Le privatizzazioni: una riforma incompiuta
Giuseppe Pennisi
Docente di Finanza Pubblica - Scuola
Superiore della Pubblica Amministrazione
Salvatore Zecchini
Docente di Economia Internazionale -
Università di Roma - Tor Vergata
1. Le premesse storiche.
Come nelle storie dell’economia
l’Italia viene citata, con la Francia e la Germania, tra i Paesi di
tarda industrializzazione, così nelle analisi più recenti
dell’evoluzione economico- istituzionale dovrebbe venire inclusa tra
quelli di tarda privatizzazione (o "denazionalizzazione" per
utilizzare un eloquente francesismo). Esplicito, a riguardo, il recente
rapporto dell’Ocse sul sistema di governo e di regolazione e sulle
riforme amministrative in corso in nel nostro Paese (Oecd, 2001): sin dal
primo paragrafo,il documento sottolinea che "partendo in ritardo
rispetto agli altri, l’Italia ha dedicato gli anni ‘90 a mettersi al
passo con i Paesi dell’area Ocse nel campo delle riforme economiche e
strutturali". Tale "mettersi al passo" non ha significato
solamente la formulazione e l’attuazione di un programma di riassetto
della finanza pubblica per poter fare parte del gruppo di testa dei Paesi
dell’Unione monetaria europea, Ume, ma anche e soprattutto una forte
marcia indietro da un settore pubblico pervasivo ed inefficiente,
caratterizzato anche dalla partecipazione dello Stato (tramite enti,
istituti e conglomerati di imprese) nella proprietà dei mezzi di
produzione e, quindi, nella produzione e distribuzione di beni e servizi.
Le origini storiche della vasta e tentacolare presenza del settore
pubblico non solo nell’ambito dei monopoli naturali e nei servizi di
pubblica utilità fornitori di beni "sociali" o
"meritori" (quali l’energia) ma anche nell’industria
manifatturiera e nella grande distribuzione sono attribuibili al limitato
sviluppo del capitalismo e del mercato finanziario italiano, nonché
all’eredità di imprese diventate pubbliche sin dagli anni ‘30. Il
primo conglomerato, l’Iri, venne creato nel 1933 per evitare il crollo
del sistema finanziario italiano, travolto dalla più vasta crisi
internazionale a cavallo tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio degli
anni ‘30. L’istituzione dei conglomerati delle industrie del gas e del
petrolio (Eni), dell’energia elettrica (Enel), delle industrie di base o
considerate "ad alto valore strategico" (Efim) e di quelle di
minori dimensioni ma in difficoltà strutturali (Gepi) avvenne
rispettivamente nel 1953, nel 1962 e nel 1971 per rispondere ad un’ampia
gamma di obiettivi di politica economica, non sempre coerenti l’uno con
l’altro: sviluppo regionale, potenziamento di "campioni
nazionali", sostegno dell’occupazione, bilancia dei pagamenti,
riduzione del divario di reddito tra Nord e Sud, e molti altri ancora. Su
questa architettura di base, peraltro già molto complessa, si inseriscono
enti, istituti e conglomerati (anche di piccole dimensioni) istituiti con
l’obiettivo di favorire un più rapido sviluppo del Mezzogiorno, sia in
generale, sia in comparti specifici ritenuti, di volta in volta,
"meritori". Sorti, in gran misura, da operazioni di
"nazionalizzazione" o "statizzazione" di banche ed
industrie in difficoltà, dalla metà degli anni ‘70 questi enti e
conglomerati hanno operato principalmente come rete di protezione
opportunistica per le imprese interessate, ed i loro management, piuttosto
che come agenti di una politica industriale esplicita nell’ambito di ben
definiti indirizzi, deleghe e controlli da parte dell’organo politico.
Negli anni ‘80, man mano che aumentava la partecipazione dell’Italia
al processo d’integrazione economica internazionale, si è innescato un
circolo vizioso tra il sempre maggiore fabbisogno di fondi pubblici a
copertura di perdite di gestione, la sempre più forte pressione del
potere politico per perseguire finalità esterne alla logica
imprenditoriale, nuove perdite e, dunque, rinnovate richieste di supporto:
dal 1978 al 1985, le erogazioni ai "fondi di dotazione" delle
partecipazioni statali hanno assorbito un terzo dei trasferimenti pubblici
totali all’industria (Cer/Irs 1989) rendendo il settore protetto sempre
meno integrato nel contesto internazionale. Le dimensioni ed il ruolo del
settore pubblico, e delle imprese pubbliche di vario tipo (da quelle di
cui lo Stato era il solo azionista o proprietario a quelle a
partecipazione statale), e la mancanza di rigidi vincoli di bilancio sulle
loro operazioni, hanno fatto sì che enti, istituti e conglomerati, invece
di dare un contributo all’accumulazione di capitale sociale, sono
diventati determinanti di crescenti disavanzi del settore pubblico
allargato complessivo (Tanzi e Schuknecht, 2000). Ancora più
significativo di questo risultato è stato l’effetto che, enti, istituti
e conglomerati hanno avuto sulla corporate governance: essi erano oggetto
di spartizione tra partiti politici; dunque, la funzione di indirizzo,
delega e controllo veniva esercitata tramite un complesso ed opaco sistema
di sovrapposizione di decisioni e di poteri di veto incrociato con la
conseguenza che finalità non economiche avevano in genere la precedenza
rispetto a quelle imprenditoriali (Barca, 1999, Affinito, De Cecco,
Dringoli, 2000). Solo una determinante esterna, non una scelta politica
consapevole, ha fatto sì che all’inizio degli anni 90 venisse innescato
il processo di denazionalizzazione. Quindi, le privatizzazioni devono
essere lette alla luce delle determinanti internazionali che lo hanno
messo in moto, argomento del primo paragrafo di questa analisi. Negli
altri paragrafi vengono esaminati il programma realizzato, in particolare
nella XIII legislatura, i risultati raggiunti, gli effetti sull’economia
e le prospettive all’inizio della XIV legislatura.
