni scorrere dalla legge sul mondo, come da una fonte inesauribile? Chi non sarebbe felice di vedere lo stato assumere su se stesso ogni pena, ogni preveggenza, ogni responsabilità, ogni dovere, ogni cosa che una provvidenza dai progetti impenetrabili ha messo di faticoso e di pesante a carico dell’umanità, lasciando agli individui che ne fanno parte il lato attraente e facile, le soddisfazioni, le gioie, le certezze, la calma, il riposo, un presente assicurato per sempre, un avvenire sempre di sorridente, la fortuna senza problemi, la famiglia senza costi, i crediti senza garanzia, l’esistenza senza sforzi? Certamente, noi vorremmo tutto ciò. Se fosse possibile. Ma è possibile? Ecco la questione. Noi non riusciamo a comprendere che cosa ci sia dietro il nome di stato. Noi crediamo che vi sia, in questa perpetua personificazione dello stato, la più strana e la più umiliante delle mistificazioni. Che cosa è dunque questo stato che si fa carico di tutte le virtù, di tutti i doveri, di tutte le generosità? Da dove prende quelle risorse che lo spingono a sfogarsi in benefici per gli individui? Non è per caso da quegli stessi individui? Come allora queste risorse potrebbero accrescersi passando attraverso le mani di un intermediario parassita e divorante? Non è invece chiaro, al contrario, che questo ingranaggio è di natura tale da assorbire molte forze utili e da ridurre di altrettanto la parte dei lavoratori? Non si vede così, che questi lavoratori lasceranno, insieme con una parte del loro benessere, anche una parte della loro libertà?

Da qualunque punto di vista io consideri la legge umana, io vedo che non le possa essere richiesto altro che la giustizia.

Si tratti, per esempio, di religione. Certamente, sarebbe desiderabile che non ci fosse che una credenza, una sola fede, un solo culto, nel mondo, a condizione che fosse la vera fede. Ma, per quanto sia desiderabile l’unità, la diversità, vale a dire la ricerca e la discussione, varranno molto di più, fintantoché non risplenderà per le intelligenze il segno infallibile per mezzo del quale quella vera fede si farà riconoscere. L’intervento dello stato, quand’anche prendesse come pretesto la fraternità, sarebbe dunque una oppressione, una ingiustizia, se pretendesse di fondare l’unità; perché chi ci garantirebbe che lo stato, magari a sua insaputa, non lavorerebbe a soffocare la verità a vantaggio dell’errore? L’unità deve risultare dall’assenso universale delle libere convinzioni e dalla naturale attrazione che la verità esercita sullo spirito degli uomini. Tutto ciò che si può pertanto chiedere alla legge, è la libertà per tutte le credenze, qualunque anarchia ne debba risultare nel mondo che pensa. Perché, che cosa proverebbe questa anarchia? Che l’unità non è all’origine, ma alla fine della evoluzione intellettuale. Non è un punto di partenza, è un risultato. La legge che la imponesse sarebbe ingiusta, e se la giustizia non implica necessariamente la fraternità, quantomeno si converrà che la fraternità esclude l’ingiustizia.

Lo stesso è per l’insegnamento. Chi non conviene che, se si potesse raggiungere l’accordo sul miglior insegnamento possibile, quanto alla materia e quanto al metodo, l’insegnamento unitario o statale sarebbe preferibile, poiché, in tale ipotesi, la legge non potrebbe escludere che l’errore? Ma, fintantoché questo criterio non esiste, fintantoché il legislatore o il ministro della istruzione pubblica, non porteranno inciso sulla loro fronte un segno irrecusabile di infallibilità, la migliore sorte perché il vero metodo sia scoperto e assorba gli altri, sono la differenza, le prove, l’esperienza, lo sforzo individuale, posti sotto l’influenza dell’interesse al successo, in una parola, la libertà. La peggiore sorte, è l’educazione decretata ed uniforme; perché in questo regime, l’errore è permanente, universale e irrimediabile. Perciò coloro i quali, spinti dal sentimento della fraternità, chiedono che la legge diriga e imponga l’educazione, dovrebbero ammettere con se stessi che essi corrono il rischio che la legge non diriga e non imponga che l’errore; che l’interdizione legale può assalire la verità, assalendo le intelligenze che credono di averne il possesso. Ora, io domando, è una vera fraternità quella che ricorre alla forza per imporre, o quantomeno per rischiare di imporre, l’errore? Si teme la differenza, la si biasima sotto il nome di anarchia; ma essa risulta forzatamente dalla stessa differenza delle intelligenze e delle convinzioni, differenza che tende ad esercitarsi con la discussione, lo studio e l’esperienza. Nel frattempo, quale titolo ha un sistema per prevalere sugli altri con la legge o con la forza? Qui ancora noi troviamo che questa pretesa fraternità, che invoca la legge, o l’obbligo legale, si trova in opposizione con la giustizia.

