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Nota sulla vita e sugli scritti di Frédéric Bastiat

R. de Fontenay (1862 ?)

Frédéric Bastiat nacque a Bayonne, il 19 giugno 1801, da una famiglia onorevole e di buona reputazione nel paese. Il padre era un uomo assai ben dotato di tutti i vantaggi del corpo e dello spirito, coraggioso, leale e generoso. Si dice che Frédéric, suo unico figlio, gli somigliasse molto. Nel 1810, Bastiat rimase orfano sotto la tutela del nonno; la zia, Justine Bastiat (che gli è sopravvissuta), gli fece da madre: è lei la parente della quale le lettere di Bastiat parlano con così grande sollecitudine. Dopo aver trascorso un anno nel collegio di Saint-Sever, Bastiat fu mandato a Sorrèze, dove compi buoni studi. Là si legò di amicizia intima con V. Calmètes – oggi consigliere alla Corte di Cassazione – al quale sono indirizzate le prime lettere della sua corrispondenza. Qualche particolarità di questo legame d’infanzia rivela già la bontà e la delicatezza infinite che Bastiat metteva in tutte le cose. Robusto, attento, intraprendente e appassionato per gli esercizi fisici, si privava quasi sempre di questi piaceri, per tenere compagnia all’amico la cui debolezza di salute teneva lontano dai giochi più faticosi. Questa stretta amicizia era rispettata persino dagli insegnanti; aveva anche speciali privilegi, e, affinché i due allievi avessero tutto in comune, era loro permesso di svolgere i loro compiti in collaborazione e sulla stessa copia firmata con i due nomi. Così i due ragazzi ottennero, nel 1818, un premio di poesia. La ricompensa era una medaglia d’oro, che non poteva essere divisa. “Tienila tu, disse Bastiat che era orfano, poiché tu hai ancora il padre e la madre, la medaglia spetta a loro di diritto…”.

Lasciando il collegio di Sorrèze, Bastiat, destinato dalla famiglia al commercio, entrò nel 1818 nell’azienda dello zio a Bayonne. A quell’epoca, il divertimento aveva nella sua vita uno spazio maggiore che non quello degli affari. Tuttavia noi possiamo vedere dalle sue lettere che prendeva sul serio la sua carriera e che conservava, nel mezzo dei divertimenti del mondo, una marcata inclinazione per il ritiro; studiava, talvolta fino ad ammalarsi, una per volta o tutte insieme, le lingue straniere, la musica, la letteratura francese, inglese ed italiana, la questione religiosa, l’economia politica, materia che dall’età di diciannove anni aveva sempre studiato.

Tra ventidue e ventitré anni, dopo qualche esitazione sulla scelta di una professione, andò, per compiacere alla famiglia, a stabilirsi a Mugron, sulle rive dell’Adour, in una proprietà della quale la morte del nonno (1825) lo rese presto padrone. Sembrò che tentasse dei miglioramenti all’agricoltura: il risultato fu assai limitato, così come rimasero mediocri le condizioni dell’impresa. Per cominciare, si era intorno al 1827, l’agronomia era inesistente in Francia. Poi, si trattava di duecentocinquanta ettari circa, suddivisi in una dozzina di mezzadrie; e tutti gli agricoltori sanno che il regime parcellare e abitudinario della mezzadria oppone a qualunque serio progresso un nodo insuperabile di difficoltà materiali e soprattutto di resistenze morali. Infine, il carattere di Bastiat era incapace di piegarsi – si vorrebbe dire di abbassarsi – a quelle ristrette qualità di esattezza, minuziosa attenzione, fermezza paziente, di sorveglianza diffidente, dura, attenta al guadagno, senza le quali un proprietario non può dirigere fruttuosamente una proprietà molto parcellizzata. Aveva ben cominciato, per ogni coltura e per ogni concime, a tener conto preciso degli esborsi e dei ricavi, ed le sue prove dovettero avere anche qualche valore teorico; ma, nella pratica, era troppo indifferente al denaro, troppo disponibile a tutte le sollecitazioni, per difendere i propri interessi; la sola a beneficiare dei suoi miglioramenti dovette essere la condizione dei suoi mezzadri o dei suoi manovali.

L’agricoltura non fu perciò altro, per Bastiat, che un hobby o una finta occupazione. L’interesse vero, il fascino serio della sua vita di campagna, fu in fondo lo studio, e quel conversare che è lo studiare in due “quel discutere, come dice Montaigne, che esercita ed insegna insieme”, quando si stabilisce tra due intelligenze acute. La fortuna di Bastiat gli fece incontrare, al suo fianco, questa intelligenza sorella che doveva, in qualche modo, raddoppiare la sua. Qui si propone un nome che fu così profondamente mescolato alla esistenza intima e al pensiero di Bastiat, che lo separa appena lui stesso nei suoi ultimi scritti: è quello di Félix Coudroy. Se il Calmètes è il compagno del cuore e delle impressioni giovanili, il Coudroy è l’amico dell’intelligenza e della ragione virili, come più tardi R. Cobden sarà l’amico politico, il fratello d’arme dell’azione esterna e del rude apostolato.

Questa intimità è stata troppo feconda di grandi risultati perché non ci si soffermi qualche istante a dire come ebbe inizio: e il Coudroy ce la ha raccontata. La sua educazione, le sue opinioni di famiglia, forse più ancora il suo carattere nervoso, melanconico e meditativo, avevano condotto il Coudroy ben presto dalla parte dello studio della filosofia religiosa. Sedotto per un momento dalle utopie di Rousseau e Mably, egli si era gettato, in seguito, per disgusto verso quei sogni, verso la Politica sacra, la Legislazione primitiva, sotto quel dogma assoluto della Autorità, così eloquentemente predicato dai de Maistre e dai Bonald: laddove non si concepisce l’ordine che come risultato dell’abdicazione completa di tutte le volontà particolari sotto una volontà unica e onnipotente; laddove le tendenze naturali dell’umanità sono supposte malvagie, e di conseguenza condannate ad un suicidio perpetuo; laddove infine la libertà ed il sentimento della dignità individuale sono considerate come delle forze insurrezionali, dei principi di decadenza e di disordine. Quando i due giovani si incontrarono, uno uscendo dalla scuola di diritto di Tolosa, l’altro dai circoli di Bayonne, e quando si misero a parlare di opinioni e di principi, Bastiat, che aveva già intravisto in germe, nelle idee di Adam Smith, di Tracy e di J.-B. Say, una soluzione del tutto differente del problema umano, Bastiat fermava ad ogni momento il suo amico, mostrandogli per mezzo dei fatti dell’economia come le manifestazioni libere degli interessi individuali si limitino da se stesse per la loro stessa opposizione e si riconducano reciprocamente ad una risultante comune di ordine e di interesse generale; come il male, anziché essere una delle tendenze positive della natura umana, non sia altro in fondo che un incidente della stessa ricerca del bene, un errore che è corretto dall’interesse generale che lo sorveglia e dall’esperienza che lo perseguita nei fatti; come l’umanità abbia sempre camminato di tappa in tappa, superando ad ogni passo qualcuno dei limiti della sua infanzia; come, infine, la libertà non sia solo il risultato e lo scopo, ma il principio, il mezzo, la condizione necessaria di questo grande e incontestabile movimento…. Dapprima stupì un poco, poi finì con il conquistare a queste idee nuove il suo amico, il cui spirito era giusto ed il cuore sinceramente appassionato per la verità. Tuttavia, ciò non avvenne senza che egli stesso non ricevesse una certa influenza dalle grandi teorie di Bonald e de Maistre: perché le negazioni potenti hanno il buon effetto di elevare forzatamente ad una altezza uguale il punto di vista dei sistemi che le combattono. Vi furono senza dubbio dei compromessi, delle reciproche concessioni; ed è forse ad una specie di compenetrazione reciproca dei due principi o delle due tendenze, che occorre attribuire il carattere profondamente religioso che si mescola, negli scritti di Bastiat, alla fiera dottrina del progresso per mezzo della libertà.

