PROFESSIONE DI FEDE ELETTORALE.
(1846)
Mugron, 1 luglio 1846.
Ai Signori elettori del distretto di Saint-Séver.
Miei cari compatrioti,
Incoraggiato da qualcuno tra voi a presentarmi alle prossime elezioni e volendo valutare il sostegno sul quale avrei potuto contare, mi sono rivolto ad alcuni elettori: Ahio! Uno mi trova troppo avanzato, l’altro troppo poco; l’uno rifiuta le mie opinioni anti-universitarie, l’altro la mia ripugnanza anti-algerina; e chi le mie idee in economia, e chi le mie idee sulle riforme parlamentari, eccetera. Ciò prova che la migliore tattica, per un candidato, è quella di nascondere le sue opinioni, o, per maggiore sicurezza, di non averne, e di tenersi prudentemente su un programma banale io voglio la libertà senza la licenza, l’ordine senza la tirannia, la pace senza vergogna e l’economia senza compromissione dei servizi. Poiché non aspiro affatto a rubare con un sotterfugio il vostro mandato, io continuerò a esporvi sinceramente i miei pensieri, dovessi pure alienarmi ancora più voti. Vogliate scusarmi se il bisogno di dare sfogo alle convinzioni che mi premono, mi fa oltrepassare i limiti che l’uso assegna alle professioni di fede.
Ho incontrato molti conservatori, mi sono intrattenuto con molti uomini dell’opposizione, ed io credo di poter affermare che né l’uno né l’altro di questi due grandi partiti che si dividono il parlamento sia soddisfatto di se stesso. Alla camera, si combatte senza nerbo.
I conservatori possiedono la maggioranza ufficiale; regnano, governano. Ma sentono confusamente che stanno perdendo il paese e che stanno perdendo loro stessi. Essi hanno la maggioranza; ma la notoria menzogna degli scrutini solleva dal fondo della loro coscienza una protesta che li disturba. Regnano; ma vedono che sotto il loro regno le spese crescono di anno in anno, che il presente è oberato, l’avvenire impegnato, che la prima occasione ci troverà senza risorse; e non ignorano che gli imbarazzi nelle finanze furono sempre l’occasione delle esplosioni rivoluzionarie. Governano; ma non possono negare che governano gli uomini per mezzo delle loro passioni malvagie, mentre la corruzione politica penetra in tutte le vene del paese legale. Si domandano quali saranno le conseguenze di un fatto così grave, e che cosa possa accadere ad una nazione dove l’immoralità sia onorata e dove la fede politica sia oggetto di derisione e di disprezzo. Si inquietano di vedere il regime costituzionale falsificato nella sua essenza, fino al punto che il potere esecutivo e l’Assemblea Nazionale hanno pubblicamente scambiato i loro attributi, i ministri cedendo ai deputati la nomina a tutti gli impieghi, i deputati abbandonando ai ministri la loro parte del potere legislativo. Essi vedono, in questo nuovo ordine, che un profondo scoraggiamento si impadronisce dei servitori dello stato, quando invece il favore e la docilità elettorali sono i soli titoli per l’avanzamento, mentre i servizi più lunghi e più devoti non contano assolutamente nulla. Si, l’avvenire della Francia preoccupa i conservatori; e quanti ve ne sono tra loro che passerebbero all’opposizione, se vi trovassero qualche garanzia di quella pace interiore ed esteriore che è l’oggetto della loro predilezione!
Dall’altra parte, l’opposizione, in quanto partito, ha fiducia nella solidità del terreno sul quale si è piazzata? che cosa chiede? che cosa vuole? quale è il suo principio? quale il suo programma? Nessuno lo sa. Il suo ruolo naturale sarebbe di vegliare al sacro deposito delle tre grandi conquiste della civilizzazione: pace, libertà, giustizia. Ma essa non respira che guerra, preponderanza, idee napoleoniche. E diserta la libertà del lavoro e degli scambi come la libertà dell’intelligenza e dell’insegnamento. E, nel suo ardore di conquista, nell’occasione dell’Africa e dell’Oceania, è esemplare che la parola giustizia non si sia mai presentata sulle loro labbra. Sente che sta lavorando per degli ambiziosi e non per il pubblico; che la moltitudine non avrà nessun guadagno dal successo delle sue manovre. Noi abbiamo visto in altro tempo una opposizione di quindici membri sostenuta dal consenso entusiasta di un grande popolo. Ma l’opposizione dei nostri giorni non ha rinforzato le proprie radici nelle simpatie popolari; al contrario, si sente separata da questo principio di forza e di vita, e, salvo l’ardore che visioni personali ispirano ai suoi capi, è pallida, confusa, scoraggiata e la maggior parte dei suoi membri sinceri passerebbe al partito conservatore, se non gli ripugnasse di associarsi alla direzione perversa che ha dato agli affari.
