POLITICHE PUBBLICHE E PROCESSI DI
LIBERALIZZAZIONE IN ITALIA
Raimondo Cubeddu
Ordinario di Filosofia Politica - Università
di Pisa
Alberto Vannucci
Docente di Analisi delle Politiche Pubbliche
- Università di Pisa
1. Premessa: la libertà economica e
i diritti di proprietà negli indici del Fraser Institute, della Heritage
Foundation, e del Centro Einaudi.
In questo contributo ci concentriamo
sul rapporto esistente tra l’assetto istituzionale italiano e le
politiche di liberalizzazione e semplificazione, adottando come criterio
di riferimento per la valutazione della performance delle istituzioni la
tempestività nel produrre risposte ai nuovi problemi sociali senza
aumentare il tasso di coercizione e senza distribuirne arbitrariamente le
conseguenze favorevoli e quelli negative. In termini generali, seguendo le
linee tracciate nel rapporto dello scorso anno, definiamo i processi di
liberalizzazione come quei cambiamenti dei vincoli istituzionali (formali
e informali) che permettono di ridurre i costi dell’interazione sociale
derivanti dalla presenza e dall’azione dello stato, ossia di ridurre il
tempo individuale e sociale necessario al mantenimento della struttura
pubblica e delle sue funzioni (Vannucci e Cubeddu, 2000). Dagli indicatori
utilizzati nella nostra analisi (sintetizzati in 30 figure e 3 tabelle)
emerge un quadro per certi versi contraddittorio: nel sistema politico
italiano é stato faticosamente avviato, nel corso degli ultimi anni, un
tentativo di liberalizzare alcune aree d’interazione sociale, in
particolare nel campo dei rapporti tra cittadini e amministrazione
pubblica, ma tale processo stenta a produrre risultati apprezzabili. Una
premessa metodologica: nel rapporto dello scorso anno abbiamo presentato
una sorta di "fotografia" delle condizioni esistenti nel
contesto politico-istituzionale, utilizzando una serie di indicatori
quantitativi. In questo contributo cerchiamo di arricchire quel quadro,
ossia di rendere più nitida l’immagine, utilizzando un numero maggiore
di indicatori. Al tempo stesso, attraverso lo studio dell’evoluzione
delle variabili considerate, iniziamo a dare il senso del
"movimento" nel corso del tempo del sistema politico
istituzionale. Infine, quando possibile, estendiamo orizzontalmente
l’analisi, comparando gli indicatori relativi al caso italiano con
quelli concernenti altre realtà istituzionali, in particolare quelle dei
principali paesi liberal-democratici e dei paesi dell’Unione europea.
Punto di avvio della nostra analisi é una quantificazione del grado di
libertà economica esistente nell’assetto politico-istituzionale
italiano. A questo scopo, abbiamo utilizzato gli indici elaborati dalla
Heritage Foundation (1), dal Fraser Institute (2,) e dal Centro Einaudi
(3.) Tali indici rispecchiano una media ponderata di diverse variabili,
che esprimono il tipo di vincoli e di incentivi posti dal sistema
istituzionale all’esercizio di attività economiche pubbliche e private,
e dunque allo sviluppo economico e politico. A partire dal 1995 la
Heritage Foundation elabora annualmente un indice di misurazione sintetica
del grado di libertà economica esistente in un numero crescente di paesi
(nell’edizione del 2001 sono inclusi 155 stati). La libertà economica
viene definita come "l’assenza di coercizione o di vincoli alla
produzione, alla distribuzione o al consumo di beni e servizi, al di là
dei limiti necessari agli individui per proteggere e preservare la libertà
stessa" (Beach e O’Driscoll, 2001, pp. 43-4). Il valore finale
dell’indice scaturisce dalla ponderazione di 50 variabili indipendenti,
che fanno riferimento a 10 ampi settori: politiche commerciali, pressione
fiscale, intervento pubblico nell’economia, politiche monetarie, flussi
di capitali e investimenti stranieri, attività bancaria, salari e prezzi,
diritti di proprietà, regolazione, mercati neri. Ognuno di questi fattori
riceve un punteggio compreso tra 1,00 (massimo grado di libertà
economica) e 5,00 (minimo grado di libertà economica), mentre la loro
media fornisce il punteggio sintetico finale per ciascuno stato. Il
punteggio dell’Italia nel 2001, pari a 2.30, la colloca al 32° posto
della graduatoria. La linea di tendenza mostra dal 1996 al 1998 un lieve
progresso del grado di libertà, che però rimane stazionario dal 1999 al
2001 (vedi fig.1).
Rispetto ad alcuni tra i principali
paesi democratici occidentali, l’Italia mostra un livello di libertà
economica superiore solo alla Francia. Guardando al dato italiano in modo
più analitico, si nota tuttavia che il punteggio finale é la media tra
un alto livello di libertà economica nella politica commerciale e
monetaria, nel controllo di salari e prezzi, nella protezione dei diritti
di proprietà, e un livello basso degli indici di libertà relativi ad
altri parametri, come il "costo del governo" (che misura
l’onere fiscale e il livello di spesa pubblica, raggiungendo il livello
massimo) e la regolazione (che fa riferimento alla complessità e alla
numerosità delle procedure, nonché ai costi che queste impongono alle
imprese). Inoltre, vi sono alcuni aspetti del sistema istituzionale che
sicuramente accrescono i costi dell’interazione con lo stato e
scoraggiano gli investimenti produttivi: la complessità legislativa,
l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, la diffusione della
corruzione, la lentezza delle procedure giudiziarie. Eppure questi
elementi, anche se ne riconosce il peso nello scoraggiare gli investimenti
stranieri in Italia (O’Driscoll et al., 2000, p.216), hanno un peso
minimo nel calcolo finale. In realtà, proprio a causa della loro
presenza, il livello di protezione effettiva dei diritti di proprietà
risulta più debole di quanto non appaia dai vincoli legali formalmente in
vigore. Ciò accresce sensibilmente il tempo e le altre risorse
"consumate" nelle relazioni con l’amministrazione pubblica,
distorcendo gli incentivi all’esercizio delle attività economiche. In
altri termini, l’indice sintetico della Heritage Foundation non sembra
riflettere accuratamente il livello di libertà economica esistente nel
sistema istituzionale. Infatti, prendendo in considerazione i fattori
sopra richiamati, più sfuggenti e "opachi", il livello di
liberalizzazione della società italiana é ancora più basso di quello,
pure non esaltante, che emerge dal dato "ufficiale". A ciò si
aggiunga che il dato relativo all’estensione dell’economia sommersa,
che nel caso italiano risulterebbe molto bassa, appare decisamente
contraddetto da altre rilevazioni, che saranno presentate più avanti.
Passando all’indice elaborato dalla Fraser Foundation, nell’edizione
2001 esso include 123 paesi. Il concetto di libertà individuale fatto
proprio dal rapporto ha quali componenti essenziali la possibilità di
operare scelte, la protezione della libertà privata e la libertà di
scambio: "Gli individui hanno libertà economica quando sussistono le
seguenti condizioni: (a) la loro proprietà acquisita senza l’uso della
forza, della frode o del furto é protetta da violazioni fisiche di altri,
e (b) essi sono liberi di utilizzare, scambiare o cedere le loro proprietà
ad altri, purché le loro azioni non violino gli identici diritti
altrui" (Gwartney e Lawson, 2001, p. 4). Sono presi in considerazione
21 parametri che misurano il grado di coerenza delle politiche
istituzionali con la libertà economica in sette aree: ampiezza dello
stato, struttura dell’economia, politica monetaria e stabilità dei
prezzi, libertà d’impiego di valute alternative, struttura legale e
tutela dei diritti di proprietà, libertà nel commercio con l’estero,
libertà dei movimenti di capitale. I punteggi vanno da 0 (grado minimo di
libertà economica) a 10 (massima libertà economica). Nel 1999 (anno più
recente per il quale sono disponibili dati completi) l’Italia mostra un
sensibile miglioramento rispetto al 1995, sia in termini di punteggio (da
7,22 a 7,82) che di classifica (dal 40° al 24° posto). Nella fig. 2
viene presentata l’evoluzione del dato relativo all’Italia nel corso
degli ultimi 20 anni, comparato ai dati relativi a quattro grandi paesi
democratici occidentali (Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Francia).
La crescita del grado di libertà
economica in Italia, registrato nell’ultimo quinquennio, é dovuta al
conseguimento di livelli elevati di libertà nel campo nei mercati
finanziari e di capitali, della garanzia dei diritti di proprietà e del
commercio internazionale, che nel rapporto vengono imputati allo sforzo di
adeguamento ai parametri dell’unione monetaria europea. Resta tuttavia
elevata l’ampiezza del governo, in termini di consumo, trasferimenti e
sussidi, così come molto alte sono sia la presenza di imprese pubbliche
che il livello delle aliquote marginali sul reddito. Questi dati sembrano
concordare nella sostanza con quelli della Heritage Foundation. Tuttavia,
nell’ultimo rapporto del Fraser Institute, viene presentato anche un
nuovo indice della libertà ristretto a soli 58 paesi (per i quali
esistono dati disponibili), ma comprensivo di un maggior numero di
parametri (in totale 45), ricavati in buona parte dal Global
Competitiveness Report 2000 del World Economic Forum e dal World
Competitiveness Yearbook 2000 dell’International Institute for
Management Development (Gwartney, Skipton e Lawson, 2001). Così, ad
esempio, nella stima dei livelli di sicurezza dei diritti di proprietà
sono valutati anche il grado effettivo di protezione dei diritti
intellettuali di proprietà, l’indipendenza del potere giudiziario, la
diffusione della corruzione, l’imparzialità del sistema di giustizia
amministrativa; nella valutazione del grado di regolazione del mercato del
lavoro sono prese in considerazioni variabili relative alle pratiche
d’assunzione e di licenziamento, all’impatto dei salari minimi, al
peso della contrattazione collettiva, ai programmi di assicurazione contro
la disoccupazione; infine, viene introdotto un nuovo parametro, la libertà
di operare e competere in affari, che misura tra l’altro gli ostacoli
posti dalle procedure amministrative all’avvio di nuove imprese, il
tempo necessario a trattare con la burocrazia pubblica, l’esistenza di
"pagamenti irregolari" collegati con permessi, licenze,
controlli, protezione della polizia. Si tratta di un approccio
interessante, poiché alcune di queste variabili rappresentano indicatori
del grado di protezione effettiva dei diritti di proprietà, ossia
dell’efficienza con cui il sistema istituzionale riduce i costi delle
transazioni produttrici di surplus sociale (4). Dato che il tempo e le
informazioni a disposizione di ciascun individuo sono ovviamente risorse
scarse, ne consegue che il grado effettivo di protezione dei suoi diritti
dipende non soltanto dal disegno istituzionale e dalla formale imparzialità
delle procedure, ma anche dai tempi di attesa e dalla congruità delle
risposte che l’apparato istituzionale, ossia gli agenti pubblici che ne
ricoprono i ruoli formali, fornisce alle pretese soggettive. Là dove
(come nel caso italiano) questi meccanismi presentano condizioni di
debolezza, si affievoliscono i diritti di proprietà e aumentano i costi
delle transazioni relative ai profili d’azioni soggetti alla protezione
dello stato. Considerando il tempo necessario affinché la tutela dei
diritti di proprietà sia effettiva, l’assetto istituzionale italiano
presenta un grado d’efficienza sicuramente inferiore a quello
ufficialmente sancito dai vincoli formali, ma privo di efficaci meccanismi
di applicazione. In questa nuova versione dell’indice della libertà
economica, che meglio rispecchia le caratteristiche operative del sistema
politico-istituzionale, l’Italia riguadagna sia pure di poco la
"maglia nera" tra i cinque paesi esaminati più in dettaglio (si
veda la fig. 3), ma quel che é più rilevante nella classifica
complessiva sprofonda al 38° posto su 58 paesi considerati. Dopo Bolivia
e Argentina, l’Italia é il paese che perde più posizioni, ben 24,
rispetto a quella dell’altro indice.
