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POLITICHE PUBBLICHE E PROCESSI DI LIBERALIZZAZIONE IN ITALIA

Raimondo Cubeddu
Ordinario di Filosofia Politica - Università di Pisa

Alberto Vannucci
Docente di Analisi delle Politiche Pubbliche - Università di Pisa

 

1. Premessa: la libertà economica e i diritti di proprietà negli indici del Fraser Institute, della Heritage Foundation, e del Centro Einaudi.

In questo contributo ci concentriamo sul rapporto esistente tra l’assetto istituzionale italiano e le politiche di liberalizzazione e semplificazione, adottando come criterio di riferimento per la valutazione della performance delle istituzioni la tempestività nel produrre risposte ai nuovi problemi sociali senza aumentare il tasso di coercizione e senza distribuirne arbitrariamente le conseguenze favorevoli e quelli negative. In termini generali, seguendo le linee tracciate nel rapporto dello scorso anno, definiamo i processi di liberalizzazione come quei cambiamenti dei vincoli istituzionali (formali e informali) che permettono di ridurre i costi dell’interazione sociale derivanti dalla presenza e dall’azione dello stato, ossia di ridurre il tempo individuale e sociale necessario al mantenimento della struttura pubblica e delle sue funzioni (Vannucci e Cubeddu, 2000). Dagli indicatori utilizzati nella nostra analisi (sintetizzati in 30 figure e 3 tabelle) emerge un quadro per certi versi contraddittorio: nel sistema politico italiano é stato faticosamente avviato, nel corso degli ultimi anni, un tentativo di liberalizzare alcune aree d’interazione sociale, in particolare nel campo dei rapporti tra cittadini e amministrazione pubblica, ma tale processo stenta a produrre risultati apprezzabili. Una premessa metodologica: nel rapporto dello scorso anno abbiamo presentato una sorta di "fotografia" delle condizioni esistenti nel contesto politico-istituzionale, utilizzando una serie di indicatori quantitativi. In questo contributo cerchiamo di arricchire quel quadro, ossia di rendere più nitida l’immagine, utilizzando un numero maggiore di indicatori. Al tempo stesso, attraverso lo studio dell’evoluzione delle variabili considerate, iniziamo a dare il senso del "movimento" nel corso del tempo del sistema politico istituzionale. Infine, quando possibile, estendiamo orizzontalmente l’analisi, comparando gli indicatori relativi al caso italiano con quelli concernenti altre realtà istituzionali, in particolare quelle dei principali paesi liberal-democratici e dei paesi dell’Unione europea. Punto di avvio della nostra analisi é una quantificazione del grado di libertà economica esistente nell’assetto politico-istituzionale italiano. A questo scopo, abbiamo utilizzato gli indici elaborati dalla Heritage Foundation (1), dal Fraser Institute (2,) e dal Centro Einaudi (3.) Tali indici rispecchiano una media ponderata di diverse variabili, che esprimono il tipo di vincoli e di incentivi posti dal sistema istituzionale all’esercizio di attività economiche pubbliche e private, e dunque allo sviluppo economico e politico. A partire dal 1995 la Heritage Foundation elabora annualmente un indice di misurazione sintetica del grado di libertà economica esistente in un numero crescente di paesi (nell’edizione del 2001 sono inclusi 155 stati). La libertà economica viene definita come "l’assenza di coercizione o di vincoli alla produzione, alla distribuzione o al consumo di beni e servizi, al di là dei limiti necessari agli individui per proteggere e preservare la libertà stessa" (Beach e O’Driscoll, 2001, pp. 43-4). Il valore finale dell’indice scaturisce dalla ponderazione di 50 variabili indipendenti, che fanno riferimento a 10 ampi settori: politiche commerciali, pressione fiscale, intervento pubblico nell’economia, politiche monetarie, flussi di capitali e investimenti stranieri, attività bancaria, salari e prezzi, diritti di proprietà, regolazione, mercati neri. Ognuno di questi fattori riceve un punteggio compreso tra 1,00 (massimo grado di libertà economica) e 5,00 (minimo grado di libertà economica), mentre la loro media fornisce il punteggio sintetico finale per ciascuno stato. Il punteggio dell’Italia nel 2001, pari a 2.30, la colloca al 32° posto della graduatoria. La linea di tendenza mostra dal 1996 al 1998 un lieve progresso del grado di libertà, che però rimane stazionario dal 1999 al 2001 (vedi fig.1).

Rispetto ad alcuni tra i principali paesi democratici occidentali, l’Italia mostra un livello di libertà economica superiore solo alla Francia. Guardando al dato italiano in modo più analitico, si nota tuttavia che il punteggio finale é la media tra un alto livello di libertà economica nella politica commerciale e monetaria, nel controllo di salari e prezzi, nella protezione dei diritti di proprietà, e un livello basso degli indici di libertà relativi ad altri parametri, come il "costo del governo" (che misura l’onere fiscale e il livello di spesa pubblica, raggiungendo il livello massimo) e la regolazione (che fa riferimento alla complessità e alla numerosità delle procedure, nonché ai costi che queste impongono alle imprese). Inoltre, vi sono alcuni aspetti del sistema istituzionale che sicuramente accrescono i costi dell’interazione con lo stato e scoraggiano gli investimenti produttivi: la complessità legislativa, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, la diffusione della corruzione, la lentezza delle procedure giudiziarie. Eppure questi elementi, anche se ne riconosce il peso nello scoraggiare gli investimenti stranieri in Italia (O’Driscoll et al., 2000, p.216), hanno un peso minimo nel calcolo finale. In realtà, proprio a causa della loro presenza, il livello di protezione effettiva dei diritti di proprietà risulta più debole di quanto non appaia dai vincoli legali formalmente in vigore. Ciò accresce sensibilmente il tempo e le altre risorse "consumate" nelle relazioni con l’amministrazione pubblica, distorcendo gli incentivi all’esercizio delle attività economiche. In altri termini, l’indice sintetico della Heritage Foundation non sembra riflettere accuratamente il livello di libertà economica esistente nel sistema istituzionale. Infatti, prendendo in considerazione i fattori sopra richiamati, più sfuggenti e "opachi", il livello di liberalizzazione della società italiana é ancora più basso di quello, pure non esaltante, che emerge dal dato "ufficiale". A ciò si aggiunga che il dato relativo all’estensione dell’economia sommersa, che nel caso italiano risulterebbe molto bassa, appare decisamente contraddetto da altre rilevazioni, che saranno presentate più avanti. Passando all’indice elaborato dalla Fraser Foundation, nell’edizione 2001 esso include 123 paesi. Il concetto di libertà individuale fatto proprio dal rapporto ha quali componenti essenziali la possibilità di operare scelte, la protezione della libertà privata e la libertà di scambio: "Gli individui hanno libertà economica quando sussistono le seguenti condizioni: (a) la loro proprietà acquisita senza l’uso della forza, della frode o del furto é protetta da violazioni fisiche di altri, e (b) essi sono liberi di utilizzare, scambiare o cedere le loro proprietà ad altri, purché le loro azioni non violino gli identici diritti altrui" (Gwartney e Lawson, 2001, p. 4). Sono presi in considerazione 21 parametri che misurano il grado di coerenza delle politiche istituzionali con la libertà economica in sette aree: ampiezza dello stato, struttura dell’economia, politica monetaria e stabilità dei prezzi, libertà d’impiego di valute alternative, struttura legale e tutela dei diritti di proprietà, libertà nel commercio con l’estero, libertà dei movimenti di capitale. I punteggi vanno da 0 (grado minimo di libertà economica) a 10 (massima libertà economica). Nel 1999 (anno più recente per il quale sono disponibili dati completi) l’Italia mostra un sensibile miglioramento rispetto al 1995, sia in termini di punteggio (da 7,22 a 7,82) che di classifica (dal 40° al 24° posto). Nella fig. 2 viene presentata l’evoluzione del dato relativo all’Italia nel corso degli ultimi 20 anni, comparato ai dati relativi a quattro grandi paesi democratici occidentali (Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia).

La crescita del grado di libertà economica in Italia, registrato nell’ultimo quinquennio, é dovuta al conseguimento di livelli elevati di libertà nel campo nei mercati finanziari e di capitali, della garanzia dei diritti di proprietà e del commercio internazionale, che nel rapporto vengono imputati allo sforzo di adeguamento ai parametri dell’unione monetaria europea. Resta tuttavia elevata l’ampiezza del governo, in termini di consumo, trasferimenti e sussidi, così come molto alte sono sia la presenza di imprese pubbliche che il livello delle aliquote marginali sul reddito. Questi dati sembrano concordare nella sostanza con quelli della Heritage Foundation. Tuttavia, nell’ultimo rapporto del Fraser Institute, viene presentato anche un nuovo indice della libertà ristretto a soli 58 paesi (per i quali esistono dati disponibili), ma comprensivo di un maggior numero di parametri (in totale 45), ricavati in buona parte dal Global Competitiveness Report 2000 del World Economic Forum e dal World Competitiveness Yearbook 2000 dell’International Institute for Management Development (Gwartney, Skipton e Lawson, 2001). Così, ad esempio, nella stima dei livelli di sicurezza dei diritti di proprietà sono valutati anche il grado effettivo di protezione dei diritti intellettuali di proprietà, l’indipendenza del potere giudiziario, la diffusione della corruzione, l’imparzialità del sistema di giustizia amministrativa; nella valutazione del grado di regolazione del mercato del lavoro sono prese in considerazioni variabili relative alle pratiche d’assunzione e di licenziamento, all’impatto dei salari minimi, al peso della contrattazione collettiva, ai programmi di assicurazione contro la disoccupazione; infine, viene introdotto un nuovo parametro, la libertà di operare e competere in affari, che misura tra l’altro gli ostacoli posti dalle procedure amministrative all’avvio di nuove imprese, il tempo necessario a trattare con la burocrazia pubblica, l’esistenza di "pagamenti irregolari" collegati con permessi, licenze, controlli, protezione della polizia. Si tratta di un approccio interessante, poiché alcune di queste variabili rappresentano indicatori del grado di protezione effettiva dei diritti di proprietà, ossia dell’efficienza con cui il sistema istituzionale riduce i costi delle transazioni produttrici di surplus sociale (4). Dato che il tempo e le informazioni a disposizione di ciascun individuo sono ovviamente risorse scarse, ne consegue che il grado effettivo di protezione dei suoi diritti dipende non soltanto dal disegno istituzionale e dalla formale imparzialità delle procedure, ma anche dai tempi di attesa e dalla congruità delle risposte che l’apparato istituzionale, ossia gli agenti pubblici che ne ricoprono i ruoli formali, fornisce alle pretese soggettive. Là dove (come nel caso italiano) questi meccanismi presentano condizioni di debolezza, si affievoliscono i diritti di proprietà e aumentano i costi delle transazioni relative ai profili d’azioni soggetti alla protezione dello stato. Considerando il tempo necessario affinché la tutela dei diritti di proprietà sia effettiva, l’assetto istituzionale italiano presenta un grado d’efficienza sicuramente inferiore a quello ufficialmente sancito dai vincoli formali, ma privo di efficaci meccanismi di applicazione. In questa nuova versione dell’indice della libertà economica, che meglio rispecchia le caratteristiche operative del sistema politico-istituzionale, l’Italia riguadagna sia pure di poco la "maglia nera" tra i cinque paesi esaminati più in dettaglio (si veda la fig. 3), ma quel che é più rilevante nella classifica complessiva sprofonda al 38° posto su 58 paesi considerati. Dopo Bolivia e Argentina, l’Italia é il paese che perde più posizioni, ben 24, rispetto a quella dell’altro indice.