Strano spettacolo! Come capita che al centro come alle estreme della camera, i cuori onesti si sentano così fuori posto? Non sarà che la conquista dei portafogli, obiettivo più o meno riconosciuto della lotta nella quale si sono impegnati, non interessa che pochi individui e rimane completamente estranea alle masse? Non sarà che manca loro un principio per l’adesione? Forse sarebbe sufficiente gettare in seno a quella assemblea un’idea semplice, vera, feconda, pratica, per veder sorgere ciò che si cerca invano, un partito che rappresenti esclusivamente, in tutta la loro estensione e in tutto il loro insieme, gli interessi degli amministrati e dei contribuenti. Questa idea feconda, io la vedo nel simbolo politico di illustri pubblicisti la cui voce non viene sfortunatamente ascoltata. Cercherò di riassumere di fronte a voi.
Ci sono delle cose che non possono essere realizzate che dalla forza collettiva o dal potere, ed altre che devono essere lasciate alla attività privata. Il problema fondamentale della scienza politica è di tenere conto di queste due modalità di azione.
La funzione pubblica e la funzione privata hanno entrambe in vista il nostro vantaggio. Ma i loro servizi differiscono in questo, che noi subiamo forzatamente gli uni mentre siamo d’accordo con gli altri; da cui segue che non è ragionevole non affidare ad una quello che l’altra non può assolutamente compiere. Per me, io penso che allorché il potere abbia garantito a ciascuno il libero esercizio ed il prodotto delle sue facoltà, represso l’abuso che se ne può fare, mantenuto l’ordine, assicurato l’indipendenza nazionale ed eseguito lavori di utilità pubblica al si sopra delle forze individuali, ha compiuto quasi tutto il suo compito.
Al di fuori di quel confine, religione, educazione, associazione, lavoro, scambi, tutto appartiene al dominio dell’attività privata, sotto l’occhio della pubblica autorità, che non ha che un incarico di sorveglianza e di repressione. Se questa grande e fondamentale linea di demarcazione fosse così stabilita, il potere sarebbe forte, sarebbe amato, poiché non farebbe mai sentire che una azione tutelare. Sarebbe poco costoso, perché sarebbe chiuso nei suoi limiti ristretti. Sarebbe liberale, perché alla sola condizione di non limitare la libertà altrui, ogni cittadino godrebbe, in tutta la sua pienezza, del libero esercizio delle sue facoltà industriali, intellettuali e morali.
Il potere, vasto corpo organizzato e vivente, tende naturalmente ad ingrandirsi. Si trova allo stretto, nella sua missione di sorveglianza. Ora, non ci sono per lui allargamenti possibili senza sconfinamenti successivi sul dominio delle facoltà individuali. Estensione del potere, significa usurpazione di qualche modo di attività privata, superamento del limite che segnalavo poco sopra tra quello che ne è e quello che non ne è attributo essenziale. Il potere esce dalla sua missione quando, per esempio, impone una forma di culto alle nostre coscienze, un metodo di insegnamento al nostro spirito, una direzione al nostro lavoro o ai nostri capitali, una spinta invadente alle nostre relazioni internazionali, eccetera. E vogliate anche constatare, signori, che il potere diviene tanto più costoso quanto più diviene oppressivo. Perché non vi è usurpazione che possa essere realizzata altrimenti che con incaricati pagati. Ciascuna di queste invasioni implica dunque la creazione di una nuova amministrazione, la fissazione di una nuova imposta; in modo tale che tra la nostra borsa e la nostra libertà vi è una inevitabile comunanza nel destino. Dunque se il pubblico comprende e vuole difendere i suoi veri interessi, dovrà arrestare il potere pubblico quando cercherà di uscire dalla sua sfera; e per questo vi è un mezzo infallibile, che è quello di rifiutare al potere il denaro per mezzo del quale potrà realizzare la sua usurpazione.
Posti questi principi, il ruolo dell’opposizione, ed io oso dire dell’intera camera, è semplice e ben definito. Non consiste nel contrastare il potere nello svolgimento sua azione essenziale, o nel rifiutargli i mezzi per rendere giustizia o di reprimere i crimini o di pavimentare le strade o di respingere l’aggressione straniera. Non consiste nel discreditarlo, avvilirlo nell’opinione pubblica, privarlo delle forze di cui ha bisogno. Non consiste nel farlo passare di mano in mano, per mezzo di cambiamenti di ministeri, e ancor meno, di dinastie. Non consiste neppure e declamare puerilmente contro la sua tendenza invadente, perché questa tendenza è fatale e irrimediabile, e si manifesterebbe sotto un presidente come sotto un re, in una repubblica come in una monarchia. Consiste unicamente nel contenerlo entro i suoi limiti; nel conservare, in tutta la sua integrità e nella maggiore ampiezza possibile, il dominio della libertà e dell’attività private.