Scindendo il dato complessivo nelle
sue componenti, l’Italia si colloca al 42° posto quanto a libertà
d’attività economica (dove presumibilmente pesano le vischiosità
procedurali, l’alto rischio di corruzione, la complessità della
macchina amministrativa), al 43° per quanto riguarda le dimensioni
dell’intervento pubblico, e addirittura al 54° quanto a rigidità del
mercato del lavoro. Un indice della libertà economica nei paesi
dell’Unione europea, riferito al 2000, é stato predisposto anche dal
Centro Einaudi. I risultati sembrano confermare quanto emerso fin qui:
l’Italia, infatti, occupa il fondo della classifica, con il 14° posto
tra i 15 paesi dell’Unione Europea (si veda fig. 4). I parametri presi
in esame in questo caso sono 18, suddivisi in settori analoghi a quelli
del Fraser Institute ma ponderati diversamente, in modo da far risaltare
le differenze tra i paesi membri dell’UE, istituzionalmente e
culturalmente più omogenei. Tra le variabili considerate, oltre a quelle
consuete (peso dello stato, struttura dell’economia, etc.), vi sono la
stabilità dell’apparato burocratico pubblico e il livello di
corruzione. Il primo misura la capacità della macchina pubblica di
funzionare indipendentemente dai cambiamenti di governo: l’Italia, in
questo campo, si colloca ben al di sotto della media europea, e
"addirittura registra un peggioramento rispetto al 1995,
probabilmente dovuto alla serie di riforme della pubblica amministrazione
proposte negli ultimi anni e non ancora andate a regime" (Ronca e
Guggiola, 2001, p. 9). Analogamente, anche la diffusione della corruzione,
che "distorce il funzionamento e riduce l’efficienza di un sistema
economico, assegnando posizioni di potere con meccanismi diversi dal
merito o dalle capacità personali" (ibidem, p. 10), contribuisce ad
abbassare la media. Questa rassegna degli indici della libertà economica
permette di fissare alcuni punti. In primo luogo, quanto più gli
indicatori impiegati tengono conto non solo dei vincoli formali, ma anche
del reticolo di vincoli informali e dall’efficacia delle corrispondenti
garanzie di applicazione, tanto più le caratteristiche di fondo del
modello istituzionale italiano sembrano divergere, sotto diversi profili,
da quelli prevalenti n egli altri principali paesi liberal-democratici. In
particolare, l’anomalia del caso italiano si riflette non solo nelle
dimensioni eccessive e nel "peso" dello stato, in termini di
trasferimenti, sussidi, prelievo fiscale, rilevanza delle imprese
pubbliche, ma anche nel costo più difficilmente osservabile e
quantificabile (in termini di tempo, energie, ed altre risorse
economicamente significative) che la macchina statale, con le sue
procedure e i suoi percorsi decisionali, impone a cittadini e imprese. Gli
indici della libertà economica esaminati rispecchiano, con maggiore o
minore nitidezza, le caratteristiche di un quadro politico-istituzionale
che impone ai suoi cittadini costi di transazione più elevati, minore
sicurezza dei diritti, livelli più alti di incertezza individuale e
sociale. Quanto questi aspetti istituzionali siano rilevanti é dimostrato
da alcune semplici correlazioni statistiche: (a) l’indice della libertà
economica mostra forti correlazioni positive con il reddito pro-capite, il
tasso di crescita economica, l’aspettativa di vita, l’indice di
sviluppo umano (quest’ultimo, predisposto dall’Onu, oltre alla
longevità misura anche i livelli di conoscenza e gli standard di vita
della popolazione); (b) al tempo stesso, esso risulta negativamente
correlato con gli indici della corruzione e con i livelli di povertà (Gwartney
e Lawson, 2001, pp. 11-12). Dunque, le potenzialità di crescita
economica, politica e culturale di una società sono legate a doppio filo
allo sviluppo di "regole del gioco" che propiziano l’avvio e
il successo dei processi di liberalizzazione.
2. Perchè le istituzioni contano.
Le istituzioni vengono intese come
le "regole del gioco" che governano le interazioni tra individui
e gruppi organizzati, plasmando il sistema di incentivi e sanzioni che
sono alla base degli scambi politici, economici e sociali, e determinando
così le dinamiche dell’evoluzione sociale, dello sviluppo o della
stagnazione economica. Esse comprendono qualsiasi vincolo percepito (ma
non necessariamente "costruito") dagli esseri umani per regolare
i loro rapporti: vincoli formali (costituzioni, leggi, ecc.), vincoli
informali (convenzioni, norme culturali, codici di condotta auto-imposti,
ecc.) e i rispettivi meccanismi di garanzia d’applicazione. Le
istituzioni svolgono dunque una funzione essenziale, giacché
"riducono il tasso di incertezza creando delle regolarità nella vita
di tutti i giorni" (North 1994, 24). Il grado di concorrenzialità
delle imprese, così come quello di una società, dipende dalla
disponibilità di istituzioni efficienti, in grado cioè di abbattere i
costi di transazione e ridurre l’incertezza nei rapporti sociali (5). Ciò
significa che il ruolo delle istituzioni politiche e amministrative e
delle relative procedure decisionali é fondamentale ai fini dello
sviluppo economico e sociale di un paese, oltre che della sua capacità
competitiva, specialmente in uno scenario internazionale nel quale i
flussi di capitali e di conoscenze sono sempre più rapidi e privi di
"attriti", e dunque più forti le pressioni concorrenziali sugli
assetti organizzativi e istituzionali (6). Il sistema istituzionale,
regolando le relazioni tra individui, influenza la struttura di diritti di
proprietà e l’ampiezza dei costi di transazione. In questo senso, esso
rappresenta un fattore decisivo nel favorire (od ostacolare) il
conseguimento di allocazioni efficienti di risorse. Lo stato, in quanto
soggetto collettivo che tende a monopolizzare l’impiego della
coercizione, riveste allora un ruolo centrale nel definire caratteristiche
e intensità dei costi di transazione, giacché le sue attività
comprendono:
a) la produzione di regole formali del gioco (norme
costituzionali, leggi, regolamenti);
b) la creazione e l’allocazione dei diritti di
proprietà, attraverso le politiche pubbliche;
c) l’offerta di servizi protettivi di risoluzione
delle controversie e di composizione dei conflitti;
d) il condizionamento indiretto
dell’evoluzione dei vincoli informali e dell’efficacia dei relativi
meccanismi di applicazione delle sanzioni, tramite l’attività delle
organizzazioni pubbliche, la produzione e la diffusione di simboli e di
schemi ideologici di interpretazione della realtà, ecc. L’azione
pubblica, in altri termini, é uno dei meccanismi più rilevanti
attraverso i quali si determina l’ammontare e la distribuzione dei costi
di transazione (oltre che di trasformazione) in una società. Ogni
politica pubblica può essere vista come un processo politico attraverso
il quale i diritti sono definiti, attenutati, protetti e ridistribuiti tra
i diversi soggetti sociali: in altre parole, "i governi operano
allocando, riallocando, modificando o attenuando i diritti di proprietà"
(Benson e Baden, 1985, p. 392). Le politiche pubbliche sono il risultato
di complesse relazioni di scambio intertemporale che coinvolgono politici,
burocrati, elettori, gruppi di pressione. Le istituzioni contribuiscono
quindi ad orientare l’esito delle politiche pubbliche. Aspettative e
credenze dei vari attori sociali, infatti, si formano in base ai modelli
prevalenti d’interpretazione dei meccanismi decisionali che di quelle
politiche sono il motore. Per comprendere opportunità e potenzialità di
sviluppo di una società, occorre fare riferimento al processo politico e
alle modalità con cui al suo interno si formano e si modificano, nel
corso del tempo, gli incentivi che inducono gli attori politici ad
allinearsi ad efficienti "strutture di governo" delle
transazioni politiche, minimizzandone i relativi costi di transazione, e
ad acquisire determinati tipi di conoscenze e competenze. Il sistema
politico presenta costi "interni" di transazione, connessi alle
molteplici relazioni di scambio, autorità, negoziazione, influenza che ne
caratterizzano il funzionamento: "Costi di transazione di vario tipo
si profilano in misura maggiore in tutti i contesti di politica pubblica.
(....) La natura e la severità dei costi di transazione, così come la
disponibilità di mezzi per ridurli, varia da un paese all’altro e da un
periodo all’altro" (Dixit, 1996, pp. 143-4). Numerosi fattori
accrescono i costi di transazione nelle gerarchie pubbliche e nei mercati
politici: l’incertezza, legata alla durata attesa e alle caratteristiche
qualitative dei diritti informali di proprietà connessi all’esercizio
di poteri pubblici; l’adozione di politiche pubbliche soggette a
incoerenza temporale o contenenti impegni non credibili; l’instabilità
e la mancanza di garanzie negli accordi politici (7). I costi di
transazione politica sono elevati là dove si osserva una carenza di
meccanismi cooperativi in aree cruciali di azione pubblica, generando
politiche distributive e clientelari, a loro volta fonte di attività
improduttive di ricerca di rendite politiche. Inoltre, direttamente legati
all’esistenza di asimmetrie informative sono quegli assetti
istituzionali che forniscono agli agenti pubblici incentivi ad operano
entro organizzazioni pubbliche inefficienti, sovradimensionate, corrotte,
afflitte da inflazione normativa, ossia caratterizzate da tutti quei
"fallimenti dello stato" che sembrano caratterizzare il caso
italiano. Il quadro descritto vede un sistema di regole, vincoli e
incentivi che determinano alti costi di transazione nelle interazioni di
scambio che caratterizzano il mercato economico e politico, e dunque forme
e livelli inefficienti di funzionamento delle relative strutture di governance.
In questo rapporto utilizzeremo alcuni indicatori per porre in risalto le
caratteristiche della struttura di incentivi che orienta le scelte degli
attori coinvolti nei processi decisionali relativi alle politiche
pubbliche e al sistema di mercato. Dapprima ci concentriamo sulle
caratteristiche del processo legislativo attraverso il quale in Italia
sono creati i principali vincoli formali, le leggi. Analizziamo poi gli
effetti del sistema di regolazione amministrativa e dei provvedimenti
volti a riformarlo sulla struttura dei costi di transazione, nella
percezione del pubblico cui essi sono rivolti. Infine, mostriamo alcuni
effetti di questo assetto istituzionale sugli incentivi (e sui
disincentivi) individuali a svolgere attività produttive, che accrescono
le conoscenze disponibili nella società e favoriscono la crescita
economica.
2.1 L’evoluzione dei vincoli legislativi in
Italia: inflazione normativa e tempi della produzione legislativa
L’esistenza di vincoli normativi
formali, favorendo la formazione di aspettative coerenti e condivise
riguardo al comportamento atteso altri soggetti, tende a ridurre
l’incertezza individuale e i costi di transazione. Affinché ciò
accada, tuttavia, devono sussistere alcune condizioni, relative tanto al
profilo qualitativo che a quello quantitativo di tali regole. In primo
luogo, leggi di bassa qualità, ossia confuse, complesse, scritte male,
difficilmente interpretabili, incoerenti o aventi contenuti eterogenei,
possono indurre individui diversi a darne interpretazioni dissimili (8).
Anche il dettato normativo che non risponde ai requisiti di generalità e
astrattezza, e che dunque fa riferimento a soggetti e situazioni
specifiche e concrete, rende più probabili valutazioni soggettive
divergenti riguardo all’identità dei destinatari e alla sussistenza o
meno delle particolari condizioni di applicazione. La conseguenza, in
entrambi i casi, é il venir meno della prevedibilità del comportamento
altrui, e la crescita degli attriti e delle controversie relative alle
modalità di applicazione di tali regole. In secondo luogo, la quantità
eccessiva di vincoli formali, quale che sia il loro contenuto, é di per sé
un fattore in grado di accentuare l’incertezza relativa:
a) al possesso dei requisiti per il godimento di
certi diritti;
b) al rischio di mettere in atto comportamenti
illeciti.
Ovviamente, affinché possano essere
rispettate, le norme devono essere preliminarmente conosciute. Dunque,
l’inflazione normativa accresce la quantità di informazioni necessarie
prima di poter operare scelte private e pubbliche attraverso una
valutazione dei rischi e dei benefici attesi, e questo ovviamente ostacola
i relativi processi decisionali, ne accresce il costo, aumenta la
possibilità di errori, ne rende più imprevedibile l’esito. Entrambi i
fattori considerati, dunque, fanno sì che cittadini e imprese che
allacciano rapporti regolati da vincoli formali, o hanno relazioni con le
amministrazioni pubbliche, debbano consumare tempo ed altre risorse
economicamente rilevanti per conoscere e interpretare informazioni
relative alle vecchie e nuove disposizioni normative. Per questo motivo,
l’eccesso e la bassa qualità delle leggi riducono la libertà
individuale, ossia il tempo di cui i cittadini dispongono per perseguire
finalità autonomamente scelte, e al tempo stesso accrescono i costi di
transazione che gravano sul sistema economico e sociale. In questa
prospettiva, l’analisi dei processi di liberalizzazione non può che
prendere in considerazione l’evoluzione delle dimensioni quantitative e
qualitative dei vincoli formali prodotti dal sistema politico italiano. In
termini generali, nel corso della XIII legislatura (1996-2001) l’attività
di produzione di norme del Parlamento italiano ha conosciuto alcune
modifiche di fondo:
- é diventata una legislazione
per principi, che delega ad altri centri decisionali (governo,
autonomie locali, autorità indipendenti) la disciplina più specifica
degli interventi;
- é triplicato, rispetto alla
precedente legislatura, il numero di deleghe legislative al governo;
- il numero dei decreti delegati
ha pressoché uguagliato quello delle leggi ordinarie (ad eccezione di
quelle di ratifica dei trattati internazionali). (Camera dei deputati,
2001, p. 3).
La qualità del prodotto legislativo
é diventata, nel corso dell’ultima legislatura, oggetto di una
specifica attenzione. La riforma del regolamento della Camera dei
deputati, entrato in vigore il 1° gennaio 1998 ha visto l’introduzione
di nuove procedure per l’esame in Commissione dei progetti di leggi, per
i quali é richiesto di verificare:
a) la necessità di intervento
legislativo;
b) la conformità della disciplina
proposta con i vincoli costituzionali e la normativa europea;
c) l’impatto delle nuove norme
sulla pubblica amministrazione, i cittadini e le imprese;
d) l’inequivocità e la chiarezza
del testo.
A partire dal 1999, anche gli schemi
di decreti legislativi e di regolamenti presentati dal governo sono
soggetti alla stessa procedura di valutazione di coerenza, efficacia,
chiarezza e necessità, sebbene lo strumento per realizzare questa
estensione, la scheda di impatto delle norme, sia ancora in corso di
perfezionamento (Camera dei deputati, 2001, p. 21).