Non abbiamo la pretesa di cercare quale sia stato il contributo di ciascuno dei due soci di pensiero nelle idee comuni; noi pensiamo che da una parte e dall’altra l’apporto fu considerevole. La sola opera di Coudroy che conosciamo, il suo libretto sul duello, ci ha lasciato un’alta opinione del suo talento, e si sa che Bastiat ebbe ad un certo momento l’idea di trasmettergli l’incarico di finire il secondo volume delle sue Armonie. Sembra perciò che nella associazione, l’uno apportasse di più in spirito di iniziativa e di impresa, l’altro l’elemento della continuità e dell’ordine. Bastiat lavorava capricciosamente, come gli artisti naturali; procedeva per improvvise intuizioni e, dopo aver concluso di slancio tutta una tappa, si addormentava nelle delizie del gironzolare. L’amico Coudroy, come un volante che regola una macchina, assorbiva di tempo in tempo questi eccessi di movimento, per restituirli in impulsi fecondi al suo pigro e distratto consocio. Quando questo riceveva qualche nuova opera, la portava al Coudroy, che la assaggiava, notava con cura i passaggi rimarchevoli, poi li leggeva all’amico. Sovente, Bastiat si accontentava di questi frammenti; era solo quando il libro lo interessava seriamente, che lo prendeva per leggerlo. Quel giorno, la musica era messa da parte, il romanzo aveva torto, ed il violoncello rimaneva muto. Fu così che essi trascorsero la vita insieme, abitando a quattro passi l’uno dall’altro, vedendosi tre volte al giorno, talora in casa, talora durante lunghe passeggiate che facevano con un libro sotto il braccio. Opere di filosofia, di storia, di politica o di religione, poesie, viaggi, memorie, economia politica, utopie socialiste… tutto passava così alla verifica di questa doppia intelligenza – o piuttosto di questa intelligenza raddoppiata, che portava ovunque lo stesso metodo e attaccava al mezzo dello stesso filo conduttore tutte quelle nozioni sparse, ad una grande sintesi. Era in quelle conversazioni che lo spirito di Bastiat svolgeva il suo lavoro; è là che le sue idee si sviluppavano; quando qualcuna lo colpiva più particolarmente, egli prendeva qualche ora della sua mattina per redigerla senza sforzo; è così, racconta il Coudroy, che ha fatto l’articolo sui diritti doganali, i sofismi, eccetera. Questa comunità intima è durata, l’abbiamo detto, più di venti anni, quasi senza interruzione, e cosa rimarchevole, senza dissensi. Si comprende come da questo lungo studio preparatorio, da questa meditazione solitaria a due, abbia potuto slanciarsi così sicuro di se stesso questo spirito improvvisatore, che attraverso le interruzioni dovute alla malattie e le perdite di tempo enormi di una vita continuamente pubblica ed esterna, ha gettato nel mondo, nello spazio di cinque anni, una massa di idee così nuove, così variate e tuttavia così omogenee, come quelle che contiene questo volume.

Membro del Consiglio Generale delle Landes dal 1832, Bastiat si lasciava trascinare, ogni tanto, a candidarsi deputato. Deciso, se fosse stato nominato, a non mai accettare un posto di governo e a dare immediatamente le dimissioni dalla modesta funzione di giudice di pace, egli rigettava molto più che desiderare un onore che avrebbe profondamente guastato la sua vita e probabilmente la sua fortuna. Ma approfittava, come raccontava ridendo, di quei rari momenti nei quali in provincia si legge, per diffondere, attraverso le sue circolari elettorali, e distribuire, “sotto il mantello della mia candidatura”, delle verità utili. Si noti come la sua originale ambizione invertiva il corso naturale delle cose: perché è certamente ben più nell’ordinario fare dell’economia politica il marciapiedi di una candidatura, che non di fare di una candidatura il pretesto per un insegnamento economico. Alcuni scritti più seri tradiscono da lontano la profondità di quella intelligenza così ben ordinata: come Il fisco e la vigna, del 1841, la Memoria sulla questione vinicola, del 1843, che si ricollegano ad interessi locali importanti, che Bastiat aveva per un certo periodo cercato di raggruppare in una associazione potente. E’ anche a questa epoca dei suoi lavori che occorre ricondurre, benché non sia stata finita che nel 1844, la Memoria sulla ripartizione dell’imposta catastale nel dipartimento delle Landes, un piccolo capolavoro che tutti gli statistici dovrebbero studiare per imparare come si debbano trattare i numeri.

Ma la forza delle cose stava per gettare ben presto Bastiat su una scena più vasta. Da lungo tempo (dal 1825) si era occupato della riforma doganale. Nel 1829 aveva iniziato un’opera sul regime restrittivo, della quale noi abbiamo due capitoli manoscritti, che gli avvenimenti del 1830 senza dubbio gli impedirono di terminare. Nel 1834, egli pubblicò, sull’argomento delle petizioni dei porti, riflessioni di un vigore logico che i Sofismi non hanno superato. Ma la libertà dei commerci non gli era ancora apparsa che come una vaga speranza dell’avvenire. Una circostanza insignificante venne a mostrargli, d’un colpo, che il suo sogno prendeva corpo e che la sua utopia si stava realizzando in un paese vicino. Vi era un circolo, a Mugron, un circolo del quale egli stesso faceva delle spiritosaggini « due lingue, diceva Bastiat, erano appena sufficienti ». Si trattava anche di politica e naturalmente la base era un odio feroce contro l’Inghilterra. Bastiat, portato verso le idee Inglesi e coltivando la letteratura inglese, aveva sovente delle lance da rompere sull’argomento. Un giorno, il più anglofobo dei frequentatori abituali lo abbordò mettendogli davanti con aria furiosa uno dei due giornali che riceveva il circolo “leggete, diceva, come i vostri amici ci trattano”. Era la traduzione di un discorso del Peel alla Camera dei Comuni, che terminava così: “se noi adotteremo questa decisione, noi cadremo, come la Francia, all’ultimo livello tra le nazioni”. L’insulto era evidente, non c’erano parole per rispondere. Tuttavia, riflettendoci, parve a Bastiat strano che un primo ministro di Inghilterra avesse una simile opinione della Francia, e più strano ancora che la esprimesse in piena Camera. Decise di verificare e immediatamente scrisse a Parigi per essere abbonato ad un giornale Inglese, richiedendo che gli fossero inviati tutti i numeri del mese precedente. Qualche giorno dopo, il Globe & Traveller arrivò a Mugron; vi si poteva leggere il discorso del Peel in inglese; le parole “infelice come la Francia” non c’erano e non erano mai state pronunciate.