Scindendo il dato complessivo nelle sue componenti, l’Italia si colloca al 42° posto quanto a libertà d’attività economica (dove presumibilmente pesano le vischiosità procedurali, l’alto rischio di corruzione, la complessità della macchina amministrativa), al 43° per quanto riguarda le dimensioni dell’intervento pubblico, e addirittura al 54° quanto a rigidità del mercato del lavoro. Un indice della libertà economica nei paesi dell’Unione europea, riferito al 2000, é stato predisposto anche dal Centro Einaudi. I risultati sembrano confermare quanto emerso fin qui: l’Italia, infatti, occupa il fondo della classifica, con il 14° posto tra i 15 paesi dell’Unione Europea (si veda fig. 4). I parametri presi in esame in questo caso sono 18, suddivisi in settori analoghi a quelli del Fraser Institute ma ponderati diversamente, in modo da far risaltare le differenze tra i paesi membri dell’UE, istituzionalmente e culturalmente più omogenei. Tra le variabili considerate, oltre a quelle consuete (peso dello stato, struttura dell’economia, etc.), vi sono la stabilità dell’apparato burocratico pubblico e il livello di corruzione. Il primo misura la capacità della macchina pubblica di funzionare indipendentemente dai cambiamenti di governo: l’Italia, in questo campo, si colloca ben al di sotto della media europea, e "addirittura registra un peggioramento rispetto al 1995, probabilmente dovuto alla serie di riforme della pubblica amministrazione proposte negli ultimi anni e non ancora andate a regime" (Ronca e Guggiola, 2001, p. 9). Analogamente, anche la diffusione della corruzione, che "distorce il funzionamento e riduce l’efficienza di un sistema economico, assegnando posizioni di potere con meccanismi diversi dal merito o dalle capacità personali" (ibidem, p. 10), contribuisce ad abbassare la media. Questa rassegna degli indici della libertà economica permette di fissare alcuni punti. In primo luogo, quanto più gli indicatori impiegati tengono conto non solo dei vincoli formali, ma anche del reticolo di vincoli informali e dall’efficacia delle corrispondenti garanzie di applicazione, tanto più le caratteristiche di fondo del modello istituzionale italiano sembrano divergere, sotto diversi profili, da quelli prevalenti n egli altri principali paesi liberal-democratici. In particolare, l’anomalia del caso italiano si riflette non solo nelle dimensioni eccessive e nel "peso" dello stato, in termini di trasferimenti, sussidi, prelievo fiscale, rilevanza delle imprese pubbliche, ma anche nel costo più difficilmente osservabile e quantificabile (in termini di tempo, energie, ed altre risorse economicamente significative) che la macchina statale, con le sue procedure e i suoi percorsi decisionali, impone a cittadini e imprese. Gli indici della libertà economica esaminati rispecchiano, con maggiore o minore nitidezza, le caratteristiche di un quadro politico-istituzionale che impone ai suoi cittadini costi di transazione più elevati, minore sicurezza dei diritti, livelli più alti di incertezza individuale e sociale. Quanto questi aspetti istituzionali siano rilevanti é dimostrato da alcune semplici correlazioni statistiche: (a) l’indice della libertà economica mostra forti correlazioni positive con il reddito pro-capite, il tasso di crescita economica, l’aspettativa di vita, l’indice di sviluppo umano (quest’ultimo, predisposto dall’Onu, oltre alla longevità misura anche i livelli di conoscenza e gli standard di vita della popolazione); (b) al tempo stesso, esso risulta negativamente correlato con gli indici della corruzione e con i livelli di povertà (Gwartney e Lawson, 2001, pp. 11-12). Dunque, le potenzialità di crescita economica, politica e culturale di una società sono legate a doppio filo allo sviluppo di "regole del gioco" che propiziano l’avvio e il successo dei processi di liberalizzazione.

2. Perchè le istituzioni contano.

Le istituzioni vengono intese come le "regole del gioco" che governano le interazioni tra individui e gruppi organizzati, plasmando il sistema di incentivi e sanzioni che sono alla base degli scambi politici, economici e sociali, e determinando così le dinamiche dell’evoluzione sociale, dello sviluppo o della stagnazione economica. Esse comprendono qualsiasi vincolo percepito (ma non necessariamente "costruito") dagli esseri umani per regolare i loro rapporti: vincoli formali (costituzioni, leggi, ecc.), vincoli informali (convenzioni, norme culturali, codici di condotta auto-imposti, ecc.) e i rispettivi meccanismi di garanzia d’applicazione. Le istituzioni svolgono dunque una funzione essenziale, giacché "riducono il tasso di incertezza creando delle regolarità nella vita di tutti i giorni" (North 1994, 24). Il grado di concorrenzialità delle imprese, così come quello di una società, dipende dalla disponibilità di istituzioni efficienti, in grado cioè di abbattere i costi di transazione e ridurre l’incertezza nei rapporti sociali (5). Ciò significa che il ruolo delle istituzioni politiche e amministrative e delle relative procedure decisionali é fondamentale ai fini dello sviluppo economico e sociale di un paese, oltre che della sua capacità competitiva, specialmente in uno scenario internazionale nel quale i flussi di capitali e di conoscenze sono sempre più rapidi e privi di "attriti", e dunque più forti le pressioni concorrenziali sugli assetti organizzativi e istituzionali (6). Il sistema istituzionale, regolando le relazioni tra individui, influenza la struttura di diritti di proprietà e l’ampiezza dei costi di transazione. In questo senso, esso rappresenta un fattore decisivo nel favorire (od ostacolare) il conseguimento di allocazioni efficienti di risorse. Lo stato, in quanto soggetto collettivo che tende a monopolizzare l’impiego della coercizione, riveste allora un ruolo centrale nel definire caratteristiche e intensità dei costi di transazione, giacché le sue attività comprendono:

a) la produzione di regole formali del gioco (norme costituzionali, leggi, regolamenti);

b) la creazione e l’allocazione dei diritti di proprietà, attraverso le politiche pubbliche;

c) l’offerta di servizi protettivi di risoluzione delle controversie e di composizione dei conflitti;

d) il condizionamento indiretto dell’evoluzione dei vincoli informali e dell’efficacia dei relativi meccanismi di applicazione delle sanzioni, tramite l’attività delle organizzazioni pubbliche, la produzione e la diffusione di simboli e di schemi ideologici di interpretazione della realtà, ecc. L’azione pubblica, in altri termini, é uno dei meccanismi più rilevanti attraverso i quali si determina l’ammontare e la distribuzione dei costi di transazione (oltre che di trasformazione) in una società. Ogni politica pubblica può essere vista come un processo politico attraverso il quale i diritti sono definiti, attenutati, protetti e ridistribuiti tra i diversi soggetti sociali: in altre parole, "i governi operano allocando, riallocando, modificando o attenuando i diritti di proprietà" (Benson e Baden, 1985, p. 392). Le politiche pubbliche sono il risultato di complesse relazioni di scambio intertemporale che coinvolgono politici, burocrati, elettori, gruppi di pressione. Le istituzioni contribuiscono quindi ad orientare l’esito delle politiche pubbliche. Aspettative e credenze dei vari attori sociali, infatti, si formano in base ai modelli prevalenti d’interpretazione dei meccanismi decisionali che di quelle politiche sono il motore. Per comprendere opportunità e potenzialità di sviluppo di una società, occorre fare riferimento al processo politico e alle modalità con cui al suo interno si formano e si modificano, nel corso del tempo, gli incentivi che inducono gli attori politici ad allinearsi ad efficienti "strutture di governo" delle transazioni politiche, minimizzandone i relativi costi di transazione, e ad acquisire determinati tipi di conoscenze e competenze. Il sistema politico presenta costi "interni" di transazione, connessi alle molteplici relazioni di scambio, autorità, negoziazione, influenza che ne caratterizzano il funzionamento: "Costi di transazione di vario tipo si profilano in misura maggiore in tutti i contesti di politica pubblica. (....) La natura e la severità dei costi di transazione, così come la disponibilità di mezzi per ridurli, varia da un paese all’altro e da un periodo all’altro" (Dixit, 1996, pp. 143-4). Numerosi fattori accrescono i costi di transazione nelle gerarchie pubbliche e nei mercati politici: l’incertezza, legata alla durata attesa e alle caratteristiche qualitative dei diritti informali di proprietà connessi all’esercizio di poteri pubblici; l’adozione di politiche pubbliche soggette a incoerenza temporale o contenenti impegni non credibili; l’instabilità e la mancanza di garanzie negli accordi politici (7). I costi di transazione politica sono elevati là dove si osserva una carenza di meccanismi cooperativi in aree cruciali di azione pubblica, generando politiche distributive e clientelari, a loro volta fonte di attività improduttive di ricerca di rendite politiche. Inoltre, direttamente legati all’esistenza di asimmetrie informative sono quegli assetti istituzionali che forniscono agli agenti pubblici incentivi ad operano entro organizzazioni pubbliche inefficienti, sovradimensionate, corrotte, afflitte da inflazione normativa, ossia caratterizzate da tutti quei "fallimenti dello stato" che sembrano caratterizzare il caso italiano. Il quadro descritto vede un sistema di regole, vincoli e incentivi che determinano alti costi di transazione nelle interazioni di scambio che caratterizzano il mercato economico e politico, e dunque forme e livelli inefficienti di funzionamento delle relative strutture di governance. In questo rapporto utilizzeremo alcuni indicatori per porre in risalto le caratteristiche della struttura di incentivi che orienta le scelte degli attori coinvolti nei processi decisionali relativi alle politiche pubbliche e al sistema di mercato. Dapprima ci concentriamo sulle caratteristiche del processo legislativo attraverso il quale in Italia sono creati i principali vincoli formali, le leggi. Analizziamo poi gli effetti del sistema di regolazione amministrativa e dei provvedimenti volti a riformarlo sulla struttura dei costi di transazione, nella percezione del pubblico cui essi sono rivolti. Infine, mostriamo alcuni effetti di questo assetto istituzionale sugli incentivi (e sui disincentivi) individuali a svolgere attività produttive, che accrescono le conoscenze disponibili nella società e favoriscono la crescita economica.

2.1 L’evoluzione dei vincoli legislativi in Italia: inflazione normativa e tempi della produzione legislativa

L’esistenza di vincoli normativi formali, favorendo la formazione di aspettative coerenti e condivise riguardo al comportamento atteso altri soggetti, tende a ridurre l’incertezza individuale e i costi di transazione. Affinché ciò accada, tuttavia, devono sussistere alcune condizioni, relative tanto al profilo qualitativo che a quello quantitativo di tali regole. In primo luogo, leggi di bassa qualità, ossia confuse, complesse, scritte male, difficilmente interpretabili, incoerenti o aventi contenuti eterogenei, possono indurre individui diversi a darne interpretazioni dissimili (8). Anche il dettato normativo che non risponde ai requisiti di generalità e astrattezza, e che dunque fa riferimento a soggetti e situazioni specifiche e concrete, rende più probabili valutazioni soggettive divergenti riguardo all’identità dei destinatari e alla sussistenza o meno delle particolari condizioni di applicazione. La conseguenza, in entrambi i casi, é il venir meno della prevedibilità del comportamento altrui, e la crescita degli attriti e delle controversie relative alle modalità di applicazione di tali regole. In secondo luogo, la quantità eccessiva di vincoli formali, quale che sia il loro contenuto, é di per sé un fattore in grado di accentuare l’incertezza relativa:

a) al possesso dei requisiti per il godimento di certi diritti;

b) al rischio di mettere in atto comportamenti illeciti.

Ovviamente, affinché possano essere rispettate, le norme devono essere preliminarmente conosciute. Dunque, l’inflazione normativa accresce la quantità di informazioni necessarie prima di poter operare scelte private e pubbliche attraverso una valutazione dei rischi e dei benefici attesi, e questo ovviamente ostacola i relativi processi decisionali, ne accresce il costo, aumenta la possibilità di errori, ne rende più imprevedibile l’esito. Entrambi i fattori considerati, dunque, fanno sì che cittadini e imprese che allacciano rapporti regolati da vincoli formali, o hanno relazioni con le amministrazioni pubbliche, debbano consumare tempo ed altre risorse economicamente rilevanti per conoscere e interpretare informazioni relative alle vecchie e nuove disposizioni normative. Per questo motivo, l’eccesso e la bassa qualità delle leggi riducono la libertà individuale, ossia il tempo di cui i cittadini dispongono per perseguire finalità autonomamente scelte, e al tempo stesso accrescono i costi di transazione che gravano sul sistema economico e sociale. In questa prospettiva, l’analisi dei processi di liberalizzazione non può che prendere in considerazione l’evoluzione delle dimensioni quantitative e qualitative dei vincoli formali prodotti dal sistema politico italiano. In termini generali, nel corso della XIII legislatura (1996-2001) l’attività di produzione di norme del Parlamento italiano ha conosciuto alcune modifiche di fondo:

- é diventata una legislazione per principi, che delega ad altri centri decisionali (governo, autonomie locali, autorità indipendenti) la disciplina più specifica degli interventi;

- é triplicato, rispetto alla precedente legislatura, il numero di deleghe legislative al governo;

- il numero dei decreti delegati ha pressoché uguagliato quello delle leggi ordinarie (ad eccezione di quelle di ratifica dei trattati internazionali). (Camera dei deputati, 2001, p. 3).

La qualità del prodotto legislativo é diventata, nel corso dell’ultima legislatura, oggetto di una specifica attenzione. La riforma del regolamento della Camera dei deputati, entrato in vigore il 1° gennaio 1998 ha visto l’introduzione di nuove procedure per l’esame in Commissione dei progetti di leggi, per i quali é richiesto di verificare:

a) la necessità di intervento legislativo;

b) la conformità della disciplina proposta con i vincoli costituzionali e la normativa europea;

c) l’impatto delle nuove norme sulla pubblica amministrazione, i cittadini e le imprese;

d) l’inequivocità e la chiarezza del testo.

A partire dal 1999, anche gli schemi di decreti legislativi e di regolamenti presentati dal governo sono soggetti alla stessa procedura di valutazione di coerenza, efficacia, chiarezza e necessità, sebbene lo strumento per realizzare questa estensione, la scheda di impatto delle norme, sia ancora in corso di perfezionamento (Camera dei deputati, 2001, p. 21).