Potrei fare lo stesso ragionamento per la stampa, e, in verità, faccio fatica a capire perché coloro che chiedono l’educazione unitaria dalla parte dello stato, non richiedano la stampa unitaria dalla parte dello stato. Anche la stampa è un insegnamento. La stampa ammette la discussione, perché ne vive. Anche lì vi è dunque della differenza, dell’anarchia. Da questo punto di vista, perché non creare un ministero della pubblicità e incaricarlo di ispirare tutti i libri e tutti i giornali di Francia? O lo stato è infallibile, ed allora non sapremmo cosa fare di meglio che sottoporgli l’intero dominio delle intelligenze; o non lo è, ed in questo caso, non è più razionale lasciargli l’educazione piuttosto che la stampa.

Se io prendo in considerazione i nostri rapporti con gli stranieri, io non vedo altra regola prudente, solida e accettabile per tutti, tale che alla fine potrebbe divenire una legge, che non sia la giustizia. Sottomettere questi rapporti al principio della fraternità legale, forzata, equivale a decretare la guerra perpetua ed universale, perché significa mettere obbligatoriamente la nostra forza, il sangue e le fortune dei cittadini, al servizio di chiunque le reclamerà per servire una causa che ecciti la simpatia del legislatore. Singolare fraternità. E’ da tempo che Cervantes ne ha personificato la ridicola vanità.

Ma è soprattutto in materia di lavoro che il dogma della fraternità mi sembra pericoloso, allorché, contrariamente all’idea che è l’essenza di questa parola sacra, si sogna di farla entrare nei nostri codici, con l’accompagnamento delle disposizioni penali che sanzionano ogni legge positiva.

La fraternità implica sempre l’idea della devozione e del sacrificio, ed è in ciò che essa si manifesta sempre strappando lacrime di ammirazione. Se si dice, come certi socialisti, che i suoi atti sono profittevoli per il loro autore, questi non hanno bisogno di essere imposti per decreto; gli uomini non hanno bisogno di una legge per essere determinati a fare dei profitti. Inoltre, questo punto di vista sminuisce molto l’idea di fraternità. Lasciamole perciò il suo carattere, che è chiuso in queste parole: sacrificio volontario determinato dal sentimento della fraternità.

Se voi fate della fraternità una prescrizione legale, i cui atti siano previsti e resi obbligatori dal codice industriale, che cosa rimane di questa definizione? Null’altro che una cosa: il sacrificio; ma il sacrificio involontario, forzato, causato dal timore della sofferenza. E, in buona fede, che cosa è un sacrificio di questa natura, imposto ad uno per il profitto di un altro? E’ fraternità? No, è ingiustizia; bisogna dirla, la parola; bisogna dirlo, è spogliazione legale, la peggiore delle spogliazioni, poiché essa è sistematica, permanente e inevitabile.

Che cosa faceva Barbès quando, nella seduta del 15 maggio, decretava un imposta di un miliardo in favore delle classi sofferenti? Egli metteva in pratica il vostro principio. Ciò è così vero, che il proclama di Sobrier, che si conclude come il discorso di Barbès, è preceduto da questa premessa: “Considerando che è necessario che la fraternità non sia più una parola vuota, ma si manifesti con degli atti, decreta: i capitalisti, e quelli conosciuti come tali, verseranno…”

Voi che protestate, quale diritto avete di rimproverare Barbès et Sobrier ? Che cosa hanno fatto, se non essere un poco più conseguenti che voi, e spingere un poco più lontano il vostro proprio principio? Io sostengo che quando questo principio fosse introdotto nella legge, quand’anche non vi facesse che una apparizione timida, colpirebbe con l’inerzia il capitale ed il lavoro; perché nulla garantisce che non si svilupperà indefinitamente. Servono dunque tanti ragionamenti per dimostrare che, quando gli uomini non hanno più la sicurezza di godere del frutto del loro lavoro, essi non lavorano più o lavorano di meno? L’insicurezza, lo si sappia bene, è per i capitali il principale agente della paralisi. Essa li allontana, impedisce loro di formarsi; e che cosa divengono allora quelle stesse classi delle quali si pretendeva di alleviare la sofferenza? Io lo penso sinceramente, questa sola causa è sufficiente per far discendere in poco tempo la nazione più prospera al di sotto della Turchia.