2.Integrazione economica
internazionale e privatizzazioni
Il processo di denazionalizzazioni
in Italia non deve essere letto soltanto nell’ottica della
partecipazione all’Ume; le privatizzazioni in tutto il mondo sono parte
di un contesto più ampio: la "fine della politica economica" su
base nazionale come la abbiamo intesa per almeno tre generazioni. Negli
ultimi lustri del XX secolo, la possibilità stessa di poter guidare con
la mano pubblica l’economia viene aggredita da due fattori -
l’integrazione economica internazionale (la "globalizzazione")
e la "new economy" o "net.economy"
(termini con i quali si sintetizzano i paradigmi tecnico-economici
derivanti dalla diffusione delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione). Queste determinanti mettono a repentaglio l’efficacia
delle leve tradizionali su cui Governi e Parlamenti hanno contato, negli
ultimi cinquant’anni, per pilotare i sistemi economici verso obiettivi
di sviluppo e di ridistribuzione e per fornire "beni sociali" o
"meritori", anche tramite il controllo di imprese e/o la
partecipazione pubblica al loro capitale. Impongono, quindi, una
reinterpretazione della funzione dello Stato e dei suoi strumenti
d’intervento (1). In sintesi, l’integrazione economica internazionale
ha ramificazioni molto ampie e molto profonde sulla capacità stessa dei
Governi di fare politica economica al livello tanto della formulazione
quanto dell’attuazione (per un’efficace sintesi recente, Gilpin 2000).
In molti casi, ad esempio quello delle unioni monetarie, l’integrazione
contiene vincoli espliciti sia alla sovranità monetaria sia alle
politiche di bilancio, nonché alla politiche dei prezzi e dei redditi (i
tre principali strumenti a disposizione della politica economica). Pur in
mancanza di vincoli espliciti contrattualizzati in accordi tra Stati,
l’integrazione comporta "una camicia di forza tutta d’oro" (Friedman,
1999). Se si vuole fruire dei benefici dell’integrazione economica
internazionale, di pari passo "con il crescere dell’economia, si
restringe la sfera della politica". Alla lunga, non si può avere un
settore o comparto dell’economia e della società immerso nel processo
di integrazione economica internazionale (per catturarne i vantaggi) ed un
altro da essa escluso (per tutelare gruppi, categorie ed interessi
specifici). Il settore "non integrato" diventa preda di gruppi
politici ed economici "politicamente destinati a perdere"; essi
possono erigere paratie e scavare trincee, frenando il progresso, ma prima
o poi sono costretti a cedere il campo (Acemoglu e Robison, 2000); in
Italia (vedi para.1),[SSP1] i comparti caratterizzati da forte intervento
pubblico hanno sempre più assunto le forme di appartenere a settori
"non integrati", e di essere, quindi, causa ed effetto di
"un vero e proprio circolo vizioso" che allontanava parte
dell’economia italiana dal processo d’integrazione economica
internazionale (Cer/Irs, 1989). In questo contesto, si inserisce la "new
economy: alla luce dei paradigmi tecnico-economici della "new
economy", lo stesso concetto di "proprietà" diventa
irrilevante al fine della definizione dei margini delle strategie di
un’azienda o di un gruppo di aziende (Dixit, 1996, Baker e Hubbard,
2001); cade la ratio della proprietà, del controllo e della
partecipazione da parte dello Stato. Se nell’epoca dell’integrazione
economica internazionale e della "new economy", lo spazio
per lo Stato regolatore è ridotto, lo è ancora di più quello per lo
Stato produttore. "L’Italia si è presentata in ritardo
all’appuntamento con le privatizzazioni" perché "solo nel
1992 nel contesto di una crisi politica, economica e finanziaria senza
precedenti nel dopoguerra, il governo Amato ha lanciato un programma di
privatizzazioni di vasto respiro" (Goldstein e Nicoletti, 1996 p.
183). In effetti, la "crisi senza precedenti" è stata innescata
dal processo d’integrazione economica internazionale ed europea. Sino
alla fine del 1989, l’economia italiana poteva celare, dietro le
vestigia di restrizioni valutarie e l’inclusione della lira nella
"banda larga" di fluttuazione prevista dagli accordi europei di
cambio, la differenza tra la propria struttura di produzione e quella
internazionale, e il conseguente dislivello di competitività, divenuto
particolarmente marcato proprio nei comparti dove maggiore era la presenza
dello Stato produttore (2). Dopo l’abolizione degli ultimi controlli
valutari, la differenza di competitività tra l’Italia e gli altri
maggiori Paesi industriali generò crescenti dubbi sulla capacità del
Paese di completare nei tempi e modi previsti il percorso verso l’Ume,
dubbi che finirono con lo scatenare la crisi valutaria dell’estate-
autunno 1992, e resero imperativo risanare la finanza pubblica e
modificare gli assetti dell’economia reale (Banca d’Italia, 1993).
E’ eloquente che il "libro verde" del Ministero del Tesoro
sulla politica di dismissioni delle partecipazioni statali venne
presentato al Parlamento nel novembre 1992 (Ministero del Tesoro, 1992),
solo sei settimane dopo la crisi valutaria che aveva determinato la
richiesta dell’Italia a che venissero sospesi, nei suoi riguardi, gli
accordi europei di cambio.