Ma la lettura del Globe fece fare a Bastiat una scoperta molto più importante. Non era solo traducendo male che la stampa francese ingannava l’opinione pubblica: molto di più faceva non traducendo. Una immensa agitazione si andava propagando per tutta l’Inghilterra e nessuno ne parlava in Francia. La lega per la libertà dei commerci faceva tremare alla base la vecchia legislazione. Durante due anni, Bastiat poté seguire con ammirazione la marcia ed il progresso di quel movimento e l’idea di far conoscere e forse imitare in Francia quella magnifica riforma lo morse al cuore vagamente. E’ sotto questa impressione che si decise ad inviare al Journal des Économistes il suo primo articolo: Sull’influenza delle tariffe inglesi e francesi. L’articolo apparve nell’ottobre 1844. L’impressione fu profonda nel piccolo mondo degli economisti; i complimenti e gli incoraggiamenti arrivarono in folla da Parigi a Mugron. Il ghiaccio era rotto. Facendo comparire degli articoli sui giornali e soprattutto questa prima affascinante serie dei Sofismi Economici, Bastiat cominciò a scrivere la storia della lega Inglese; e per avere delle informazioni che gli mancavano, si mise in rapporto con il Cobden.

Nel mese di maggio del 1845, egli andò a Parigi per la stampa del suo libro, che gli valse nove mesi più tardi il titolo di membro corrispondente dell’Istituto. Fu accolto a braccia aperte, si voleva che dirigesse il Journal des Economistes, gli fu trovata una cattedra di economia politica, tutti si strinsero intorno a quell’uomo strano che sembrava portare nel mezzo del gruppo un poco esitante degli economisti il fuoco comunicativo delle sue ardite convinzioni. Da Parigi, Bastiat passò in Inghilterra, strinse la mano al Cobden e ai capi della lega, poi tornò a rifugiarsi a Mugron. Come quei grandi uccelli che provano le proprie ali due o tre volte prima di lanciarsi nello spazio, Bastiat ritornò a nascondersi ancora una volta in quel nido tranquillo dei suoi pensieri; già troppo avvertito delle agitazioni e delle lotte che stavano per invadere la sua vita ormai gettata a tutti i venti, venne a dare un ultimo bacio di addio alla sua felicità passata, al suo riposo, alla sua libertà perduta. Non era uomo da ubriacarsi del rumore improvviso fatto intorno al suo nome: si dibatteva contro gli impegni dell’azione esterna e avrebbe voluto restare nel suo ritiro – le sue lettere lo provano ad ogni pagina. Vana resistenza al destino! La spada era uscita dal fodero per non rientrarci più.

Nel mese di febbraio 1846, la scintilla parte da Bordeaux. Bastiat vi organizza l’associazione per la libertà degli scambi. Di là passa a Parigi, dove si agitavano, senza riuscire ad organizzarsi, gli elementi di un nucleo potente per il nome, il rango e la fortuna dei suoi membri principali. Bastiat vi trova di fronte ad ostacoli senza fine. “Io perdo tutto il tempo, l’associazione cammina a passo di tartaruga”, scriveva al Coudroy. Al Cobden: “Io soffro della mia povertà; se, invece di correre dall’uno all’altro a piedi, inzaccherato fino alle spalle, per non incontrarne che uno o due ogni giorno, e non ottenere che risposte evasive o dilatorie, io potessi riunirli al mio tavolo, in un ricco salone, quante difficoltà sarebbero eliminate. Non sono né la testa né il cuore che mi mancano; ma io sento che questa superba Babilonia non è il mio posto e che bisogna che io mi sforzi di rientrare nella mia solitudine….”. Nulla era in effetti più originale che l’aspetto esterno del nuovo agitatore. “Non aveva ancora avuto il tempo di acquistare un abito ed un cappello alla parigina, racconta il de Molinari, e quanto lo desiderava! Con i suoi capelli lunghi ed il suo piccolo cappello, con la sua ampio cappotto a redingote e il suo ombrello di famiglia, lo si sarebbe facilmente scambiato per un paesanotto in visita alle meraviglie della capitale. Ma la fisionomia di quel campagnolo era maliziosa e spirituale, il suo grande occhio nero luminoso, la sua fronte tagliata quadrata portava l’impronta del pensiero. Santa semplicità! Che non ci si sbagli, comunque: non c’è nulla di attivo come questi solitari lanciati nel mezzo del gran mondo, nulla di intrepido come queste nature ripiegate e delicate, una volta che abbiano messo il rispetto umano sotto i piedi, nulla di irresistibile come queste timidezze divenute sfacciate a forza di convinzione”. Ma quale impresa per un uomo che precipita dal fondo delle Landes ai lastricati sconosciuti di Parigi! Bisognava vedere i giornalisti, parlare ai ministri, riunire i commercianti, ottenere delle autorizzazioni alle riunioni, fare e disfare manifesti, comporre e scomporre uffici, incoraggiare i nomi mancanti, contenere l’ardore delle reclute più oscure, elemosinare delle sottoscrizioni… Tutto ciò attraverso le discussioni interne di percorsi e di mezzi, le divergenze di opinioni, gli attriti degli amor propri… Bastiat c’è per tutto: sotto questo impulso comunicativo, il movimento prende a poco a poco un corpo e l’opinione si scuote, a Parigi. La Commissione centrale si organizza, egli ne è il segretario; si fonda un settimanale, egli lo dirige; parla durante le riunioni, si mette in relazione con gli studenti e con i lavoratori, corrisponde con le associazioni nascenti nelle grandi città di provincia, visita e tiene discorsi a Lione, a Marsiglia, a Le Havre, ecc.; apre, nella sala Taranne, un corso per la gioventù delle scuole…

E nonostante tutto questo non smise di scrivere “dava tutti insieme, dice uno dei suoi collaboratori, de Molinari, delle lettere, degli articoli di polemica e degli interventi a tre giornali, senza contare i lavori più seri per il Journal des Economistes. Se al mattino vedeva spuntare un sofismo protezionista in un giornale con un poco di credito, subito prendeva la penna, demoliva il sofisma prima ancora di aver pensato alla colazione, ed ecco che la nostra lingua guadagnava un piccolo capolavoro in più”. Ma bisogna anche vedere nelle lettere di Bastiat l’altro lato di questo quadro: i conflitti interiori, gli scoraggiamenti, i pensieri della famiglia o la malattia che interrompevano tutto, le mene elettorali, la freddezza o l’ostilità liquidatoria della stampa, le calunnie che lo assalivano fino nella sua casa. Da Mugron gli si scrive “che non si osa più parlare di lui se non in famiglia, tanto l’opinione pubblica si è sollevata contro la sua impresa…”. Che cosa erano diventate le lettura con l’amico Coudroy e le buone parole guasconi del piccolo circolo!