2.2. La "qualità" della produzione legislativa

Il nuovo regolamento parlamentare, oltre a stabilire un obbligo di coordinamento legislativo per le Commissioni (che devono raccordare la nuova disciplina con quella vigente), ha previsto l’istituzione del Comitato per la legislazione. Quest’ultimo é uno speciale organismo che esprime un giudizio non vincolante sulla qualità dei progetti di legge in relazione ai seguenti profili: omogeneità, semplicità e chiarezza della formulazione dei testi, efficacia per la semplificazione e il riordino della normativa esistente. Il parere del Comitato per la legislazione, obbligatorio nel caso di disegni di conversione di decreti legge o di progetti di legge contenenti disposizioni di delega o delegificazione, per tutti gli altri progetti di legge (di iniziativa parlamentare o governativa) viene espresso solo su richiesta delle commissioni competenti. La sua attività non sembra tuttavia particolarmente incisiva: nel corso del 2000 solo il 48% delle condizioni formulate sono state recepite dalle Commissioni o dall’Assemblea (Camera dei deputati, 2000, p. 21). In altri termini, l’efficacia dei tentativi del Comitato di migliorare il profilo qualitativo delle norme approvate dal Parlamento italiano sembra dipendere, più che dall’esercizio dei suoi scarsi poteri, dalla capacità di indurre, nella fase di redazione dei testi normativi, una spontanea adesione ai principi di semplicità, intelleggibilità e chiarezza che ne ispirano l’azione, modificando l’approccio "culturale" di fondo all’attività di produzione legislativa. Si tratta, com’é evidente, di un compito difficile, che potrà dispiegare i suoi effetti solo nel lungo periodo. Un’altra deficienza qualitativa della produzione legislativa non vincolata é il frequente ricorso a provvedimenti di piccolo cabotaggio e di portata molto limitata, che tendono così a derogare dai principi generali di generalità e astrattezza (9). Accanto alla legislazione istituzionale (che riguarda diritti fondamentali, l’ordinamento politico- istituzionale, l’ordine pubblico), quella settoriale e intersettoriale (che regolamenta o introduce strumenti per l’attuazione di politiche relative a singoli settori o più settori), si osserva in Italia una presenza preponderante delle così dette leggi provvedimento (finalizzate alla disciplina di situazioni specifiche o alla realizzazione di singoli interventi) e di provvedimenti di manutenzione normativa (di puntuale modifica o proroga di leggi vigenti). La percentuale di leggi microsettoriali o di manutenzione normativa relativa alla XIII legislatura (aggiornata al 30 giugno 2000) é del 71,74% del totale, più bassa soltanto di quella della X legislatura (vedi tab.1).

Tav. 1. Tipologia delle leggi approvate nelle ultime 4 legislature (distribuzione %)

Tipologia

X leg.

XI leg.

XII leg.

XIII leg.

Legislazione intersettoriale

0.60

4.17

6.00

2.85

Leggi intervento e di manutenzione legislativa

76.80

61.67

62.00

71.74

Legislazione di settore

17.37

20.83

12.00

18.09

Legislazione istituzionale

5.85

13.33

20.00

7.30

Totale

100.00

100.00

100.00

100.00

Fonte:Osservatorio sulla legilsazione, 2000, I, pag. 51.

Inoltre, come prevedibile, la sede privilegiata di approvazione delle leggi-provvedimento é rappresentata dalle commissioni parlamentari, visto che la loro approvazione da parte della Camera in sede legislativa si riduce al 60, 13% (Osservatorio sulla legislazione, 2000, p. 52). Le commissioni parlamentari, infatti, garantiscono una maggiore opacità e dunque un minore controllo pubblico dei contenuti delle leggi-provvedimento, garantendo così una distribuzione asimmetrica delle informazioni ad esse relative, a vantaggio dei loro beneficiari. Inoltre, nel periodo 1996-1999 l’Italia presenta una percentuale sensibilmente più elevata di leggi microsettoriali e di manutenzione normativa rispetto al dato di Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna (si veda la fig. 5). Per quanto riguarda le leggi di manutenzione normativa, che cambiano o prorogano disposizioni esistenti, esse hanno natura essenzialmente auto-referenziale; la loro diffusione segnala infatti la complessità del quadro normativo esistente. In Italia, essendovi vincoli formali più numerosi e stringenti, anche l’attività di manutenzione é maggiormente estesa, e parallelamente più alti sono i costi di informazione per i cittadini e le imprese che di quelle modifiche devono venire a conoscenza. L’ampiezza delle leggi provvedimento riflette invece l’incidenza relativamente più estesa delle politiche distributive, di cui esse sono tra i principali strumenti decisionali, ossia di quelle politiche che assegnano benefici selettivi a categorie ben identificabili di soggetti distribuendone diffusamente i costi, in modo da renderli impercettibili (10). I provvedimenti che ne scaturiscono, oltre ad essere oggetto di scambi politici "micro-settoriali" tra i loro promotori politici, individui e gruppi d’interesse che ne sono beneficiari, contribuiscono altresì ad incrementare i costi di transazione. Da un lato, infatti, tali norme tendono ad aggravare (sia pure indirettamente e in maniera occulta) l’onere fiscale complessivo; dall’altro esse accrescono i costi d’informazione per i soggetti che, a causa della loro portata limitata e della ristrettezza dell’insieme di destinatari, devono scoprire se sono compresi nel novero di beneficiari previsti, o se possono rientrarvi passando attraverso le "forche caudine" di una qualche procedura pubblica, oppure esercitando attività di pressione (palese o nascosta) sugli agenti che esercitano i corrispondenti poteri.

2. 3. Quantità di leggi e costi di transazione.

Passando agli aspetti quantitativi del prodotto legislativo, il sistema italiano é caratterizzato dall’esistenza di un ammontare di leggi vigenti superiore rispetto a quello di altri paesi europei. Lo studio più recente attesta l’esistenza di 12.727 leggi (al 31 maggio 1996), contro le 7.325 della Francia e le 5.587 della Germania (Camera dei deputati 1996, pp. 7-9). L’effetto di questa inflazione normativa é, paradossalmente, quello di erodere la prevedibilità del diritto. Al pari dell’inflazione monetaria, che riduce il potere d’acquisto della moneta, l’eccesso di vincoli formali svaluta la legge come quadro generale di orientamento in grado di ridurre l’incertezza nelle scelte private e pubbliche, e rende tollerabili e giustificabili le sue violazioni. Inoltre, troppe leggi stimolano un’ulteriore produzione legislativa, ponendo le condizioni per un inesorabile circolo vizioso: da un lato perché si moltiplicano, da parte di cittadini, gruppi di pressione e imprese, ma anche dall’interno della stessa amministrazione pubblica, le richieste di "manutenzione legislativa", ossia di correzioni, proroghe, aggiornamenti, deroghe, adattamenti dell’esteso stock normativo esistente (Presidenza del Consiglio, 1993, p. 24); dall’altra perché la relativa facilità con cui il processo legislativo é portato a compimento (unita al carattere micro-sezionale di molte delle regole che ne scaturiscono) incentiva la formulazione di istanze e l’attività di pressione sul potere da parte di soggetti che mirano ad avvantaggiarsene, oltre all’investimento di risorse nell’acquisizione delle necessarie competenze e abilità. Naturalmente, sono incoraggiate anche le attività dei decisori politici che dalla moltiplicazione di scelte legislative possono ricavare consenso e altre risorse economicamente rilevanti. Nel rapporto sui processi di liberalizzazione nel sistema politico presentato lo scorso anno, si é cercato di fornire una stima, sia pure parziale, del costo dell’informazione relativa ai vincoli legislativi esistenti in Italia, espressa in termini di tempo. Guardando alla raccolta completa delle leggi italiane vigenti, corrispondente a circa 100mila pagine (De Martino, 1982), si é calcolato un tempo di lettura (rapida) del testo pari a 568,3 giorni, ossia un anno, 203 giorni e 8 ore di ininterrotta lettura (Vannucci e Cubeddu, 2000). Nel frattempo, naturalmente, il flusso di produzione normativa non si é interrotto: nel 2000, i provvedimenti legislativi approvati hanno occupato 4632 pagine (in lieve crescita rispetto alle 4594 del 1999): con 6 minuti di lettura per ciascuna di esse, il tempo necessario per aggiornarsi é pari a 19 giorni e 8 ore d’ininterrotta lettura, più altri 8 giorni e 12 ore per le 2042 pagine contenenti leggi regionali (da Lex-legislazione italiana-Gazzette ufficiali, anno LXXXVI, n.2) (11). Il computo, peraltro, non include fonti normative che negli ultimi anni hanno assunto particolare rilievo (in termini quantitativi e di rilevanza), tra cui le norme dell’Unione Europea e quelle delle diverse Authorities. E’ evidente che la conoscenza e l’utilizzo delle informazioni sui vincoli normativi rilevanti impone un costo elevato ai soggetti privati e pubblici. Particolarmente colpiti ne sono coloro che con hanno rapporti più frequenti ed economicamente significativi con le amministrazioni pubbliche, oppure operano in settori diffusamente regolati. Questa situazione produce diverse conseguenze di rilievo:

a) l’esistenza di un deficit concorrenziale rispetto ad altri operatori (pubblici e privati) di altri paesi che, grazie ad assetti istituzionali più efficienti, devono sostenere minori costi di transazione;

b) una crescita dell’incertezza concernente il comportamento dell’autorità pubblica, che potrà sanzionare o tollerare, secondo il proprio arbitrio, certi tipi di azioni, o certi soggetti;

c) il ricorso più diffuso a particolari "strutture di governo" delle relazioni con le autorità pubbliche, come ad esempio gli intermediari specializzati, in grado di ridurne gli attriti e i costi attesi.

Come mostra la fig. 6, nella XIII legislatura il Parlamento italiano ha approvato complessivamente 905 leggi (dato aggiornato al maggio 2001).

Si può osservare come, nonostante il dichiarato avvio di un processo di semplificazione e delegificazione, la media mensile delle leggi approvate nell’ultima legislatura risulti in crescita rispetto alla XI e XII legislatura nell’ultima legislatura, seppure inferiore a quella della X, a denotare una brusca inversione di tendenza (si veda la fig. 7 ). In particolare, l’evoluzione del numero di leggi approvate annualmente nel corso dell’ultima legislatura vede un picco di 200 leggi nel 1999, cui fa seguito una diminuzione nell’anno successivo (si veda la fig. 8). Inoltre, la media mensile di leggi italiane, relativa al periodo 1996-1999, é la più alta tra quelle dei principali paesi europei, insidiata solo dalla Germania, ma corrispondente al doppio della Francia e addirittura al triplo di Spagna e Gran Bretagna (si veda la fig. 9).

Analogamente, se si considera il numero di leggi approvate nel 1999, il Parlamento italiano continua ad essere di gran lunga il più prolifico, con 200 leggi approvate, quasi il doppio di quelle francesi, quasi tre volte quelle spagnole, più di cinque volte quelle britanniche (si veda la fig. 10).

 

2.4. Il fattore "tempo".

Scendendo più nel dettaglio, il tempo medio della procedura di approvazione delle leggi, nel corso della XIII legislatura, é stato di 279 giorni. In caso di iniziativa parlamentare, il tempo medio sale a 508 giorni, mentre si riduce a 188 per i progetti di legge d’origine governativa. Diversi elementi sembrano poi indicare un peso crescente del governo nel processo legislativo. Un rafforzamento dell’esecutivo, del resto, era tra gli obiettivi della riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, operata nel 1993 (12). Nell’ultima legislatura si assiste a un sensibile incremento dell’iniziativa governativa "non vincolata" (ossia non dipendente da leggi di bilancio, di ratifica, di conversione di decreti-legge), che nella XIII legislatura sale al 23,8% delle leggi approvate (rispetto al 13,4% della XI e al 5,4% della XII legislatura), contro il 17,5% delle leggi di iniziativa parlamentare, percentuale superiore al 9,5% della XII, ma più bassa del 23,9% della XI legislatura (dati aggiornati al dicembre 2000) (si veda la fig. 11).

L’origine governativa di un disegno di legge, oltre ad abbreviare i tempi dell’eventuale approvazione, accresce considerevolmente le sue probabilità di concludere con successo l’iter. Nell’ultima legislatura il 57,2% dei disegni di legge presentati dal governo sono stati approvati (percentuale doppia rispetto al 27,8% e al 25,3% delle due precedenti legislature), contro un modesto 2,4% dei progetti di legge di origine parlamentare, che mostrano costantemente un’elevatissima "mortalità" (dati aggiornati al 31 dicembre 2000) (si veda la fig. 12).