3. Le due fasi delle
privatizzazioni: 1992-95 e 1996-2001
Alla vigilia della crisi del 1992,
il peso delle imprese a controllo e/o partecipazione statale, raggruppate
in enti, istituti e conglomerati, rappresentava in Italia il 19% del
valore aggiunto, il 24% della formazione lorda di capitale fisso ed il 16%
dell’occupazione non agricola, rispetto a valori medi, per l’Ue, pari
rispettivamente al 12%, al 19% ed al 10%. Più significativi di questi
dati aggregati, sono gli indicatori dell’intensità della presenza dello
Stato produttore in alcuni comparti, segnatamente l’industria
manifatturiera (in specie quella "pesante" come la metallurgia,
la chimica, la petrolchimica, la siderurgia, ma che quella per
l’infrastruttura di base), il credito e le assicurazioni. Nel 1991, 12
delle 20 maggiori imprese manifatturiere italiane in termini di fatturato
e più di un terzo delle prime 50 erano controllate dallo Stato; le banche
pubbliche raccoglievano l’80% dei depositi e fornivano il 90% dei
prestiti; il secondo gruppo assicurativo italiano era di proprietà
pubblica (Ceep, 1990; Mediobanca 1992). Malgrado sporadiche dismissioni,
di cui la cessione dell’Alfa Romeo alla Fiat nel 1987 era stato il caso
più importane, negli anni 80 non c’era stata una coerente politica di
privatizzazioni, nonostante che proprio in quegli anni, le
denazionalizzazioni costituissero l’asse portante e caratterizzante
delle politiche strategie di riassetto strutturale di Francia, Gran
Bretagna, Penisola Iberica e, pur se in misure minore, della Repubblica
Federale Tedesca. Anche se la norma fondamentale sulle privatizzazioni
risale all’inizio del 1992 (quindi, solo pochi mesi della crisi
valutaria) (3), il processo sarebbe stato molto più lento se non fossero
intervenute, nell’arco del 1993, specifiche determinanti esogene
attinenti alla partecipazione dell’Italia nell’Ue e nell’Ume: l’
"accordo Savona-Van Miert" (dai nomi, rispettivamente, del
Ministro dell’Industria italiano e del Commissario Europeo responsabile
della concorrenza) che permise la ricapitalizzazione della siderurgia,
allora in grave crisi, a patto della sua privatizzazione; e il
"protocollo Andreatta-Van Miert" (dal nome del Ministro degli
Affari Esteri), un’intesa di ben più ampia portata che impegna il
Governo a ridurre l’indebitamento delle imprese pubbliche fino a
portarlo, nell’arco di tre anni, "a livelli fisiologici, cioè a
livelli accettabili per un investitore privato operante in un’economia
di mercato" (Affinito, De Cecco, Dringoli 2000 pp.23-27). Il
"protocollo" non consentiva più la garanzia illimitata dello
Stato, in qualità di socio unico, sui debiti delle società controllate,
in quanto distorsivo della concorrenza; ciò imponeva di cedere quote di
capitale alle imprese pubbliche e richiedeva privatizzazioni di vasto
respiro, prima tra tutte quella della Stet, per ridurre drasticamente i
debiti dell’Iri (4). Anche se alla scadenza dei tre anni, l’impegno
non è stato rispettato (5), il "protocollo" fu un punto di
riferimento per l’evoluzione successiva. Dal 1992, si possono
distinguere due fasi: la prima (sino al 1995-96) volta a definire un
quadro coerente per la politica e la strategia di privatizzazioni ed a
sperimentarne efficienza ed efficacia; una seconda, coincidente con la
XIII legislatura, rivolta invece all’attuazione vera e propria. Tale
distinzione è essenziale in quanto, altrimenti, le cifre relative alle
dismissioni nella XIII legislatura darebbero un’impressione errata di
quanto effettivamente realizzato se viste sia nel contesto italiano sia,
ancor più in un quadro comparato europeo. Nei limiti di questa
trattazione, ci si soffermerà brevemente sulla prima fase e più
diffusamente sulla seconda. L’aspetto saliente della prima fase, è
stata la definizione delle modalità. "Il libro bianco"
(Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programma Economica 2001 p.
29) riassume efficacemente: "Non era raro trovare la pubblica
amministrazione contemporaneamente nella posizione di proprietario,
soggetto titolare della politica industriale, regolatore e cliente, senza
una chiara distinzione di ruoli e di responsabilità. Si è proceduto,
quindi, ad allocare i ruoli a diversi soggetti, distinguendo tra quello
dell’azionista proprietario, attribuito al Tesoro, quella di
responsabile per la politica industriale, demandato ai Ministeri di
settore e quello di responsabile delle regolamentazione tecnica e
tariffaria, spesso affidato ad "Autorità indipendenti di
regolazione". Questa "premessa necessaria" ha fornito,
insieme a una serie di norme (6), il quadro giuridico-istituzionale ancora
in atto. La "premessa necessaria" è stata accompagnata da un
lungo dibattito, spesso carico di connotati politico-partitici, sulle
procedure di vendita, specialmente nella fase iniziale, sui passi da fare
per le riorganizzazioni e ristrutturazioni essenziali per rendere
"vendibili" imprese industriali in perdita, monopoli naturali o
de facto e società operanti in regime di concessione (Macchiati, 1996).