Non dobbiamo valutare qui i meriti o gli errori dei tentativi libero-scambisti del 1846-47. Nessuno può dire che cosa sarebbe divenuto quel movimento, se non fosse stato bruscamente arrestato dalla rivoluzione del 1848. Da quel momento, l’idea ha compiuto con poco rumore il suo cammino nella opinione pubblica, che ha sempre di più influenzato. E quando è arrivato il trattato con l’Inghilterra, ha trovato il terreno sbarazzato dalle false teorie, e le menti pronte per metterla in pratica. Questa iniziazione, bisogna dirlo, mancava del tutto allora: così, ad eccezione di qualche città di grande commercio, l’agitazione non fece presa che in un ambiente ristretto di scrittori e di giornalisti. Le popolazioni vinicole, così numerose in Francia e così direttamente interessate alla libertà degli scambi, non se ne occuparono neppure loro. Bastiat, d’altro canto, non fece mai conto sul successo immediato; egli vedeva le masse non preparate e persino gli ispiratori del movimento non solidamente ancorati sui principi. Egli contava “sull’agitazione in sé stessa, per rendere le cose chiare a quelli che la praticavano”. Egli dichiarò al Cobden che avrebbe preferito “lo spirito del libero scambio a libero scambio stesso”. Ed è per questo che, lamentandosi di essere “incatenato in una specialità”, prestava sempre attenzione, in realtà, ad allargare le discussioni specialistiche, collegandole con i grandi principi, di abituare i suoi colleghi a discutere di dottrina e di farlo lui stesso su qualunque argomento – come è facile vedere nelle due serie dei sofismi economici e negli articoli dove già cominciava a discutere i sistemi socialisti. In ciò, Bastiat non si è sbagliato. Egli ha reso un immenso servizio alla nostra generazione, che si divertiva a discutere utopie di ogni specie come una innocente variazione dai romanzetti. Egli ha abituato il pubblico a trattare seriamente le questioni serie; egli ha riunito sotto una bandiera, esercitato con una lotta quotidiana, eccitato con il suo esempio, diretto con i suoi consigli e la sua viva conversazione, una falange giovane e vigorosa di economisti, che si è trovata al posto di combattimento e sotto le armi, soprattutto quando la Rivoluzione di Febbraio ha liberato tutto il socialismo. Quand’anche il movimento del libero scambio non fosse servito che a quello, mi sembra che, a differente titolo, gli uomini che lo hanno avviato e sostenuto avrebbero ancora meritato a sufficienza per il loro paese.

Dopo la rivoluzione di febbraio, Bastiat si avvicinò decisamente alla Repubblica, pur comprendendo che nessuno vi era ancora preparato. Come nell’attività per il libero scambio, egli contava sulla pratica stessa delle istituzioni per maturarvi e formarvi gli spiriti. Il dipartimento delle Landes lo inviò come deputato all’Assemblea Costituente, poi a quella legislativa. Bastiat sedette alla sinistra, in una attitudine piena di moderazione e di fermezza che, pur restando un poco isolata, fu circondata dal rispetto di tutte le parti. Membro del Comitato delle Finanze, del quale fu nominato otto volte di seguito vice-presidente, ebbe una influenza marcata, ma tutta interna ed a porte chiuse. La debolezza crescente dei suoi polmoni gli impediva quasi di tenere dei discorsi; e fu per lui spesso una dura prova quella di essere così obbligato al proprio banco. Ma quei discorsi repressi divennero i suoi libri: e noi dobbiamo a quel mutismo forzato questi capolavori di logica e di stile. Gli mancavano molte delle qualità materiali dell’oratore; pur tuttavia la sua potenza di persuasione era rimarchevole. In una delle rare occasioni nelle quali prese la parola – a proposito delle incompatibilità parlamentari – all’inizio del suo discorso non c’erano dieci persone d’accordo con lui, mentre quando discese dalla tribuna aveva trascinato la maggioranza; l’emendamento fu votato, senza il Billaut e la commissione che domandassero di riprenderlo e così, sospendendo il voto per due giorni, guadagnando il tempo per lavorare i voti. Bastiat stesso ebbe a definire la sua linea di condotta in una lettera ai suoi elettori: “ho votato, disse, con la destra contro la sinistra, quando si è trattato di resistere alla tracimazione delle false idee popolari; ho votato con la sinistra contro la destra, quando i risentimenti legittimi della classe povera e soffrente sono stati misconosciuti”.

Ma la grande opera di Bastiat, in quel tempo, fu la guerra aperta, incessante, che dichiarò a tutti quei sistemi falsi, a tutta quella effervescenza disordinata di idee, di piani, di formule contorte, di predicazioni brucianti, la cui incomprensibilità ci ricordava, durante quei mesi, quel paese di Rabelais dove le parole si disgelavano tutte insieme. Il socialismo, a lungo accarezzato da una gran parte della letteratura, si stagliava con una audacia spaventosa; vi era una assoluta tabula rasa; le basi sociali erano messe in discussione come la basi politiche. Di fronte alla fraseologia energica e brillante di questi uomini abituati se non a risolvere, quanto meno a rigirare profondamente i grandi problemi, gli avvocati-oratori, i legisti del diritto scritto, gli uomini di stato degli uffici, le forti teste del negozio e della fabbrica, i grandi amministratori della routine, si trovavano impotenti, messi fuori gioco da una tattica nuova, interdetti come i Messicani di fronte all’artiglieria di Fernando Cortès. D’altra parte, i cattolici gridavano alla fine del mondo, gettando uno stesso anatema sugli aggressori e sui difensori, sul socialismo e sull’economia politica, il “viperaio e la vipera”. Ma Bastiat era pronto da tempo. Come un sapiente ingegnere, aveva dapprima studiato i piani dei nemici e contro-minato i loro attacchi scavando più profondamente di loro il terreno delle leggi sociali. Ad ogni errore, da qualunque parte venisse, egli oppose uno dei suoi piccoli libri: alla dottrina di Louis Blanc, La proprietà e la legge; alla dottrina Considérant, Proprietà e spogliazione; alla dottrina Leroux, Giustizia e fratellanza; alla dottrina Proudhon, Capitale e rendita; al comitato Mimerel, Protezionismo e comunismo; alla cartamoneta, Maledetto denaro; al manifesto montagnardo, Lo stato; e così via. Ovunque lo si trovava sulla breccia, dovunque illuminava e fulminava. Quale sfortuna e quale vergogna, che una associazione intelligente di difensori dell’ordine non abbia allora sparso a migliaia quei piccoli libri insieme così profondi e così comprensibili per tutti!