Negli ultimi anni é triplicata la percentuale di leggi di delega e di autorizzazione alla delegificazione, che dalle 13 della XII legislatura, pari al 4% del totale, diventano 108 nella XIII legislatura, corrispondenti al 14% (dato aggiornato a maggio 2000) (Camera dei deputati, 2001, p. 12). Solo tra il 1998 e il 1999 tale percentuale cresce dal 21% al 25%. Una parte crescente della produzione legislativa si limita, infatti, a presentare norme di principio, distribuendo ad altre autorità - al governo in modo particolare, ma anche agli enti locali e alle Authorities - il potere di definire più precisamente i contenuti dei corrispondenti vincoli formali. Ovviamente, é aumentata anche la produzione di decreti legislativi, più che triplicati in percentuale rispetto alla precedente legislatura (dal 2,1% al 6,6%). In particolare, si é passati da una media mensile di 4,1 decreti legislativi nella XI legislatura, a 2,1 nella XII, ai 6,6 della XIII legislatura (si veda la fig. 13).

Nel 1999 il numero dei decreti legislativi emanati, 94, ha superato quello delle leggi approvate, 72. Più in generale, nel corso della XIII legislatura il numero di decreti legislativi (pari al 40%) ha pressoché eguagliato quello delle leggi (42%), se si escludono dal computo le leggi di ratifica e quelle di conversione di decreti legge (18%) (Camera dei deputati, 2000, p. 13). La quantità di leggi che prevedono deleghe, le disposizioni di delega e il numero di decreti legislativi emanati nell’ultima legislatura sono considerevolmente superiori rispetto a quello delle precedenti (dati aggiornati al 31 dicembre 2000) (si veda la fig. 14).

Riguardo ai contenuti, nel 29,8% dei casi l’utilizzo delle deleghe ha per oggetto l’attuazione della normativa comunitaria, nel 28,7 % concerne provvedimenti collegati alla manovra finanziaria, nel 23,9% riguarda la riforma del sistema amministrativo (leggi "Bassanini"), e infine nel 17,6% affronta la disciplina di particolari settori (Camera dei deputati, 2000, p. 14). In relazione all’atro strumento di produzione legislativa ad opera del governo, quello dei decreti legge, la sentenza 24 ottobre 1996, n. 360 della Corte Costituzionale (con cui si é sancito il divieto di reiterazione dei decreti non convertiti nei termini costituzionali) ha indotto una drastica riduzione nel loro impiego in termini assoluti, ma non così significativa al netto dei decreti reiterati. Basti pensare che, a fronte di ben 187 decreti legge (con una media mensile di 34, pari però a soli 4, al netto dei decreti reiterati) emanati nei primi cinque mesi della XIII legislatura, prima di tale sentenza, nei 4 anni successivi ne sono stati prodotti solo 147, con una media mensile di 3,3. Nel corso del 2000, peraltro, si é registrato un lieve incremento della media mensile, passata dai 2,8 decreti del luglio 1998 - luglio 1999 ai 3,2 decreti del luglio 1999-luglio 2000. Tra i 38 decreti legge approvati in quest’ultimo periodo, ben 29 sono interventi di microlegislazione o di manutenzione legislativa, a conferma dell’impiego della decretazione d’urgenza, da parte dei governi, come duttile strumento d’attuazione rapida di decisioni politiche che ben poco hanno a che vedere coi vincoli previsti dal dettato costituzionale, dato che "soltanto una minoranza di decreti legge riguarda situazioni di emergenza o di imprevedibilità" (Osservatorio sulla legislazione, 2000, I, p. 65).

2.5. Semplificazione normativa e delegificazione

In definitiva, i risultati delle politiche di semplificazione e riduzione dello stock normativo presentano luci ed ombre, sia in termini di abrogazioni di leggi che di abbassamento del livello della fonte (dalla disciplina legislativa a quella regolamentare). Per quanto concerne il primo punto, le abrogazioni contenute in leggi ordinarie hanno conosciuto, nel corso dei primi sei mesi del 2000, una diminuzione rispetto all’anno precedente (si veda la fig. 15). A ciò corrisponde la completa assenza di provvedimenti interamente abrogati nel 2000, a fronte dei 16 del 1999 e dei 5 del 1998. Anche i decreti legislativi mostrano nel corso del 2000 un indebolirsi della spinta verso la cancellazione dei vincoli legislativi vigenti, tanto in percentuale (si veda la fig. 16) che in termini numerici assoluti: nei primi sei mesi del 2000 solo 31 decreti avevano contenuti abrogativi, rispetto ai 74 del 1999 e ai 53 del 1998.

Anche il numero di provvedimenti interamente abrogati nella prima metà del 2000, pari a 10, é decisamente inferiore sia ai 61 del 1999 che ai 48 del 1998. Riguardo alla delegificazione, gli atti con forza di legge che la autorizzano sono considerevolmente cresciuti nella XIII legislatura, così come i regolamenti delegificanti (dati aggiornati al 30 giugno 2000) (si veda la fig. 17). Peraltro, tra il 1999 e il 2000 si segnala un certo rallentamento degli sforzi di delegificazione, che sono approvati con la massima frequenza tra il 1997 e il 1998 (si veda la tab. 2)

Tav. 2. Provvedimenti di delegificazione nella XIII legislatura.

Anno

Leggi che autorizzano delegificazioni

Regolamenti delegificanti emanati

1996

3

8

1997

18

21

1998

15

30

1999

12

17

2000

2

11

Totale legislatura XIII

50

87

Un’altra strategia perseguita nell’ambito delle politiche di semplificazione normativa consiste nell’emanazione di testi unici, che non si limitano a raccogliere le leggi esistenti in relazione al contesto di applicazione, ma cercano di ordinarne e razionalizzarne i contenuti, operano delegificazioni semplificazioni, sistemazioni, abrogazioni. Anche in questo campo si assiste a un impegno considerevolmente superiore rispetto a quello delle precedenti legislature (nella XIII legislatura bel 17 disposizioni prevedono l’emanazione dei testi unici, rispetto alle 2 della XII, alle 6 della XI e alle 5 della X), che però inizia a mostrare nel corso del 2000 segni di stanchezza: solo una disposizione di questo tipo stata approvata in quest’ultimo anno, rispetto alle 8 del 1999). In ogni caso, alcuni risultati concreti sono stati raggiunti, attraverso l’emanazione di 8 testi unici nel corso della XIII legislatura (tra cui quelli relativi a enti locali, documentazione amministrativa, edilizia, pubblico impiego, espropriazione, università, circolazione e soggiorno in Italia di cittadini dell’UE), rispetto ai soli 5 delle tre precedenti legislature messe insieme (Osservatorio sulla legislazione, 2000, p. 70; Ministero della funzione pubblica, 2001). Si possono così riassumere le principali conclusioni della nostra analisi sulle caratteristiche del processo legislativo in Italia:

- L’ammontare di vincoli di natura legislativa vigenti in Italia é considerevolmente più ampio rispetto a quello dei principali paesi europei. Inoltre, esso é composto da norme qualitativamente scadenti, indirizzate prevalentemente verso la disciplina di situazioni particolari o l’attuazione di provvedimenti molto specifici (leggi "microsezionali").

- Il flusso di nuova legislazione segna negli ultimi anni un’inversione di tendenza ed é di nuovo in crescita rispetto alle precedenti legislature. L’Italia continua ogni anno a produrre un numero di leggi notevolmente superiore rispetto a quello dei principali paesi europei.

- L’eccesso di leggi accresce i costi delle transazioni economiche e politiche, penalizza i cittadini e pone le imprese in una condizione di svantaggio concorrenziale, accrescendo l’incertezza individuale e sociale.

- A partire dalla seconda metà degli anni ‘90, si é rafforzata la percezione della rilevanza collettiva del problema costituito dal numero eccessivo e dai limiti qualitativi delle leggi esistenti in Italia. Per la prima volta, la questione é stata affrontata attraverso politiche e interventi organici, volti a creare condizioni favorevoli per un suo progressivo superamento.

- Le misure di semplificazione hanno prodotto in Italia alcuni parziali successi in termini quantitativi, ma stentano a tradursi in un cambiamento soddisfacente delle modalità istituzionalizzate di produzione normativa, ossia in "regole del gioco" più efficienti nel ridurre i costi che il processo legislativo impone ai suoi destinatari.

- Negli ultimi anni il governo ha giocato un ruolo più attivo all’interno del processo legislativo, se confrontato con le precedenti legislature. L’esecutivo ha avuto una funzione trainante anche nell’ambito degli interventi di semplificazione, in particolare attraverso l’impiego estensivo dello strumento delle deleghe.

- Nella fase finale della XIII legislatura sembra indebolirsi la "spinta propulsiva" degli interventi di riforma del quadro esistente di vincoli legislativi. I tentativi di semplificazione incontrano resistenze crescenti, che si concretizzano in un rallentamento della produzione di provvedimenti di abrogazione e di delegificazione.

3. Le politiche di semplificazione amministrativa.

Le relazioni che cittadini e imprese allacciano con le amministrazioni pubbliche hanno dei costi, legati ai problemi di informazione, negoziazione, garanzia dei loro rapporti con gli agenti pubblici che sovrintendono le relative procedure. L’ammontare quantitativo di tali contatti é, come prevedibile, estremamente alto: il 93,7% delle imprese ha avuto, nel corso del 1996, almeno un contatto, direttamente o per mezzo di intermediari, con una tra sei tipologie di ufficio pubblico. In particolare, la quasi totalità delle imprese con oltre 20 addetti ha fatto ricorso ai servizi amministrativi di almeno un ufficio pubblico. Relativamente più contenuta é invece la frequenza (93%) delle imprese di minori dimensioni (da 1 a 4 addetti) (Zuliani 1998). Tra luglio 1998 e giugno 1999 la percentuale di imprese fino a 250 dipendenti che ha avuto almeno un contatto con gli uffici pubblici considerati (Camere di commercio, Inps, uffici Iva e del Registro, Asl, uffici regionali, provinciali e comunali) é di circa il 90% delle imprese, tra i quali tre o quattro uffici diversi nel 19,7% e nel 22,6% dei casi. In totale, si sono avuti 21 milioni di contatti con gli uffici in questione, con una frequenza media per impresa pari a 22,7 per il complesso degli uffici (Istat 2000, p.1). Nonostante i limiti che ne hanno finora condizionato la fase di messa in opera, le misure di semplificazione normativa e di snellimento burocratico hanno segnato una significativa "inversione di tendenza" nell’orientamento generale delle politiche pubbliche. Come riconosce l’Oecd nel suo rapporto sulle riforme del sistema di regolazione in Italia (Oecd 2000, p. 71): "Nei fatti, l’Italia sta rapidamente migliorando la sua capacità di impiegare le migliore pratiche per una regolazione di qualità. Notevoli progressi sono stati fatti nel Paese sulla base delle cosiddette ‘riforme Bassanini’ del 1997. (...) Queste riforme dei poteri di regolazione della pubblica amministrazione - ridefinendo i rapporti tra Stato, cittadini e imprese - costituiscono importanti passi avanti che, se attuati efficacemente a tutti i livelli di governo, potranno dare impulso agli investimenti e alla crescita economica, migliorare l’efficacia dell’azione politica e ridurre i vincoli al progresso socio-economico (in particolare del Mezzogiorno) derivanti dall’inefficiente gestione della cosa pubblica" Negli ultimi anni, come mostra la fig. 18, a livello di governo centrale é aumentato significativamente il ricorso ai diversi strumenti per il miglioramento della qualità della regolazione. Inoltre, come mostra la fig. 19, sono stati segnalati progressi particolari in alcuni settori di regolazione amministrativa che hanno effetti sul sistema produttivo, inclusi i controlli statali, le barriere all’imprenditorialità, le norme amministrative, la regolazione economica (OECD 2000, p. 37-38).

Fig. 18. Impiego di strumenti per migliorare la qualità della regolazione.(Fonte OECD 2000, pag.71)

Tra le tappe che hanno segnato questo processo possiamo ricordare le leggi 29/1993 e 573/1993, la cui attuazione ha portato alla semplificazione di oltre 100 procedimenti e gruppi di procedimenti. La legge 59/1997 ha previsto la presentazione annuale di un disegno di legge per la delegificazione di norme collegate a precedenti provvedimenti amministrativi. Anche le leggi 127/1997 e 191/1998 hanno posto quale obiettivo prioritario la delegificazione e la riduzione di tempi e delle fasi delle procedure pubbliche. Oltre che attraverso nuovi vincoli legislativi, le politiche pubbliche di semplificazione hanno trovato espressione in una serie di nuovi assetti organizzativi: così, la legge 50/1999 (legge di semplificazione 1998) ha costituito un Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, col compito di fornire "il supporto occorrente a dare attuazione ai processi di delegificazione, semplificazione e riordino" (art. 3). Composto, nella previsione legislativa, da 25 esperti, il Nucleo ha iniziato le proprie attività nel settembre 1999, operando nel campo della semplificazione delle procedure e del riordino del sistema normativo (attraverso la redazione di testi unici). E’ stato inoltre introdotta, a titolo sperimentale, l’analisi dell’impatto della regolamentazione, di cui dovrebbero avvalersi le commissioni parlamentari nello svolgimento dell’istruttoria legislativa. La metodologia adottata prevede la valutazione preventiva dell’effettiva necessità delle norme e la misurazione dei costi e dei benefici delle nuove iniziative normative per i cittadini, le imprese e le stesse amministrazioni. Si può ricordare anche l’istituzione di un Osservatorio sulle semplificazioni, previsto dal patto sociale per il lavoro e lo sviluppo, con la partecipazione dei rappresentanti delle parti sociali, delle autonomie locali e delle amministrazioni centrali. Nei limiti delle sue funzioni consultive, esso ha elaborato proposte di modifica del regolamento, controllato l’attuazione dello sportello unico e individuato procedimenti da inserire nei disegni di legge di semplificazione.