Il dibattito ha oscurato, però, la poca chiarezza degli obiettivi (già
sottolineata al para.1) la loro contraddittorietà e l’incerto rilievo
relativo di quelli "positivi" (quali la diffusione della
proprietà presso il pubblico e l’apporto alla trasformazione del
sistema produttivo) rispetto a quelli "negativi" (quali
smantellare l’intervento diretto dello Stato o meramente "fare
cassa") (7) Nel periodo 1992-93, il processo è stato, comunque,
intenso: cessioni per oltre 25.000 miliardi, ossia più di un punto e
mezzo del Pil, effettuate secondo un approccio pragmatico (con procedure
che hanno spaziato dalla trattativa privata alla Offerta Pubblica di
Vendita, Opv) . C’è stato un rallentamento dopo la formazione del nuovo
Governo nell’aprile 1994; per la necessità di procedere ad un
adeguamento della regolamentazioni, un nuovo calendario venne presentato
in autunno, quando il processo prese nuovo vigore. Nel commentare la prima
fase 1992-95, l’osservazione più frequente è che "tre anni dopo
l’inizio di un programma atteso da lungo tempo, la velocità e
l’ampiezza delle dismissioni in Italia hanno sorpreso anche i più
ottimisti osservatori" (Goldstein e Nicoletti, 1996 p. 223). La
seconda fase è stata caratterizzata da:
- un vasto programma di collocamento in borsa
(diventato lo strumento più frequente per le denazionalizzazioni) che
ha procurato incassi globali allo Stato per 182 mila miliardi (al
lordo del controvalore dei debiti trasferiti dall’Eni e dall’Iri
agli acquirenti) e che ha avuto un ruolo determinante
nell’evoluzione e crescita del listino azionario italiano;
- uno sviluppo, più lento di quanto sarebbe stato
auspicabile, del sistema di regolazione prevalentemente tramite
l’istituzione di autorità indipendenti (La Spina e Majone 2000); c)
un miglioramento dell’assetto normativo e regolamentare della "corporate
governance" e del quadro istituzionale dei mercati finanziari,
ambedue essenziali per la partecipazione dei piccoli e medi
risparmiatori alle privatizzazioni;
- un limitato grado di privatizzazione delle
aziende municipalizzate.
All’inizio del processo di
denazionalizzazione degli anni 90, alle privatizzazioni sono stati
assegnati tre obiettivi principali:
- ricondurre a finalità puramente
economico-imprenditoriali la gestione delle aziende interessate;
- dare impulso alla liberalizzazione del mercato ed
al miglioramento della produttività e competitività complessiva del
sistema (Ministero del Tesoro, 1992);
- alleggerire il peso di funzioni improprie sulla
finanza pubblica; anzi, contribuire con i proventi derivanti dalle
cessioni alla riduzione del debito e del disavanzo pubblico.
Venivano indicate anche altre
finalità:
- il rafforzamento del mercato mobiliare italiano
attraverso l’emissione di titoli di alta qualità e la
canalizzazione del risparmio verso la borsa;
- la creazione di azionariato diffuso attraverso
forme agevolative per il largo pubblico ed incentivi per i dipendenti
delle imprese da denazionalizzare;
- il recupero di efficienza di impresa attraverso
una certa garanzia di stabilità degli assetti societari emergenti e
una selettiva valorizzazione del management delle imprese su cui più
puntare.
Non solamente alcune finalità
potevano essere considerate come contraddittorie od in contrasto le une
con le altre, ma nessun documento di Governo esplicitava il peso relativo
di ciascuno degli stessi obiettivi principali nel processo di
denazionalizzazione. In termini più generali, il processo non veniva
visto come un’occasione "irrepetibile per ridisegnare in profondità
l’apparato industriale italiano" (Zanetti e Azona, 1988, p. 11).
4. I risultati raggiunti.
Per valutare il successo del
programma non si deve guardare semplicemente ai valori degli attivi ed al
connesso indebitamento trasferiti dalle mani pubbliche ai privati, ma ad
una pluralità di parametri. In prima istanza, occorre fare riferimento
agli obiettivi che i governi si erano posti inizialmente e alle
motivazioni sottostanti. Tra questi, nel "libro verde" del 1992,
si dava risalto all’esigenza di un significativo incremento di
efficienza, di una maggiore concorrenza sui mercati dei prodotti, di una
più intensa proiezione delle imprese verso l’economia mondiale, e di
diffondere l’azionariato tra i risparmiatori. L’urgenza di generare
risorse da destinare alla riduzione dell’indebitamento, accumulato dopo
un decennio di disavanzi a due cifre in rapporto al Pil, si presentava
invece come un vincolo, se non come un traguardo secondario (Malgarini,
2000). Di gran significato è il fatto che nei programmi di
privatizzazione dei governi in carica negli anni 90 erano assenti le forti
impronte ideologiche che caratterizzavano i piani di altri paesi, ad
esempio del Regno Unito, in cui si ponevano le privatizzazioni quasi al
rango di un obiettivo a sé stante. Per i governi italiani privatizzare
rappresentava solo uno strumento per raggiungere un ventaglio di finalità;
era una scelta subita sotto l’urgere del dissesto della finanza pubblica
e percepita dagli italiani più come una dolorosa necessità che come
opportunità di miglioramento economico (Galli, 1998) . Come strumento, il
privatizzare è inadeguato a perseguire quella molteplicità di obiettivi
dato che tra loro non vi è sufficiente compatibilità. Ad esempio,
massimizzare i ricavi della vendita di imprese richiede che si dia
preferenza tra gli acquirenti al gruppo di azionisti che siano disposti a
pagare un consistente premio per il controllo dell’impresa, che si operi
per la ristrutturazione o riorganizzazione dell’azienda prima della sua
cessione, che si preservi in qualche misura la sua posizione dominante sul
mercato, che si limiti l’underpricing o altri incentivi per la
diffusione dell’acquisto azionario, condizioni queste che contrastano
con altrettanti obiettivi ritenuti meri- tori. Era quindi inevitabile che
nel procedere nella privatizzazione i governi degli anni 90 dovessero