Se allora mi domandaste: ma allora, che cosa farete come deputato? Io risponderei: Eh, mio Dio, quello che voi stessi fareste in quanto contribuenti ed amministrati. Io dirò al potere: vi mancano i denari per mantenere l’ordine all’interno e l’indipendenza all’esterno? Ecco denari e uomini, perché è il pubblico a godere dell’ordine e dell’indipendenza, non il potere. Ma pretendete di imporci un simbolo religioso, una teoria filosofica, un sistema di insegnamento, un metodo agricolo, un corso commerciale, una conquista militare? Né denari né uomini; perché qui ci toccherebbe pagare non per essere serviti ma per essere asserviti, non per conservare la nostra libertà ma per perderla. Questa dottrina si riassume in queste semplici parole: tutto per la massa dei cittadini grandi e piccoli. Nel loro interesse, buona amministrazione pubblica di ciò che, per sfortuna, non può essere fatto altrimenti. Nel loro interesse ancora, libertà piena ed intera per tutto o il resto, sotto la sorveglianza dell’autorità sociale.
Una cosa vi colpirà, signori, come colpisce me, ed è questa: perché un deputato possa parlare questa lingua, occorre che faccia parte di quel pubblico per il quale è fatta l’amministrazione, e che la paga. Occorre bene ammettere che spetta esclusivamente al pubblico, decidere come, in quale misura e a quale prezzo intenda essere amministrato; senza di che, il governo rappresentativo non sarebbe che un inganno, e la sovranità nazionale un non-senso. Ora, una volta ammessa la tendenza del governo ad un allargamento infinito, se, quando vi interpella per mezzo delle elezioni, sui suoi propri limiti, voi lasciate a lui la preoccupazione di rispondersi da solo, incaricando i propri agenti di formulare la risposta, tanto vale mettere le vostre fortune e la vostra libertà direttamente a sua discrezione. Attendersi che attinga in se stesso la resistenza alla sua naturale espansione, è aspettarsi dalla pietra che cade una energia che sospenda la sua caduta.
Se la legge elettorale riportasse che i contribuenti si faranno rappresentare dai funzionari, voi trovereste ciò assurdo e comprendereste che non ci sarebbe più alcun limite all’estensione del potere, se non una sommossa; né all’accrescimento delle spese, se non la bancarotta; ma il risultato cambia se gli elettori assolvono volentieri ad una tale prescrizione.
Qui, signori, io devo affrontare la grande questione delle incompatibilità parlamentari. Dirò poche cose, riservandomi di indirizzare osservazioni più estese al Sig. Larnac. Ma non posso passarle del tutto sotto silenzio, poiché egli ha giudicato a proposito il fase circolare tra voi una lettera, della quale non ho conservato la copia, la quale, non essendo destinata alla pubblicità, non faceva che infiorare questo ampio soggetto. Secondo l’interpretazione che è stata data a quella lettera, io chiederei che tutti i funzionari siano esclusi dalla Camera. Ignoro se la mia lettera lasci percepire un significato così assoluto. In questo caso, l’espressione sarebbe andata aldilà del mio pensiero. Io non ho mai creduto che l’assemblea dove si elaborano le leggi possa fare a meno dei magistrati; che si possa trattare con vantaggio delle questioni marittime in assenza dei marinai; delle questioni militari in assenza dei militari; o delle questioni di finanza, in assenza dei finanzieri. Io ho detto così e lo confermo. Finché la legge non abbia regolato la posizione dei funzionari alla Camera, finché i loro interessi di funzionari non siano, per così dire, cancellati dai loro interessi di contribuenti, ciò che meglio possiamo fare, noi elettori, è di non eleggerne; ed io preferirei, confesso, che a palazzo Bourbon non ce ne sia nemmeno uno, anziché vederceli in maggioranza, senza che misure di prudenza, reclamate dal buon senso pubblico, li abbiano posti e ci abbiano posti, al riparo dell’influenza che la speranza o il timore possono esercitare sui loro voti.
