Amministrazione e gestione del territorio
Adolfo Mario Balestreri
Docente di Diritto Urbanistico - Politecnico di Milano
Sergio Mattia
Ordinario di Estimo - Politecnico di Milano
1. Premessa
1.1 Origini della legislazione urbanistica
L’origine storica della legislazione urbanistica in
senso stretto sorge, in ritardo rispetto agli altri Paesi europei ma in
anticipo rispetto all’avvio del processo di industrializzazione post
bellico, nel pieno della seconda guerra mondiale con la legge urbanistica
fondamentale 17 agosto 1942, n. 1150. Trattasi di una legge che,
nonostante storicamente databile nel contesto dell’era fascista, appare
tuttavia poco caratterizzata dall’ideologia del "regime" e
semmai contrassegnata dalle posizioni culturali del "salotto
Bottai", influenzate dalle più importanti esperienze europee di
"governo forte" del territorio da parte dei pubblici poteri
(particolare importanza aveva assunto in proposito l’esperienza olandese
del piano regolatore di Amsterdam, di cui era stato ideatore Cornelius Van
Esteren). Per la prima volta alle tradizionali operazioni di allineamento
e di localizzazione di opere pubbliche (che vedevano la mano pubblica come
attore diretto nelle procedure connesse alle espropriazioni per p.u. (1) e
alla successiva realizzazione dell’opera) si affiancava l’innovativo
intervento di zonizzazione. E cioè l’introduzione di una tipologia di
prescrizioni, da parte degli strumenti urbanistici, che di fatto
trasferivano in larga parte dalla sfera della proprietà privata alla
sfera dei pubblici poteri l’an, il quomodo, il quantum e, per certi
versi, addirittura il quando dell’esercizio della facoltà di edificare,
storicamente riconducibile alla nozione giuridica del diritto di proprietà.
Con la legge urbanistica del 1942 si verifica, dunque, una consistente
ablazione dei poteri dei privati proprietari, nonostante il mantenimento
del regime di proprietà privata per la generalità dei beni immobili, non
soggetti a procedure di carattere espropriativo dei suoli. E’appena il
caso di segnalare, da una parte, che la legge urbanistica del 1942 si
ricollegava alla struttura costituzionale e amministrativa di uno Stato
fortemente unitario, ove l’attività giuridica degli enti locali era
oggetto di penetranti poteri di controllo da parte dell’amministrazione
stratale nelle sue varie articolazioni centrale e periferica; dall’altra
parte, che la disciplina urbanistica della proprietà privata andava a
creare un sistema normativo parallelo rispetto ai corpi normativi in tema
di lavori pubblici, di espropriazione per pubblica utilità, nonché ai
sistemi c.d. di tutela parallela per categorie di beni che - per usare le
parole di una nota sentenza della Corte Costituzionale - costituivano beni
"ontologicamente diversi" rispetto a quelli ordinari (beni
culturali e ambientali, caratterizzati da una particolare disciplina (2),
ispirata al godimento estetico dei beni in questione sull’onda del
dominante pensiero crociano).
1.2 Dettato costituzionale e forme attuative (con
particolare riferimento all’evoluzione della facoltà di edificare)
La Costituzione repubblicana del 1948 si interfaccia
con la gestione del territorio sotto numerosi e svariati profili.
Anzitutto, per quel che concerne il nuovo regime della proprietà privata,
di cui all’art. 42 Cost., che ne costituzionalizza sia la funzione
sociale, sia il dualismo di appartenenza pubblico-privata, sia la
espropriabilità per motivi di "interesse generale" salvo
indennizzo. Il tutto, sulla base di un compromesso istituzionale fra le
tre correnti di pensiero politico (liberale, cattolico-democratico e
socialista) rappresentate in seno all’Assemblea Costituente, analogo al
compromesso alla base del testo del precedente art. 41 in tema di
iniziativa economica privata. Non é certamente questa la sede per una
completa esegesi della predetta norma costituzionale, ma val la pena
comunque di segnalare che con l’art. 42 Cost. (a maggior ragione se
letto in maniera combinata con l’art. 41) s’afferma definitivamente il
nuovo modello di proprietà c.d. "a funzione sociale", rispetto
al precedente modello c.d. "a funzione individuale". Si rafforza
così un sempre maggior intervento dei pubblici poteri nella gestione del
territorio che, conformemente al nostro modello di "regime ad atto
amministrativo (3)", ha comportato l’estrinsecazione dei relativi
processi decisionali con la forma del provvedimento amministrativo. E cioè
con uno strumento caratterizzato dal postulato tipico della imperatività
(vale a dire la capacità di modificare unilateralmente le posizioni
giuridiche dei soggetti destinatari), alternativo rispetto alla
consensualità che caratterizza i rapporti giuridici fra i soggetti
privati. E ciò, con l’ulteriore importante affermazione, all’art. 9,
della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della
Nazione, collocati tra i principi fondamentali. La Costituzione
repubblicana si caratterizza inoltre per un forte riconoscimento delle
autonomie locali che, nella materia in esame, conduce ad inserire
l’urbanistica fra le materie affidate alla competenza legislativa ed
amministrativa delle Regioni, ai sensi degli artt. 117 e 118 Cost. Su tali
premesse normative, con i primi due trasferimenti dallo Stato alle Regioni
(4) si attua un profondo e radicale spostamento delle competenze nella
materia della gestione del territorio, soprattutto con riferimento alla
pianificazione fisica. S’é così verificata una situazione paradossale,
che ha visto il legislatore statale, da un lato, abdicare al potere-dovere
di predisporre una "legge cornice" rispettosa del ruolo e della
funzione assegnata a tale istituto dalla Costituzione e, dall’altro