compiere mediazioni tra le contrastanti esigenze e che le difficoltà di
arbitraggio rallentassero i processi decisionali. Guardando ai risultati
del processo avviato dal 1992 si possono rivelare, ex-post, gli obiettivi
che hanno trovato soddisfacimento in via prioritaria. La dimensione dei
ricavi generati dal programma è molto consistente sia in assoluto, circa
235.000 miliardi, sia in termini di incidenza sul Pil, 12 % circa al netto
dell’indebitamento trasferito (1,3 %); in media lo Stato ha ottenuto
risorse pari a circa 1,4 % del pil per anno. L’importo è tra i maggiori
nel confronto con i paesi dell’area Ocse, comparabile agli introiti del
Regno Unito (13,5 % del PIL) che sta in testa alla classifica. Se si tiene
invece conto della consistenza iniziale del patrimonio che ciascun paese
dell’Ocse poteva potenzialmente cedere al privato, il quadro appare meno
positivo: attualmente restano da alienare attivi di valore quasi pari a
quelli già ceduti, ossia l’Italia è giunta soltanto a metà del
cammino che aveva dichiarato di volere intraprendere. Dall’analisi delle
contropartite degli introiti, e considerati i tempi di realizzazione, si
deduce che in realtà è stata data priorità all’esigenza di acquisire
nuove entrate, essendo questa una delle condizioni per il risanamento dei
conti pubblici. Infatti, meno di un terzo dei ricavi (71.600 miliardi pari
al 3,7 % del pil) (Foresti, 2001) riguarda il trasferimento del controllo
di imprese, che è indice di una loro reale privatizzazione. Un ammontare
più consistente è stato tratto dalla cessione di quote non di controllo
(112.150 miliardi) e dalle cessioni alle fondazioni bancarie (26.000
miliardi). Inoltre, l’andamento delle vendite presenta un addensamento
temporale nel 1997, anno della verifica delle condizioni di accesso all’Ume,
e nel 1999, una fase in cui si accentuava la pressione dell’UE perché
il Paese accelerasse il cammino verso l’equilibrio di bilancio. Se ne ha
una conferma nell’ordine con cui si è proceduto a dismettere: nei primi
anni si sono cedute le aziende bancarie, le imprese redditizie,
specialmente nel settore dei servizi, e quelle di difficile risanamento.
Con l’avvicinarsi del momento in cui non restava che varcare la soglia
critica della perdita del controllo su aziende di grandi dimensioni in
servizi di pubblica utilità (Galli, 1998), il processo ha subito un
drastico rallentamento. Le esigenze di finanza pubblica hanno altresì
prevalso nel limitare il fenomeno delle vendite sotto prezzo (underpricing).
Sul piano della remuneratività, tenuto conto dei valori su cui si sono
attestate le quotazioni di mercato dopo la vendita, si può ritenere che
lo Stato abbia ottenuto apprezzabili realizzi; senz’altro sarebbe stato
più arduo ottenerli nella fase attuale di indebolimento generalizzato
delle quotazioni. Se si considera inoltre che con le cessioni si sono
ridotte le potenziali fonti di aggravio del debito pubblico derivanti da
possibili perdite nella gestione delle imprese negli anni futuri, si può
stimare che l’impatto delle dismissioni sul bilancio vada al di là
degli introiti netti registrati nelle statistiche. Nell’utilizzo dei
ricavi degli smobilizzi è meno evidente l’obiettivo di ridurre lo stock
di debito pubblico accumulato: soltanto poco più del 60 % degli introiti
è stato destinato al ritiro del debito (118,4 su 196,9 mila miliardi di
incassi a fine 2000) (Ministero del Tesoro, 2001). La modestia di questo
apporto, corrispondente al 4,8 % circa del volume del debito in essere a
fine 2000, mostra quanto limitato sia il contributo che può dare al
riequilibrio della finanza pubblica la sostituzione nei portafogli dei
privati di debito pubblico con azioni. Dal lato dei risparmiatori,
l’acquisto di azioni di imprese cedute dallo Stato si è rivelato un
buon investimento, se confrontato con i rendimenti possibili in impieghi
alternativi in titoli pubblici (8). Il giudizio va tuttavia temperato
dalla considerazione del più alto fattore rischio che è implicito nel
possesso azionario e dalla notevole dispersione dei rendimenti tra azioni.
Nel processo di denazionalizzazioni si sono anche rivelati tentativi di
condurre interventi di politica industriale tramite meccanismi diretti a
influire sugli assetti proprietari, sulla contendibilità delle imprese,
sui livelli di occupazione e sui piani d’investimento. Sul piano delle
relazioni con il mondo del lavoro, non sono emerse né tensioni, né forti
resistenze sociali alla privatizzazione, in quanto si è posta cura nel
tenere informati i lavoratori sui piani di dismissione e si sono vincolati
gli acquirenti a garantire livelli retributivi e posti di lavoro. Questi
vincoli hanno tuttavia rallentato il necessario processo di
ristrutturazione, influendo sui tempi di recupero della redditività del
capitale. Sotto il profilo dei nuovi assetti proprietari, non si sono
accordati rilevanti privilegi ai dipendenti nell’acquisto delle imprese
in cui erano impiegati. Sebbene oltre due terzi del capitale ceduto sia
stato sottoscritto da investitori italiani, si è lasciato spazio e in
qualche caso favorito l’ingresso di investitori stranieri (tab. 2). Una
persistente attenzione è stata rivolta a determinare assetti proprietari
che assicurassero un’espansione del valore dell’impresa e che fossero
stabili. In questa prospettiva, il Ministero del Tesoro si è impegnato
nella ricerca degli azionisti di riferimento, determinando su questa base
le modalità di cessione. Per le imprese manifatturiere è prevalsa la
scelta della tecnica della trattativa privata o dell’asta, con il
risultato di trasferire la proprietà a imprenditori già operanti nello
specifico settore aziendale e impegnati a rafforzare la loro quota di
mercato (tab.1). Per le altre imprese di maggiori dimensioni e per le
banche si è mirato a cedere blocchi di azioni a un nucleo di controllo o
a un nucleo stabile che garantisse una guida strategica dell’impresa.