Il sacrificio imposto agli uni in favore degli altri, con l’operazione delle tasse, perde evidentemente il carattere della fraternità. Chi dunque ne ha il merito? E’ il legislatore? Non gli costa più che mettere una palla nell’urna. E’ colui che incassa? Quello obbedisce al timore di essere licenziato. E’ il contribuente? Paga suo malgrado. A chi dunque spetterà il merito che la devozione implica? Dove se ne cercherà la moralità? La spogliazione extra-legale suscita tutta la ripugnanza, rivolge contro se stessa tutta la forza dell’opinione e le mette in accordo con la nozione di giustizia. La spogliazione legale si compie, al contrario, senza che la coscienza ne sia disturbata: cosa che in un popolo non può che indebolire il senso morale. 

Con il coraggio e con la prudenza, ci si può mettere al riparo della spogliazione contraria alla legge. Ma nulla può sottrarci alla spogliazione legale. Se qualcuno ci prova, quale è il tristo spettacolo che si offre alla società? Uno spogliatore armato della legge, una vittima che resiste alla legge. Quando, sotto il pretesto della fraternità, il Codice impone ai cittadini dei sacrifici reciproci, la natura umana non perde per questo i suoi diritti. Lo sforzo di ciascuno consiste allora a portare poco alla massa dei sacrifici, ed a prendere molto. Ora, in questa lotta, sono i più sfortunati che vincono? No di certo: sono i influenti ed i più intriganti.

L’unione, la concordia, l’armonia, sono esse almeno il frutto della fraternità così compresa? Ah, senza dubbio, la fraternità è la catena divina che, alla lunga, confonderà nell’unità gli individui, le famiglie, le nazioni e le razze; ma a condizione di rimanere quella che è, vale a dire il più libero, il più spontaneo, il più volontario, il più meritorio, il più religioso dei sentimenti. Non è la sua maschera che compirà il prodigio: la spogliazione legale avrà ben a prendere a prestito il nome di fraternità, e la sua figura, e le sue formule, e le sue insegne; essa sarà sempre un principio di discordia, di confusione, di pretese ingiuste, di terrore, di miseria, d’inerzia e di odii.

Ci viene proposta una pesante obiezione. Si dice: è ben vero che la libertà e l’uguaglianza di fronte alla legge, sono la giustizia. Ma la giustizia esatta rimane neutra tra il ricco ed il povero, il forte ed il debole, il sapiente e l’ignorante, il proprietario ed il proletario, il compatriota e lo straniero. Ora, poiché gli interessi sono naturalmente antagonisti, lasciare agli uomini la loro libertà, non fare intervenire tra loro che delle leggi giuste, è sacrificare il povero, il debole, l’ignorante, il proletario, l’atleta che si presenta disarmato al combattimento. ”Che cosa può risultare, dice il Considerant, da questa libertà industriale, sulla quale si era tanto fatto conto, di questo famoso principio della libera concorrenza, che si credeva così fortemente dotato di un carattere di organizzazione democratica? Non poteva uscire che l’asservimento generale, l’infeudazione collettiva delle masse private di capitali, di armi industriali, di strumenti di lavoro, infine di educazione, di fronte alla classe industrialmente ben fornita e ben armata. Si dice: la lizza è aperta, tutti gli individui sono chiamati al combattimento, le condizioni sono uguali per tutti i combattenti. Molto bene, non si dimentica che una sola cosa: che su un grande campo di battaglia, gli uni sono istruiti, agguerriti, equipaggiati, armati fino ai denti, hanno in loro possesso un grande convoglio di approvvigionamenti, di materiali, di munizioni e di macchine da guerra, e occupano tutte le posizioni; mentre gli altri spogliati, nudi, ignoranti, affamati, sono obbligati, per vivere giorno per giorno e far vivere le loro mogli ed i loro figli, di implorare ai loro stessi avversari un lavoro qualunque ed un magro salario”.
décrire, on emprunte tout le vocabulaire des batailles. 

