Libertà d’informazione
Ruben Razzante*
Tra regole del mercato e responsabilità degli operatori
Quando si parla di libertà di informazione, le strumentalizzazioni sono sempre dietro l'angolo, soprattutto quando non si conoscono in profondità i problemi e non ci si confronta fino in fondo con il tessuto normativo ed etico-deontologico che fa da cornice all'agire quotidiano degli operatori del mondo dell'informazione.
Non possiamo, tuttavia, sfuggire alla sana dialettica libertà-responsabilità, coltivando pericolosamente una concezione idillica della libertà come completa assenza di vincoli, come fascio di diritti a senso unico, sganciati da un'assunzione di responsabilità da parte dei soggetti agenti.
In questo senso occorre riflettere in due direzioni: libertà del mercato dei media, da una parte, e libertà degli operatori del mondo dell'informazione dall'altra, fermo restando che le due dimensioni si intrecciano e che ben difficilmente può esistere libertà dei giornalisti in un mercato ingessato e contrassegnato da concentrazioni proprietarie e da assetti viziati da posizioni dominanti.
Occorre interrogarsi su come la regolamentazione giuridica possa incidere sull'esercizio della libertà d'informazione in un mondo sempre più globalizzato e nel quale ci si interfaccia con modalità sempre nuove e tecnologicamente sempre più avanzate.
Dall'ultimo sondaggio Censis-Ucsi (Stampa Cattolica) sulla libertà d'informazione, presentato qualche mese fa a Roma, è emersa una sostanziale rassicurazione circa il fatto che i giornalisti si sentano in maggioranza liberi di esercitare la loro professione senza pressioni snaturanti e senza condizionamenti paralizzanti.
Basti pensare che in media l'85 per cento dei giornalisti intervistati dichiara di avere “sempre” o “spesso” la possibilità di scrivere/pubblicare/mandare in onda un pezzo proposto su sua iniziativa in redazione e che la percentuale sale addirittura di 5 punti quando si chiede al giornalista se trovi riscontro nella sua quotidiana attività professionale il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati. Sondaggio attendibile?
Sicuramente da prendere con le molle, visto che la libertà d'informazione si può guardare attraverso diverse angolature visuali.
Lo dimostra un altro sondaggio, diffuso nel novembre scorso ed elaborato dall'Istituto Carlo Cattaneo per conto dell'Associazione della comunicazione pubblica e istituzionale. Il 64,3 degli interpellati ritiene che né i telegiornali Rai né quelli delle tv private siano equilibrati. Inoltre, la stragrande maggioranza del campione (85,1 per cento) dichiara di preferire giornali che riferiscano in modo paritario tutte le posizioni politiche, piuttosto che giornali dichiaratamente schierati (14,9 per cento). Quest'ultimo dato trova un riscontro significativo nel trentesimo Rapporto annuale sulla situazione sociale del paese, realizzato dal Censis, dal quale emerge che il 26,4 per cento degli italiani crede che i giornali vogliano imporre il loro punto di vista, mentre il 23,3 per cento si dice infastidito dall'eccessivo ossequio dei giornali verso i potenti e il 20,7 per cento li giudica, in generale, troppo faziosi.
Infine, tra le ricerche che nel 2005 hanno stimolato un dibattito e un confronto sulla libertà d'informazione, si segnalano anche quella sulla credibilità dei media in Italia, elaborata da Ipsos-Pms e l'ottavo rapporto sull'industria della comunicazione in Italia, diffuso dall'Istituto di economia dei media della Fondazione Rosselli.
Dalla ricerca Ipsos-Pms emergono una serie di proposte per favorire il pluralismo dell'informazione: il 58 per cento degli intervistati reputa indispensabili per la libertà e la credibilità dell'informazione giornalisti capaci e indipendenti; il 55 per cento auspica la presenza di meccanismi di verifica della correttezza delle fonti; il 51 per cento ritiene fondamentale la presenza di editori “puri”; il 35 per cento punta, come fattore decisivo, sull'assenza di una forte concentrazione nel controllo dei media. In particolare, 73 intervistati su 100 ritengono che la presenza di un gruppo industriale o finanziario proprietario dei mezzi d'informazione possa creare una situazione pericolosa, nei termini di un pesante condizionamento dell'opinione pubblica.
Dall'indagine della Fondazione Rosselli, invece, emergono ancora le posizioni dominanti degli operatori storici del settore delle infrastrutture di rete, per esempio nel campo della telefonia fissa, dove “la presenza di operatori che forniscono sia l'accesso alle reti sia i servizi associati rappresenta, infatti, una barriera non facilmente eliminabile, nemmeno dalle autorità nazionali di regolazione”. E queste considerazioni, in un'epoca di crescente convergenza multimediale, possono in prospettiva creare più di qualche apprensione a tutte le coscienze liberali del nostro Paese.
A proposito delle autorità nazionali di regolazione, alcune informazioni relative al mercato italiano sono ricavabili dall'ultima relazione annuale del presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), Corrado Calabrò. Nel 2004, il mercato italiano delle telecomunicazioni si è sviluppato a ritmi tumultuosi, raggiungendo i 35 miliardi di euro di valore. Le linee di accesso a larga banda hanno superato il traguardo dei 5 milioni nel primo trimestre del 2005, mentre nel 2004 gli utenti di Internet hanno raggiunto in Italia i 25 milioni, superando del 13 per cento il dato del 2003.
Nel campo dell'Umts, l'Italia è il primo paese in Europa per numero di abbonati (oltre 4 milioni). L'Autorità si sta muovendo sulla strada di una liberalizzazione improntata a diffusione dei nuovi servizi a larga banda, con riduzione dei prezzi e sviluppo delle piattaforme di rete da parte degli operatori alternativi. Tuttavia, nel mercato televisivo, permangono livelli di concentrazione imbarazzanti. Rai e Mediaset, sempre secondo i dati ufficiali dell'Agcom, assorbono poco meno di tre quarti dei ricavi del sistema, mentre la quota dei due operatori sul totale degli ascolti televisivi sfiora l'88 per cento nell'intera giornata.
Dunque, sia dal punto di vista della libertà sul mercato dei media, sia da quello della libertà dei giornalisti, i dati disegnano un quadro a pelle di leopardo, con luci e ombre e da essi si fa fatica a cogliere segnali univoci.
A volte i condizionamenti sono più subdoli, impercettibili, non si traducono in un ordine impartito o in un divieto imposto, bensì nella creazione di un clima culturalmente orientato, di un'atmosfera che propizia certe scelte senza la necessità di doverle imporre. Trattasi di quei condizionamenti ambientali che non dispiegano i loro effetti in modo palese e facilmente smascherabile, bensì in maniera soft, anestetizzando le coscienze dei giornalisti, depotenziando il loro senso morale e il loro anelito verso la libertà. Su quei condizionamenti bisogna riflettere. Riguardano, essenzialmente, il bilanciamento tra libertà d'informazione e libertà d'iniziativa economica nel campo dei media. Per dirla con i costituzionalisti, riguardano l'effettiva attuazione dell'art.41 della Costituzione nell'ambito della diffusione delle notizie.
Se le strozzature del sistema sono alla radice, nei meccanismi di gestione degli introiti pubblicitari, nelle modalità di reclutamento dei giornalisti nelle redazioni, nell'assegnazione delle frequenze e nella spartizione dell'etere tanto per citare alcuni significativi esempi, non è detto che le manipolazioni della libertà di informare siano poi così visibili e smascherabili.
[segue]
* Professore di Diritto dell'Informazione,Università Cattolica di Milano. Segretario della commissione giuridica del consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti.
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