Questi nuclei hanno rappresentato gli interessi dell’imprenditoria più
che quelli della finanza: soltanto il 17 % delle cessioni è stato
acquisito da investitori istituzionali (tab. 2). A dare stabilità ai
nuovi assetti proprietari hanno contribuito i vincoli posti agli
acquirenti, in particolare i poteri speciali che lo Stato ha conservato
(golden share) e i massimali sui possessi azionari, nonché la disciplina
dell’obbligo di OPA totalitaria. I cambiamenti di proprietà nel periodo
successivo alla privatizzazione sono stati pertanto rari, con la cospicua
eccezione della Telecom. Questa stabilità tende tuttavia ad attenuarsi
nel tempo in corrispondenza con l’emergere sia di un mercato azionario
più liquido, sia di un capitalismo "finanziario", molto attento
alla redditività di breve termine dell’investimento. Complessivamente,
i Governi degli anni 90 hanno privatizzato molto meno di quanto appaia,
considerato anche che in qualche caso le aziende cedute sono rientrate
nell’alveo allargato del settore pubblico, comprendente le fondazioni
bancarie, l’Enel e le aziende pubbliche locali. Nondimeno, sono riusciti
a restringere in misura notevole la proprietà pubblica nel sistema
produttivo.
5. Gli effetti sull’economia
In quale misura questo programma si
è dimostrato funzionale per il miglioramento dell’efficienza del
sistema delle imprese e della concorrenza, per lo sviluppo dei mercati
finanziari, per la diversificazione della ricchezza finanziaria e per dare
impulso a introdurre più efficaci regole di controllo societario? Questi
effetti indiretti sul tessuto dell’economia sono ancor più importanti
dell’impatto diretto in termini di arretramento del settore pubblico (Giavazzi,
1996). Sul piano dell’efficienza, un sensibile passo in avanti viene
evidenziato dalle indagini microeconomiche sulle imprese privatizzate. Si
è assistito a un sensibile rialzo degli indici di produttività e di
redditività (R&S, 2000): nelle società privatizzate, ad esempio, il
valore aggiunto per addetto è salito di quasi la metà rispetto al
triennio precedente l’acquisizione, l’intensità di capitale per
addetto è aumentata del 35 %, il margine operativo sul fatturato del 5 %.
Anche le vendite sui mercati esteri sono cresciute di 5 punti percentuali.
Tra i fattori determinanti, a parte il passaggio di proprietà dal
pubblico al privato, che per sé stesso non sarebbe sufficiente, vanno
sottolineati il miglioramento indotto nella struttura di management,
l’integrazione in gruppi multinazionali, le riorganizzazioni aziendali e
un controllo più stringente della proprietà sulla conduzione
d’impresa. I guadagni di efficienza sono emersi per quelle imprese la
cui proprietà è passata interamente o in gran parte nelle mani di un
ristretto gruppo o di un unico investitore. Più incerti, invece, i
risultati per le grandi imprese il cui controllo è detenuto con quote
relativamente modeste da un ristretto nucleo di controllo (catene di
controllo a piramide). In questi casi, resta l’interrogativo se le
strategie di impresa sono rivolte a massimizzare il valore dell’impresa
nel medio periodo, oppure a realizzare incrementi di valore di breve
termine in un’ottica di puro investimento finanziario da dismettere al
momento opportuno. Un esempio illustrativo è dato dalla recente
esperienza dei mutamenti di assetto proprietario della società Telecom.
Il problema di promuovere assetti più indicati per lo sviluppo di lungo
termine dell’impresa rimane e va affrontato in un contesto più ampio
del processo di privatizzazione, dal momento che chiama in causa il grado
di efficienza dei mercati finanziari e la validità delle soglie istituite
per l’OPA obbligatoria totalitaria e dei limiti di possesso azionario
nei casi di public company. Sotto il primo aspetto è l’efficacia
dell’azione della Consob che andrebbe potenziata; sotto il secondo
aspetto, occorre riconsiderare la quota di possesso azionario da
richiedere all’azionista di controllo. L’esperienza recente
sembrerebbe confermare la validità della tesi di quanti auspicano la
fissazione di una quota elevata (Fulghieri e Zingales, 1994), tale da
impegnare pienamente la proprietà nelle sorti dell’impresa,
scoraggiando comportamenti opportunistici. In termini di efficienza, il
contributo delle privatizzazioni è risultato inferiore alle attese.In
molti casi, e particolarmente per le imprese detentrici di posizioni
dominanti o di monopolio naturale, lo Stato non ha attuato interventi
diretti a frazionare le aziende su base verticale, o orizzontale. Si è
scelto invece di vendere in blocco gruppi di aziende fortemente integrate
(De Nardis, 2000), senza provvedere a stabilire nei loro settori di
mercato una asimmetria di condizioni che facilitasse l’ingresso di nuovi
concorrenti. Un simile atteggiamento ha permesso probabilmente di
maggiorare gli incassi derivati dalla cessione delle imprese, ma a scapito
dei benefici che l’economia avrebbe potuto trarre da un assetto
effettivamente concorrenziale. Nei servizi di pubblica utilità è mancato
il parallelismo che lo Stato aveva inteso stabilire tra privatizzazione e
maggiore concorrenza: si sono cedute quote di società prima di
liberalizzare i rispettivi mercati, col risultato di rafforzare le
resistenze all’apertura degli stessi (Banca d’Italia, 2000). Le
"autorità di regolazione di settore" sono sorte troppo tardi e
non hanno coperto settori importanti, dominati da monopoli o oligopoli,
come i trasporti e la distribuzione dell’acqua, nonostante gli impegni
presi dal governo Amato (Goldestein e Nicoletti, 1996). La
contrapposizione di interessi tra Stato venditore e Stato regolatore ha
visto pertanto prevalere i primi sui secondi; l’obiettivo di ottenere
attraverso la privatizzazione maggiore concorrenza è ancora da
raggiungere. Più successo si è avuto invece nello stimolare la crescita