Qui si è voluta vedere una meschina gelosia, una sfiducia quasi odiosa contro i funzionari. Non è vero. Io conosco numerosi funzionari, quasi tutti i miei amici lo sono (perché chi non lo è, oggi?), lo sono io stesso; e nei miei saggi di economia politica io ho sostenuto, contro l’opinione del mio maestro, il Sig. Say, che i loro servizi erano produttivi allo stesso titolo che i servizi privati. Mo non è meno vero che i due servizi differiscono dal fatto che dei secondi prendiamo quanto vogliamo, e a prezzo trattato, mentre i primi ci sono imposti così come la remunerazione che ne deriva. O, se si pretende che i servizi pubblici e la loro remunerazione siano volontariamente concordate da noi, poiché li contrattano e stipulano i nostri deputati, si converrà che il nostro accordo non risulta che da quella stessa stipula. Non tocca dunque ai funzionari farlo. Né tanto meno compete loro lo stabilire l’estensione e la remunerazione del servizio, così come non appartiene al mio fornitore di vino di stabilire la quantità che io debbo acquistarne ed il prezzo che io debbo pagare. Non è dei funzionari, che io non fido: è del cuore umano; ed io posso stimare gli uomini che vivono sulle imposte, pur continuando a ritenerli poco adatti a votarle, così come il Sig. Larnac stima probabilmente i giudici, pur ritenendo le loro funzioni incompatibili con il servizio di guardia nazionale.
Queste idee di riforma parlamentare sono state anche presentate come macchiate di un radicalismo esagerato. Io avevo tuttavia in mente di precisare che, nel mio pensiero, essa è ben più necessaria alla stabilità del potere che alla salvaguardia della nostra libertà. Gli uomini più pericolosi alla Camera, direi, non sono i funzionari, ma quelli che aspirano a diventarlo. Costoro sono portati a fare al governo, qualunque esso sia, una guerra incessante, molesta, faziosa, senza alcuna utilità per il paese; costoro sfruttano gli eventi, falsificano le domande, fuorviano lo spirito pubblico, intralciano gli affari, turbano tutto, perché non hanno che un pensiero: rovesciare i ministri per prendere il loro posto. Per negare questa verità, sarebbe necessario non aver mai aperto gli occhi sulla storia della Gran Bretagna, sarebbe necessario rigettare volontariamente gli insegnamenti di tutta intera la nostra storia costituzionale. Questo mi riconduce al pensiero fondamentale di questo appello, perché voi potete vedere come l’opposizione possa essere concepita sotto due aspetti assai differenti.
L’opposizione, così come è, risultato infallibile dell’ammissibilità dei deputati al potere, è lo sforzo disordinato delle ambizioni. Essa attacca violentemente gli uomini e mollemente gli abusi; ed è semplice, perché gli abusi compongono la maggior parte della eredità che essa si sforza di raccogliere. Non si sogna di circoscrivere il campo dell’amministrazione. Si guarderebbe bene dal sopprimere qualche ruota della gigantesca macchina che ambisce a dirigere. Per il resto, noi l’abbiamo vista all’opera. Il suo capo è stato primo ministro; il primo ministro è stato il suo capo. Essa ha governato sotto l’una e l’altra bandiera. Che cosa ci abbiamo guadagnato? Attraverso queste evoluzioni, il movimento ascensionale delle spese è forse mai stato fermato per un minuto?
L’opposizione, così come io la concepisco, è la vigilanza organizzata del pubblico. Essa è calma, imparziale, ma permanente, come la reazione della molla sotto la mano che la pressa. Perché l’equilibrio non sia rotto, non bisogna forse che la reazione degli amministrati sia uguale all’azione degli amministratori? Essa non ha nulla contro gli uomini, né vuole levar loro il posto, anzi, li aiuta nell’ambito delle loro legittime funzioni; ma essa ce li tiene chiusi senza pietà.
Voi credete forse che questa opposizione naturale, che non ha nulla di pericoloso né di sovversivo, che non attacca il potere né nei suoi depositari, né nel suo principio, nelle nella sua azione utile, ma solo nelle sue esagerazioni, sia meno antipatica ai ministri che l’opposizione faziosa. Correggetevi. E’ quella soprattutto che si teme, che si odia, che si fa abortire con la derisione, che si impedisce di prodursi nel seno dei collegi elettorali, perché si vede bene che essa va al fondo delle cose e persegue il male alla sua radice. L’altra opposizione, l’opposizione personale, non è così pericolosa. Tra coloro che si disputano il portafogli, per quanto accanita sia la lotta, vi è sempre un patto tacito, in virtù del quale il vasto apparato del governo dovrà esser lasciato intatto. « Rovesciatemi se ci riuscite, dice il ministro, io vi rovescerò a mia volta ; solo, abbiamo cura che il piatto rimanga sul tavolo, sotto forma di un budget di millecinquecento milioni ». Ma il giorno nel quale un deputato, parlando a nome dei contribuenti e come contribuente, dopo aver garantito che non vuole e non può essere altro che un deputato, si alzerà alla Camera per dire sia al ministro in carica, sia ai ministri in aspettativa: “Signori, disputatevi pure il potere, io non cerco che di contenerlo; disputatevi la manipolazione delle spese, io non aspiro che a diminuirle”, ah, siatene certi, che quegli atleti furiosi, così accaniti in apparenza, sapranno ben mettersi d’accordo per affondare la voce del deputato fedele. Lo tacceranno di utopista, di teorico, di riformatore pericoloso, di uomo dalle idee fisse, senza valore pratico; lo copriranno con il loro disprezzo; gli volteranno contro la stampa a pagamento. Ma se i contribuenti lo abbandoneranno, presto o tardi impareranno di essersi abbandonati da se stessi.