2.2. La "qualità" della produzione
legislativa
Il nuovo regolamento parlamentare,
oltre a stabilire un obbligo di coordinamento legislativo per le
Commissioni (che devono raccordare la nuova disciplina con quella
vigente), ha previsto l’istituzione del Comitato per la legislazione.
Quest’ultimo é uno speciale organismo che esprime un giudizio non
vincolante sulla qualità dei progetti di legge in relazione ai seguenti
profili: omogeneità, semplicità e chiarezza della formulazione dei
testi, efficacia per la semplificazione e il riordino della normativa
esistente. Il parere del Comitato per la legislazione, obbligatorio nel
caso di disegni di conversione di decreti legge o di progetti di legge
contenenti disposizioni di delega o delegificazione, per tutti gli altri
progetti di legge (di iniziativa parlamentare o governativa) viene
espresso solo su richiesta delle commissioni competenti. La sua attività
non sembra tuttavia particolarmente incisiva: nel corso del 2000 solo il
48% delle condizioni formulate sono state recepite dalle Commissioni o
dall’Assemblea (Camera dei deputati, 2000, p. 21). In altri termini,
l’efficacia dei tentativi del Comitato di migliorare il profilo
qualitativo delle norme approvate dal Parlamento italiano sembra
dipendere, più che dall’esercizio dei suoi scarsi poteri, dalla capacità
di indurre, nella fase di redazione dei testi normativi, una spontanea
adesione ai principi di semplicità, intelleggibilità e chiarezza che ne
ispirano l’azione, modificando l’approccio "culturale" di
fondo all’attività di produzione legislativa. Si tratta, com’é
evidente, di un compito difficile, che potrà dispiegare i suoi effetti
solo nel lungo periodo. Un’altra deficienza qualitativa della produzione
legislativa non vincolata é il frequente ricorso a provvedimenti di
piccolo cabotaggio e di portata molto limitata, che tendono così a
derogare dai principi generali di generalità e astrattezza (9). Accanto
alla legislazione istituzionale (che riguarda diritti fondamentali,
l’ordinamento politico- istituzionale, l’ordine pubblico), quella settoriale
e intersettoriale (che regolamenta o introduce strumenti per
l’attuazione di politiche relative a singoli settori o più settori), si
osserva in Italia una presenza preponderante delle così dette leggi
provvedimento (finalizzate alla disciplina di situazioni specifiche o
alla realizzazione di singoli interventi) e di provvedimenti di manutenzione
normativa (di puntuale modifica o proroga di leggi vigenti). La
percentuale di leggi microsettoriali o di manutenzione normativa relativa
alla XIII legislatura (aggiornata al 30 giugno 2000) é del 71,74% del
totale, più bassa soltanto di quella della X legislatura (vedi tab.1).
Tav. 1. Tipologia delle leggi approvate
nelle ultime 4 legislature (distribuzione %)
Tipologia
|
X leg.
|
XI leg.
|
XII leg.
|
XIII leg.
|
Legislazione intersettoriale
|
0.60
|
4.17
|
6.00
|
2.85
|
Leggi intervento e di manutenzione
legislativa
|
76.80
|
61.67
|
62.00
|
71.74
|
Legislazione di settore
|
17.37
|
20.83
|
12.00
|
18.09
|
Legislazione istituzionale
|
5.85
|
13.33
|
20.00
|
7.30
|
Totale
|
100.00
|
100.00
|
100.00
|
100.00
|
Fonte:Osservatorio sulla
legilsazione, 2000, I, pag. 51.
Inoltre, come prevedibile, la sede
privilegiata di approvazione delle leggi-provvedimento é rappresentata
dalle commissioni parlamentari, visto che la loro approvazione da parte
della Camera in sede legislativa si riduce al 60, 13% (Osservatorio sulla
legislazione, 2000, p. 52). Le commissioni parlamentari, infatti,
garantiscono una maggiore opacità e dunque un minore controllo pubblico
dei contenuti delle leggi-provvedimento, garantendo così una
distribuzione asimmetrica delle informazioni ad esse relative, a vantaggio
dei loro beneficiari. Inoltre, nel periodo 1996-1999 l’Italia presenta
una percentuale sensibilmente più elevata di leggi microsettoriali e di
manutenzione normativa rispetto al dato di Francia, Germania, Gran
Bretagna e Spagna (si veda la fig. 5). Per quanto riguarda le leggi di
manutenzione normativa, che cambiano o prorogano disposizioni esistenti,
esse hanno natura essenzialmente auto-referenziale; la loro diffusione
segnala infatti la complessità del quadro normativo esistente. In Italia,
essendovi vincoli formali più numerosi e stringenti, anche l’attività
di manutenzione é maggiormente estesa, e parallelamente più alti sono i
costi di informazione per i cittadini e le imprese che di quelle modifiche
devono venire a conoscenza. L’ampiezza delle leggi provvedimento
riflette invece l’incidenza relativamente più estesa delle politiche
distributive, di cui esse sono tra i principali strumenti decisionali,
ossia di quelle politiche che assegnano benefici selettivi a categorie ben
identificabili di soggetti distribuendone diffusamente i costi, in modo da
renderli impercettibili (10). I provvedimenti che ne scaturiscono, oltre
ad essere oggetto di scambi politici "micro-settoriali" tra i
loro promotori politici, individui e gruppi d’interesse che ne sono
beneficiari, contribuiscono altresì ad incrementare i costi di
transazione. Da un lato, infatti, tali norme tendono ad aggravare (sia
pure indirettamente e in maniera occulta) l’onere fiscale complessivo;
dall’altro esse accrescono i costi d’informazione per i soggetti che,
a causa della loro portata limitata e della ristrettezza dell’insieme di
destinatari, devono scoprire se sono compresi nel novero di beneficiari
previsti, o se possono rientrarvi passando attraverso le "forche
caudine" di una qualche procedura pubblica, oppure esercitando
attività di pressione (palese o nascosta) sugli agenti che esercitano i
corrispondenti poteri.
2. 3. Quantità di leggi e costi di transazione.
Passando agli aspetti quantitativi
del prodotto legislativo, il sistema italiano é caratterizzato
dall’esistenza di un ammontare di leggi vigenti superiore rispetto a
quello di altri paesi europei. Lo studio più recente attesta
l’esistenza di 12.727 leggi (al 31 maggio 1996), contro le 7.325 della
Francia e le 5.587 della Germania (Camera dei deputati 1996, pp. 7-9).
L’effetto di questa inflazione normativa é, paradossalmente, quello di
erodere la prevedibilità del diritto. Al pari dell’inflazione
monetaria, che riduce il potere d’acquisto della moneta, l’eccesso di
vincoli formali svaluta la legge come quadro generale di orientamento in
grado di ridurre l’incertezza nelle scelte private e pubbliche, e rende
tollerabili e giustificabili le sue violazioni. Inoltre, troppe leggi
stimolano un’ulteriore produzione legislativa, ponendo le condizioni per
un inesorabile circolo vizioso: da un lato perché si moltiplicano, da
parte di cittadini, gruppi di pressione e imprese, ma anche dall’interno
della stessa amministrazione pubblica, le richieste di "manutenzione
legislativa", ossia di correzioni, proroghe, aggiornamenti, deroghe,
adattamenti dell’esteso stock normativo esistente (Presidenza del
Consiglio, 1993, p. 24); dall’altra perché la relativa facilità con
cui il processo legislativo é portato a compimento (unita al carattere
micro-sezionale di molte delle regole che ne scaturiscono) incentiva la
formulazione di istanze e l’attività di pressione sul potere da parte
di soggetti che mirano ad avvantaggiarsene, oltre all’investimento di
risorse nell’acquisizione delle necessarie competenze e abilità.
Naturalmente, sono incoraggiate anche le attività dei decisori politici
che dalla moltiplicazione di scelte legislative possono ricavare consenso
e altre risorse economicamente rilevanti. Nel rapporto sui processi di
liberalizzazione nel sistema politico presentato lo scorso anno, si é
cercato di fornire una stima, sia pure parziale, del costo
dell’informazione relativa ai vincoli legislativi esistenti in Italia,
espressa in termini di tempo. Guardando alla raccolta completa delle leggi
italiane vigenti, corrispondente a circa 100mila pagine (De Martino,
1982), si é calcolato un tempo di lettura (rapida) del testo pari a 568,3
giorni, ossia un anno, 203 giorni e 8 ore di ininterrotta lettura (Vannucci
e Cubeddu, 2000). Nel frattempo, naturalmente, il flusso di produzione
normativa non si é interrotto: nel 2000, i provvedimenti legislativi
approvati hanno occupato 4632 pagine (in lieve crescita rispetto alle 4594
del 1999): con 6 minuti di lettura per ciascuna di esse, il tempo
necessario per aggiornarsi é pari a 19 giorni e 8 ore d’ininterrotta
lettura, più altri 8 giorni e 12 ore per le 2042 pagine contenenti leggi
regionali (da Lex-legislazione italiana-Gazzette ufficiali, anno LXXXVI,
n.2) (11). Il computo, peraltro, non include fonti normative che negli
ultimi anni hanno assunto particolare rilievo (in termini quantitativi e
di rilevanza), tra cui le norme dell’Unione Europea e quelle delle
diverse Authorities. E’ evidente che la conoscenza e l’utilizzo
delle informazioni sui vincoli normativi rilevanti impone un costo elevato
ai soggetti privati e pubblici. Particolarmente colpiti ne sono coloro che
con hanno rapporti più frequenti ed economicamente significativi con le
amministrazioni pubbliche, oppure operano in settori diffusamente
regolati. Questa situazione produce diverse conseguenze di rilievo:
a) l’esistenza di un deficit concorrenziale
rispetto ad altri operatori (pubblici e privati) di altri paesi che,
grazie ad assetti istituzionali più efficienti, devono sostenere minori
costi di transazione;
b) una crescita dell’incertezza concernente il
comportamento dell’autorità pubblica, che potrà sanzionare o
tollerare, secondo il proprio arbitrio, certi tipi di azioni, o certi
soggetti;
c) il ricorso più diffuso a particolari
"strutture di governo" delle relazioni con le autorità
pubbliche, come ad esempio gli intermediari specializzati, in grado di
ridurne gli attriti e i costi attesi.
Come mostra la fig. 6, nella XIII legislatura il
Parlamento italiano ha approvato complessivamente 905 leggi (dato
aggiornato al maggio 2001).
Si può osservare come, nonostante
il dichiarato avvio di un processo di semplificazione e delegificazione,
la media mensile delle leggi approvate nell’ultima legislatura risulti
in crescita rispetto alla XI e XII legislatura nell’ultima legislatura,
seppure inferiore a quella della X, a denotare una brusca inversione di
tendenza (si veda la fig. 7 ). In particolare, l’evoluzione del numero
di leggi approvate annualmente nel corso dell’ultima legislatura vede un
picco di 200 leggi nel 1999, cui fa seguito una diminuzione nell’anno
successivo (si veda la fig. 8). Inoltre, la media mensile di leggi
italiane, relativa al periodo 1996-1999, é la più alta tra quelle dei
principali paesi europei, insidiata solo dalla Germania, ma corrispondente
al doppio della Francia e addirittura al triplo di Spagna e Gran Bretagna
(si veda la fig. 9).
Analogamente, se si considera il
numero di leggi approvate nel 1999, il Parlamento italiano continua ad
essere di gran lunga il più prolifico, con 200 leggi approvate, quasi il
doppio di quelle francesi, quasi tre volte quelle spagnole, più di cinque
volte quelle britanniche (si veda la fig. 10).
2.4. Il fattore "tempo".
Scendendo più nel dettaglio, il
tempo medio della procedura di approvazione delle leggi, nel corso della
XIII legislatura, é stato di 279 giorni. In caso di iniziativa
parlamentare, il tempo medio sale a 508 giorni, mentre si riduce a 188 per
i progetti di legge d’origine governativa. Diversi elementi sembrano poi
indicare un peso crescente del governo nel processo legislativo. Un
rafforzamento dell’esecutivo, del resto, era tra gli obiettivi della
riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, operata nel 1993
(12). Nell’ultima legislatura si assiste a un sensibile incremento
dell’iniziativa governativa "non vincolata" (ossia non
dipendente da leggi di bilancio, di ratifica, di conversione di
decreti-legge), che nella XIII legislatura sale al 23,8% delle leggi
approvate (rispetto al 13,4% della XI e al 5,4% della XII legislatura),
contro il 17,5% delle leggi di iniziativa parlamentare, percentuale
superiore al 9,5% della XII, ma più bassa del 23,9% della XI legislatura
(dati aggiornati al dicembre 2000) (si veda la fig. 11).
L’origine governativa di un
disegno di legge, oltre ad abbreviare i tempi dell’eventuale
approvazione, accresce considerevolmente le sue probabilità di concludere
con successo l’iter. Nell’ultima legislatura il 57,2% dei disegni di
legge presentati dal governo sono stati approvati (percentuale doppia
rispetto al 27,8% e al 25,3% delle due precedenti legislature), contro un
modesto 2,4% dei progetti di legge di origine parlamentare, che mostrano
costantemente un’elevatissima "mortalità" (dati aggiornati al
31 dicembre 2000) (si veda la fig. 12).