3.1. Il sistema di rapporti tra cittadini, imprese e amministrazione pubblica.

Le politiche di semplificazione hanno prodotto un’apprezzabile modifica del tessuto istituzionale che regola il sistema di rapporti tra cittadini e amministrazioni pubbliche. Come conseguenza, i costi dell’interazione tra cittadini, imprese e stato hanno conosciuto, in alcuni settori, una significativa riduzione. Si prenda, ad esempio, la diminuzione di tempo e di denaro necessari, prima delle riforme del 1997-8, per le attività di certificazione e autenticazione: rispetto al 1996, il risparmio é stato quantificato in 1800 miliardi nel 1999 e in 2200 miliardi nel 2000. In particolare, i certificati sono stati ridotti del 61,6% (dati aggiornati al primo trimestre del 2001), dai 68,7 milioni del 1996 ai 34,8 milioni del 1999. Con il testo unico sulla documentazione amministrativa é stato introdotto il divieto per le amministrazioni e i servizi pubblici di richiedere certificati ai cittadini. Le autentiche di firma sono state abbattute del 90% (dati del primo trimestre del 2001), dai 35,1 milioni del 1996 ai 7,4 milioni del 1999. Il tempo complessivamente guadagnato da cittadini e imprese é evidente, se si pensa che il tempo medio di attesa per ciascuna di queste operazioni é stato stimato in 45 minuti. E’ stata inoltre vietata l’autenticazione delle domande per i concorsi e resa più semplice l’autenticazione di domande, dichiarazioni e copie, ed introdotto uno Sportello unico per l’edilizia, che semplifica le procedure e riduce i controlli (Ministero della funzione pubblica, 2001; Presidenza del Consiglio, 2000). Altrettanto significativi appaiono gli effetti sui costi delle relazioni tra imprese e sistema amministrativo. Possiamo ricordare, tra le misure più importanti, la consistente limitazione dei casi in cui é richiesta la certificazione antimafia, la liberalizzazione delle attività commerciali per esercizi di piccole dimensioni, la semplificazione del registro per le imprese e delle autorizzazioni di pubblica sicurezza (con l’introduzione di autocertificazioni e la trasformazione di licenze annuali in permanenti), la promozione del cosiddetto e-government (gestione informatizzata dei rapporti tra amministrazioni pubbliche e utenti) (13), l’eliminazione dell’omologa dinanzi al tribunale per la costituzione delle società. Come si osserva nel rapporto Oecd sul sistema di regolazione in Italia: "Dal dicembre 2000 il numero dei procedimenti necessari per costituire una nuova società o una ditta individuale é stato ridotto da 25 a 5 e il tempo massimo richiesto per l’intero provvedimento é stato ridotto da 22 settimane a 10. I costi sono stati ridotti da 7.700 a 3.500 euro circa per le società e da 1150 a 500 euro per le ditte individuali" (OECD 2000, pp. 72-3). Accompagnata dall’estensione dell’autocertificazione, della denuncia d’inizio attività e del silenzio assenso, l’adozione dello strumento dello sportello unico ha permesso di ridurre i tempi e i costi dei rapporti con gli enti pubblici di cittadini e imprese. In alcuni settori chiave, questi ultimi hanno un unico interlocutore per pratiche che coinvolgono uffici e amministrazioni diverse. Sono stati così introdotti lo sportello unico dell’edilizia, dell’automobilista e delle attività di impresa all’estero. Il più importante é comunque lo sportello unico per le attività produttive (istituito col decreto legislativo 112/1998), grazie al quale le imprese affrontano un unico interlocutore e un unico procedimento (la cui conclusione ha tempi certi) per l’insediamento, la ristrutturazione e l’ampliamento di un impianto produttivo di beni o servizi (industrie, alberghi, negozi e centri commerciali, ecc.). Tutte queste funzioni amministrative sono conferite ai comuni, attraverso un unico procedimento di autorizzazione. L’effetto atteso é un risparmio conseguente alla riduzione dei tempi, del numero dei contatti tra il sistema delle imprese e la pubblica amministrazione e dei relativi costi di transazione. Prima della sua introduzione, la realizzazione di un nuovo insediamento produttivo richiedeva fino a 45 adempimenti, che imponevano rapporti con enti diversi (Comune, Regione, Provincia, ASL, Vigili del Fuoco, Camera di Commercio, ecc). Di conseguenza tempi di attesa risultavano estremamente lunghi (per esempio, da 9 a 27 mesi solo per una concessione edilizia), specie se confrontati con gli altri paesi europei nei quali l’avvio di un’attività economica richiede in media un mese di attesa (due nei casi più complessi). Di qui gli alti costi sostenuti dalle imprese solo per mantenere rapporti con le amministrazioni pubbliche. Da dati Istat emerge che l’incidenza media degli oneri complessivi per adempimenti amministrativi nel 1996 era pari all’1% sul totale dei costi aziendali (corrispondente al 3,4% del costo interno del lavoro e il 26% dei costi esterni complessivi per consulenze), con un utilizzo di personale interno per un numero di giornate pari a 71,4 milioni. L’ammontare complessivo dei costi sopportati nel 1996 dalle imprese tra i 3 e i 500 addetti per l’espletamento dei soli obblighi amministrativi oggetto della ricerca (uffici Iva, Asl, Comuni, Inps, Inail, Camera di commercio) é stato stimato in 22.500 miliardi di lire, per un ammontare pari all’1% dei costi aziendali totali. Il costo annuo che ciascuna impresa in media ha dovuto sostenere per adempimenti fiscali é stato pari a 15.712.000 lire, di 16.692.000 lire per attività amministrative legate ad import-export, di 7.481.000 per attività legate alle risorse umane, di 7.095.000 lire per attività connesse con l’innovazione. L’incidenza di tali costi diminuisce sensibilmente al crescere della dimensione dell’impresa: é massima (1,7%) nelle imprese che si collocano nella classe 6-9 addetti ed é minima (0,2%) nelle imprese con più di 200 addetti: "Da un lato, i servizi resi dagli uffici pubblici vengono valutati in termini soddisfacenti prevalentemente dalle imprese che hanno bassi livelli di interazione con gli uffici stessi, richiedendo un limitato numero di prestazioni differenziate, che implicano l’attivazione di procedure semplici e ripetitive. Dall’altro, la qualità dei servizi offerti risulta non soddisfacente soprattutto alle imprese che richiedono un maggior numero di prestazioni differenziate" (Zuliani 1998, pp. 24-33). E’ possibile valutare i primi effetti delle politiche di semplificazione amministrativa comparando questi dati con quelli relativi al periodo luglio 1998-giugno 1999. In primo luogo, solo il 25,4% delle imprese utilizza mediatori esterni per svolgere adempimenti presso gli uffici pubblici: rispetto al dato del 1996 (pari al 42,2%) la diminuzione é molto marcata, indice che l’attenuazione dei vincoli procedurali ha comportato una riduzione dei costi d’intermediazione con le strutture pubbliche. Il confronto con le variazioni nelle percezioni soggettive dell’efficienza del servizio non porta però a risultati altrettanto confortanti. Tra il 1996 e il 1999 la percentuale d’imprese che lamenta tempi abbastanza o troppo lunghi per l’espletamento del servizio é passato dal 37,4% al 40%; le imprese che ritengono scarsa o mediocre la professionalità e la competenza del personale sono aumentate dal 21,8% al 23% (solo l’8% la ritiene elevata); le imprese che reputano complesse o molto complesse le modalità di accesso al servizio passa dal 19,4% al 23,8%. (si veda la tabella 3).

Tav. 3. Evoluzione del giudizio delle imprese sui loro rapporti con le pubbliche amministrazioni

Anno

Tempi abbastanza o troppo lunghi per l’espletamento del servizio

Scarsa o mediocre professionalità e competenza del personale

Complesse o molto complesse le modalità di accesso al servizio.

1996

37.7%

21.8%

19.4%

1999

40.0%

23.0%

23.8%

Fonti: elaborazione da Zuliani 1998 e Istat 2000.

Naturalmente, é possibile che questo peggioramento nel giudizio delle imprese non rifletta soltanto un peggioramento della qualità del servizio, ma anche una parziale delusione delle aspettative suscitate dal cambiamento del sistema normativo. Due sondaggi effettuati tra aprile 1999 e febbraio 2000 sembrano invece segnalare un’inversione di tendenza, con una limitata crescita della fiducia dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. In primo luogo, il voto positivo (sopra la sufficienza) al rapporto tra cittadini e amministrazioni é salito dal 49% al 64%. La definizione del proprio rapporto con l’amministrazione pubblica nel 1999 é "inevitabile" per il 36% e "insopportabile" per il 17%; nel 2000 il 40% del campione giudica i servizi dell’amministrazione "migliori di una volta". In particolare, la percezione di uno snellimento delle file sale dal 26% al 33% del campione. Nonostante questi segnali di un clima di "fiducia condizionata" negli effetti delle riforme, una conferma della divergenza tra le aspettative suscitate dal cambiamento del tessuto normativo e le resistenze avvertite nelle consolidate prassi che regolano rapporti con le amministrazioni pubbliche viene dal fatto che il 76% dei cittadini considera le riforme "capaci di mutare il rapporto amministrazione pubblica/cittadini" (a fronte di circa il 10% che ritengono "inefficaci"), ma una percentuale estremamente alta, pari al 63%, le ritiene qualcosa di "positivo, ma di difficile attuazione" (vedi fig. 20).

La radicata sfiducia trova espressione anche nel 46% del campione, che ritiene che "il comportamento dei dipendenti pubblici possa vanificare i risultati delle riforme (Presidenza del Consiglio, 2000, p. 9). Da un’indagine effettuata in 8 città campione, nel corso del 2000 l’opinione dei cittadini verso l’amministrazione pubblica é rimasta immutata per il 59,8% del campione, é cambiata in positivo per il 26% e in negativo per l’11%. Quasi il 60% degli imprenditori che hanno gia utilizzato lo Sportello unico per le attività produttive si reputa soddisfatto dell’innovazione (ibidem, p. 13).

3.2.Appalti e controlli amministrativi.