Che cosa! Si compara il lavoro alla guerra! Queste armi, che si chiamano capitali, che consistono in approvvigionamenti di ogni specie, e che non possono mai essere impiegate che a vincere la natura ribelle, le si assimila, con un sofismo deplorevole, a quelle armi sanguinarie che, nei combattimenti, gli uomini volgono gli uni contro gli altri! In verità, è fin troppo facile calunniare l’ordine industriale quando, per descriverlo, si prende a prestito il vocabolario delle battaglie. 

La discordia profonda e inconciliabile su questo punto tra i socialisti e gli economisti, consiste in questo: i socialisti credono all’antagonismo essenziale degli interessi. Gli economisti credono all’armonia naturale, o piuttosto alla armonizzazione necessaria e progressiva degli interessi. Tutto qui. Partendo da questo dato che gli interessi sono naturalmente antagonisti, i socialisti sono condotti, con la forza della logica, a cercare per gli interessi una organizzazione artificiale, o anche a tuffare, se possibile, nel cuore dell’uomo, il sentimento dell’interesse. E’ quello che hanno cercato di fare al Luxembourg. Ma se sono così pazzi, non sono così forti, e così naturalmente, dopo avere declamato, nei loro libri, contro l’individualismo, essi vendono i loro libri e si conducono assolutamente come tutti nell’ordinario della vita.

Ah, senza dubbio, se gli interessi sono naturalmente antagonisti, bisogna calpestare la giustizia, la libertà, l’uguaglianza di fronte alla legge. Bisogna rifare il mondo, o, come essi dicono, ricostruire la società secondo uno dei numerosi progetti che non smettono di inventare. All’interesse, principio disorganizzatore, occorre sostituire la devozione legale, imposta, involontaria, forzata; in una parola, la spogliazione organizzata; e poiché questo nuovo principio non può che sollevare delle ripugnanze e delle resistenze infinite, si cercherà dapprima di farle accettare sotto il nome falso di fraternità, dopo di che si invocherà la legge, che è la forza.

Ma se la provvidenza non si è sbagliata, se essa ha arrangiato le cose in modo tale che gli interessi, sotto la legge della giustizia, arrivino naturalmente alle combinazioni più armoniche ; se, secondo l’espressione del Lamartine, essi si costruiscono con la libertà una giustizia che l’arbitrio non potrebbe loro costruire; se l’uguaglianza dei diritti è la strada la più certa, la più diretta, verso l’uguaglianza di fatto, allora noi non possiamo domandare alla legge che giustizia, libertà, uguaglianza, così come non è richiesto che l’allontanamento degli ostacoli affinché ognuna delle gocce d’acqua che formano l’oceano prenda il suo posto.

Ed è questa la conclusione alla quale giunge l’economia politica. Questa conclusione, essa non la cerca, la trova; ma gioisce dell’averla trovata; perché, infine, non è una viva soddisfazione per lo spirito quella di vedere l’armonia nella libertà, quando altri sono ridotti a chiederla all’arbitrio? Le parole di odio che spesso ci indirizzano i socialisti sono in verità ben strane! Come mai? Se per sfortuna noi avessimo torto, non dovrebbero dispiacersene? Che cosa diciamo noi, infatti? Noi diciamo: dopo maturo esame, occorre riconoscere che Dio ha fatto bene, in modo che la migliore condizione del progresso sia la giustizia e la libertà.

I socialisti ci credono in errore ; è loro diritto. Ma dovrebbero almeno esserne afflitti; perché il nostro errore, se fosse dimostrato, implicherebbe l’urgenza di sostituire l’artificiale al naturale, l’arbitrio alla libertà, l’invenzione contingente ed umana alla concezione eterna e divina.