Negli ultimi anni é triplicata la
percentuale di leggi di delega e di autorizzazione alla delegificazione,
che dalle 13 della XII legislatura, pari al 4% del totale, diventano 108
nella XIII legislatura, corrispondenti al 14% (dato aggiornato a maggio
2000) (Camera dei deputati, 2001, p. 12). Solo tra il 1998 e il 1999 tale
percentuale cresce dal 21% al 25%. Una parte crescente della produzione
legislativa si limita, infatti, a presentare norme di principio,
distribuendo ad altre autorità - al governo in modo particolare, ma anche
agli enti locali e alle Authorities - il potere di definire più
precisamente i contenuti dei corrispondenti vincoli formali. Ovviamente,
é aumentata anche la produzione di decreti legislativi, più che
triplicati in percentuale rispetto alla precedente legislatura (dal 2,1%
al 6,6%). In particolare, si é passati da una media mensile di 4,1
decreti legislativi nella XI legislatura, a 2,1 nella XII, ai 6,6 della
XIII legislatura (si veda la fig. 13).
Nel 1999 il numero dei decreti
legislativi emanati, 94, ha superato quello delle leggi approvate, 72. Più
in generale, nel corso della XIII legislatura il numero di decreti
legislativi (pari al 40%) ha pressoché eguagliato quello delle leggi
(42%), se si escludono dal computo le leggi di ratifica e quelle di
conversione di decreti legge (18%) (Camera dei deputati, 2000, p. 13). La
quantità di leggi che prevedono deleghe, le disposizioni di delega e il
numero di decreti legislativi emanati nell’ultima legislatura sono
considerevolmente superiori rispetto a quello delle precedenti (dati
aggiornati al 31 dicembre 2000) (si veda la fig. 14).
Riguardo ai contenuti, nel 29,8% dei
casi l’utilizzo delle deleghe ha per oggetto l’attuazione della
normativa comunitaria, nel 28,7 % concerne provvedimenti collegati alla
manovra finanziaria, nel 23,9% riguarda la riforma del sistema
amministrativo (leggi "Bassanini"), e infine nel 17,6% affronta
la disciplina di particolari settori (Camera dei deputati, 2000, p. 14).
In relazione all’atro strumento di produzione legislativa ad opera del
governo, quello dei decreti legge, la sentenza 24 ottobre 1996, n. 360
della Corte Costituzionale (con cui si é sancito il divieto di
reiterazione dei decreti non convertiti nei termini costituzionali) ha
indotto una drastica riduzione nel loro impiego in termini assoluti, ma
non così significativa al netto dei decreti reiterati. Basti pensare che,
a fronte di ben 187 decreti legge (con una media mensile di 34, pari però
a soli 4, al netto dei decreti reiterati) emanati nei primi cinque mesi
della XIII legislatura, prima di tale sentenza, nei 4 anni successivi ne
sono stati prodotti solo 147, con una media mensile di 3,3. Nel corso del
2000, peraltro, si é registrato un lieve incremento della media mensile,
passata dai 2,8 decreti del luglio 1998 - luglio 1999 ai 3,2 decreti del
luglio 1999-luglio 2000. Tra i 38 decreti legge approvati in
quest’ultimo periodo, ben 29 sono interventi di microlegislazione o di
manutenzione legislativa, a conferma dell’impiego della decretazione
d’urgenza, da parte dei governi, come duttile strumento d’attuazione
rapida di decisioni politiche che ben poco hanno a che vedere coi vincoli
previsti dal dettato costituzionale, dato che "soltanto una minoranza
di decreti legge riguarda situazioni di emergenza o di imprevedibilità"
(Osservatorio sulla legislazione, 2000, I, p. 65).
2.5. Semplificazione normativa e delegificazione
In definitiva, i risultati delle
politiche di semplificazione e riduzione dello stock normativo presentano
luci ed ombre, sia in termini di abrogazioni di leggi che di abbassamento
del livello della fonte (dalla disciplina legislativa a quella
regolamentare). Per quanto concerne il primo punto, le abrogazioni
contenute in leggi ordinarie hanno conosciuto, nel corso dei primi sei
mesi del 2000, una diminuzione rispetto all’anno precedente (si veda la
fig. 15). A ciò corrisponde la completa assenza di provvedimenti
interamente abrogati nel 2000, a fronte dei 16 del 1999 e dei 5 del 1998.
Anche i decreti legislativi mostrano nel corso del 2000 un indebolirsi
della spinta verso la cancellazione dei vincoli legislativi vigenti, tanto
in percentuale (si veda la fig. 16) che in termini numerici assoluti: nei
primi sei mesi del 2000 solo 31 decreti avevano contenuti abrogativi,
rispetto ai 74 del 1999 e ai 53 del 1998.
Anche il numero di provvedimenti
interamente abrogati nella prima metà del 2000, pari a 10, é decisamente
inferiore sia ai 61 del 1999 che ai 48 del 1998. Riguardo alla
delegificazione, gli atti con forza di legge che la autorizzano sono
considerevolmente cresciuti nella XIII legislatura, così come i
regolamenti delegificanti (dati aggiornati al 30 giugno 2000) (si veda la
fig. 17). Peraltro, tra il 1999 e il 2000 si segnala un certo
rallentamento degli sforzi di delegificazione, che sono approvati con la
massima frequenza tra il 1997 e il 1998 (si veda la tab. 2)
Tav. 2. Provvedimenti di delegificazione nella XIII
legislatura.
Anno
|
Leggi che autorizzano delegificazioni
|
Regolamenti delegificanti emanati
|
1996
|
3
|
8
|
1997
|
18
|
21
|
1998
|
15
|
30
|
1999
|
12
|
17
|
2000
|
2
|
11
|
Totale legislatura XIII
|
50
|
87
|
Un’altra strategia perseguita
nell’ambito delle politiche di semplificazione normativa consiste
nell’emanazione di testi unici, che non si limitano a raccogliere le
leggi esistenti in relazione al contesto di applicazione, ma cercano di
ordinarne e razionalizzarne i contenuti, operano delegificazioni
semplificazioni, sistemazioni, abrogazioni. Anche in questo campo si
assiste a un impegno considerevolmente superiore rispetto a quello delle
precedenti legislature (nella XIII legislatura bel 17 disposizioni
prevedono l’emanazione dei testi unici, rispetto alle 2 della XII, alle
6 della XI e alle 5 della X), che però inizia a mostrare nel corso del
2000 segni di stanchezza: solo una disposizione di questo tipo stata
approvata in quest’ultimo anno, rispetto alle 8 del 1999). In ogni caso,
alcuni risultati concreti sono stati raggiunti, attraverso l’emanazione
di 8 testi unici nel corso della XIII legislatura (tra cui quelli relativi
a enti locali, documentazione amministrativa, edilizia, pubblico impiego,
espropriazione, università, circolazione e soggiorno in Italia di
cittadini dell’UE), rispetto ai soli 5 delle tre precedenti legislature
messe insieme (Osservatorio sulla legislazione, 2000, p. 70; Ministero
della funzione pubblica, 2001). Si possono così riassumere le principali
conclusioni della nostra analisi sulle caratteristiche del processo
legislativo in Italia:
- L’ammontare di vincoli di
natura legislativa vigenti in Italia é considerevolmente più ampio
rispetto a quello dei principali paesi europei. Inoltre, esso é
composto da norme qualitativamente scadenti, indirizzate
prevalentemente verso la disciplina di situazioni particolari o
l’attuazione di provvedimenti molto specifici (leggi "microsezionali").
- Il flusso di nuova
legislazione segna negli ultimi anni un’inversione di tendenza ed é
di nuovo in crescita rispetto alle precedenti legislature. L’Italia
continua ogni anno a produrre un numero di leggi notevolmente
superiore rispetto a quello dei principali paesi europei.
- L’eccesso di leggi accresce
i costi delle transazioni economiche e politiche, penalizza i
cittadini e pone le imprese in una condizione di svantaggio
concorrenziale, accrescendo l’incertezza individuale e sociale.
- A partire dalla seconda metà
degli anni ‘90, si é rafforzata la percezione della rilevanza
collettiva del problema costituito dal numero eccessivo e dai limiti
qualitativi delle leggi esistenti in Italia. Per la prima volta, la
questione é stata affrontata attraverso politiche e interventi
organici, volti a creare condizioni favorevoli per un suo progressivo
superamento.
- Le misure di semplificazione
hanno prodotto in Italia alcuni parziali successi in termini
quantitativi, ma stentano a tradursi in un cambiamento soddisfacente
delle modalità istituzionalizzate di produzione normativa, ossia in
"regole del gioco" più efficienti nel ridurre i costi che
il processo legislativo impone ai suoi destinatari.
- Negli ultimi anni il governo
ha giocato un ruolo più attivo all’interno del processo
legislativo, se confrontato con le precedenti legislature.
L’esecutivo ha avuto una funzione trainante anche nell’ambito
degli interventi di semplificazione, in particolare attraverso
l’impiego estensivo dello strumento delle deleghe.
- Nella fase finale della XIII
legislatura sembra indebolirsi la "spinta propulsiva" degli
interventi di riforma del quadro esistente di vincoli legislativi. I
tentativi di semplificazione incontrano resistenze crescenti, che si
concretizzano in un rallentamento della produzione di provvedimenti di
abrogazione e di delegificazione.
3. Le politiche di semplificazione
amministrativa.
Le relazioni che cittadini e imprese
allacciano con le amministrazioni pubbliche hanno dei costi, legati ai
problemi di informazione, negoziazione, garanzia dei loro rapporti con gli
agenti pubblici che sovrintendono le relative procedure. L’ammontare
quantitativo di tali contatti é, come prevedibile, estremamente alto: il
93,7% delle imprese ha avuto, nel corso del 1996, almeno un contatto,
direttamente o per mezzo di intermediari, con una tra sei tipologie di
ufficio pubblico. In particolare, la quasi totalità delle imprese con
oltre 20 addetti ha fatto ricorso ai servizi amministrativi di almeno un
ufficio pubblico. Relativamente più contenuta é invece la frequenza
(93%) delle imprese di minori dimensioni (da 1 a 4 addetti) (Zuliani
1998). Tra luglio 1998 e giugno 1999 la percentuale di imprese fino a 250
dipendenti che ha avuto almeno un contatto con gli uffici pubblici
considerati (Camere di commercio, Inps, uffici Iva e del Registro, Asl,
uffici regionali, provinciali e comunali) é di circa il 90% delle
imprese, tra i quali tre o quattro uffici diversi nel 19,7% e nel 22,6%
dei casi. In totale, si sono avuti 21 milioni di contatti con gli uffici
in questione, con una frequenza media per impresa pari a 22,7 per il
complesso degli uffici (Istat 2000, p.1). Nonostante i limiti che ne hanno
finora condizionato la fase di messa in opera, le misure di
semplificazione normativa e di snellimento burocratico hanno segnato una
significativa "inversione di tendenza" nell’orientamento
generale delle politiche pubbliche. Come riconosce l’Oecd nel suo
rapporto sulle riforme del sistema di regolazione in Italia (Oecd 2000, p.
71): "Nei fatti, l’Italia sta rapidamente migliorando la sua
capacità di impiegare le migliore pratiche per una regolazione di qualità.
Notevoli progressi sono stati fatti nel Paese sulla base delle cosiddette
‘riforme Bassanini’ del 1997. (...) Queste riforme dei poteri di
regolazione della pubblica amministrazione - ridefinendo i rapporti tra
Stato, cittadini e imprese - costituiscono importanti passi avanti che, se
attuati efficacemente a tutti i livelli di governo, potranno dare impulso
agli investimenti e alla crescita economica, migliorare l’efficacia
dell’azione politica e ridurre i vincoli al progresso socio-economico
(in particolare del Mezzogiorno) derivanti dall’inefficiente gestione
della cosa pubblica" Negli ultimi anni, come mostra la fig. 18, a
livello di governo centrale é aumentato significativamente il ricorso ai
diversi strumenti per il miglioramento della qualità della regolazione.
Inoltre, come mostra la fig. 19, sono stati segnalati progressi
particolari in alcuni settori di regolazione amministrativa che hanno
effetti sul sistema produttivo, inclusi i controlli statali, le barriere
all’imprenditorialità, le norme amministrative, la regolazione
economica (OECD 2000, p. 37-38).
Fig. 18. Impiego di strumenti per migliorare
la qualità della regolazione.(Fonte
OECD 2000, pag.71)
Tra le tappe che hanno segnato
questo processo possiamo ricordare le leggi 29/1993 e 573/1993, la cui
attuazione ha portato alla semplificazione di oltre 100 procedimenti e
gruppi di procedimenti. La legge 59/1997 ha previsto la presentazione
annuale di un disegno di legge per la delegificazione di norme collegate a
precedenti provvedimenti amministrativi. Anche le leggi 127/1997 e
191/1998 hanno posto quale obiettivo prioritario la delegificazione e la
riduzione di tempi e delle fasi delle procedure pubbliche. Oltre che
attraverso nuovi vincoli legislativi, le politiche pubbliche di
semplificazione hanno trovato espressione in una serie di nuovi assetti
organizzativi: così, la legge 50/1999 (legge di semplificazione 1998) ha
costituito un Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure,
presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, col compito di fornire
"il supporto occorrente a dare attuazione ai processi di
delegificazione, semplificazione e riordino" (art. 3). Composto,
nella previsione legislativa, da 25 esperti, il Nucleo ha iniziato le
proprie attività nel settembre 1999, operando nel campo della
semplificazione delle procedure e del riordino del sistema normativo
(attraverso la redazione di testi unici). E’ stato inoltre introdotta, a
titolo sperimentale, l’analisi dell’impatto della regolamentazione, di
cui dovrebbero avvalersi le commissioni parlamentari nello svolgimento
dell’istruttoria legislativa. La metodologia adottata prevede la
valutazione preventiva dell’effettiva necessità delle norme e la
misurazione dei costi e dei benefici delle nuove iniziative normative per
i cittadini, le imprese e le stesse amministrazioni. Si può ricordare
anche l’istituzione di un Osservatorio sulle semplificazioni, previsto
dal patto sociale per il lavoro e lo sviluppo, con la partecipazione dei
rappresentanti delle parti sociali, delle autonomie locali e delle
amministrazioni centrali. Nei limiti delle sue funzioni consultive, esso
ha elaborato proposte di modifica del regolamento, controllato
l’attuazione dello sportello unico e individuato procedimenti da
inserire nei disegni di legge di semplificazione.