In questa lotta – dove, bisogna dire per essere giusti, il nostro scrittore si trovò circondato e sostenuto degnamente dai suoi colleghi del libero scambio – Bastiat portò nella polemica una serenità e una calma assai rimarchevoli in quel tempo di collera e di ingiurie. Egli si irritava ben poco contro la tracotanza di quei dispotici organizzatori, di quegli “impastatori dell’umana argilla”; egli si rattristava profondamente per l’impulso verso le riforme sociali che comprometteva le riforme politiche ancora così mal sistemate; ma d’altro canto non misconosceva il lato elevato di quelle aspirazioni sparse: tutte le grandi scuole socialiste, diceva, hanno alla loro base una potente verità… Il torto dei loro adepti, diceva, è di non saperne abbastanza, di non vedere come lo sviluppo naturale della società tenda ben meglio che tutte le loro organizzazioni artificiali alla realizzazione di ognuna delle loro formule… Magnifico programma, che indica agli economisti il vero terreno della pacificazione degli spiriti. La sua corrispondenza con il Cobden ci ha rivelato l’azione piena di grandezza che Bastiat cercava di esercitare nello stesso tempo in politica estera. Ma un’altra preoccupazione lo ossessionava, sempre più viva man mano che la sua salute si indeboliva. Aveva in testa, da lungo tempo, “una nuova esposizione della scienza” e temeva di dover morire senza averla formulata. Alla fine si ritirò durante tre mesi per scrivere il primo volume delle Armonie. Poiché quest’opera, per quanto sia incompleta, è l’ultima parola di Bastiat, ci sia permesso di tentare di definire lo spirito e la tendenza della sua dottrina.

L’economia politica, in Francia, ha avuto, fin dalla sua origine, il carattere di una sorta di morale superiore. I fisiocrati le davano come oggetto la felicità degli uomini e la chiamavano la scienza del diritto naturale. Il genio inglese, essenzialmente pratico e positivo, cominciò subito a limitare questo volo ambizioso: sostituendo la considerazione della ricchezza a quella del benessere, e l’analisi dei fatti alla ricerca dei diritti. A. Smith chiuse la scienza economica dentro limiti più precisi senza dubbio, ma incontestabilmente più stretti. Soltanto, da uomo di genio quale era, non si sentì obbligato a rispettare servilmente i limiti che lui stesso aveva posto; e ad ogni passo il suo pensiero si innalza dal fatto all’idea dell’utile generale o del giusto, alle considerazioni morali o politiche. Ma con i suoi successori, spiriti più ordinari, si vide la scienza restringersi e materializzarsi sempre di più. Soprattutto in Ricardo e nei suoi discepoli immediati, l’idea di giustizia non appariva, per dire così, proprio più. E’ di questa fase della scuola che si poté dire che subordinava il produttore alla produzione e l’uomo alla cosa. Così bisogna vedere con quale vivacità il vecchio Dupont de Nemours protestava contro questo abbassamento dell’economia politica: “Perché, diceva a J.-B. Say, restringete la scienza a quella delle ricchezze? Uscite dal negozio… non restate imprigionati nelle idee e nella lingua degli Inglesi, popolo sordido che crede che un uomo non valga che per il denaro… che parlano del loro paese e non hanno ancora detto di avere una patria…”. Dupont de Nemours era troppo severo verso il Say, il cui insegnamento economico è stato molto più ampio e più elevato che non i sistemi in voga in Inghilterra al suo tempo. Ma proprio affrontando, quando l’argomento ve lo conduceva, le questioni filosofiche e morali, il Say persiste comunque a considerarle, in linea di principio, come estranee all’economia politica. L’economia politica è, secondo lui, una scienza di fatti e unicamente di fatti: dice quello che è, senza andare a cercare quello che dovrebbe essere.

Uno studioso ha perfettamente il diritto di rinchiudersi nei limiti che meglio convengono alle sue forze ; ma non deve rendere la scienza stessa solidale con la sua modestia e costringerla ad una abdicazione. La scienza deve essere ambiziosa; se teme di invadere i suoi vicinati, rischia di lasciare non occupata una parte dei suoi domini. Non è per nulla dimostrato che sia utile o possibile separare gli studi sociali in due sezioni distinte – una la semplice analisi dei risultati delle pratiche stabilite, l’altra per discutere le cause teoriche, gli scopi finali, la legittimità – ma quand’anche si ammettesse una scienza dei fatti ed una scienza dei diritti, non sarebbe pur meno vero che, dal momento che a fianco dell’insegnamento economico nessuna scienza ufficiale o nessun gruppo di uomini speciali si occupa di ricercare le ragioni ed i diritti dei fatti sociali, tocchi all’economia assumere – fosse anche provvisoriamente – questa posizione importante. Dal momento che essa la lascia vuota, è evidente che verrà qualche rivale a stabilirsi e che una pericolosa protesta batterà il fatto con l’idea del diritto. E tenendo conto del genio come delle tradizioni nazionali, questa protesta avrebbe dovuto esplodere soprattutto in Francia. Fu il socialismo. Il diniego che oppose all’economia politica era specioso. “Il male, diceva, sta nelle cose umane a fianco del bene; la vostra scienza si limita a categorizzare quei fatti, senza sottoporli al controllo preventivo del diritto; di conseguenza le vostre formule contengono il male come il bene; esse non sono, ai nostri occhi, che il male trasferito in teoria, eretto in assiomi assoluti ed immutabili”. Se il socialismo avesse aggiunto “andremo perciò a verificare le vostre formule alla luce del giusto”, non ci sarebbe stato nulla da opporre e l’economia politica gli avrebbe teso la mano. Ma, appassionata ed esclusivista come tutte le reazioni, il socialismo rifiutò invece di controllare. Si contentò di studiare, dal punto di vista dell’utile, i risultati della proprietà, dell’interesse, della concorrenza, ecc., assumendoli come fatti accettati e senza discutere le loro ragion d’essere e la loro giustizia; il socialismo negò dal punto di vista della giustizia e attaccò come illegittime, la proprietà, l’interesse, l’eredità, la concorrenza, ecc. Noi eravamo un poco troppo limitati a descrivere ciò che è; loro si fermarono a descrivere ciò che, nei loro sogni di nuova organizzazione, avrebbe dovuto essere. Si era, si diceva, schiacciato l’uomo sotto le cose ed i fatti; come in una sorta di vendetta, il socialismo schiacciò sotto i suoi piedi i fatti e le cose per rimettere l’uomo al suo posto. In questa situazione, che cosa si doveva fare, per ottenere la riconciliazione degli spiriti? Evidentemente, dovevano essere riuniti e fusi insieme i due aspetti distinti dei fatti e dei diritti; ritornare alla formula dei fisiocrati, alla scienza dei fatti dal punto di vista del diritto naturale; sottomettere la pratica al controllo del giusto; fare del socialismo sapiente e coscienzioso; provare che ciò che è, nel suo insieme attuale e soprattutto nella sua tendenza progressiva, è conforme a ciò che deve essere secondo le aspirazioni della coscienza universale.

Ecco cosa ha voluto fare Bastiat. E cosa ha fatto, quantomeno cosa ha potuto fare in un libro incompiuto. Egli ha passato in rassegna i fenomeni economici e le forme fondamentali delle nostre società moderne: esaminandole dal triplice punto di vista dell’interesse particolare, dell’interesse generale e della giustizia; e mostrando che i tre aspetti concordano. Al di sopra delle divergenze di interessi che si percepiscono dal principio tra produttore e consumatore, capitalista e salariato, colui che possiede e colui che non possiede, ecc., egli ha mostrato che esistono delle leggi predominanti di equilibrio e di unificazione che associano questi interessi e inglobano le opposizioni secondarie in una armonia superiore. In modo che “il bene di ciascuno favorisca il bene di tutti, come il bene di tutti favorisce il bene di ciascuno”; e che “il risultato naturale del meccanismo sociale è una elevazione costante del livello fisico, intellettuale e morale per tutte le classi, con una tendenza all’uguaglianza” – sviluppo che non ha altra condizione che lasciare il campo libero alla ricerca e all’azione, vale a dire la libertà.