Supponiamo che un professore di chimica venga a dire: “Il mondo è minacciato da una grande catastrofe ; Dio non ha preso bene le sue precauzioni. Io ho analizzato l’aria che sfugge ai polmoni umani ed ho riconosciuto che non è più adatta alla respirazione; in modo tale che, calcolando il volume dell’atmosfera, io posso predire il giorno nel quale sarà tutta viziata; quel giorno l’umanità perirà di tisi, a meno che non adotti un modo di respirazione artificiale di mia invenzione”. Un altro professore si presenta e dice: “No, l’umanità non perirà così. E’ vero che l’aria che è servita alla vita animale è viziata a quel fine; ma è adatta alla vita vegetale, e ciò che i vegetali esalano è favorevole alla respirazione dell’uomo. Uno studio incompleto aveva indotto a pensare che Dio si fosse sbagliato; una ricerca più esatta mostra che ha messo delle armonie nelle sue opere. Gli uomini possono continuare a respirare come la natura ha deciso.” Che cosa si direbbe se il primo professore riempisse il secondo di ingiurie, dicendo: ”Voi siete un chimico dal cuore duro, secco e freddo; voi predicate l’orribile laissez-faire; voi non amate l’umanità, poiché voi dimostrate l’inutilità del mio apparecchio respiratorio?”. Ecco tutta la nostra discussione con i socialisti. Gli uni e gli altri ci rubano le armonie. Essi le cercano nelle innumerevoli combinazioni che essi vogliono che la legge imponga agli uomini; noi invece le troviamo nella natura degli uomini e delle cose.

Sarebbe questo il momento per dimostrare che gli interessi tendono all’armonia, perché tutta la questione è qui; ma sarebbe necessario fare un corso di economia politica, ed il lettore me ne vorrà dispensare per il momento. Dirò solo questo: se l’economia politica arriva a riconoscere l’armonia degli interessi, è perché non si ferma, come il socialismo, alle conseguenze immediate dei fenomeni, ma va fino agli effetti ulteriori e definitivi. Là è tutto il segreto. Le due scuole differiscono esattamente come i due chimici dei quali ho appena parlato; uno vede la parte, l’altro vede il tutto. Per esempio, quando i socialisti vorranno darsi la pena di seguire fino alla fine, cioè fino al consumatore, invece di fermarsi al produttore, gli effetti della concorrenza, vedranno che questa è il più potente agente di eguaglianza e di progresso, che si faccia all’interno o che venga dall’esterno. Ed è perché l’economia politica trova, in questo effetto definitivo, ciò che costituisce l’armonia, che essa dice: nel mio campo, c’è molto da apprendere e poco da fare: molto da apprendere, poiché la catena degli effetti non può essere seguita che con grande applicazione; poco da fare, poiché dall’effetto definitivo esce l’armonia del fenomeno tutto intero.

Mi è capitato di discutere questa questione con l’uomo eminente che la Rivoluzione ha elevato ad una così grande altezza. Gli dicevo: “Poiché la legge agisce per via di obbligo, non le si può richiedere che la giustizia”. Egli pensava che i popoli potesse attendersi dalla legge, in più, la fraternità. Nell’agosto scorso, mi scriveva: “Se mai, in un tempo di crisi, io arriverò al timone degli affari, la vostra idea sarà la metà del mio simbolo”. Ed io, io gli rispondo qui: “La seconda metà del vostro simbolo affonderà la prima, perché voi non potete fare della fraternità legale senza fare, contemporaneamente, l’ingiustizia legale”.

Chiudendo, io dirò ai socialisti : se voi credete che l’economia politica respinga l’associazione, l’organizzazione, la fraternità, voi siete nell’errore. 

L’associazione. Ma non sappiamo bene che è la società stessa che si perfeziona continuamente? L’organizzazione. E forse non sappiamo che fa tutta la differenza che vi è tra un ammasso di elementi eterogenei ed i capolavori della natura? La fraternità. E forse non sappiamo bene che essa sta alla giustizia come gli slanci del cuore stanno ai freddi calcoli dello spirito? 

Noi siamo d’accordo con voi su queste cose; noi plaudiamo ai vostri sforzi per spargere sul campo dell’umanità una semenza che porterà i suoi frutti nell’avvenire. Ma noi ci opponiamo a voi nel momento nel quale fate intervenire la legge e l’imposta, vale a dire la costrizione e la spogliazione; perché, aldilà del fatto che questo ricorso alla forza testimonia che voi avete più fede in voi che nel genio dell’umanità, esso è sufficiente, secondo noi, per alterare la natura stessa e l’essenza di questo dogma del quale perseguite la realizzazione.

Frédéric Bastiat

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Quello che si vede e quello che non si vede.

 

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