3.1. Il sistema di rapporti tra cittadini, imprese e
amministrazione pubblica.
Le politiche di semplificazione
hanno prodotto un’apprezzabile modifica del tessuto istituzionale che
regola il sistema di rapporti tra cittadini e amministrazioni pubbliche.
Come conseguenza, i costi dell’interazione tra cittadini, imprese e
stato hanno conosciuto, in alcuni settori, una significativa riduzione. Si
prenda, ad esempio, la diminuzione di tempo e di denaro necessari, prima
delle riforme del 1997-8, per le attività di certificazione e
autenticazione: rispetto al 1996, il risparmio é stato quantificato in
1800 miliardi nel 1999 e in 2200 miliardi nel 2000. In particolare, i
certificati sono stati ridotti del 61,6% (dati aggiornati al primo
trimestre del 2001), dai 68,7 milioni del 1996 ai 34,8 milioni del 1999.
Con il testo unico sulla documentazione amministrativa é stato introdotto
il divieto per le amministrazioni e i servizi pubblici di richiedere
certificati ai cittadini. Le autentiche di firma sono state abbattute del
90% (dati del primo trimestre del 2001), dai 35,1 milioni del 1996 ai 7,4
milioni del 1999. Il tempo complessivamente guadagnato da cittadini e
imprese é evidente, se si pensa che il tempo medio di attesa per ciascuna
di queste operazioni é stato stimato in 45 minuti. E’ stata inoltre
vietata l’autenticazione delle domande per i concorsi e resa più
semplice l’autenticazione di domande, dichiarazioni e copie, ed
introdotto uno Sportello unico per l’edilizia, che semplifica le
procedure e riduce i controlli (Ministero della funzione pubblica, 2001;
Presidenza del Consiglio, 2000). Altrettanto significativi appaiono gli
effetti sui costi delle relazioni tra imprese e sistema amministrativo.
Possiamo ricordare, tra le misure più importanti, la consistente
limitazione dei casi in cui é richiesta la certificazione antimafia, la
liberalizzazione delle attività commerciali per esercizi di piccole
dimensioni, la semplificazione del registro per le imprese e delle
autorizzazioni di pubblica sicurezza (con l’introduzione di
autocertificazioni e la trasformazione di licenze annuali in permanenti),
la promozione del cosiddetto e-government (gestione informatizzata
dei rapporti tra amministrazioni pubbliche e utenti) (13),
l’eliminazione dell’omologa dinanzi al tribunale per la costituzione
delle società. Come si osserva nel rapporto Oecd sul sistema di
regolazione in Italia: "Dal dicembre 2000 il numero dei procedimenti
necessari per costituire una nuova società o una ditta individuale é
stato ridotto da 25 a 5 e il tempo massimo richiesto per l’intero
provvedimento é stato ridotto da 22 settimane a 10. I costi sono stati
ridotti da 7.700 a 3.500 euro circa per le società e da 1150 a 500 euro
per le ditte individuali" (OECD 2000, pp. 72-3). Accompagnata
dall’estensione dell’autocertificazione, della denuncia d’inizio
attività e del silenzio assenso, l’adozione dello strumento dello
sportello unico ha permesso di ridurre i tempi e i costi dei rapporti con
gli enti pubblici di cittadini e imprese. In alcuni settori chiave, questi
ultimi hanno un unico interlocutore per pratiche che coinvolgono uffici e
amministrazioni diverse. Sono stati così introdotti lo sportello unico
dell’edilizia, dell’automobilista e delle attività di impresa
all’estero. Il più importante é comunque lo sportello unico per le
attività produttive (istituito col decreto legislativo 112/1998), grazie
al quale le imprese affrontano un unico interlocutore e un unico
procedimento (la cui conclusione ha tempi certi) per l’insediamento, la
ristrutturazione e l’ampliamento di un impianto produttivo di beni o
servizi (industrie, alberghi, negozi e centri commerciali, ecc.). Tutte
queste funzioni amministrative sono conferite ai comuni, attraverso un
unico procedimento di autorizzazione. L’effetto atteso é un risparmio
conseguente alla riduzione dei tempi, del numero dei contatti tra il
sistema delle imprese e la pubblica amministrazione e dei relativi costi
di transazione. Prima della sua introduzione, la realizzazione di un nuovo
insediamento produttivo richiedeva fino a 45 adempimenti, che imponevano
rapporti con enti diversi (Comune, Regione, Provincia, ASL, Vigili del
Fuoco, Camera di Commercio, ecc). Di conseguenza tempi di attesa
risultavano estremamente lunghi (per esempio, da 9 a 27 mesi solo per una
concessione edilizia), specie se confrontati con gli altri paesi europei
nei quali l’avvio di un’attività economica richiede in media un mese
di attesa (due nei casi più complessi). Di qui gli alti costi sostenuti
dalle imprese solo per mantenere rapporti con le amministrazioni
pubbliche. Da dati Istat emerge che l’incidenza media degli oneri
complessivi per adempimenti amministrativi nel 1996 era pari all’1% sul
totale dei costi aziendali (corrispondente al 3,4% del costo interno del
lavoro e il 26% dei costi esterni complessivi per consulenze), con un
utilizzo di personale interno per un numero di giornate pari a 71,4
milioni. L’ammontare complessivo dei costi sopportati nel 1996 dalle
imprese tra i 3 e i 500 addetti per l’espletamento dei soli obblighi
amministrativi oggetto della ricerca (uffici Iva, Asl, Comuni, Inps, Inail,
Camera di commercio) é stato stimato in 22.500 miliardi di lire, per un
ammontare pari all’1% dei costi aziendali totali. Il costo annuo che
ciascuna impresa in media ha dovuto sostenere per adempimenti fiscali é
stato pari a 15.712.000 lire, di 16.692.000 lire per attività
amministrative legate ad import-export, di 7.481.000 per attività legate
alle risorse umane, di 7.095.000 lire per attività connesse con
l’innovazione. L’incidenza di tali costi diminuisce sensibilmente al
crescere della dimensione dell’impresa: é massima (1,7%) nelle imprese
che si collocano nella classe 6-9 addetti ed é minima (0,2%) nelle
imprese con più di 200 addetti: "Da un lato, i servizi resi dagli
uffici pubblici vengono valutati in termini soddisfacenti prevalentemente
dalle imprese che hanno bassi livelli di interazione con gli uffici
stessi, richiedendo un limitato numero di prestazioni differenziate, che
implicano l’attivazione di procedure semplici e ripetitive.
Dall’altro, la qualità dei servizi offerti risulta non soddisfacente
soprattutto alle imprese che richiedono un maggior numero di prestazioni
differenziate" (Zuliani 1998, pp. 24-33). E’ possibile valutare i
primi effetti delle politiche di semplificazione amministrativa comparando
questi dati con quelli relativi al periodo luglio 1998-giugno 1999. In
primo luogo, solo il 25,4% delle imprese utilizza mediatori esterni per
svolgere adempimenti presso gli uffici pubblici: rispetto al dato del 1996
(pari al 42,2%) la diminuzione é molto marcata, indice che
l’attenuazione dei vincoli procedurali ha comportato una riduzione dei
costi d’intermediazione con le strutture pubbliche. Il confronto con le
variazioni nelle percezioni soggettive dell’efficienza del servizio non
porta però a risultati altrettanto confortanti. Tra il 1996 e il 1999 la
percentuale d’imprese che lamenta tempi abbastanza o troppo
lunghi per l’espletamento del servizio é passato dal 37,4% al 40%;
le imprese che ritengono scarsa o mediocre la professionalità e la
competenza del personale sono aumentate dal 21,8% al 23% (solo l’8%
la ritiene elevata); le imprese che reputano complesse o molto
complesse le modalità di accesso al servizio passa dal 19,4% al
23,8%. (si veda la tabella 3).
Tav. 3. Evoluzione del giudizio delle imprese sui
loro rapporti con le pubbliche amministrazioni
Anno
|
Tempi abbastanza o troppo
lunghi per l’espletamento del servizio
|
Scarsa o mediocre
professionalità e competenza del personale
|
Complesse o molto complesse
le modalità di accesso al servizio.
|
1996
|
37.7%
|
21.8%
|
19.4%
|
1999
|
40.0%
|
23.0%
|
23.8%
|
Fonti: elaborazione da Zuliani 1998 e Istat 2000.
Naturalmente, é possibile che
questo peggioramento nel giudizio delle imprese non rifletta soltanto un
peggioramento della qualità del servizio, ma anche una parziale delusione
delle aspettative suscitate dal cambiamento del sistema normativo. Due
sondaggi effettuati tra aprile 1999 e febbraio 2000 sembrano invece
segnalare un’inversione di tendenza, con una limitata crescita della
fiducia dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. In
primo luogo, il voto positivo (sopra la sufficienza) al rapporto tra
cittadini e amministrazioni é salito dal 49% al 64%. La definizione del
proprio rapporto con l’amministrazione pubblica nel 1999 é
"inevitabile" per il 36% e "insopportabile" per il
17%; nel 2000 il 40% del campione giudica i servizi dell’amministrazione
"migliori di una volta". In particolare, la percezione di uno
snellimento delle file sale dal 26% al 33% del campione. Nonostante questi
segnali di un clima di "fiducia condizionata" negli effetti
delle riforme, una conferma della divergenza tra le aspettative suscitate
dal cambiamento del tessuto normativo e le resistenze avvertite nelle
consolidate prassi che regolano rapporti con le amministrazioni pubbliche
viene dal fatto che il 76% dei cittadini considera le riforme "capaci
di mutare il rapporto amministrazione pubblica/cittadini" (a fronte
di circa il 10% che ritengono "inefficaci"), ma una percentuale
estremamente alta, pari al 63%, le ritiene qualcosa di "positivo, ma
di difficile attuazione" (vedi fig. 20).
La radicata sfiducia trova
espressione anche nel 46% del campione, che ritiene che "il
comportamento dei dipendenti pubblici possa vanificare i risultati delle
riforme (Presidenza del Consiglio, 2000, p. 9). Da un’indagine
effettuata in 8 città campione, nel corso del 2000 l’opinione dei
cittadini verso l’amministrazione pubblica é rimasta immutata per il
59,8% del campione, é cambiata in positivo per il 26% e in negativo per
l’11%. Quasi il 60% degli imprenditori che hanno gia utilizzato lo
Sportello unico per le attività produttive si reputa soddisfatto
dell’innovazione (ibidem, p. 13).
3.2.Appalti e controlli amministrativi.
Il settore nel quale i contatti tra
imprese e pubblica amministrazione sono più frequenti ed economicamente
rilevanti é quello degli appalti. Dal 1995 al 1999 vi sono stati 215.784
bandi soltanto nel settore dei lavori pubblici. Nel 1998, 48.843 miliardi
sono stati allocati dalle amministrazioni pubbliche tramite procedure di
appalto (AVLP, 2000, pp. 36-8). Nel 2000 ci sono state 38.787 procedure
per appalti di lavori pubblici, per un importo complessivo di 37.773
miliardi di lire (AVLP, 2001, p. 26). Anche in questo campo modifiche
sostanziali del quadro normativo sono state introdotte tra il 1994 e il
1998 dalle tre leggi Merloni: le procedure più discrezionali di scelta
del contraente sono state fortemente limitate a vantaggio di quelle
concorrenziali, mentre la redazione dei progetti, la direzione dei lavori
e le attività di vigilanza e controllo sono state affidate in via
primaria alle strutture tecniche interne alle amministrazioni, con
l’obiettivo di ridurre il ricorso a modifiche ed integrazioni dei
progetti originari. La valutazione e la comparazione delle esigenze
socio-economiche alla base delle singole opere é stata delegata alla
predisposizione di un programma triennale da parte degli enti appaltatori,
alla disponibilità reale dei mezzi finanziari sufficienti e alla
predisposizione preliminare di un progetto dettagliato. La legge di
riforma ha previsto, inoltre, l’istituzione di un’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici che ha funzioni di proposta e vigilanza e la
più estesa diffusione delle informazioni sulle gare, anche tramite
strumenti informatici. Il piano complessivo della riforma si pone quale
obiettivo proprietario quello eliminare le fonti di incertezza e di
distorsione dei mercati pubblici (ricorso indiscriminato a meccanismi non
concorrenziali di assegnazione degli appalti, scarsa qualità dei progetti
originari, etc.), che creavano condizioni propizie per l’emergere di
inefficienze, sprechi di risorse e corruzione, conformandosi alla
normativa europea (14). Anche in questo caso gli effetti dei nuovi vincoli
formali sono destinati a dispiegarsi nel corso del tempo, ed é presto per
tracciarne un bilancio, sia pure provvisorio, dei loro effetti. Le
resistenze sono state comunque notevoli, tanto che la stessa Autorità di
vigilanza ha lamentato che le prassi e i comportamenti concreti degli
amministratori sono rimasti in molti casi ben lontani dal conformarsi alle
previsioni normative (AVLP, 2000, p. 48 e p. 55). In questo senso, il
"contesto di confusione e instabilità (...) rischia di incoraggiare
l’inosservanza diffusa e la ripetuta disapplicazione delle norme, a
danno delle esigenze di certezza degli operatori economici e
dell’interesse pubblico a un esercizio corretto e trasparente
dell’attività amministrativa" (AGCM, 1994). Dai primi rapporti
dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici emergono comunque alcuni
elementi di riflessione. In primo luogo, le relazioni di scambio tra
imprese e amministrazione pubblica presentano costi di transazione
estremamente alti proprio a causa dell’inefficienza delle procedure. Da
un sondaggio a campione, nel periodo 1995-1998 il fattore che più incide
sulla durata della realizzazione delle opere pubbliche sono i tempi
amministrativi: rispetto alla durata complessiva degli interventi, la
realizzazione richiede il 21,6% del tempo, la progettazione il 31,6%,
mentre ben il 46,8% del tempo viene utilizzato per le varie incombenze
amministrative. Il tempo medio per la realizzazione delle opere é di ben
2.410 giorni, 433 dei quali soltanto per i collaudi (AVLP, 2000, pp.
