Istituzioni e politiche senza innovazione:
le radici del declino competitivo italiano
Raimondo Cubeddu*, Alberto Vannucci**
1.Gli indicatori del declino competitivo
Il Consiglio Europeo di Lisbona, nel marzo 2000, ha posto come obiettivo strategico delle politiche di sviluppo nel decennio successivo la trasformazione dell'economia europea in un sistema competitivo basata sulla conoscenza, con una crescita economica sostenibile, una più estesa e migliore occupazione, una maggiore coesione sociale. La formazione di personale qualificato e motivato alla ricerca scientifica è però difficilmente conciliabile con le principali dinamiche socio-economiche riscontrabili nel vecchio continente, che “si trova di fronte una popolazione che invecchia, un interesse decrescente dei giovani verso lo studio delle scienze e dell'ingegneria, un approfondimento del 'gap digitale' e di nuove forme di ineguaglianza, mercati rigidi del lavoro, livelli sub-ottimali di mobilità tra i ricercatori, pressioni macro-economiche sui bilanci pubblici, ecc.”.1
Le radicate differenze economiche e politiche tra gli stati membri e l'esigenza di preservare alcune caratteristiche delle politiche sociali europee rappresentano ulteriori vincoli che si frappongono agli sforzi per una più compiuta realizzazione del processo avviato a Lisbona.
A distanza di cinque anni dal Consiglio di Lisbona, le difficoltà e i ritardi dell'Europa rispetto agli Stati Uniti e al Giappone nell'imboccare il sentiero di transizione verso un'economia della conoscenza rimangono consistenti, tanto a livello di investimenti complessivi nei settori più innovativi che nei corrispondenti tassi di crescita. E' significativo che un contributo relativamente più basso nel finanziamento della ricerca e nell'impiego di personale qualificato venga proprio dal settore privato, che soffre maggiormente della debolezza del quadro istituzionale di regolazione dei processi di acquisizione e diffusione di nuova conoscenza.
L'Italia, in questo panorama, presenta una situazione particolarmente seria, trovandosi all'ultimo posto tra i 15 paesi dell'UE (prima dell'allargamento) per quanto riguarda sia l'ammontare degli investimenti nell'economia della conoscenza che i corrispondenti livelli di incremento degli ultimi 5 anni: “la situazione italiana dovrebbe essere seriamente presa in considerazione: il paese in effetti combina un basso livello di investimento con una crescita debole o media per tutti i tipi di investimento (con la sola eccezione nella partecipazione all'apprendimento continuo). Per questa ragione sta diventando urgente mobilitare più risorse nella transizione verso l'economia della conoscenza”.2
Non sorprende allora che uno spettro abbia iniziato ad aggirarsi nel dibattito pubblico italiano: lo spettro della competitività. Sembrerebbe infatti ormai acquisita una consapevolezza di fondo delle parti sociali e dei diversi soggetti politici che la sfida della competitività è questione di primaria rilevanza collettiva.3 Le riflessioni critiche sul declino della capacità concorrenziale italiana sono state spesso stimolate dalla pubblicazione dei due principali indici che annualmente “certificano”, quantificandola in una graduatoria internazionale, i livelli di competitività dei diversi paesi. Tali indici permettono di individuare sinteticamente e in prospettiva comparata in quale misura l'assetto istituzionale degli stati - comprensivo di variabili economiche, politiche e sociali - produca un ambiente in grado di sviluppare il potenziale innovativo e competitivo degli operatori economici.
Secondo il World Competitiveness Scoreboard dell'International Institute for Management Development la caduta dell'Italia ha avuto negli ultimi anni una brusca accelerazione: dal 33° posto del 2001, al 34° del 2002, al 41° del 2003, al 51° del 2004, fino al 53° posto su 60 paesi (e regioni) del 2005 (cfr. figura 1).4 Delle quattro macro-aree in cui è suddiviso l'indice - performance economica, efficienza del governo, efficienza del settore privato, infrastrutture - le posizioni più critiche per l'Italia sono quelle relative alla scarsa efficienza delle imprese e dell'amministrazione pubblica. In ultima posizione tra i paesi dell'Unione europea, l'Italia è superata anche da Sud Africa, Giordania, Colombia, Tailandia, Filippine, Brasile.
Un altro autorevole indice sulla competitività relativa dei sistemi economici, contenuto nel World Economic Forum Global Competitiveness Report 2004-2005, considera un insieme più ampio di paesi, includendo nell'analisi un minor numero di parametri. L'Italia occupa nel Growth Competitiveness Index il 47° posto su 104 paesi, ultimo tra i paesi dell'Unione europea, anche in questo caso con un trend fortemente negativo: aveva il 24° nel 2001, il 33° nel 2002 e il 41° posto nel 2003 (cfr. figura 2).5 Un punteggio superiore ottengono Botswana, Tunisia, Malesia. Particolarmente penalizzanti sono i punteggi ottenuti dall'Italia nel sub-indice relativo all'innovazione tecnologica e alla qualità delle istituzioni pubbliche.
Un secondo indice, sempre a cura del World Economic Forum, è il Business Competitiveness Index. A differenza del primo, che ha un approccio macroeconomico e a medio termine, quest'ultimo valuta gli attuali livelli sostenibili di produttività di ciascun paese.6 L'Italia anche in questo caso conosce una netta caduta, dal 25° posto del 2003 al 34° del 2004, superata anche da India, Cile, Tunisia, Estonia. Il peggioramento è dovuto essenzialmente alla bassa qualità del contesto economico imprenditoriale, caratterizzato da bassa capacità d'innovazione, carente acquisizione di tecnologie dall'estero, scarsa collaborazione università-imprese, acquisto ridotto di tecnologie avanzate da parte del governo, carenti investimenti privati in ricerca e sviluppo.
[segue]
* Professore ordinario di Filosofia Politica, Università di Pisa
** Docente di Analisi delle Politiche Pubbliche, Università di Pisa
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