Ecco il mio pensiero completo, signori: io lo ho esposto senza sviamenti, senza giri di parole, dispiacendomi di non poterlo corroborare di tutti quegli sviluppi che avrebbero potuto trascinare le vostre convinzioni. Io spero di aver detto abbastanza, tuttavia, affinché voi possiate apprezzare la linea di condotta che io seguirò se sarà vostro deputato; ed è appena il caso di aggiungere che la mia prima preoccupazione sarà quella di pormi, nei confronti del potere e dell’opposizione ambiziosa, in questa posizione di indipendenza che sola può dare delle garanzie, e che deve ben imporsi, poiché la legge non vi ha provveduto. Dopo aver stabilito il principio che deve, secondo me, dominare tutta la carriera parlamentare dei vostri rappresentanti, permettetemi di dire qualcosa sugli obiettivi principali ai quali questo principio mi sembra debba essere applicato.
Voi potreste aver sentito che io avevo dedicato degli sforzi alla causa della libertà di commercio, ed è facile vedere che quegli sforzi sono coerenti con il pensiero fondamentale che ho esposto sui limiti naturali del potere pubblico. Secondo me, colui che ha creato un prodotto deve avere la facoltà di scambiarlo come di servirsene. Lo scambio è dunque parte integrante del diritto di proprietà. Ora, noi non abbiamo istituito e non stipendiamo una forza pubblica affinché ci privi di tale diritto, ma al contrario affinché ce lo garantisca in tutta la sua interezza. Nessuna usurpazione dei governi, sull’esercizio delle nostre facoltà e sulla libera disponibilità di quanto da noi prodotto, ha mai avuto conseguenze più fatali.
Tanto per cominciare, questo regime preteso protettore, esaminato da vicino, è fondato sulla spogliazione la più flagrante. Allorché, due anni addietro, sono state prese delle misure per restringere l’accesso delle oleaginose, si sono di certo accresciuti i profitti di certe colture, poiché immediatamente l’olio è aumentato di qualche soldo per libbra. Ma è evidente che questa eccedenza di profitto non è stata un guadagno per la massa della nazione, perché sono state prese gratuitamente e artificiosamente nelle tasche di altri cittadini, di tutti coloro che non coltivano né la colza né l’olivo. Non vi è perciò stata alcuna creazione di ricchezza, ma una ingiusta transazione. Dire che con quel mezzo si è sostenuta una branca della agricoltura, è dire nulla, relativamente al bene generale, perché non si dato che una energia levata ad altre branche. E poi, quale è la folle industria che non si potrebbe rendere profittevole a questo modo? Se un calzolaio s’azzardasse a tagliare delle scarpe da degli stivali, per quanto folle fosse l’operazione, dategli un privilegio, e diverrà eccellente. Se la cultura della colza è buona in se stessa, non è necessario offrire un supplemento di guadagno a coloro che ci si dedicano; se è cattiva, qualunque supplemento non la rende buona. Si limita a gettare la perdita sulle spalle del pubblico.
La spogliazione, in generale, sposta la ricchezza, ma non la distrugge. Il protezionismo la sposta e in più la distrugge, ed ecco come: se le oleaginose del nord non entrano più in Francia, non vi sarà più mezzo di produrre in Francia le cose per mezzo delle quali le si pagava, per esempio, una certa quantità di vino: Ora, se, relativamente all’olio, i profitti dei produttori e le perdite dei consumatori si bilanciano, le perdite dei vignaioli sono un male gratuito e senza compensazioni.