Per caratterizzare più nettamente la grande e bella posizione presa da Bastiat, noi abbiamo eliminato transizioni e sfumature. E’ necessario ristabilirle; senza di che sembrerebbe che Bastiat abbia creato una scienza nuova, mentre egli non ha preteso, come dice, che di presentare una esposizione nuova di una scienza già formata. Occorre dunque far notare che i suoi predecessori avevano già ben preparato il terreno, sia con le loro sapienti analisi dei fenomeni che egli non ebbe che, nella maggior parte dei casi, da ricordare, sia elevandosi alle considerazioni dell’interesse generale – nozione assai meno lontana di quanto non si pensi da quella di giusto. Bisogna dire che, senza essere così precisamente formulata, l’idea delle grandi leggi sociali è stata in ogni tempo in germe nel pensiero degli economisti e che la famosa divisa del lasciar passare non è in fondo che una affermazione della gravitazione naturale degli interessi verso l’ordine ed il progresso. Infine bisogna aggiungere, per render giustizia a uomini che Bastiat ha riconosciuto come suoi maestri, che C. Comte e M. Dunoyer avevano, prima di lui, già riportato assai sensibilmente la scienza verso il punto di vista elevato dei fisiocrati: il primo, sottomettendo al controllo del diritto naturale le forme diverse della legislazione e della proprietà; il secondo, introducendo audacemente le funzioni dell’ordine intellettuale e morale nel campo degli studi economici.

Là si trova precisamente l’eccellenza del punto di vista di Bastiat, che si collega alle migliori tradizioni, mentre apre nuove prospettive. “Le scienze, per impiegare una delle sue definizioni, hanno una crescita come le piante”; non ci sono idee nuove, ma solo idee sviluppate; l’iniziatore è colui che formula in un principio netto ed assoluto delle tradizioni esitanti e incomplete, colui che fa un sistema di una tendenza. Bastiat, comunque, non si è limitato ad affermare il proprio principio in tutta la sua generalità, senza eccezioni né riserve – cosa già nuova e ardita. Per reclamare l’armonia perfetta delle leggi economiche, è stato necessario che lo facesse in qualche modo da se stesso, sopprimendo le dissonanze e rettificando errori appoggiati su nomi celebri. E’ stato necessario dissipare la confusione tra il valore e l’utilità – l’utilità che è lo scopo e il bene, il valore che é l’ostacolo ed il male; stabilire solidamente questo buon principio del peso assoluto del concorso della natura; attaccare tutta la teoria che macchia la proprietà fondiaria con l’accusa di monopolio che pesa sui prezzi; sbarazzare la legge del Progresso dalla spaventosa prospettiva del rincaro della sussistenza e dell’esaurimento dei suoli, eccetera; tutte cose che possono apparire semplici, ora, ma che allora sono state criticate per la loro straordinaria arditezza. Del resto, secondo noi, ciò che vi è di più grande ancora nel libro di Bastiat, è l’idea stessa di armonia: idea che fa capo principalmente al lavoro segreto di unità nelle scienze che persegue la nostra epoca e che ha piuttosto il carattere di una intuizione e di un atto di fede, che non di una deduzione scientifica. E’ come un quadro immenso nel quale ogni studio parziale delle leggi sociali può e deve venire infallibilmente a prendere il suo posto. Anche se Bastiat non avesse scritto il suo libro, per questa sola idea, mi sembra, quel libro sarebbe stato scritto, presto o tardi. E’ possibile credere che, nel momento in cui lo cominciava, non avesse presente tutta la sua portata. Senza dubbio egli aveva raccolto alcune considerazioni principali; poi le verità si attirarono reciprocamente; ogni nuova relazione apriva nuove equazioni, ogni gruppo armonizzato o identificato si risolveva in una sintesi superiore. In modo che i punti di vista andavano allargandosi ogni giorno e che Bastiat, alla fine, abbia dovuto sentirsi stupefatto, come diceva lui steso, dalla massa di armonie che gli si offrivano.

Una nota postuma assai preziosa ci indica come questa estensione del suo soggetto l’avesse condotto all’idea di riscrivere completamente tutta l’opera “Io avevo dapprima pensato di cominciare con l’esposizione delle Armonie economiche, e di conseguenza trattare solo soggetti puramente economici: valore, proprietà, ricchezza, concorrenza, salario, popolazione, moneta, credito, eccetera. Più tardi, se ne avessi avuto il tempo e la forza, io avrei richiamato l’attenzione del lettore su un soggetto più vasto: le Armonie sociali. Là io avrei parlato della costituzione umana, del motore sociale, della responsabilità, della solidarietà, eccetera. L’opera così concepita era già cominciata quando mi accorsi che sarebbe stato meglio fondere tutto insieme piuttosto che non separare quei due ordini di considerazioni. Ma allora la logica voleva che lo studio dell’uomo precedesse le ricerche economiche. Non era più il tempo…”. Non era più tempo, in effetti.

Bastiat si decise a scrivere le Armonie solo perché cominciava a sentire che i suoi giorni erano contati. Lo si indovina dall’accatastamento tumultuoso di idee nell’ultimo capitolo e dalle lamentele che gli sfuggono perché il tempo gli manca. Pur continuando a gettare nella corrente delle discussioni di ogni giorno qualcuna delle sue belle pagine, come la polemica con Proudhon su La Voix du Peuple, La legge, Quello che si vede e quello che non si vede, l’articolo “Abbondanza” per il Dictionnaire de l'économie politique, egli preparava con ardore febbrile gli abbozzi del secondo volume delle Armonie. Non volle attardarsi a recuperare nel riposo le sue forze esaurite; mise tutto il suo gioco su un dado, credette di poter forse vincere in velocità il progresso del male ed arrivare con uno slancio supremo a non cadere che a scopo raggiunto… In quella corsa ad ostacoli contro la morte, perse.