60-2). Un miglioramento viene riscontrato nel rapporto del 2001 per quanto
riguarda il tempo medio trascorso dalla pubblicazione del bando
all’aggiudicazione, che passa da 173 giorni del periodo 1995- 98 agli
81,5 giorni del 2000 (AVLP, p. 62). Infine, si é osservato come il
contenzioso, ossia l’emergere di controversie in relazione alla
procedura di appalto e alla successiva costituzione di un rapporto di
scambio tra imprese e amministrazione pubblica, assuma una frequenza molto
elevata al crescere dell’importo della gara: si verificano controversie
nel 9,5% degli appalti di importo tra 1 e 5 milioni di Ecu, e nel 28,7% di
quelli di importo superiore ai 5 milioni di Ecu (AVLP, 2000, p. 72). Anche
questo elemento conferma il permanere, nonostante i principi di
trasparenza e di concorrenza cui si ispirano le nuove regole, di una
condizione di incertezza relativa ai meccanismi di assegnazione e di
garanzia dei diritti di proprietà derivanti dagli esiti delle procedure
di appalto. Tale incertezza é alla radice dei contenziosi che,
specialmente nei casi in cui la posta in palio é più alta, espongono le
parti (pubbliche e private) a costi di transazione più elevati. Accanto
agli "attriti" derivanti dalle relazioni di cittadini e imprese
con le strutture pubbliche, occorre considerare anche i costi di
transazione interni alle amministrazioni pubbliche (legati
all’inefficienza e all’inadeguatezza dei vincoli normativi e degli
assetti organizzativi). I tentativi di intervento in questo campo, oltre
che attraverso alcuni provvedimenti generali di risanamento finanziario
(che non affrontiamo in questa sede), si sono concentrati in una pluralità
di aree di politica pubblica, attraverso misure di deburocratizzazione,
riordinamento e semplificazione. Come prevedibile, non sono mancati
ostacoli e resistenze dall’interno delle strutture pubbliche, in difesa
di consolidate posizioni di potere e di rendita, oltre che da parte loro
rappresentanze politiche. D’altro canto, il costo sostenuto dallo stato
per mantenere migliaia di procedure e pratiche appare difficilmente
sostenibile, specie in un contesto d’accresciuta "competizione
istituzionale" come quella che caratterizza lo scenario europeo e
internazionale: si pensi che in Italia esistono oltre 5.400 diversi
procedimenti soltanto per le amministrazioni centrali dello stato. Questi
elementi innalzano i costi d’avvio e di mantenimento delle attività
produttive, determinando una riduzione degli investimenti sia italiani sia
esteri, e al tempo stesso incentivano un investimento di risorse
nell’acquisizione di conoscenze e competenze che permettono di gestire
con minori attriti i rapporti con le burocrazie pubbliche, piuttosto che
di ridurre i costi di trasformazione attraverso l’innovazione
tecnologica. Anche in questo campo gli effetti delle politiche pubbliche
di semplificazione e di riordino dell’apparato amministrativo sono stati
relativamente modesti, almeno a paragone con la massa impressionante di
procedimenti esistenti. Negli ultimi anni é stato avviato un programma di
semplificazione dei procedimenti amministrativi, che ha per oggetto
"procedimenti di interesse delle imprese e mira a ridurre i costi a
carico del sistema produttivo" (d.d.l. 4374/1998). La legge 59/1997
prevede un intervento di semplificazione su 96 procedimenti, la legge
50/1999 su 47, la legge 340/2000 su altri 63. Nel complesso, dei 206
procedimenti individuati soltanto 44 sono già stati semplificati (Camera
dei deputati, 2001, p. 25). L’attuazione del processo di semplificazione
é dunque ancora molto parziale, e le cause dei rallentamenti sono da
ravvisarsi nella complessità dell’iter d’approvazione dei
regolamenti. Il percorso previsto dalla legge configura, infatti, una
procedura piuttosto tortuosa, con l’acquisizione di pareri da parte di
più organi non sempre coordinati tra loro, cui fa seguito una
corrispondente dilatazione dei tempi di decisione e di attuazione. Se le
politiche di semplificazione e "liberalizzazione" amministrativa
stentano a produrre risultati apprezzabili, ciò é paradossalmente
imputabile anche al fatto che gli stessi soggetti ed organismi (spesso
istituiti ad hoc) che dovrebbero guidarlo e indirizzarlo si trovano
avviluppati nello stesso tessuto normativo a maglie fitte da cui
dovrebbero liberare la società, e il tempo investito in studi, ricerche,
tentativi, ritardi finisce per essere maggiore di quello che si vorrebbe
far risparmiare ai cittadini. Più appariscenti sono invece gli effetti
delle misura normative, dal decreto legislativo 29/1993 alle leggi 20/1994
e 94/1997, che hanno riformato il sistema dei controlli amministrativi.
Questi provvedimenti legislativi hanno segnato, infatti, un faticoso
passaggio dai poco efficaci controlli "di processo" (ossia
preventivi di legittimità, basati sulla regolarità formale degli atti)
ai controlli "di prodotto", fondati cioè sulla capacità degli
atti di favorire al conseguimento degli obiettivi prefissati, in base a
criteri di efficacia ed efficienza della gestione. In effetti, il numero
di controlli preventivi di legittimità sugli atti statali é stato
abbattuto da 5 milioni a 25mila, sugli enti locali da 4,5 milioni a
400mila (Ministero della funzione pubblica, 2001). D’altra parte, i
controlli "di prodotto" sono stati assegnati, in maniera poco
coordinata, ad organi finora incapaci di adeguarsi ai nuovi compiti, né
si sono sviluppati i controlli interni agli uffici delle singole
amministrazioni, o i controlli successivi di gestione da parte della Corte
dei Conti (Mattarella 1998, pp.116-17). La resistenza dei modelli
culturali e cognitivi prevalenti presso gli organi di controllo sembra
allora vanificare gli effetti della riforma: "é necessario che anche
i controllori si adeguino ai nuovi principi. Ciò vale sia per la Corte
dei conti, sia per le ragionerie. La prima mostra serie difficoltà a
cambiare approccio, e talora sembra voler ritornare alla più rassicurante
prassi dei controlli preventivi di legittimità. Questo appare del resto
inevitabile, almeno fino a che continuerà ad essere composta interamente
da personale con una formazione giuridica, senza che vi siano competenze
-di carattere ragionieristico, economico, informatico- che le permettano
di ‘leggere’ i bilanci degli enti controllati, fondando il controllo
sui costi sostenuti. Per quanto riguarda le ragionerie, la riforma del
1994 ha accentuato la loro crisi, causata dal carattere formalistico dei
controlli e dall’incapacità di utilizzare le informazioni di cui
dispongono" (CSPC: 75). La selezione e la formazione del personale
non hanno conosciuto finora un apprezzabile adeguamento ai nuovi principi.
In sintesi, in Italia il sistema di relazioni tra cittadini e stato,
nonostante l’avvio di significative politiche di semplificazione
amministrativa, in alcuni settori presenta ancora elevati costi di
transazione, che pesano (in termini monetari, ma anche assorbendo grandi
quantità di tempo e altre risorse) sulle possibilità di sviluppo
economico, generando incentivi all’acquisizione di conoscenze e abilità
professionali in attività di redistribuzione e di pressione sul potere.
Come si osserva nel rapporto annuale 2000 dell’Autorità garante della
concorrenza: "Il contesto normativo di riferimento é rimasto troppo
rigido rispetto alle rapide trasformazioni dell’economia e, soprattutto,
poco attento alle problematiche concorrenziali, limitando i vantaggi e i
benefici potenzialmente derivanti da un più intendo e diffuso
sfruttamento delle opportunità connesse all’innovazione tecnologica e
all’evoluzione della domanda" (AGCM, 2000, p. 24).
4. Eppur si muove? Le dinamiche dell’adattamento
istituzionale.
L’ambiente istituzionale influenza
i costi delle transazioni economiche, politiche e sociali. Tali costi,
secondo l’approccio neo-istituzionalista, condizionano i processi di
formazione delle organizzazioni, incentivando certi tipi d’attività e
scoraggiandone altre, influenzano le tecniche e l’efficacia con cui
queste ultime perseguono i loro obiettivi, e dunque determinano le
possibilità di sviluppo della società. Le organizzazioni, a loro volta,
contribuiscono a plasmare i processi di trasformazione delle istituzioni
nel corso del tempo. Più precisamente, l’azione delle organizzazioni
(guidata da "imprenditori" politici ed economici) influisce sul
cambiamento istituzionale tramite:
a) gli incentivi alla domanda di
alcuni generi di conoscenze;
b) l’interazione tra attività
economica organizzata, conoscenze scientifiche e struttura istituzionale
(modifica intenzionale dei vincoli istituzionali);
c) la graduale modifica dei vincoli
informali, che si evolvono gradualmente a seguito delle scelte operate dai
diversi soggetti economici e politici (modifica non intenzionale dei
vincoli istituzionali) (North 1994, p. 118).
Una volta imboccato un certo
sentiero di sviluppo istituzionale, diversi fattori (tra cui la rete di
esternalità positive, i processi di apprendimento nelle organizzazioni, i
modelli di comportamento storicamente determinati) ne rafforzano
l’indirizzo, favorendo scelte individuali adattive che permettono di
fronteggiare le condizioni di incertezza (ibidem, p. 144). In questo
percorso, i vincoli istituzionali che incoraggiano attività improduttive
possono presentare rendimenti crescenti, indebolendo gli incentivi a
sviluppare abilità e conoscenze funzionali alla crescita del surplus
sociale. Questi stessi fattori creano poi le condizioni perché siano
sviluppate concezioni ideologiche, teorie e idee che modellano conoscenze
e identità in modo da razionalizzare ex-post la struttura istituzionale
esistente, giustificandone i bassi rendimenti. In questa prospettiva,
possiamo chiederci quali processi di apprendimento e di acquisizione di
competenze siano incoraggiati dalla cornice di "regole del
gioco" precedentemente descritta. Gli incentivi e i vincoli posti
dall’assetto istituzionale alle scelte operate dalle organizzazioni,
infatti, indirizzano nel tempo gli stessi percorsi dell’adattamento e
del cambiamento istituzionale. Queste considerazioni ci permettono di
legare tra loro diversi indicatori, apparentemente eterogenei, che
tuttavia illustrano alcuni degli effetti del sistema istituzionale
italiano sull’attività delle organizzazioni economiche e politiche
operanti entro i suoi confini. Nel caso delle organizzazioni economiche si
prenda, in primo luogo, la struttura di incentivi ad investire nella
creazione di nuove conoscenze in grado di favorire una crescita della
produttività, accrescendo così le proprie possibilità di sopravvivenza
e di successo in un contesto concorrenziale.
Le rilevazioni statistiche relative
all’Italia mostrano, nel settore degli investimenti (pubblici e privati)
in attività di ricerca e sviluppo, un deficit profondo e radicato nel
tempo, in termini sia di risorse investite che di risultati conseguiti:
(a) la spesa totale per ricerca e
sviluppo in Italia é pari all’1,05% del Pil, inferiore alla metà del
valore medio dei paesi Ocse (2,23%) (si veda la fig. 21);
(b) la spesa per ricerca delle
imprese é circa un terzo della media dei paesi Ocse e inferiore di quasi
un punto percentuale in termini di Pil, rappresentando lo 0,57% del Pil di
contro l’1,54% della media Ocse;
(c) il numero di ricercatori per 10
mila lavoratori, pari a 32, é un terzo di quello della Finlandia (94) e
del Giappone (96), ma é assai lontano anche dagli Stati Uniti (74), dalla
Francia (60) e della Germania (60).
Ai minori investimenti (pubblici e
privati) in ricerca e sviluppo corrispondono peggiori risultati: il tasso
di inventiva (la domanda di brevetti da parte di residenti per 10 mila
abitanti) risulta in Italia pari a 1,2, rispetto a una media di 5,3 dei
paesi Ocse, con paesi come il Giappone (27.7), Germania (5,5), e Stati
Uniti (4,5), e che presentano valori sensibilmente più elevati (si veda
fig. 22).