del mercato azionario e nel diffondere la proprietà azionaria tra i
risparmiatori. Sullo sfondo di una capitalizzazione di borsa che è
triplicata tra il 1992 e il 2000, superando il 70 % del Pil, un notevole
peso ha avuto la immissione sul mercato di società da parte del settore
pubblico (9): la loro incidenza nel mercato delle 30 migliori società
quotate in borsa è salita al 52 % al giugno 2000 (32,5 % nel dicembre
1992). A questo maggior peso non ha corrisposto un fenomeno di
spiazzamento delle emissioni da parte di società private, come si poteva
temere vista la notevole dimensione dei titoli immessi sul mercato e le
condizioni vantaggiose offerte per la sottoscrizione da parte dei
risparmiatori (Padoa-Schioppa, 1991). Lo stesso mercato azionario si è
invece irrobustito, permettendo alla fine degli anni 90 di accrescere i
collocamenti e di realizzare operazioni di scalata (takeover) mai
viste prima. Il programma di privatizzazioni ha indirettamente dato
impulso all’espansione e diversificazione del risparmio finanziario
delle famiglie: la quota di azioni e fondi comuni nella distribuzione
della loro ricchezza finanziaria è più che raddoppiata (45,6 % nel 1999,
contro 18,4 % nel 1995) (Banca d’Italia, 2001), portandosi su livelli
non troppo distanti da quelli americani (50,9 %). Un impulso notevole è
anche derivato per le attività d’intermediazione finanziaria. Con
l’aumento e la diversificazione della ricchezza finanziaria si sono
determinate nuove opportunità per espandere la gamma dei servizi
finanziari offerti a investitori e risparmiatori, anche se è mancato il
supporto che lo Stato si era impegnato a dare attraverso la previdenza
integrativa e lo sviluppo dei fondi pensione. Un’altra area di relativo
insuccesso concerne il potenziamento delle regole di governo delle società.
Sia sotto il profilo della tutela degli azionisti di minoranza, sia sotto
quello dell’efficacia degli strumenti per il monitoraggio e la
responsabilizzazione del management, la disciplina introdotta ha mostrato
carenze, particolarmente nel conciliare i tre aspetti della contendibilità
del controllo, della stabilità dell’assetto azionario e della tutela
degli azionisti di minoranza (Messori, Padoan, Rossi, 1998). Nel presente
assetto è evidente il rischio che un gruppo di azionisti possa acquisire
il controllo a mezzo di quote proprietarie modeste - una sorte di
capitalismo coalizionale senza capitale (Goldestein in Rapporto IRS 1997)
che può favorire comportamenti contrari agli interessi della maggioranza
degli azionisti. Nel sistema creditizio, fino a che punto vi è stata
un’effettiva privatizzazione delle banche, sottraendole al controllo
delle fondazioni bancarie (Siglienti, 1996)? La vendita da parte dello
Stato non ha condotto le banche cedute né al totale abbandono dell’area
del settore pubblico, né ad assetti proprietari efficienti (Messori
2000). Ad esempio, non sembra che dopo la cessione la loro politica di
credito verso l’impresa pubblica abbia mostrato un cambiamento di regime
(Lo Paolo Macchiati 2000). La nuova disciplina sulle fondazioni bancarie
sembra lasciare spazi affinché attraverso opportuni intrecci azionari non
si eroda significativamente il peso determinante che le fondazioni ancora
detengono. Il ridimensionamento del loro peso non può essere affrontato
se non in un’ottica più ampia della privatizzazione o delle regole di
controllo societario: si deve chiarire quali siano gli interessi di natura
pubblica che le fondazioni sono chiamate a difendere allorché siedono in
consigli di amministrazione in cui si prendono decisioni di credito e di
investimento.
6. Le privatizzazioni in prospettiva
A nove anni dall’avvio del
programma di privatizzazione molto resta ancora da cedere, in termini sia
di partecipazioni di controllo, sia di quote minoritarie. Lo Stato
potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi dalla vendita delle quote ancora
detenute in società solo in parte cedute (10), ed un ricavo nettamente più
elevato dalla cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre
aziende, quali le imprese operanti nei settori della cantieristica navale,
navigazione e difesa, le Ferrovie, le Poste, e la Rai (Confindustria,
Rapporto, 2000; Foresti, CSC, 2001). Naturalmente, queste stime
presuppongono che si superi l’attuale fase di cedimento dei mercati
azionari su scala mondiale e che le quotazioni si portino su livelli
sostenibili nel tempo. Nell’ipotesi in cui portasse a compimento la
cessione delle attività produttive commerciabili, lo Stato potrebbe
chiudere l’era delle partecipazioni statali con un guadagno molto
consistente, anche se calcolato al netto dell’indebitamento dalle stesse
indotto. Inoltre, potrebbe disporre di mezzi per abbassare il debito
pubblico in essere per un importo stimabile attorno al 10 %, senza contare
i proventi di un’eventuale vendita delle aziende per i servizi pubblici
locali. Ma perché ciò si realizzi è necessaria, a parte un
miglioramento delle condizioni di mercato, una forte determinazione a
dismettere la proprietà e a reinterpretare il ruolo dello Stato
nell’economia. Il Governo sembra intenzionato ad andare avanti in queste
direzioni (Dpef, 2001): prevede, infatti, di realizzare 120.000 miliardi
di introiti nel corso del prossimo quinquennio, un programma graduale che
è giustificato alla luce degli obiettivi che si è posto di
"rafforzare gli assetti produttivi nazionali" e di realizzare
guadagni di efficienza nelle società da porre in vendita. Continuano
tuttavia a essere presenti le esigenze di ridurre il debito pubblico e di
elevare efficienza e competitività del sistema produttivo nel quadro
internazionale. In questo senso la presenza pubblica nelle attività di
produzione si pone come un impedimento di grande peso: non solo lo stimolo