Quando un uomo, all’età di quarantacinque anni, spezza in un solo colpo tutti i suoi legami con il passato, come ha fatto Bastiat e, senza ombra di ambizione, si getta da una solitudine meditativa nell’ardente atmosfera dell’azione, voi potete essere certi che quell’uomo non si fermerà più che nella tomba. C’è qualcosa di cento volte più terribile, di più implacabile verso il riposo, che non l’ambizione stessa: è il fanatismo delle idee, è il sentimento di una missione. Nell’ambizioso, l’egoismo veglia e governa le risorse; nell’uomo dominato dall’idea, il sé è folgorato, non è più avvertito dell’esaurimento delle forze da parte della sua resistenza. Una volontà superiore si installa sovrana nella sua volontà, una sorta di coscienza estranea nella sua coscienza; è il dovere. Si innalza sull’ultimo passo della sua vita passata, come l’angelo dal gladio infuocato sul soglio dell’Eden; chiude la porta ai sogni di benessere e di pace. Ormai, proscritto, non hai più un te stesso; non rientrerai più nell’indipendenza intima del tuo pensiero; non tornerai ad abbandonarti nell’asilo del tuo cuore; non ti appartieni più, ma anzi sei la cosa posseduta dalla tua idea; da vivo o da morto, la tua missione ti trascinerà. La missione che Bastiat si era attribuito, o piuttosto quella che gli avvenimenti gli imposero, era al di sopra delle forze umane. Bastiat, per la disgrazia di una organizzazione troppo ricca, era insieme uomo di teorie avanzate, genio creatore – e uomo di azione pubblica, spirito principalmente divulgatore e propagandista. Avrebbe dovuto scegliere tra i due ruoli. Si potrebbe essere, a rigore, di volta in volta A. Smith e R. Cobden; ma insieme e contemporaneamente, no. Lo Smith non provò a gettare alle masse le nuove verità che modellava lentamente nel suo ritiro; il Cobden non trasferì nell’opinione pubblica e nei fatti, che degli assiomi antichi e accettati da lunga data per la scienza. Bastiat, al contrario, gettò nel tumulto delle discussioni pubbliche i brandelli della sua propria dottrina, con l’aria di improvvisare un sistema nel bel mezzo dell’azione. Dissodare i terreni vergini della scienza pura, portare nello stesso tempo l’accetta nel mezzo delle foreste dei pregiudizi governativi, lavorare sull’opinione pubblica in piena rivoluzione, il terreno più ingrato, il più tormentato, il più improprio a una futura raccolta, è far tre volte il mestiere del pioniere – e si sa che quel mestiere è mortale.

Fintantoché non si agitava che intorno al libero-scambio, avendo in quello un simbolo comune e una bandiera riconosciuta, Bastiat si trovò aiutato e sostenuto vigorosamente; contro la resistenza dell’ignoranza, dei pregiudizi e degli interessi egoistici, la lotta, nonostante qualche conflitto, fu possibile. Ma quando arrivò il socialismo e la grande battaglia nella quale non era più possibile accordarsi prima, quando Bastiat fu costretto dall’urgenza del pericolo a combattere a suo modo e a gettare sempre di più le sue idee nella mischia – idee quasi del tutto nuove sia per i suoi alleati che per i suoi avversari, si trovò nella posizione di un capo che, nel mezzo del fuoco, cambia armamento e tattica della sua parte: pur ammirando il suo nuovo modo di agire, ci si contenta di osservarlo; e più avanzava così, più si trovava solo. La collettività è necessaria ai successi di opinione e all’effetto sulle masse: un uomo che combatte isolato non può che morire ammirevolmente. Quando le Armonie apparvero e misero più in chiaro le visioni nuove che i Sofismi ed i Pamphlets avevano solo anticipato, si fece un silenzio freddo nella scuola gettata fuori strada e la maggior parte degli economisti si pronunciò contro le idee di Bastiat.

Quell’abbandono fu da lui molto sentito, anche se non se ne stupì e non se ne lamentò : si sentiva troppo preso dal suo scopo per lasciare un addio di rimprovero ai suoi vecchi compagni di lavoro, rimasti uniti a lui con il cuore, se non con le idee. Altre preoccupazioni si univano al pensiero della sua opera incompresa e incompleta; la morte aveva mietuto nella sua famiglia durante la sua assenza, la politica accumulava nubi scure e da quella parte vedeva anche l’opinione fuorviata girarsi contro di lui. Non aveva più né la forza né il desiderio di lottare. Il suo spirito cominciava a entrare in quella regione più alta della suprema benevolenza, in quei giorni del crepuscolo triste e dolce che dissolve i contorni lesi e addolcisce le opposizioni dei colori. “Noi sofferenti, scriveva ad uno dei suoi amici, noi abbiamo, come i bambini, bisogno di indulgenza: perché più il corpo è debole, più l’anima si rammollisce, e sembra che la vita al suo primo, come al suo ultimo crepuscolo, soffi nel cuore il bisogno di cercare ovunque dei legami. Queste tenerezze involontarie sono l’effetto di tutti i declini: fine del giorno, fine dell’anno, mezza luce nelle basiliche… Io lo provavo ieri, sotto i viali ombrosi delle Tuileries.. Ma non allarmatevi di questa nota elegiaca. Io non sono Millevoye, e le foglie, che si aprono appena, non sono vicine a cadere. In breve, io non mi trovo peggiorato, ma solo più debole, e non riesco più facilmente a rifiutare una domanda di riposo. E’ in prospettiva una solitudine ancora più solitaria: In altri tempi la amavo; sapevo popolarla di letture, di lavori capricciosi, di sogni politici, con intermezzi di violoncello. Oggi, tutti quei vecchi amici mi abbandonano, persino la fedele compagna dell’isolamento, la meditazione. Non è che il mio pensiero dorma. Non è mai stato più attivo; ad ogni istante scopre delle nuove armonie e sembra che il libro dell’umanità si apra di fronte a lui. Ma è un tormento in più, poiché non posso trascrivere alcuna pagina di questo libro misterioso su un libro più palpabile…”.

Dalla primavera del 1850, in effetti, la malattia di petto contro la quale combatteva da tempo, aveva fatto gravi progressi. Le acque dei Pirenei, che lo avevano salvato più volte, aggravavano il suo male. L’affezione arrivò anche alla laringe e alla gola: la voce si spense, l’alimentazione, la stessa respirazione, divennero eccessivamente dolorose. All’inizio dell’autunno, i medici lo inviarono in Italia. Al momento del suo arrivo, la notizia prematura della sua morte si era diffusa: egli poté leggere sui giornali le frasi banali del dolore per la perdita del “grande economista” e dell’ “illustre scrittore”. Languì qualche tempo ancora a Pisa, poi a Roma. Fu di là che inviò la sua ultima lettera al Journal des Économistes. Paillotet, che aveva lasciato Parigi per andare a raccogliere le ultime istruzioni del suo amico, ci ha conservato un diario interessante della fine della sua vita. Fu una fine di una calma e di una serenità antiche. Bastiat sembrava assistere come uno spettatore indifferente, discutendo, in attesa, di economia politica, di filosofia e di religione.

Volle morire da cristiano. “Ho preso, diceva semplicemente, la cosa dalla parte buona e in tutta umiltà. Non discuto il dogma, lo accetto. Guardando intorno a me, vedo che su questa terra le nazioni più illuminate sono di fede cristiana; ed io sono ben fortunato di trovarmi in comunione con questa porzione del genere umano”. La sua intelligenza conservò fino alla fine tutta la sua lucidità. Un istante prima di spirare, fece avvicinare, come per dir loro qualcosa di importante, il cugino abate di Monclar e il Paillottet. “il suo occhio, diceva quest’ultimo, brillava di quella espressione particolare, che avevo spesso notato durante le nostre discussioni e che annunciava la soluzione di un problema”. Mormorò due volte: la verità… Ma il respiro gli mancò, e non poté riuscire ad esprimere il suo pensiero. Goethe, morendo, chiedeva la luce piena, Bastiat salutava la verità. Ciascuno di loro, in quel momento supremo, richiamava l’aspirazione della sua vita – o proclamava la presa di possesso del suo scopo? Era l’ultima parola della domanda o la prima della risposta? L’addio al sogno che se ne va – o il saluto alla realtà che arriva?