Inoltre, nel periodo 1993-1999, il
numero di brevetti richiesti da residenti é aumentato del 25%, mentre la
media Ocse si é attestata sul 67,4%; alcuni paesi, come la Spagna
(78,4%), la Germania (35,9%), la Francia (36,1%), e soprattutto la
Finlandia (446,9%) hanno segnato crescite molto più consistenti (Censis,
2000). Poiché la competitività delle imprese e delle altre
organizzazioni economiche dipende dalla quantità di conoscenze
disponibili (ed utili ad accrescere la produttività), l’ammontare
ridotto d’investimenti finalizzato alla loro acquisizione le pone in una
condizione di svantaggio concorrenziale, al pari delle caratteristiche
dell’assetto istituzionale sopra descritte. Tuttavia, ciò non implica
affatto una scarsità, in termini assoluti, di inventiva e di abilità
imprenditoriali (Baumol, 1990, p. 894). Possiamo chiederci allora in quali
direzioni si volga la "creatività imprenditoriale", in un
contesto istituzionale che premia l’acquisizione di competenze che
permettono di volgere a proprio vantaggio la complessità e
l’inefficienza dello stesso sistema di vincoli formali, operando una
mediazione nelle controversie private e in quelle con lo stato. Un
indicatore dell’esistenza di questi incentivi é dato dal numero di
avvocati: un’alta densità relativa nella popolazione denota un ambiente
sociale con alti costi di transazione, bassi livelli di fiducia
interpersonale e istituzionale, scarsità di capitale sociale, ossia di
condizioni nelle quali le attività di gestione e composizione delle
controversie sono particolarmente richieste e remunerative (Putnam, 2000,
p. 146) (15). L’Italia presenta, nel contesto europeo, il maggior numero
di avvocati rispetto alla popolazione (si veda la fig. 23). Gli avvocati
abilitati ad operare davanti alle Magistrature superiori in Italia sono
35mila, contro i 150 della Francia. A conferma della robustezza di questi
incentivi, si pensi che negli ultimi anni l’incremento é stato di quasi
10mila unità l’anno, fino a raggiungere i circa 110mila avvocati
attualmente (Verde, 1999).
4.1. Costi dell’interazione tra settore pubblico e
settore privato: l’economia sommersa.
Le statistiche sulla domanda di
giustizia amministrativa confermano l’intensificarsi delle occasioni di
attrito tra cittadini e pubblica amministrazione, ossia la crescita dei
costi di transazione politica. Negli ultimi dieci anni si sia assistito ad
un forte aumento (+42,5%) della conflittualità rispetto ad atti o
provvedimenti della pubblica amministrazione. I ricorsi ai Tar su questa
materia sono passati da 42.265 nel 1987 a 60.212 del 1997 (Istat 1997).
Questo sovraccarico di domande si é scontrato con procedure inefficienti,
determinando un forte accumulo di casi non esauriti e un ulteriore
allungamento dei tempi, che a metà degli anni ‘90 raggiungevano in
media i 3.077 giorni presso i Tar e i 1.105 giorni presso il Consiglio di
stato (Arabbia e Giammusso, 1994, p. 284).
L’ordinamento istituzionale sembra
incentivare in Italia due tipi di investimenti nell’acquisizione di
particolari conoscenze e abilità imprenditoriali. Il primo concerne le
competenze volte ad evitare, per quanto possibile, interazioni e scambi
con la sfera di protezione pubblica, rinunciando ai contatti con lo stato
e con i suoi agenti nell’esercizio delle proprie attività economiche e
produttive. Ciò implica una rinuncia all’utilizzo dei meccanismi
pubblici di garanzia di alcuni profili di diritti, ma al tempo stesso
riduce i costi delle transazioni che quelle interazioni impongono. Tale
costo, infatti, comprende sia il potenziale esborso fiscale, che il tempo
e le altre risorse economiche da consumare per conoscere e rispettare
vincoli procedurali e altre forme di regolazione. Un sistema
politico-amministrativo che presenta alti costi d’interazione con lo
stato induce cos"un elevato numero di imprese a occultare la propria
attività, incrementando la quota di "sommerso". Un indicatore
del grado di specializzazione in svariate attività, compatibili con
questa strategia di "fuga dallo stato", é fornito dalle
statistiche relative all’economia sommersa. Come mostra la figura 24,
l’Italia si colloca ai vertici in questo settore, con una crescita
costante negli ultimi cinque anni, fino a raggiungere un livello che nel
2000 é pari al 28,5 del PIL, circa il doppio di Francia, Germania e Gran
Bretagna, e oltre il triplo degli Stati Uniti. La conferma della rilevanza
dell’economia sommersa come indicatore di alcune caratteristiche di
fondo del contesto istituzionale viene dall’analisi, condotta col metodo
della regressione lineare, dei fattori che più influenzano
l’occultamento delle attività economiche. Sono state così individuate
significative correlazioni positive tra l’entità dell’economia
sommersa e:
(i) i livelli di pressione fiscale;
(ii) l’inefficienza, l’ampiezza e la
discrezionalità con cui opera la macchina burocratica;
(iii) l’intensità della regolazione,
l’estensione e la complessità del sistema legislativo;
(iv) la mole e la complessità del sistema
tributario:
(v) la diffusione della corruzione e
la presenza della criminalità organizzata (Johnson, Kaufmann e
Zoido-Lobatòn, 1998). L’equilibrio istituzionale esistente in Italia, a
conferma di quanto fin qui emerso, é caratterizzata proprio dalla
compresenza di queste condizioni, che assumono un peso sensibilmente
superiore a quelli degli altri paesi democratici occidentali. La forza
perdurante degli incentivi a rendere opache, rispetto allo stato, le
proprie attività economiche, é dimostrata anche dai livelli di crescita
dell’economia sommersa, che nel 1999 registrano in Italia la maggiore
crescita percentuale tra i paesi occidentali, circa il triplo superiore al
corrispondente aumento del PIL. Diverse organizzazioni economiche si sono
così ritagliate vantaggi concorrenziali e nicchie di protezione dal
controllo e dalla regolazione pubblica, specializzandosi nella gestione di
informazioni e conoscenze che ne hanno modellato l’organizzazione
interna e l’attività di mercato.
4.2. Il sistema della corruzione e la sfiducia nella
democrazia
Una struttura istituzionale che
determina alti costi di transazione nei mercati politici ed economici,
oltre alla strategia difensiva sopra descritta, può incentivare anche
l’acquisizione di conoscenze che permettono di conseguire attivamente
vantaggi differenziali in attività improduttive di redistribuzione del
reddito. Il quadro di vincoli formali, infatti, alimentando l’incertezza
e distribuendo asimmetricamente informazioni, genera opportunità di
profitto per i soggetti che riescono a collocarsi negli snodi del sistema
politico amministrativo, oppure ad allacciare relazioni di scambio con gli
agenti pubblici, incamerando quote di quelle rendite informative e
decisionali. In questo senso, la struttura istituzionale italiana
incorpora incentivi ad investire risorse nel raffinamento di competenze
d’illegalità, consistenti nel "saper agire sotto minaccia di
sanzioni, saper scegliere le vie riparate, saper come coprirsi e
proteggersi, ma, più importante ancora, avere un’ampia e, il più
possibile, diretta conoscenza sia di altre persone disponibili a
partecipare a transazioni illecite, sia di persone che, pur non facendosi
coinvolgere, occupino posizioni di autorità che coprano le aree entro le
quali le occasioni di tali transazioni sono più frequenti" (Pizzorno,
1992, p.23). Tutti quei fattori che allungano i tempi di risposta delle
istituzioni politico-amministrative alle istanze dei cittadini -inflazione
legislativa, inefficienza burocratica, intensità della regolazione,
debolezza dei controlli, ecc.- possono dunque spiegare sia il capillare
coinvolgimento delle organizzazioni politiche ed economiche nel mercato
della corruzione, rivelato dalle indagini giudiziarie nel corso degli anni
‘90, che i deludenti risultati delle politiche volte a contrastare il
reticolo di scambi occulti (della Porta e Vannucci, 1999) (16). Impiegare
mille lire in attività di ricerca e sviluppo, per un’impresa italiana
che opera nei mercati pubblici, é presumibilmente assai meno remunerativo
che investirle nel consolidamento di relazioni di contiguità politica o
di influenza sui decisori pubblici. Infatti, se la protezione garantita
dalle procedure giudiziarie o amministrative appare inefficace o ha esiti
incerti, conviene acquistare garanzie private e selettive da centri di
potere politico-amministrativo, come partiti, fazioni, o singoli
esponenti. La stessa attività di pressione sul potere o di corruzione
finisce così per istituzionalizzarsi, avendo ad oggetto non la cattura di
specifici benefici, ma una salvaguardia più duratura e continuativa dai
costi attesi dell’interazione con lo stato, ossia una tutela più
efficace, come tempi di soddisfacimento, degli incerti diritti di proprietà.
La stessa diffusione della corruzione, in altri termini, tende a
riprodurre su scala più ampia condizioni favorevoli alla sua riproduzione
nel tempo, tramite l’influenza (diretta o indiretta) sui vincoli
istituzionali esercitata dalle organizzazioni politiche ed economiche,
talora rivolta semplicemente a impedirne il cambiamento, preservando così
le proprie rendite di posizione. Non é una sorpresa che da oltre cinque
anni, da quando cioè Transparency International predispone un indice di
percezione della corruzione, l’Italia si collochi stabilmente e di gran
lunga al primo posto, tra i principali paesi democratici occidentali,
quanto a diffusione del fenomeno. E’ invece abbastanza sorprendente che
l’indice relativo all’anno 2001 mostri per la prima volta un
consistente miglioramento, sia in termini assoluti, da 4,6 a 5,5 punti (si
veda la fig. 25), che in termini relativi. La posizione dell’Italia,
infatti, sale dal 39° posto (su 90 paesi) del 2000 al 29° posto (su 91
paesi) del 2001. Tuttavia, nonostante il progresso, l’Italia continua a
costituire un caso anomalo nel panorama delle democrazia occidentali, con
un tasso di percezione della diffusione della corruzione superiore a
quello di Estonia, Taiwan, Botswana.
Per chi non può (o non vuole)
occultare le proprie attività economiche, né volgere a proprio vantaggio
l’inefficienza dei vincoli formali e dei meccanismi statali di garanzia,
allacciando relazioni nascoste di scambio corrotto con gli agenti
pubblici, non resta che sostenere i costi e l’incertezza che tale
assetto impone nei mercati economici e politici, oltre che
nell’interazione sociale. L’opzione "uscita"
dall’organizzazione statale, infatti, ha costi molto elevati; ad essa,
in realtà, ricorrono prevalentemente soggetti con incentivi (economici e
sociali) particolarmente forti, come mostra, ad esempio, il fenomeno della
cosiddetta "fuga di cervelli", ossia l’emigrazione di
scienziati italiani verso laboratori di ricerca esteri. A chi resta, non
rimane che maturare (ed eventualmente "elaborare", traducendole
nelle diverse forme organizzate di partecipazione politica) la propria
insoddisfazione nei confronti delle modalità di funzionamento
dell’apparato politico istituzionale. Svariate statistiche convergono
nell’indicare una sfiducia generalizzata dei cittadini italiani nei
confronti del proprio sistema politico- istituzionale. L’indicatore che
utilizziamo in questo rapporto é la domanda relativa al sentimento di
soddisfazione sul funzionamento della democrazia nel rispettivo paese,
effettuata con regolarità dall’Eurobarometro. Dal 1973, data della
prima rilevazione, l’Italia si colloca costantemente all’ultimo posto
in Europa. Cumulando i "per niente" e i "non molto
soddisfatti", l’area complessiva di sfiducia é sempre rimasta
superiore al 60 per cento. Nel 2000, l’area di insoddisfazione in Italia
era pari al 62%, contro il 36% della Germania, il 25% della Spagna, il 27%
della Gran Bretagna ed il 33% della Francia (si veda la figura 26).
Così come nella percezione della
corruzione, anche in questo indice di "sfiducia istituzionale"
si osserva un significativo miglioramento rispetto all’anno precedente:
l’area di insoddisfazione, infatti, si riduce di ben 8 punti
percentuali, peraltro seguendo una tendenza comune agli altri paesi
europei (si veda la fig. 27).
Dopo il dato sulla percezione della
corruzione, si tratta di un ulteriore dato positivo relativo alle
dinamiche dell’adattamento istituzionale in Italia (eppur si muove?).
Infine, prendendo in esame i dati relativi ai paesi dell’Unione europea,
abbiamo incrociato i dati relativi all’indice della libertà economica
del Centro Einaudi, alla percezione della corruzione e al grado di
soddisfazione nei confronti della democrazia. Abbiamo così riscontrato
livelli significativi di correlazione fra queste tre variabili. In
particolare, dove c’é una maggiore libertà economica é più bassa
l’insoddisfazione nel funzionamento della democrazia nel proprio paese
(r=-0,53), minore la percezione di corruzione (r=-0,65) e inferiore
l’ampiezza dell’economia sommersa (r=-0,6). Si veda, a titolo di
esempio, la fig. 28 per un’illustrazione grafica della prima
correlazione riscontrata.