Senza dubbio tra di voi vi sono molte persone che non sono attente agli effetti dei regimi di protezione. Che mi permettano una osservazione. Io suppongo che questo regime non sia imposto dalla legge, ma dalla volontà diretta dei monopolisti. Io suppongo che la legge ci lasci interamente liberi di acquistare il ferro dai Belgi o dagli Svedesi, ma che i maestri forgiatori abbiano servitori a sufficienza per respingere il ferro alle nostre frontiere in modo da costringerci ad acquistare presso di loro e alle loro condizioni. Non grideremmo all’oppressione e all’iniquità? L’iniquità, in effetti, sarebbe più evidente; ma quanto agli effetti economici, non si può dire che non sarebbero cambiati. E come! Non saremmo forse molto più ricchi, dal momento che questi signori sono stati così abili da far eseguire, da dei doganieri, quella polizia delle frontiere che non tollereremmo se fosse fatta a loro proprie spese? Il regime protezionista attesta questa verità, che un governo che esce dalle sue competenze, non attinge nelle sue usurpazioni che una forza pericolosa persino per lui. Quando lo Stato si fa distributore e regolatore dei profitti, tutte le industrie lo tirano da tutte le parti per strappargli un pezzo di monopolio. Si è mai visto il commercio interno e libero mettere un governo nella situazione nella quale il commercio estero e regolamentato ha messo Sir Robert Peel? E se ci guardiamo in casa, non è poi un governo forte quello che vediamo tremolare di fronte a un Signor Darblay? Vedete bene che contenere il potere significa consolidarlo e non comprometterlo.
La libertà degli scambi, la libera comunicazione dei popoli, i prodotti vari del globo messi alla portata di tutti, le idee che penetrano con i prodotti nelle aree addormentate dall’ignoranza, lo stato liberato dalle pretese opposte dei lavoratori, la pace delle nazioni fondata sulla interconnessione dei loro interessi, questa è senza dubbio una grande e nobile causa. Io sono felice di pensare che questa causa, eminentemente cristiana e sociale, è nello stesso tempo quella della nostra sfortunata contrada, che langue e muore tra le strette delle restrizioni commerciali.
L’insegnamento si collega anch’esso a questa questione fondamentale che, in politica, precede tutte le altre. Si colloca entro le competenze dello stato? O fa parte del dominio della attività privata? Voi indovinate la mia risposta. Il governo non è stabilito per asservire le nostre intelligenze, o per assorbire i diritti della famiglia. Assolutamente, signori, se siete contenti di rassegnare in tali nobili mani le vostre più nobili prerogative, se volete farvi imporre dallo stato teorie, sistemi, metodi, principi, libri e professori, è affar vostro; ma non sarò io a firmare per voi questa vergognosa abdicazione a voi stessi. E non nascondetevene le conseguenze. Leibniz diceva: “Io ho sempre pensato che se si è padroni della educazione, si è padroni dell’umanità”. Forse è per questo che il capo dell’insegnamento Statale, si chiama Gran Maestro. Il monopolio dell’istruzione non potrebbe essere ragionevolmente affidato che ad una autorità riconosciuta come infallibile. Fuori di là, vi sono possibilità infinite che l’errore sia uniformemente insegnato a tutto un popolo. « Noi abbiamo fatto la repubblica, diceva Robespierre, ora ci rimangono da fare i repubblicani »; Bonaparte non voleva fare che dei soldati, Frayssinous che dei devoti; il Cousin farebbe dei filosofi, Fourier degli armonici, ed io senza dubbio degli economisti. L’umiltà è una bella cosa, ma a condizione di essere nel vero. Ciò che conduce sempre a dire che il monopolio universitario non è compatibile che con l’infallibilità. Lasciamo perciò libero l’insegnamento. Si perfezionerà con le prove, i tentativi, gli esempi, la rivalità, l’imitazione, l’emulazione. L’unità non si trova al punto di partenza degli sforzi dello spirito umano; essa è il risultato nella naturale gravitazione delle intelligenze libere verso il centro di attrazione: la verità.
Questo non significa dire che l’autorità pubblica debba chiudersi in una completa indifferenza. L’ho già detto: la sua missione è di sorvegliare l’uso e reprimere l’abuso di tutte le nostre facoltà. Io ammetto che la realizzi in tutta la sua estensione, e con maggior vigilanza in materia di insegnamento che in ogni altra; che esiga delle condizioni di capacità e di moralità; che reprima l’insegnamento immorale; che vegli alla salute degli allievi. Io ammetto tutto ciò, pur restando persuaso che la sua sollecitudine più minuziosa non è che una impercettibile garanzia in confronto a quella che la natura ha posto nel cuore dei padri e nell’interesse dei professori.
Devo spiegarmi su una questione immensa, tanto più che le mie vedute differiscono probabilmente da quelle di molti tra voi: io vi parlerò di Algeria. Io non esito a dire che, salvo che per acquisire frontiere indipendenti, non mi si troverà mai, in questa come in alcun altra circostanza, dalla parte dei conquistatori.