Il settore nel quale i contatti tra imprese e pubblica amministrazione sono più frequenti ed economicamente rilevanti é quello degli appalti. Dal 1995 al 1999 vi sono stati 215.784 bandi soltanto nel settore dei lavori pubblici. Nel 1998, 48.843 miliardi sono stati allocati dalle amministrazioni pubbliche tramite procedure di appalto (AVLP, 2000, pp. 36-8). Nel 2000 ci sono state 38.787 procedure per appalti di lavori pubblici, per un importo complessivo di 37.773 miliardi di lire (AVLP, 2001, p. 26). Anche in questo campo modifiche sostanziali del quadro normativo sono state introdotte tra il 1994 e il 1998 dalle tre leggi Merloni: le procedure più discrezionali di scelta del contraente sono state fortemente limitate a vantaggio di quelle concorrenziali, mentre la redazione dei progetti, la direzione dei lavori e le attività di vigilanza e controllo sono state affidate in via primaria alle strutture tecniche interne alle amministrazioni, con l’obiettivo di ridurre il ricorso a modifiche ed integrazioni dei progetti originari. La valutazione e la comparazione delle esigenze socio-economiche alla base delle singole opere é stata delegata alla predisposizione di un programma triennale da parte degli enti appaltatori, alla disponibilità reale dei mezzi finanziari sufficienti e alla predisposizione preliminare di un progetto dettagliato. La legge di riforma ha previsto, inoltre, l’istituzione di un’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici che ha funzioni di proposta e vigilanza e la più estesa diffusione delle informazioni sulle gare, anche tramite strumenti informatici. Il piano complessivo della riforma si pone quale obiettivo proprietario quello eliminare le fonti di incertezza e di distorsione dei mercati pubblici (ricorso indiscriminato a meccanismi non concorrenziali di assegnazione degli appalti, scarsa qualità dei progetti originari, etc.), che creavano condizioni propizie per l’emergere di inefficienze, sprechi di risorse e corruzione, conformandosi alla normativa europea (14). Anche in questo caso gli effetti dei nuovi vincoli formali sono destinati a dispiegarsi nel corso del tempo, ed é presto per tracciarne un bilancio, sia pure provvisorio, dei loro effetti. Le resistenze sono state comunque notevoli, tanto che la stessa Autorità di vigilanza ha lamentato che le prassi e i comportamenti concreti degli amministratori sono rimasti in molti casi ben lontani dal conformarsi alle previsioni normative (AVLP, 2000, p. 48 e p. 55). In questo senso, il "contesto di confusione e instabilità (...) rischia di incoraggiare l’inosservanza diffusa e la ripetuta disapplicazione delle norme, a danno delle esigenze di certezza degli operatori economici e dell’interesse pubblico a un esercizio corretto e trasparente dell’attività amministrativa" (AGCM, 1994). Dai primi rapporti dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici emergono comunque alcuni elementi di riflessione. In primo luogo, le relazioni di scambio tra imprese e amministrazione pubblica presentano costi di transazione estremamente alti proprio a causa dell’inefficienza delle procedure. Da un sondaggio a campione, nel periodo 1995-1998 il fattore che più incide sulla durata della realizzazione delle opere pubbliche sono i tempi amministrativi: rispetto alla durata complessiva degli interventi, la realizzazione richiede il 21,6% del tempo, la progettazione il 31,6%, mentre ben il 46,8% del tempo viene utilizzato per le varie incombenze amministrative. Il tempo medio per la realizzazione delle opere é di ben 2.410 giorni, 433 dei quali soltanto per i collaudi (AVLP, 2000, pp. 60-2). Un miglioramento viene riscontrato nel rapporto del 2001 per quanto riguarda il tempo medio trascorso dalla pubblicazione del bando all’aggiudicazione, che passa da 173 giorni del periodo 1995- 98 agli 81,5 giorni del 2000 (AVLP, p. 62). Infine, si é osservato come il contenzioso, ossia l’emergere di controversie in relazione alla procedura di appalto e alla successiva costituzione di un rapporto di scambio tra imprese e amministrazione pubblica, assuma una frequenza molto elevata al crescere dell’importo della gara: si verificano controversie nel 9,5% degli appalti di importo tra 1 e 5 milioni di Ecu, e nel 28,7% di quelli di importo superiore ai 5 milioni di Ecu (AVLP, 2000, p. 72). Anche questo elemento conferma il permanere, nonostante i principi di trasparenza e di concorrenza cui si ispirano le nuove regole, di una condizione di incertezza relativa ai meccanismi di assegnazione e di garanzia dei diritti di proprietà derivanti dagli esiti delle procedure di appalto. Tale incertezza é alla radice dei contenziosi che, specialmente nei casi in cui la posta in palio é più alta, espongono le parti (pubbliche e private) a costi di transazione più elevati. Accanto agli "attriti" derivanti dalle relazioni di cittadini e imprese con le strutture pubbliche, occorre considerare anche i costi di transazione interni alle amministrazioni pubbliche (legati all’inefficienza e all’inadeguatezza dei vincoli normativi e degli assetti organizzativi). I tentativi di intervento in questo campo, oltre che attraverso alcuni provvedimenti generali di risanamento finanziario (che non affrontiamo in questa sede), si sono concentrati in una pluralità di aree di politica pubblica, attraverso misure di deburocratizzazione, riordinamento e semplificazione. Come prevedibile, non sono mancati ostacoli e resistenze dall’interno delle strutture pubbliche, in difesa di consolidate posizioni di potere e di rendita, oltre che da parte loro rappresentanze politiche. D’altro canto, il costo sostenuto dallo stato per mantenere migliaia di procedure e pratiche appare difficilmente sostenibile, specie in un contesto d’accresciuta "competizione istituzionale" come quella che caratterizza lo scenario europeo e internazionale: si pensi che in Italia esistono oltre 5.400 diversi procedimenti soltanto per le amministrazioni centrali dello stato. Questi elementi innalzano i costi d’avvio e di mantenimento delle attività produttive, determinando una riduzione degli investimenti sia italiani sia esteri, e al tempo stesso incentivano un investimento di risorse nell’acquisizione di conoscenze e competenze che permettono di gestire con minori attriti i rapporti con le burocrazie pubbliche, piuttosto che di ridurre i costi di trasformazione attraverso l’innovazione tecnologica. Anche in questo campo gli effetti delle politiche pubbliche di semplificazione e di riordino dell’apparato amministrativo sono stati relativamente modesti, almeno a paragone con la massa impressionante di procedimenti esistenti. Negli ultimi anni é stato avviato un programma di semplificazione dei procedimenti amministrativi, che ha per oggetto "procedimenti di interesse delle imprese e mira a ridurre i costi a carico del sistema produttivo" (d.d.l. 4374/1998). La legge 59/1997 prevede un intervento di semplificazione su 96 procedimenti, la legge 50/1999 su 47, la legge 340/2000 su altri 63. Nel complesso, dei 206 procedimenti individuati soltanto 44 sono già stati semplificati (Camera dei deputati, 2001, p. 25). L’attuazione del processo di semplificazione é dunque ancora molto parziale, e le cause dei rallentamenti sono da ravvisarsi nella complessità dell’iter d’approvazione dei regolamenti. Il percorso previsto dalla legge configura, infatti, una procedura piuttosto tortuosa, con l’acquisizione di pareri da parte di più organi non sempre coordinati tra loro, cui fa seguito una corrispondente dilatazione dei tempi di decisione e di attuazione. Se le politiche di semplificazione e "liberalizzazione" amministrativa stentano a produrre risultati apprezzabili, ciò é paradossalmente imputabile anche al fatto che gli stessi soggetti ed organismi (spesso istituiti ad hoc) che dovrebbero guidarlo e indirizzarlo si trovano avviluppati nello stesso tessuto normativo a maglie fitte da cui dovrebbero liberare la società, e il tempo investito in studi, ricerche, tentativi, ritardi finisce per essere maggiore di quello che si vorrebbe far risparmiare ai cittadini. Più appariscenti sono invece gli effetti delle misura normative, dal decreto legislativo 29/1993 alle leggi 20/1994 e 94/1997, che hanno riformato il sistema dei controlli amministrativi. Questi provvedimenti legislativi hanno segnato, infatti, un faticoso passaggio dai poco efficaci controlli "di processo" (ossia preventivi di legittimità, basati sulla regolarità formale degli atti) ai controlli "di prodotto", fondati cioè sulla capacità degli atti di favorire al conseguimento degli obiettivi prefissati, in base a criteri di efficacia ed efficienza della gestione. In effetti, il numero di controlli preventivi di legittimità sugli atti statali é stato abbattuto da 5 milioni a 25mila, sugli enti locali da 4,5 milioni a 400mila (Ministero della funzione pubblica, 2001). D’altra parte, i controlli "di prodotto" sono stati assegnati, in maniera poco coordinata, ad organi finora incapaci di adeguarsi ai nuovi compiti, né si sono sviluppati i controlli interni agli uffici delle singole amministrazioni, o i controlli successivi di gestione da parte della Corte dei Conti (Mattarella 1998, pp.116-17). La resistenza dei modelli culturali e cognitivi prevalenti presso gli organi di controllo sembra allora vanificare gli effetti della riforma: "é necessario che anche i controllori si adeguino ai nuovi principi. Ciò vale sia per la Corte dei conti, sia per le ragionerie. La prima mostra serie difficoltà a cambiare approccio, e talora sembra voler ritornare alla più rassicurante prassi dei controlli preventivi di legittimità. Questo appare del resto inevitabile, almeno fino a che continuerà ad essere composta interamente da personale con una formazione giuridica, senza che vi siano competenze -di carattere ragionieristico, economico, informatico- che le permettano di ‘leggere’ i bilanci degli enti controllati, fondando il controllo sui costi sostenuti. Per quanto riguarda le ragionerie, la riforma del 1994 ha accentuato la loro crisi, causata dal carattere formalistico dei controlli e dall’incapacità di utilizzare le informazioni di cui dispongono" (CSPC: 75). La selezione e la formazione del personale non hanno conosciuto finora un apprezzabile adeguamento ai nuovi principi. In sintesi, in Italia il sistema di relazioni tra cittadini e stato, nonostante l’avvio di significative politiche di semplificazione amministrativa, in alcuni settori presenta ancora elevati costi di transazione, che pesano (in termini monetari, ma anche assorbendo grandi quantità di tempo e altre risorse) sulle possibilità di sviluppo economico, generando incentivi all’acquisizione di conoscenze e abilità professionali in attività di redistribuzione e di pressione sul potere. Come si osserva nel rapporto annuale 2000 dell’Autorità garante della concorrenza: "Il contesto normativo di riferimento é rimasto troppo rigido rispetto alle rapide trasformazioni dell’economia e, soprattutto, poco attento alle problematiche concorrenziali, limitando i vantaggi e i benefici potenzialmente derivanti da un più intendo e diffuso sfruttamento delle opportunità connesse all’innovazione tecnologica e all’evoluzione della domanda" (AGCM, 2000, p. 24).

4. Eppur si muove? Le dinamiche dell’adattamento istituzionale.

L’ambiente istituzionale influenza i costi delle transazioni economiche, politiche e sociali. Tali costi, secondo l’approccio neo-istituzionalista, condizionano i processi di formazione delle organizzazioni, incentivando certi tipi d’attività e scoraggiandone altre, influenzano le tecniche e l’efficacia con cui queste ultime perseguono i loro obiettivi, e dunque determinano le possibilità di sviluppo della società. Le organizzazioni, a loro volta, contribuiscono a plasmare i processi di trasformazione delle istituzioni nel corso del tempo. Più precisamente, l’azione delle organizzazioni (guidata da "imprenditori" politici ed economici) influisce sul cambiamento istituzionale tramite:

a) gli incentivi alla domanda di alcuni generi di conoscenze;

b) l’interazione tra attività economica organizzata, conoscenze scientifiche e struttura istituzionale (modifica intenzionale dei vincoli istituzionali);

c) la graduale modifica dei vincoli informali, che si evolvono gradualmente a seguito delle scelte operate dai diversi soggetti economici e politici (modifica non intenzionale dei vincoli istituzionali) (North 1994, p. 118).

Una volta imboccato un certo sentiero di sviluppo istituzionale, diversi fattori (tra cui la rete di esternalità positive, i processi di apprendimento nelle organizzazioni, i modelli di comportamento storicamente determinati) ne rafforzano l’indirizzo, favorendo scelte individuali adattive che permettono di fronteggiare le condizioni di incertezza (ibidem, p. 144). In questo percorso, i vincoli istituzionali che incoraggiano attività improduttive possono presentare rendimenti crescenti, indebolendo gli incentivi a sviluppare abilità e conoscenze funzionali alla crescita del surplus sociale. Questi stessi fattori creano poi le condizioni perché siano sviluppate concezioni ideologiche, teorie e idee che modellano conoscenze e identità in modo da razionalizzare ex-post la struttura istituzionale esistente, giustificandone i bassi rendimenti. In questa prospettiva, possiamo chiederci quali processi di apprendimento e di acquisizione di competenze siano incoraggiati dalla cornice di "regole del gioco" precedentemente descritta. Gli incentivi e i vincoli posti dall’assetto istituzionale alle scelte operate dalle organizzazioni, infatti, indirizzano nel tempo gli stessi percorsi dell’adattamento e del cambiamento istituzionale. Queste considerazioni ci permettono di legare tra loro diversi indicatori, apparentemente eterogenei, che tuttavia illustrano alcuni degli effetti del sistema istituzionale italiano sull’attività delle organizzazioni economiche e politiche operanti entro i suoi confini. Nel caso delle organizzazioni economiche si prenda, in primo luogo, la struttura di incentivi ad investire nella creazione di nuove conoscenze in grado di favorire una crescita della produttività, accrescendo così le proprie possibilità di sopravvivenza e di successo in un contesto concorrenziale.

Le rilevazioni statistiche relative all’Italia mostrano, nel settore degli investimenti (pubblici e privati) in attività di ricerca e sviluppo, un deficit profondo e radicato nel tempo, in termini sia di risorse investite che di risultati conseguiti:

(a) la spesa totale per ricerca e sviluppo in Italia é pari all’1,05% del Pil, inferiore alla metà del valore medio dei paesi Ocse (2,23%) (si veda la fig. 21);

(b) la spesa per ricerca delle imprese é circa un terzo della media dei paesi Ocse e inferiore di quasi un punto percentuale in termini di Pil, rappresentando lo 0,57% del Pil di contro l’1,54% della media Ocse;

(c) il numero di ricercatori per 10 mila lavoratori, pari a 32, é un terzo di quello della Finlandia (94) e del Giappone (96), ma é assai lontano anche dagli Stati Uniti (74), dalla Francia (60) e della Germania (60).

Ai minori investimenti (pubblici e privati) in ricerca e sviluppo corrispondono peggiori risultati: il tasso di inventiva (la domanda di brevetti da parte di residenti per 10 mila abitanti) risulta in Italia pari a 1,2, rispetto a una media di 5,3 dei paesi Ocse, con paesi come il Giappone (27.7), Germania (5,5), e Stati Uniti (4,5), e che presentano valori sensibilmente più elevati (si veda fig. 22).