Analogamente, la percezione di una
corruzione più diffusa si associa a una più alta insoddisfazione nel
funzionamento della democrazia (r=-0,69) e a una maggiore diffusione
dell’economia sommersa (r=- 0,65). Si vedano le figure 29 e 30. Questi
risultati sono compatibili con l’impianto teorico fin qui utilizzato. I
"grappoli" di paesi europei, infatti, si formano in maniera
tendenzialmente stabile in base alle diverse variabili considerate. La
relativa omogeneità dei valori che legano tra loro i paesi appartenenti
ai vari gruppi (là dove, ad esempio, Italia e Grecia occupano
sistematicamente le posizioni di coda) dipende essenzialmente dalla
variabile indipendente cui esse sono associate, ossia il grado
d’efficienza dei rispettivi ordinamenti istituzionali nel ridurre i
costi delle transazioni politiche ed economiche. Sembra così trovare
conferma la tesi di fondo dell’approccio neo-istituzionalista, ossia
l’idea che le istituzioni contano.
5. Osservazioni conclusive
In questo contributo abbiamo passato
in rassegna alcune caratteristiche del sistema politico-istituzionale
italiano e degli incentivi all’acquisizione di conoscenze che esso
incorpora. Abbiamo trovato una chiara correlazione tra l’irrazionalità
della struttura di vincoli legislativi e amministrativi e la relativa
debolezza dei processi di liberalizzazione, gli alti costi di transazione
nei mercati politici ed economici, i tempi lunghi di godimento dei diritti
di proprietà, la sfiducia nei confronti dello stato, la percezione di una
diffusa corruzione. I diversi indicatori che abbiamo utilizzato disegnano
un quadro in cui diversi fattori di inefficienza istituzionale si
intrecciano tra loro e si rafforzano a vicenda, a formare le molteplici
sfaccettature di un "equilibrio istituzionale" che ha mostrato,
nel corso degli ultimi decenni, notevoli capacità di resistenza e di
adattamento alle sfide interne ed esterne. Entro un siffatto ambiente
istituzionale, infatti, gli imprenditori alla guida delle più importanti
organizzazioni politiche ed economiche trovano incentivi ad investire
nell’acquisizione di informazioni e competenze che consentono loro di
occupare posizioni privilegiate nell’allocazione di rendite informative
e decisionali legate all’azione pubblica. In questo senso, le ripetute
difficoltà di operare riforme significative della struttura di
"regole del gioco", nonostante l’insoddisfazione diffusa sulle
loro modalità di funzionamento, appaiono conseguenza dell’interesse
concordante delle principali organizzazioni a capitalizzare vantaggi e
guadagni differenziali, opponendosi al loro cambiamento. Di qui la
tradizionale "rigidità" del quadro istituzionale italiano,
anche a fronte di un’intensa produzione di norme legislative e di
attività regolative che, in realtà, sono la mutevole e inflazionata
espressione degli accordi e degli scambi di volta in volta conclusi nei
mercati politici ed economici. Date queste premesse, abbiamo analizzato i
contenuti dei primi tentativi organici di trasformare il ruolo dello
stato, avviati negli ultimi anni, che trovano espressione in una serie di
politiche e di riforme amministrative, istituzionali, economiche. Per la
prima volta nel dopoguerra, lo sforzo riformatore non mira a migliorare il
rendimento del sistema esistente, ma piuttosto di ridurre stabilmente
attriti e incertezze derivanti dall’interazione tra stato, imprese e
cittadini. Come si é mostrato, queste politiche di semplificazione e
liberalizzazione del quadro istituzionale hanno prodotto risultati
significativi in alcuni settori (ad esempio, nella riduzione di taluni
oneri amministrativi), anche se la loro attuazione rimane limitata e
frammentaria in altri. In diversi casi esse incontrano forti resistenze,
talora suscitando aspettative ben presto deluse di fronte alle perduranti
rigidità e inefficienze del sistema. In effetti, l’inevitabile
gradualità del cambiamento istituzionale riflette il peso dell’eredità
del passato, che include anche i modelli di condotta e le regole informali
prevalenti nella società, e in particolare quelle che orientano le
decisioni degli amministratori pubblici (17). Soltanto in un orizzonte
temporale più ampio sarà possibile valutare se i tentativi di spezzare
l’equilibrio preesistente, caratterizzato da inflazione e complessità
normativa, inefficienza della macchina amministrativa, sfiducia
istituzionale e interpersonale, corruzione, economia sommersa, hanno avuto
successo o meno, e se la nuova configurazione istituzionale si rivelerà
più efficiente in senso adattivo, cioè capace di risolvere più
tempestivamente i nuovi problemi e di ridurre stabilmente i costi di
trasformazione e di transazione (18). Il rischio, ovviamente, é che le
conseguenze non intenzionali delle decisioni politiche riformatrici ne
vanifichino o addirittura ne rovescino gli effetti attesi (19). Come si é
visto, gli indicatori utilizzati forniscono segnali discordanti della
rapidità e della direzione effettiva del cambiamento istituzionale, oltre
che degli effetti che esso produce sugli incentivi alle scelte
individuali. Ad esempio, tra il 2000 e il 2001 cresce apprezzabilmente la
fiducia nel funzionamento della democrazia e si riduce la percezione della
corruzione, ma nel contempo si espande la quota di economia sommersa e
trova alimento la disillusione sugli effetti delle riforme amministrative.
L’"energia" dell’impulso riformatore, che si é fin qui
tradotta nella modifica di alcuni rilevanti vincoli legislativi e
costituzionali, ha prodotto effetti soltanto parziali e talora
contraddittori, né si é ancora stabilizzato un diverso quadro di
"regole del gioco" e di aspettative compatibili con la loro
verificabile efficienza. La transizione istituzionale, in altri termini,
é ancora in corso, e il nuovo approdo non appare vicino né certo.
Note
1 A cura della Heritage Foundation e
del The Wall Street Journal (O’Driscoll, Holmes, e Kirkpatrick, 2000a e
2000b).
2 A cura del Fraser Institute (Gwartney
e Lawson, 2001).
3 A cura del Centro di
Documentazione "Einaudi" e del Corriere della Sera (Ronca e
Guggiola, 2001).
4 I "diritti di proprietà"
rilevanti nel determinare costi e benefici attesi dalle transazioni non
sono quelli legali, ma quelli economici, che si riferiscono alla capacità
di godere e disporre in via esclusiva di certi beni scarsi, siano essi
materiali o immateriali, vincolando altri individui a norme di
comportamento che prevedono sanzioni in caso d’inosservanza. ( Furebotn
e Pejovich, 1974, p.3). Tali diritti sono ovviamente influenzati
dall’ordinamento giuridico, ma non coincidono con esso, dipendendo anche
dagli sforzi di auto-pretezione, dai tentativi di cattura di altri
individui, dall’efficienza della protezione statale (Barzel 1989, p.2).
5 In una prospettiva
neo-istituzionalista, il costo di transazione é una categoria ampia che
comprende tutti i costi derivanti dall’interazione umana nel corso del
tempo (North, 1997, p. 149). Costi di transazione e diritti di proprietà
sono due facce della stessa medaglia: i costi di transazione discendono
dall’instaurazione e dal mantenimento (oltre che dal trasferimento) di
diritti di proprietà, che a loro volta consistono nella capacità di
esercitare liberamente scelte che hanno per oggetto risorse scarse (Eggertsson,
1990).
6 Ad esempio, diritti di proprietà
definiti con precisione e salvaguardati efficacemente attenuano i costi di
transazione, spingendo a cercare impieghi che massimizzano il valore delle
risorse controllate (Pejovich 1990). Viceversa, diritti malcerti,
garantiti in modo insoddisfacente o in parte lasciati nella sfera pubblica
sono un freno ad investire in conoscenze che accrescono la produttività,
data l’incertezza sull’identità dei loro beneficiari finali, e
l’interesse a sfruttare in modo eccessivo le risorse comuni.
7 Gli stessi partiti politici
possono essere interpretati come strutture di governo riducono i costi di
transazioni politiche, trasformandoógrazie a risorse come la fiducia, la
reputazione, o sanzioni politiche di vario tipoópromesse e aspettative
incerte in accordi (relativamente) vincolanti, e dunque rendendo
reciprocamente trasferibili i precari diritti di proprietà su risorse
politiche (Vannucci, 2000).
8 Regole semplici e prive di
ambiguità interpretative hanno una funziona analoga ai segnali di prezzo
in un mercato concorrenziale. Se invece il contesto di scelta si fa più
complesso e gli effetti di retroazione delle informazioni meno efficaci,
occorre tener conto della limitatezza e della divergenza degli schemi
cognitivi di interpretazione dei dati (Denzau e North, 1994).
9 Cfr Di Palma (1978, p. 110)
sull’inflazione delle cos"dette "leggine". Secondo De
Micheli (2001) nelle ultime tre legislature il livello medio
d’importanza delle leggi é meno "scadente" rispetto al
passato.
10 Le politiche distributive sono
caratterizzate da un’asimmetria tra l’assegnazione di benefici,
concentrati su pochi, e la distribuzione si larga scala dei costi. Esse
sono prodotte soprattutto nelle assemblee legislative, specie nelle sue
sedi riparate come le commissioni parlamentari (Lowi, 1964).
11 L’inflazione normativa
colpisce, oltre all’ordinamento statale, anche quello regionale, entro
il quale per oltre 30 anni si sono stratificate disposizioni scarsamente
integrate e coordinate (Osservatorio per la legislazione, 2000, II, p. 1).
12 Si veda Fabbrini (2000) per
un’analisi dei mutevoli rapporti di forza tra governo, capo
dell’esecutivo, Presidente della repubblica e Parlamento durante la fase
di transizione successiva all’approvazione del nuovo sistema elettorale
e alla crisi del sistema dei partiti.
13 E’ interessante osservare come,
nelle aspettative sull’utilizzo di strumenti informatici da parte
dell’amministrazione pubblica, la "domanda di tempo" dei
cittadini sia più forte della "domanda di democrazia". Infatti,
tra i servizi che i cittadini ritengono lo stato debba offrire tramite
Internet, i più richiesti sono gli strumenti per svolgere a distanza
pratiche amministrative (45,4% degli intervistati) e pagamenti (44,3%), o
per avere informazioni sulle procedure (41,6%), mentre più distanziate
sono le richieste di spazi per esprimere giudizi o proposte (35,7%) o per
partecipare alle scelte degli amministratori (32,3%) (Censis, 2000).
14 Nel periodo 1996-98, ad esempio,
"oltre un terzo degli appalti presenta problemi e carenze che
richiedono interventi in deroga delle iniziali previsioni contrattuali e
quindi uno slittamento dei tempi e un lievitare dei costi" (AVLP, p.
71).
15 Il capitale sociale é definito
da Putnam (1993) come un insieme di associazioni orizzontali tra
individui, o in altri termini un reticolo di relazioni sociali
caratterizzate da fiducia, impegno civico e vincoli di natura cooperativa,
che accresce la produttività della comunità in cui é presente. Coleman
(1990) comprende nel capitale sociale tutti quegli aspetti della struttura
sociale (incluse le associazioni verticali e gerarchiche) che favoriscono
certi tipi di azione. In entrambi i casi, il capitale sociale é
strettamente associato ai costi di transazione: la presenza di capitale
sociale é una condizione essenziale affinché gli individui riescano a
costruire assetti istituzionali e organizzativi che permettono di cogliere
i vantaggi della divisione del lavoro e dello scambio. Come mostra Diani
(2000), in Italia la partecipazione associativa e il capitale sociale che
ne scaturisce hanno un impatto significativo sui livelli (pure
relativamente bassi) di fiducia istituzionale.
16 Una significativa correlazione
tra tutti gli indici della libertà economica e l’indice di percezione
della corruzione é stata mostrata da Chafuen e Guzman (2000, p. 59):
"più alto é il livello di libertà economica, minore la probabilità
di incontrare pratiche corrotte nel governo".
17 L’esigenza di rafforzare nuovi
modelli "culturali" di condotta amministrativa, conformi allo
spirito delle modifiche dei vincoli formali, é sottolineata anche nel
rapporto dell’Ocse sugli sviluppi del management pubblico, nel quale
sono tratteggiati i valori cui tali modelli dovrebbero ispirarsi:
l’innovazione tecnologica e organizzativa, la semplificazione e la
riduzione del carico amministrativo, la qualità dei servizi,
l’attenzione alla soddisfazione dei cittadini-utenti, l’incentivazione
della professionalità e del merito (Oecd, 2000, p.2).
18 Come osserva Di Palma, una delle
caratteristiche del cambiamento istituzionale é la discontinuità, legata
alla naturale tendenza delle istituzioni e delle politiche a conservarsi
nel tempo: "Una volta istituzionalizzate, un’organizzazione o
un’area di politiche pubbliche si fanno fiduciarie di un formidabile
investimento in termini di informazione, di dati, di regole di decisione,
di procedure transattive e di scambio con clientele, con altre
istituzioni, o con altre aree di politica pubblica. Tutto ciò riduce le
incertezze di comportamento e di calcolo; mentre i cambiamenti
istituzionali o di politica (...) richiedono nuovi costi per ristabilire
certezza su nuove basi" (Di Palma, 2000, p. 15).
19 Si prenda, ad esempio, la recente
riforma costituzionale che assegna maggiori poteri agli enti locali. Come
rileva l’ultimo rapporto dell’Agenzia garante della concorrenza,
"con l’accentuarsi del decentramento non pochi, tuttavia, sono i
casi in cui i vincoli e le limitazioni eliminati a livello centrale
vengono reintrodotti a livello regionale e locale", come ad esempio
nel caso della liberalizzazione della distribuzione commerciale, molto
spesso disattesa o bloccata a livello regionale (AGCM, 2000, p. 27).
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