Mi è stato dimostrato, oserei dire scientificamente dimostrato, che il sistema coloniale è la più funesta delle illusioni che abbia mai deviato un popolo. E non faccio eccezione per il popolo inglese, benché vi sia dello specioso nel famoso argomento post hoc, ergo propter hoc. Sapete quanto vi costa l’Algeria? Da un terzo ai due quinti delle vostre quattro imposte dirette, centesimi addizionali compresi. Colui tra voi che paga trecento franchi di imposte, manda ogni anno cento franchi a dissiparsi nelle nubi dell’Atlante e a farsi inghiottire nelle sabbie del Sahara. Ci si dice che sia un anticipo che recupereremo, al centuplo, in qualche secolo. Ma chi dice ciò? Gli addetti alla sussistenza che impiegano i nostri soldi. Sentite, signori, in fatto di soldi non c’è che una cosa che serva: che ciascuno vegli alla sua borsa.. e su coloro a cui ne affida i cordoni. Ci si dice ancora: “Queste spese faranno vivere tanta gente”. Si, si, spioni kabili, usurai mauri, coloni maltesi e sceicchi arabi. Se si scavasse il canale delle Grandes-Landes, il letto dell’Adour ed il porto di Bayonne, allora farebbero vivere tanta gente intorno a noi, ed in più doterebbero il paese di immense forze produttive. Io ho parlato di soldi; ma avrei dovuto prima parlare di uomini. Tutti gli anni, dieci mila dei nostri giovani concittadini, il fiore della nostra popolazione, vanno a cercare la morte su quella spiaggia divorante, fino ad oggi senza altra utilità che di mantenere, a nostre spese, i quadri dell’amministrazione, che non chiedono di meglio. A ciò, si oppone il preteso vantaggio di sbarazzare il paese dei suoi eccedenti. Orribile pretesto, che rivolta ogni sentimento umano e non ha neppure il merito della esattezza materiale; perché, presupponendo che la popolazione sia sovrabbondante, toglierle, con ogni uomo, due o tre volte il capitale che l’avrebbe fatto vivere qui non è per niente, sembra, alleviare quelli che rimangono.
Bisogna essere giusti. Malgrado la sua simpatia per tutto ciò che cresce le sue dimensioni, sembra che all’origine il potere si ritirasse di fronte a questo abisso di sangue, di iniquità e di miseria. La Francia l’ha voluto, essa ne porterà per lungo tempo la pena. Ciò che la trascinò, oltre al miraggio di un grande impero, di una nuova civilizzazione, ecc., fu una energica reazione del sentimento nazionale contro le offensive pretese dell’oligarchia britannica. Fu sufficiente che l’Inghilterra facesse una sorda opposizione ai nostri progetti per decidere a perseverarci. Io amo questo sentimento, ma preferisco vederlo smarrirsi che estendersi. Ma non è che rischiamo di metterci, all’altro estremo, sotto una dipendenza che detestiamo? Datemi un uomo docile e uno contrariato, io li porterò entrambi al confine. Se vorrò farli marciare, dirò ad uno: marciare! E all’altro: non marciare! Ed entrambi obbediranno alla mia volontà. Se il sentimento della nostra dignità prendesse questa forma, sarebbe sufficiente alla perfida Albione, per farci fare le più grandi sciocchezze, il fingere di opporsi. Supponete, cosa che è certamente poco ammissibile, che essa veda nell’Algeria la palla che ci incatena, l’abisso della nostra potenza; non dovrà allora che aggrottare le sopracciglia, darsi arie burbanzose e corrucciate, per mantenerci entro una politica pericolosa e insensata? Evitiamo questo scoglio; giudichiamo da noi e per noi; non lasciamo fare la legge né direttamente né per vie traverse. La questione di Algeri non è sfortunatamente completa. Ci legano i precedenti; il passato ha impegnato l’avvenire, e ci sono precedenti dei quali non è possibile non tener conto. Rimaniamo tuttavia padroni delle nostre decisioni ulteriori; soppesiamo i vantaggi e gli inconvenienti; non sediamo di mettere anche un poco di giustizia, anche verso i kabili, sulla bilancia. Se non rimpiangiamo il denaro, se non mercanteggiamo la gloria, diamo qualche valore al dolore delle famiglie, alle sofferenze dei nostri fratelli, alla sorte di quelli che soccombono e alle funeste abitudini di quelli che sopravvivono.