Inoltre, nel periodo 1993-1999, il numero di brevetti richiesti da residenti é aumentato del 25%, mentre la media Ocse si é attestata sul 67,4%; alcuni paesi, come la Spagna (78,4%), la Germania (35,9%), la Francia (36,1%), e soprattutto la Finlandia (446,9%) hanno segnato crescite molto più consistenti (Censis, 2000). Poiché la competitività delle imprese e delle altre organizzazioni economiche dipende dalla quantità di conoscenze disponibili (ed utili ad accrescere la produttività), l’ammontare ridotto d’investimenti finalizzato alla loro acquisizione le pone in una condizione di svantaggio concorrenziale, al pari delle caratteristiche dell’assetto istituzionale sopra descritte. Tuttavia, ciò non implica affatto una scarsità, in termini assoluti, di inventiva e di abilità imprenditoriali (Baumol, 1990, p. 894). Possiamo chiederci allora in quali direzioni si volga la "creatività imprenditoriale", in un contesto istituzionale che premia l’acquisizione di competenze che permettono di volgere a proprio vantaggio la complessità e l’inefficienza dello stesso sistema di vincoli formali, operando una mediazione nelle controversie private e in quelle con lo stato. Un indicatore dell’esistenza di questi incentivi é dato dal numero di avvocati: un’alta densità relativa nella popolazione denota un ambiente sociale con alti costi di transazione, bassi livelli di fiducia interpersonale e istituzionale, scarsità di capitale sociale, ossia di condizioni nelle quali le attività di gestione e composizione delle controversie sono particolarmente richieste e remunerative (Putnam, 2000, p. 146) (15). L’Italia presenta, nel contesto europeo, il maggior numero di avvocati rispetto alla popolazione (si veda la fig. 23). Gli avvocati abilitati ad operare davanti alle Magistrature superiori in Italia sono 35mila, contro i 150 della Francia. A conferma della robustezza di questi incentivi, si pensi che negli ultimi anni l’incremento é stato di quasi 10mila unità l’anno, fino a raggiungere i circa 110mila avvocati attualmente (Verde, 1999).

4.1. Costi dell’interazione tra settore pubblico e settore privato: l’economia sommersa.

Le statistiche sulla domanda di giustizia amministrativa confermano l’intensificarsi delle occasioni di attrito tra cittadini e pubblica amministrazione, ossia la crescita dei costi di transazione politica. Negli ultimi dieci anni si sia assistito ad un forte aumento (+42,5%) della conflittualità rispetto ad atti o provvedimenti della pubblica amministrazione. I ricorsi ai Tar su questa materia sono passati da 42.265 nel 1987 a 60.212 del 1997 (Istat 1997). Questo sovraccarico di domande si é scontrato con procedure inefficienti, determinando un forte accumulo di casi non esauriti e un ulteriore allungamento dei tempi, che a metà degli anni ‘90 raggiungevano in media i 3.077 giorni presso i Tar e i 1.105 giorni presso il Consiglio di stato (Arabbia e Giammusso, 1994, p. 284).

L’ordinamento istituzionale sembra incentivare in Italia due tipi di investimenti nell’acquisizione di particolari conoscenze e abilità imprenditoriali. Il primo concerne le competenze volte ad evitare, per quanto possibile, interazioni e scambi con la sfera di protezione pubblica, rinunciando ai contatti con lo stato e con i suoi agenti nell’esercizio delle proprie attività economiche e produttive. Ciò implica una rinuncia all’utilizzo dei meccanismi pubblici di garanzia di alcuni profili di diritti, ma al tempo stesso riduce i costi delle transazioni che quelle interazioni impongono. Tale costo, infatti, comprende sia il potenziale esborso fiscale, che il tempo e le altre risorse economiche da consumare per conoscere e rispettare vincoli procedurali e altre forme di regolazione. Un sistema politico-amministrativo che presenta alti costi d’interazione con lo stato induce cos"un elevato numero di imprese a occultare la propria attività, incrementando la quota di "sommerso". Un indicatore del grado di specializzazione in svariate attività, compatibili con questa strategia di "fuga dallo stato", é fornito dalle statistiche relative all’economia sommersa. Come mostra la figura 24, l’Italia si colloca ai vertici in questo settore, con una crescita costante negli ultimi cinque anni, fino a raggiungere un livello che nel 2000 é pari al 28,5 del PIL, circa il doppio di Francia, Germania e Gran Bretagna, e oltre il triplo degli Stati Uniti. La conferma della rilevanza dell’economia sommersa come indicatore di alcune caratteristiche di fondo del contesto istituzionale viene dall’analisi, condotta col metodo della regressione lineare, dei fattori che più influenzano l’occultamento delle attività economiche. Sono state così individuate significative correlazioni positive tra l’entità dell’economia sommersa e:

(i) i livelli di pressione fiscale;

(ii) l’inefficienza, l’ampiezza e la discrezionalità con cui opera la macchina burocratica;

(iii) l’intensità della regolazione, l’estensione e la complessità del sistema legislativo;

(iv) la mole e la complessità del sistema tributario:

(v) la diffusione della corruzione e la presenza della criminalità organizzata (Johnson, Kaufmann e Zoido-Lobatòn, 1998). L’equilibrio istituzionale esistente in Italia, a conferma di quanto fin qui emerso, é caratterizzata proprio dalla compresenza di queste condizioni, che assumono un peso sensibilmente superiore a quelli degli altri paesi democratici occidentali. La forza perdurante degli incentivi a rendere opache, rispetto allo stato, le proprie attività economiche, é dimostrata anche dai livelli di crescita dell’economia sommersa, che nel 1999 registrano in Italia la maggiore crescita percentuale tra i paesi occidentali, circa il triplo superiore al corrispondente aumento del PIL. Diverse organizzazioni economiche si sono così ritagliate vantaggi concorrenziali e nicchie di protezione dal controllo e dalla regolazione pubblica, specializzandosi nella gestione di informazioni e conoscenze che ne hanno modellato l’organizzazione interna e l’attività di mercato.

4.2. Il sistema della corruzione e la sfiducia nella democrazia

Una struttura istituzionale che determina alti costi di transazione nei mercati politici ed economici, oltre alla strategia difensiva sopra descritta, può incentivare anche l’acquisizione di conoscenze che permettono di conseguire attivamente vantaggi differenziali in attività improduttive di redistribuzione del reddito. Il quadro di vincoli formali, infatti, alimentando l’incertezza e distribuendo asimmetricamente informazioni, genera opportunità di profitto per i soggetti che riescono a collocarsi negli snodi del sistema politico amministrativo, oppure ad allacciare relazioni di scambio con gli agenti pubblici, incamerando quote di quelle rendite informative e decisionali. In questo senso, la struttura istituzionale italiana incorpora incentivi ad investire risorse nel raffinamento di competenze d’illegalità, consistenti nel "saper agire sotto minaccia di sanzioni, saper scegliere le vie riparate, saper come coprirsi e proteggersi, ma, più importante ancora, avere un’ampia e, il più possibile, diretta conoscenza sia di altre persone disponibili a partecipare a transazioni illecite, sia di persone che, pur non facendosi coinvolgere, occupino posizioni di autorità che coprano le aree entro le quali le occasioni di tali transazioni sono più frequenti" (Pizzorno, 1992, p.23). Tutti quei fattori che allungano i tempi di risposta delle istituzioni politico-amministrative alle istanze dei cittadini -inflazione legislativa, inefficienza burocratica, intensità della regolazione, debolezza dei controlli, ecc.- possono dunque spiegare sia il capillare coinvolgimento delle organizzazioni politiche ed economiche nel mercato della corruzione, rivelato dalle indagini giudiziarie nel corso degli anni ‘90, che i deludenti risultati delle politiche volte a contrastare il reticolo di scambi occulti (della Porta e Vannucci, 1999) (16). Impiegare mille lire in attività di ricerca e sviluppo, per un’impresa italiana che opera nei mercati pubblici, é presumibilmente assai meno remunerativo che investirle nel consolidamento di relazioni di contiguità politica o di influenza sui decisori pubblici. Infatti, se la protezione garantita dalle procedure giudiziarie o amministrative appare inefficace o ha esiti incerti, conviene acquistare garanzie private e selettive da centri di potere politico-amministrativo, come partiti, fazioni, o singoli esponenti. La stessa attività di pressione sul potere o di corruzione finisce così per istituzionalizzarsi, avendo ad oggetto non la cattura di specifici benefici, ma una salvaguardia più duratura e continuativa dai costi attesi dell’interazione con lo stato, ossia una tutela più efficace, come tempi di soddisfacimento, degli incerti diritti di proprietà. La stessa diffusione della corruzione, in altri termini, tende a riprodurre su scala più ampia condizioni favorevoli alla sua riproduzione nel tempo, tramite l’influenza (diretta o indiretta) sui vincoli istituzionali esercitata dalle organizzazioni politiche ed economiche, talora rivolta semplicemente a impedirne il cambiamento, preservando così le proprie rendite di posizione. Non é una sorpresa che da oltre cinque anni, da quando cioè Transparency International predispone un indice di percezione della corruzione, l’Italia si collochi stabilmente e di gran lunga al primo posto, tra i principali paesi democratici occidentali, quanto a diffusione del fenomeno. E’ invece abbastanza sorprendente che l’indice relativo all’anno 2001 mostri per la prima volta un consistente miglioramento, sia in termini assoluti, da 4,6 a 5,5 punti (si veda la fig. 25), che in termini relativi. La posizione dell’Italia, infatti, sale dal 39° posto (su 90 paesi) del 2000 al 29° posto (su 91 paesi) del 2001. Tuttavia, nonostante il progresso, l’Italia continua a costituire un caso anomalo nel panorama delle democrazia occidentali, con un tasso di percezione della diffusione della corruzione superiore a quello di Estonia, Taiwan, Botswana.

Per chi non può (o non vuole) occultare le proprie attività economiche, né volgere a proprio vantaggio l’inefficienza dei vincoli formali e dei meccanismi statali di garanzia, allacciando relazioni nascoste di scambio corrotto con gli agenti pubblici, non resta che sostenere i costi e l’incertezza che tale assetto impone nei mercati economici e politici, oltre che nell’interazione sociale. L’opzione "uscita" dall’organizzazione statale, infatti, ha costi molto elevati; ad essa, in realtà, ricorrono prevalentemente soggetti con incentivi (economici e sociali) particolarmente forti, come mostra, ad esempio, il fenomeno della cosiddetta "fuga di cervelli", ossia l’emigrazione di scienziati italiani verso laboratori di ricerca esteri. A chi resta, non rimane che maturare (ed eventualmente "elaborare", traducendole nelle diverse forme organizzate di partecipazione politica) la propria insoddisfazione nei confronti delle modalità di funzionamento dell’apparato politico istituzionale. Svariate statistiche convergono nell’indicare una sfiducia generalizzata dei cittadini italiani nei confronti del proprio sistema politico- istituzionale. L’indicatore che utilizziamo in questo rapporto é la domanda relativa al sentimento di soddisfazione sul funzionamento della democrazia nel rispettivo paese, effettuata con regolarità dall’Eurobarometro. Dal 1973, data della prima rilevazione, l’Italia si colloca costantemente all’ultimo posto in Europa. Cumulando i "per niente" e i "non molto soddisfatti", l’area complessiva di sfiducia é sempre rimasta superiore al 60 per cento. Nel 2000, l’area di insoddisfazione in Italia era pari al 62%, contro il 36% della Germania, il 25% della Spagna, il 27% della Gran Bretagna ed il 33% della Francia (si veda la figura 26).

Così come nella percezione della corruzione, anche in questo indice di "sfiducia istituzionale" si osserva un significativo miglioramento rispetto all’anno precedente: l’area di insoddisfazione, infatti, si riduce di ben 8 punti percentuali, peraltro seguendo una tendenza comune agli altri paesi europei (si veda la fig. 27).

Dopo il dato sulla percezione della corruzione, si tratta di un ulteriore dato positivo relativo alle dinamiche dell’adattamento istituzionale in Italia (eppur si muove?). Infine, prendendo in esame i dati relativi ai paesi dell’Unione europea, abbiamo incrociato i dati relativi all’indice della libertà economica del Centro Einaudi, alla percezione della corruzione e al grado di soddisfazione nei confronti della democrazia. Abbiamo così riscontrato livelli significativi di correlazione fra queste tre variabili. In particolare, dove c’é una maggiore libertà economica é più bassa l’insoddisfazione nel funzionamento della democrazia nel proprio paese (r=-0,53), minore la percezione di corruzione (r=-0,65) e inferiore l’ampiezza dell’economia sommersa (r=-0,6). Si veda, a titolo di esempio, la fig. 28 per un’illustrazione grafica della prima correlazione riscontrata.