a perseguire l’efficienza è strutturalmente debole nelle imprese in
mano pubblica, ma la loro pressione sulle autorità per alterare a loro
favore le condizioni della concorrenza è forte e costante. Un programma
di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato con un maggiore
impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico ed
istituzionale che sono emerse nel processo di privatizzazione. Prima fra
esse è la sperequazione esistente in termini di assetto concorrenziale
nei settori in cui le imprese pubbliche continuano a godere di un
rilevante potere di mercato. Maggiori benefici per l’economia potrebbero
derivare da una politica attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi
concorrenti sul mercato e a livellare le posizioni concorrenziali. Un
simile indirizzo è tra gli intendimenti del governo: nel Dpef si parla di
impegno a privatizzare i servizi pubblici locali, separando la funzione
pubblica di regolazione e controllo da quella di produzione. Lo stesso
principio va applicato in altri settori di pubblica utilità,
particolarmente in quelli dei trasporti e della distribuzione
dell’acqua, che sono ancora chiusi alla concorrenza e per i quali sono
assenti le autorità di regolazione. Altre carenze vanno sanate su tre
fronti: contendibilità della proprietà delle società, trasparenza
dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti
di minoranza. Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso
azionario, un’integrazione delle regole di controllo societario al fine
di ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione
diretta ai mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della
Consob, inclusi alcuni poteri di sanzione, appaiono passi necessari per
elevare l’efficienza allocativa dei mercati. In questa azione sarebbe
auspicabile che si perseguisse l’allineamento delle regole interne alle best
practices in vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile
sarebbe un approccio diretto a stabilire a livello di area dell’euro un
unico modello generale di corporate governance per le società.
Verso le imprese ancora da privatizzare si richiede, invece, un’azione
più intensa volta a responsabilizzare il management nel perseguimento
dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività,
data la debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management,
quando sono in mano politica. Nel settore bancario, il problema di una
maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse si intreccia tra
l’altro con il nodo del ruolo ancora preponderante delle fondazioni;
nuovi metodi andrebbero considerati per favorire la loro fuoriuscita, ad
esempio, un vincolo di trasformazione di una quota delle loro
partecipazioni bancarie in azioni di risparmio. In conclusione, oggi non
si avvertono quelle barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli
anni ‘90 hanno reso arduo e a tratti impervio il cammino verso la
privatizzazione. Ma è venuta anche meno la forte spinta esterna ad andare
avanti, la quale era il fattore determinante. Rimane invece una pressione
indiretta, meno evidente, che deriva dall’inarrestabile processo di
apertura dei nostri mercati, e che non necessariamente nel breve periodo
spinge a ricercare maggiore efficienza e competitività a livello di
impresa come a livello di sistema. In questo contesto di pressioni
latenti, saprà il Paese trovare al suo interno la determinazione
necessaria per completare in pochi anni entrambi, privatizzazione e
liberalizzazione?
tabella
1
tabella
2
Fonte: R. & S. (2000) pag. 56
Note
1 L’importanza dell’argomento è
indicata, tra l’altro, dal fatto che al tema ha dedicato un fascicolo
del"The Journal of Economic
Perspectives", chiamando a raccolta economisti non solo
americani, tra cui numerosi Premi
Nobel ("The Journal of Economic Perspectives", 2000).
Alcuni economisti francesi vanno
ancora oltre e si chiedono "a cosa serva la scienza economica"
e se la politica economica
"abbia un futuro" (Quinet e Wallisser, 1999).
2 Eloquenti, ad esempio, i casi
della siderurgia e dell’energia elettrica (Ceri/Irs, 1994; De
Giovanni, 1994; Poletti e Ranci,
1995)
3 Si tratta della legge 29 gennaio
1992 n. 35 che ha autorizzato il Cipe a trasformare in spa gli
enti di gestione delle
partecipazioni statali, gli altri enti pubblici e le aziende autonome
dello
Stato, prevedendo la possibilità di
una cessione anche maggioritaria del relativo capitale azionario.
Con questa legge - stato ricordato
di recente (Kostoris Padoa Schioppa 2001 p. 127) - inizia
la fase della "privatizzazione
fredda" in quanto le spa non potevano più fare ricorso alla
richiesta di fondi di dotazione
pubblici per fare fronte ai loro disavanzi.
4 Molto utile la rilettura di una
serie di interventi apparsi sulla rivista "Il Mulino" mentre si
preparava il "protocollo"
(Prodi, 1992; Costamagna 1993; Micossi, 1993).
5 Specialmente per le difficoltà
tecniche e politiche che hanno ritardato la costituzione dell’autorità
per le telecomunicazioni,
preliminare a tale operazione
6 Per una rassegna della normativa
nella "prima fase" 1992-95 si veda Masera 1996 pp.235-251
7 Tale dibattito è, invece, stato
centrale alla definizione dell’assetto istituzionale per le
privatizzazioni
in Gran Bretagna e Francia (Chiri e
Panetta, 1994)
8 Si stima che a metà del 2000 il
rendimento annuo superava di quasi tre volte quello ottenibile
dai titoli di Stato, ma era
inferiore del 40 % a quello implicito in un investimento bilanciato
nei titoli migliori del listino
(blue chips) (cfr., R & S, 2000.).
9 Questa esperienza è comune a
molti paesi che hanno privatizzato vendendo azioni sul mercato
(Megginson and Netter, 2001).
10 L’87 % di questo ammontare è
rappresentato da azioni ENI e Enel.
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