E c’è un altro argomento che merita tutta l’attenzione del vostro deputato. Parlo delle imposte indirette. Qui la distinzione tra ciò che è e ciò che non è di competenza dello stato è senza applicazione. Tocca evidentemente allo stato riscuotere l’imposta. Si può tuttavia dire che sia l’estensione smisurata del potere che lo costringe a ricorrere alle creazioni fiscali più odiose. Quando una nazione, vittima di una esagerata timidità, non osa far nulla da se stessa, e sollecita ad ogni pié sospinto l’intervento dello stato, occorre bene che essa si rassegni ad essere spietatamente taglieggiata; perché lo stato non può far nulla senza denaro e quando abbia esaurito le fonti ordinarie delle imposte, è costretto a procedere alle esazioni le più bizzarre e le più vessatorie. Ed ecco le imposte indirette sulle bevande. La soppressione di queste tasse è perciò subordinata alla soluzione di questa eterna questione che non mi stanco mai di porre: il popolo francese, vuole rimanere per sempre sotto tutela e far intervenire il governo in tutte le sue cose? Allora non si lamenti più del fardello che lo schiaccia, ed anzi si prepari a vederlo appesantirsi.
Ma pure supponendo che l’imposta sulle bevande non possa essere soppressa (cosa che io sarei ben lontano dal concedere), mi pare invece sicura che possa essere profondamente modificata e che sia facile sfrondarla da alcuni accessori particolarmente odiosi. Non sarebbe necessario per questo che ottenere da parte dei proprietari delle vigne la rinuncia a certe idee esagerate sulla estensione del diritto di proprietà e sulla inviolabilità del domicilio.
Permettemi, signori, di concludere con qualche considerazione personale. Dovete concedermelo. Io, io non ho un agente attivo e devoto che per 3.000 franchi di compenso e 4.000 di spese di ufficio, si occupi di far valere la mia candidatura da una frontiera all’altra del dipartimento, da un inizio all’altro dell’anno. Gli uni dicono “Bastiat è un rivoluzionario”. Gli altri “Bastiat si è collegato al potere”. Ciò che ho detto prima risponde a questa doppia asserzione.
Vi è anche chi dice “Bastiat può anche essere molto onesto, ma le sue opinioni sono cambiate”.
Ed io, quando io considero la mia persistenza in un principio che in Francia non fa alcun progresso, io mi chiedo talvolta se io non sia un maniaco in preda ad una idea fissa. Per mettervi in grado di giudicare se io ho cambiato, lasciate che vi ponga di fronte agli occhi un brano cella professione di fede che pubblicai, nel 1832, quando una parola benevolente del Generale Lamarque attirò su di me l’attenzione di qualche elettore.
“Nel mio pensiero, le istituzioni che noi possediamo e quelle che noi possiamo ottenere con mezzi legali, sono sufficienti, se ne faremo un uso illuminato, per condurre la nostra patria ad un alto grado di libertà, di grandezza e di prosperità. Il diritto di votare le imposte, dando ai cittadini la facoltà di estendere o di restringere a loro piacimento l’azione del potere, non è ciò in cui consiste l’amministrazione da parte del pubblico della cosa pubblica? O noi non possiamo arrivare ad un uso giudizioso di questo diritto? Riteniamo forse che l’ambizione per le posizioni sia la fonte di molte lotte, di brighe e di fazioni? Non tocca che a noi di privare del loro alimento queste maledette passioni, diminuendo i profitti ed il numero delle funzioni stipendiate.….
Ai nostri occhi, l’industria è ostacolata, l’amministrazione troppo centralizzata, l’insegnamento danneggiato dal monopolio universitario? Nulla si oppone a che noi rifiutiamo il denaro che alimenta questi impacci, questa centralizzazione, questi monopoli. Voi lo vedete, signori, non si tratterà mai di un cambiamento violento nelle forme o nei depositari del potere, che io mi attenderei la felicità della mia patria; ma dalla nostra buone fede nell’assecondare quando si tratti di utile esercizio di competenze sostanziali, e dalla nostra fermezza nel restringere, quando non. Bisogna che il governo sia forte contro i nemici all’interno e all’esterno, perché la sua missione è quella di mantenere la pace interna ed esterna. Ma occorre anche che lasci all’attività privata tutto ciò che sta nel suo dominio. L’ordine e la libertà hanno questo prezzo”
Non sono forse gli stessi principi, gli stessi sentimenti, lo stesso pensiero fondamentale, la stessa soluzione delle questioni particolari, gli stessi modi di riforma? Si può non condividere le mie opinioni; ma non si può dire che esse siano cambiate; ed io aggiungo: sono immutabili. E’ un sistema troppo omogeneo per ammettere delle modifiche. Affonderà o trionferà tutto intero.
Miei cari compatrioti, perdonatemi la lunghezza e la forma inusitata di questa lettera. Se mi accorderete i vostri voti, ne sarò profondamente onorato. Se li darete ad un altro, io servirò il mio paese in una sfera meno elevata e più adatta alle mie forze. |
Quello che si vede e quello che non si vede.
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