Analogamente, la percezione di una corruzione più diffusa si associa a una più alta insoddisfazione nel funzionamento della democrazia (r=-0,69) e a una maggiore diffusione dell’economia sommersa (r=- 0,65). Si vedano le figure 29 e 30. Questi risultati sono compatibili con l’impianto teorico fin qui utilizzato. I "grappoli" di paesi europei, infatti, si formano in maniera tendenzialmente stabile in base alle diverse variabili considerate. La relativa omogeneità dei valori che legano tra loro i paesi appartenenti ai vari gruppi (là dove, ad esempio, Italia e Grecia occupano sistematicamente le posizioni di coda) dipende essenzialmente dalla variabile indipendente cui esse sono associate, ossia il grado d’efficienza dei rispettivi ordinamenti istituzionali nel ridurre i costi delle transazioni politiche ed economiche. Sembra così trovare conferma la tesi di fondo dell’approccio neo-istituzionalista, ossia l’idea che le istituzioni contano.

5. Osservazioni conclusive

In questo contributo abbiamo passato in rassegna alcune caratteristiche del sistema politico-istituzionale italiano e degli incentivi all’acquisizione di conoscenze che esso incorpora. Abbiamo trovato una chiara correlazione tra l’irrazionalità della struttura di vincoli legislativi e amministrativi e la relativa debolezza dei processi di liberalizzazione, gli alti costi di transazione nei mercati politici ed economici, i tempi lunghi di godimento dei diritti di proprietà, la sfiducia nei confronti dello stato, la percezione di una diffusa corruzione. I diversi indicatori che abbiamo utilizzato disegnano un quadro in cui diversi fattori di inefficienza istituzionale si intrecciano tra loro e si rafforzano a vicenda, a formare le molteplici sfaccettature di un "equilibrio istituzionale" che ha mostrato, nel corso degli ultimi decenni, notevoli capacità di resistenza e di adattamento alle sfide interne ed esterne. Entro un siffatto ambiente istituzionale, infatti, gli imprenditori alla guida delle più importanti organizzazioni politiche ed economiche trovano incentivi ad investire nell’acquisizione di informazioni e competenze che consentono loro di occupare posizioni privilegiate nell’allocazione di rendite informative e decisionali legate all’azione pubblica. In questo senso, le ripetute difficoltà di operare riforme significative della struttura di "regole del gioco", nonostante l’insoddisfazione diffusa sulle loro modalità di funzionamento, appaiono conseguenza dell’interesse concordante delle principali organizzazioni a capitalizzare vantaggi e guadagni differenziali, opponendosi al loro cambiamento. Di qui la tradizionale "rigidità" del quadro istituzionale italiano, anche a fronte di un’intensa produzione di norme legislative e di attività regolative che, in realtà, sono la mutevole e inflazionata espressione degli accordi e degli scambi di volta in volta conclusi nei mercati politici ed economici. Date queste premesse, abbiamo analizzato i contenuti dei primi tentativi organici di trasformare il ruolo dello stato, avviati negli ultimi anni, che trovano espressione in una serie di politiche e di riforme amministrative, istituzionali, economiche. Per la prima volta nel dopoguerra, lo sforzo riformatore non mira a migliorare il rendimento del sistema esistente, ma piuttosto di ridurre stabilmente attriti e incertezze derivanti dall’interazione tra stato, imprese e cittadini. Come si é mostrato, queste politiche di semplificazione e liberalizzazione del quadro istituzionale hanno prodotto risultati significativi in alcuni settori (ad esempio, nella riduzione di taluni oneri amministrativi), anche se la loro attuazione rimane limitata e frammentaria in altri. In diversi casi esse incontrano forti resistenze, talora suscitando aspettative ben presto deluse di fronte alle perduranti rigidità e inefficienze del sistema. In effetti, l’inevitabile gradualità del cambiamento istituzionale riflette il peso dell’eredità del passato, che include anche i modelli di condotta e le regole informali prevalenti nella società, e in particolare quelle che orientano le decisioni degli amministratori pubblici (17). Soltanto in un orizzonte temporale più ampio sarà possibile valutare se i tentativi di spezzare l’equilibrio preesistente, caratterizzato da inflazione e complessità normativa, inefficienza della macchina amministrativa, sfiducia istituzionale e interpersonale, corruzione, economia sommersa, hanno avuto successo o meno, e se la nuova configurazione istituzionale si rivelerà più efficiente in senso adattivo, cioè capace di risolvere più tempestivamente i nuovi problemi e di ridurre stabilmente i costi di trasformazione e di transazione (18). Il rischio, ovviamente, é che le conseguenze non intenzionali delle decisioni politiche riformatrici ne vanifichino o addirittura ne rovescino gli effetti attesi (19). Come si é visto, gli indicatori utilizzati forniscono segnali discordanti della rapidità e della direzione effettiva del cambiamento istituzionale, oltre che degli effetti che esso produce sugli incentivi alle scelte individuali. Ad esempio, tra il 2000 e il 2001 cresce apprezzabilmente la fiducia nel funzionamento della democrazia e si riduce la percezione della corruzione, ma nel contempo si espande la quota di economia sommersa e trova alimento la disillusione sugli effetti delle riforme amministrative. L’"energia" dell’impulso riformatore, che si é fin qui tradotta nella modifica di alcuni rilevanti vincoli legislativi e costituzionali, ha prodotto effetti soltanto parziali e talora contraddittori, né si é ancora stabilizzato un diverso quadro di "regole del gioco" e di aspettative compatibili con la loro verificabile efficienza. La transizione istituzionale, in altri termini, é ancora in corso, e il nuovo approdo non appare vicino né certo.

Note

1 A cura della Heritage Foundation e del The Wall Street Journal (O’Driscoll, Holmes, e Kirkpatrick, 2000a e 2000b).

2 A cura del Fraser Institute (Gwartney e Lawson, 2001).

3 A cura del Centro di Documentazione "Einaudi" e del Corriere della Sera (Ronca e Guggiola, 2001).

4 I "diritti di proprietà" rilevanti nel determinare costi e benefici attesi dalle transazioni non sono quelli legali, ma quelli economici, che si riferiscono alla capacità di godere e disporre in via esclusiva di certi beni scarsi, siano essi materiali o immateriali, vincolando altri individui a norme di comportamento che prevedono sanzioni in caso d’inosservanza. ( Furebotn e Pejovich, 1974, p.3). Tali diritti sono ovviamente influenzati dall’ordinamento giuridico, ma non coincidono con esso, dipendendo anche dagli sforzi di auto-pretezione, dai tentativi di cattura di altri individui, dall’efficienza della protezione statale (Barzel 1989, p.2).

5 In una prospettiva neo-istituzionalista, il costo di transazione é una categoria ampia che comprende tutti i costi derivanti dall’interazione umana nel corso del tempo (North, 1997, p. 149). Costi di transazione e diritti di proprietà sono due facce della stessa medaglia: i costi di transazione discendono dall’instaurazione e dal mantenimento (oltre che dal trasferimento) di diritti di proprietà, che a loro volta consistono nella capacità di esercitare liberamente scelte che hanno per oggetto risorse scarse (Eggertsson, 1990).

6 Ad esempio, diritti di proprietà definiti con precisione e salvaguardati efficacemente attenuano i costi di transazione, spingendo a cercare impieghi che massimizzano il valore delle risorse controllate (Pejovich 1990). Viceversa, diritti malcerti, garantiti in modo insoddisfacente o in parte lasciati nella sfera pubblica sono un freno ad investire in conoscenze che accrescono la produttività, data l’incertezza sull’identità dei loro beneficiari finali, e l’interesse a sfruttare in modo eccessivo le risorse comuni.

7 Gli stessi partiti politici possono essere interpretati come strutture di governo riducono i costi di transazioni politiche, trasformandoógrazie a risorse come la fiducia, la reputazione, o sanzioni politiche di vario tipoópromesse e aspettative incerte in accordi (relativamente) vincolanti, e dunque rendendo reciprocamente trasferibili i precari diritti di proprietà su risorse politiche (Vannucci, 2000).

8 Regole semplici e prive di ambiguità interpretative hanno una funziona analoga ai segnali di prezzo in un mercato concorrenziale. Se invece il contesto di scelta si fa più complesso e gli effetti di retroazione delle informazioni meno efficaci, occorre tener conto della limitatezza e della divergenza degli schemi cognitivi di interpretazione dei dati (Denzau e North, 1994).

9 Cfr Di Palma (1978, p. 110) sull’inflazione delle cos"dette "leggine". Secondo De Micheli (2001) nelle ultime tre legislature il livello medio d’importanza delle leggi é meno "scadente" rispetto al passato.

10 Le politiche distributive sono caratterizzate da un’asimmetria tra l’assegnazione di benefici, concentrati su pochi, e la distribuzione si larga scala dei costi. Esse sono prodotte soprattutto nelle assemblee legislative, specie nelle sue sedi riparate come le commissioni parlamentari (Lowi, 1964).

11 L’inflazione normativa colpisce, oltre all’ordinamento statale, anche quello regionale, entro il quale per oltre 30 anni si sono stratificate disposizioni scarsamente integrate e coordinate (Osservatorio per la legislazione, 2000, II, p. 1).

12 Si veda Fabbrini (2000) per un’analisi dei mutevoli rapporti di forza tra governo, capo dell’esecutivo, Presidente della repubblica e Parlamento durante la fase di transizione successiva all’approvazione del nuovo sistema elettorale e alla crisi del sistema dei partiti.

13 E’ interessante osservare come, nelle aspettative sull’utilizzo di strumenti informatici da parte dell’amministrazione pubblica, la "domanda di tempo" dei cittadini sia più forte della "domanda di democrazia". Infatti, tra i servizi che i cittadini ritengono lo stato debba offrire tramite Internet, i più richiesti sono gli strumenti per svolgere a distanza pratiche amministrative (45,4% degli intervistati) e pagamenti (44,3%), o per avere informazioni sulle procedure (41,6%), mentre più distanziate sono le richieste di spazi per esprimere giudizi o proposte (35,7%) o per partecipare alle scelte degli amministratori (32,3%) (Censis, 2000).

14 Nel periodo 1996-98, ad esempio, "oltre un terzo degli appalti presenta problemi e carenze che richiedono interventi in deroga delle iniziali previsioni contrattuali e quindi uno slittamento dei tempi e un lievitare dei costi" (AVLP, p. 71).

15 Il capitale sociale é definito da Putnam (1993) come un insieme di associazioni orizzontali tra individui, o in altri termini un reticolo di relazioni sociali caratterizzate da fiducia, impegno civico e vincoli di natura cooperativa, che accresce la produttività della comunità in cui é presente. Coleman (1990) comprende nel capitale sociale tutti quegli aspetti della struttura sociale (incluse le associazioni verticali e gerarchiche) che favoriscono certi tipi di azione. In entrambi i casi, il capitale sociale é strettamente associato ai costi di transazione: la presenza di capitale sociale é una condizione essenziale affinché gli individui riescano a costruire assetti istituzionali e organizzativi che permettono di cogliere i vantaggi della divisione del lavoro e dello scambio. Come mostra Diani (2000), in Italia la partecipazione associativa e il capitale sociale che ne scaturisce hanno un impatto significativo sui livelli (pure relativamente bassi) di fiducia istituzionale.

16 Una significativa correlazione tra tutti gli indici della libertà economica e l’indice di percezione della corruzione é stata mostrata da Chafuen e Guzman (2000, p. 59): "più alto é il livello di libertà economica, minore la probabilità di incontrare pratiche corrotte nel governo".

17 L’esigenza di rafforzare nuovi modelli "culturali" di condotta amministrativa, conformi allo spirito delle modifiche dei vincoli formali, é sottolineata anche nel rapporto dell’Ocse sugli sviluppi del management pubblico, nel quale sono tratteggiati i valori cui tali modelli dovrebbero ispirarsi: l’innovazione tecnologica e organizzativa, la semplificazione e la riduzione del carico amministrativo, la qualità dei servizi, l’attenzione alla soddisfazione dei cittadini-utenti, l’incentivazione della professionalità e del merito (Oecd, 2000, p.2).

18 Come osserva Di Palma, una delle caratteristiche del cambiamento istituzionale é la discontinuità, legata alla naturale tendenza delle istituzioni e delle politiche a conservarsi nel tempo: "Una volta istituzionalizzate, un’organizzazione o un’area di politiche pubbliche si fanno fiduciarie di un formidabile investimento in termini di informazione, di dati, di regole di decisione, di procedure transattive e di scambio con clientele, con altre istituzioni, o con altre aree di politica pubblica. Tutto ciò riduce le incertezze di comportamento e di calcolo; mentre i cambiamenti istituzionali o di politica (...) richiedono nuovi costi per ristabilire certezza su nuove basi" (Di Palma, 2000, p. 15).

19 Si prenda, ad esempio, la recente riforma costituzionale che assegna maggiori poteri agli enti locali. Come rileva l’ultimo rapporto dell’Agenzia garante della concorrenza, "con l’accentuarsi del decentramento non pochi, tuttavia, sono i casi in cui i vincoli e le limitazioni eliminati a livello centrale vengono reintrodotti a livello regionale e locale", come ad esempio nel caso della liberalizzazione della distribuzione commerciale, molto spesso disattesa o bloccata a livello regionale (AGCM, 2000, p. 27).

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