Bastiat morì il 24 dicembre 1850, di quarantanove anni e sei mesi. Gli furono fatti, alla chiesa di San Luigi dei Francesi, funerali in gran pompa. Era venuto a Parigi nel 1845; la sua carriera attiva di economista non abbracciò che cinque anni.

Bastiat era di altezza media; snello e magro, era dotato di una forza fisica che la sua immagine esterna non dava a sospettare; nella sua giovinezza, era considerato il miglior corridore del paese basco. La sua figura era piacevole, la bocca molto fine, l’occhio dolce e pieno di fuoco sotto un sopracciglio spesso; la fronte quadrata largamente circondata da una foresta di lunghi capelli neri. La sua conversazione era quella di uno che capisce tutto e si interessa a tutto, viva, variata, senza pretese, colorata di accenti come nello stile del sud. Mai discuteva di economia politica per primo e mai fingeva di evitare l’argomento, qualunque fosse il rango o l’educazione del suo interlocutore. Nelle discussioni serie, era modesto, conciliante, pieno di battute pur nella fermezza delle sue convinzioni. Nelle sue parole, nulla sapeva di discorso o di lezione. In generale, la sua opinione finiva per catturare l’approvazione generale; ma non aveva l’aria di accorgersi della sua influenza. Le sue maniere e le sue abitudini erano di una estrema semplicità. Come gli uomini che vivono nei loro pensieri, aveva spesso qualcosa di ingenuo e di distratto : L. Leclerc lo definiva il La Fontaine dell’economia politica. Concordava ridendo che non era mai riuscito ad andare da rue de Choiseul a Palais-Royal senza sbagliare strada. Una volta che era partito per tenere un discorso a Lione, si era trovato sbarcato in un bar al fondo dei Vosges. Per tutto ciò che si chiama affari, era disinteressato come un bambino. La sua borsa era aperta per tutti, quando c’erano soldi; e non vi è autore che abbia guadagnato meno dai suoi libri. Il dettaglio materiale delle cose gli era antipatico: mai fu capace di prendere delle precauzioni per la sua salute; mai volle occuparsi di un annuncio o di un resoconto delle sue opere. Era così nemico dei ciarlatani, in tutto, temeva talmente di impegnare la sua indipendenza nell’ingranaggio delle cricche, che dopo cinque anni di soggiorno a Parigi, non conosceva un giornalista della stampa quotidiana. Così gli articoli dei giornali sui libri di Bastiat sono estremamente rari. Il Journal des Économistes, persino quello, attese sei mesi prima di parlare delle Armonie, e l’articolo era tutta una confutazione.

Abbiamo già detto, credo, come Bastiat scrivesse con estrema facilità. Lo si indovina dalla nettezza rimarchevole dei suoi manoscritti, dove la penna sembra aver corso a tutta velocità per la maggior parte del tempo. Forse il lavoro preventivo che compiva nella sua testa era lungo e faticoso; ma io credo piuttosto che egli fosse una di quelle intelligenze sane che si volgono naturalmente dal lato della luce, come certi fiori verso il cielo, e che la verità gli fosse facile, come alle nature oneste la virtù. E’ tuttavia certo che Bastiat si occupasse anche della forma… a modo suo. Noi abbiamo visto, nei suoi quaderni, uno dei Sofismi, tra gli altri, riscritto intieramente tre volte – tre pezzi tutti ugualmente fini, ma molto differenti nel tono. La prima maniera, la più bella a mio avviso, era una deduzione scientifica, ferma, precisa, magistrale; la seconda offriva già qualcosa di più lavorato nel giro del discorso e di più borghese, una discussione terra terra, sbarazzata delle parole tecniche e alla portata del lettore comune; la terza, infine, inquadrava tutto in una forma più leggera, un dialogo o una piccola scena quasi divertente. La prima versione, era Bastiat scrittore per se stesso, mentre esponeva a se stesso le sue idee; l’ultima era Bastiat scrittore per il pubblico ignorante o distratto, che sbriciolava il pane dei forti per farlo mandar giù ai deboli. Uno scrittore ordinario non si dà tanta pena per sminuirsi e non si lavorava così volontariamente, per far passare la propria idea: per tutto quello ci vuole quella sovrana preoccupazione per lo scopo, che caratterizza l’apostolo.

Non tocca a noi oggi stabilire il posto che il futuro assegnerà a Bastiat. M. Chevalier ha innalzato le Armonie al fianco del libro immortale di A. Smith. Recentemente, il Cobden ha espresso la stessa opinione. Noi, noi temiamo di fare qualcosa di sbagliato mettendo questa semplice e nobile figura su un piedestallo. Poi, lo confessiamo, ci sembra che un elogio troppo aperto ferirebbe ancora quell’uomo che tutti abbiamo conosciuto così disinteressato di se stesso, che non si è mai posto avanti se non per essere utile e non ha mai brillato se non per illuminare. Tutto quello che possiamo dire, è che le nuove idee del suo sistema, al principio contestate, hanno fatto il loro cammino dopo la sua morte; e che, senza parlare della scuola americana, degli economisti importanti, in Inghilterra, in Scozia, in Italia, in Spagna e altrove, professano altamente ed insegnano le sue opinioni. E se è vero che la misura materiale, in qualche modo, della verità, in una dottrina come in una religione, è la capacità di proselitismo che possiede, si può dire che la dottrina di Bastiat sia vera: perché i numerosi convertiti che passano oggi all’economia politica lo fanno quasi tutti per Bastiat e sotto il suo patrocinio. La sua opera di propaganda prosegue e proseguirà molto tempo dopo di lui – ed è la sola forma di immortalità che abbia desiderato.

Bastiat era semplicemente una grande intelligenza illuminata da un cuore ammirevole, uno di quei grandi uomini di pace ai quali, secondo la parola sacra, il mondo finisce sempre per appartenere. Noi preferiamo di molto questi uomini ai geni solitari e ai pensatori sibillini. Non sono, in effetti, né le idee né i sistemi che ci mancano oggi, ma i mezzi di unione ed i legami di armonia. La massa incoerente dei materiali sparsi dell’avvenire assomiglia a quelle ganghe dove il metallo prezioso abbonda, ma disseminato nella fanghiglia. Ciò che serve al nostro secolo, è l’amante che chiamerà il ferro intorno a sé, la goccia di mercurio che, attraversando la miscela, si assimili le particelle di oro e di argento. Ora, questo ruolo assimilatorio ci sembra eminentemente riservato alle nature simpatetiche che hanno sete di bene e di vero, e vanno a cercarlo ovunque; agli uomini di fede, più ancora che di scienza.

Ecco perché noi auguriamo al nostro paese uomini come Bastiat, e verità come la dottrina delle Armonie, verità semplici e feconde che non si scoprono e che non si percepiscono che con lo spirito del cuore; come ha detto de Maistre – mente cordis sui.

Frédéric Bastiat

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Quello che si vede e quello che non si vede.

 

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