lato, intervenire in modo episodico e, talvolta, troppo puntuale, con
singoli interventi normativi che - a partire dall’attuazione
dell’ordinamento regionale degli anni Settanta - raramente hanno avuto
ad oggetto la materia urbanistica in senso stretto, ma più sovente hanno
riguardato la disciplina dell’attività edilizia (intesa come doppio
controllo, preventivo e successivo, sulla esecuzione materiale degli
interventi), la espropriazione per p.u., la tutela speciale dei beni
ambientali, con forti ripercussioni ed interferenze - peraltro- anche
sulla pianificazione urbanistica vera e propria. Il risultato di queste
sovrapposizioni é la costituzione di un vero e proprio patchwork
normativo, che vede norme appartenenti a diversi corpi legislativi e,
soprattutto, appartenenti alle diverse fonti normative statali e
regionali. Emblematico, a questo proposito, é quel che s’é verificato
in tema di denuncia di inizio attività (D.I.A.) ove, accanto al regime di
fonte statale delineato dall’art. 4, comma 7 della legge 4 dicembre
1993, n. 493 - (modificato dall’art. 2, comma 60, della legge 23
dicembre 1996, n. 662), cui é destinato a subentrare l’art. 22 del
nuovo T.U. in materia edilizia - sono intervenute le legislazioni di
alcune regioni (in particolare, la legge regionale della Lombardia 19
novembre 1999, n 22, il cui art. 4 aveva previsto una generale estensione
dell’istituto della D.I.A. a tutti gli interventi edilizi conformi alla
vigente strumentazione urbanistica comunale) per ampliare la portata
applicativa dell’istituto, per poi vedersi, di fatto, svuotato tale
intervento normativo alla luce della presa di posizione assunta dalla
Cassazione penale (5), la quale ne ha ristretto l’ambito di applicazione
ai soli interventi di minor rilievo già previsti dalla normativa di fonte
statale (6). Certo é che il nuovo T.U. in materia edilizia, all’art.
22, ha previsto un’applicazione non altrettanto coraggiosa quanto quella
prevista dalle predette legislazioni nazionali, ma quanto meno di maggior
respiro rispetto alla precedente legislazione di fonte statale (7).
L’applicazione della D.I.A., ai fini del presente rapporto, rileva
altresì quale elemento sintomatico della c.d. Baufreiheit, nozione
generale elaborata dalla dottrina tedesca, in applicazione del relativo
sistema costituzionale, tendente ad affermare una generale libertà di
costruire entro i limiti dettati nell’interesse generale, e pertanto a
distinguere nettamente gli abusi edilizi sostanziali (per i quali vengono
previste forti sanzioni penali con efficacia deterrente, oltre a sanzioni
amministrative di carattere ripristinatorio) rispetto ad abusi meramente
formali (per i quali vengono previste invece sanzioni pecuniarie di lieve
entità e rivolte, quindi, a colpire la difficoltà arrecata
all’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione) (8). Ne
deriva pertanto che, in un contesto di tal fatta, l’apprezzamento del
grado di liberalismo deve necessariamente tener conto della situazione
sopradescritta, e quindi, valutare in alcuni settori il ruolo assunto
dalle legislazioni regionali. Un ulteriore elemento di sempre maggiore
integrazione del sistema delle fonti normative é rappresentato dal
diritto comunitario, destinato a prevalere su eventuali norme nazionali
con esso incompatibili. E’ ben vero che la stretta materia urbanistica
non rientra fra i settori di intervento diretto del legislatore
comunitario, ma altrettanto vero é che una forte interferenza può
derivare dalla normazione delle richiamate materie "confinanti",
a partire dall’applicazione dei regimi comunitari degli appalti pubblici
di lavori e/o servizi, nonché dal sistema di tutela ambientale (con
particolare riferimento alla valutazione degli impatti ambientali).
2. Obiettivi del Rapporto
In questo quadro di riferimento, si procederà ad una
puntuale verifica, valutandone le tendenze di cambiamento, del grado di
soddisfacimento dei seguenti obiettivi, anche in rapporto ad alcune
significative esperienze normative di Paesi UE (Francia, Italia, Germania,
Regno Unito):
a) efficienza ed efficacia delle potestà pubbliche
rispetto agli obbiettivi di miglioramento delle condizioni economiche e di
qualità della vita;
b) efficienza ed efficacia delle politiche finalizzate
ad un assetto armonico del territorio,in rapporto alle interconnessioni
con le specifiche forme di intervento dei pubblici poteri nella materia
ambientale;
c) efficienza ed efficacia della dotazione di
infrastrutture di interesse collettivo e verifica dei sistemi di loro
costruzione e gestione, in relazione alla sussistenza di monopoli pubblici
delle infrastrutture, nonché ai rapporti intercorrenti con la normativa
sui lavori pubblici ed ai conseguenti obblighi di trasparenza e parità di
trattamento;
d) tutela della Baufreuheit (libertà di costruire
entro i limiti dettati nell’interesse generale): da un lato,
considerando il grado di efficienza e di efficacia ovvero di vessatorietà
dei procedimenti amministrativi e, dall’altro lato, valutando la
congruità delle sanzioni a fronte di abusi edilizi anche meramente
formali;
e) tutela dell’affidamento dei proprietari alla
conservazione del bene e delle sue possibilità edificatorie sia rispetto
al mutamento della disciplina urbanistica che nel caso di espropriazione
per pubblica utilità. In particolare, saranno presi in considerazione i
limiti posti alla discrezionalità delle amministrazioni competenti, nonché
il grado di indennizzabilità a fronte di provvedimenti comportanti
l’ablazione del bene o una sua significativa perdita di valore;
f) tutela della perequazione dei diversi proprietari
rispetto alle scelte della pianificazione urbanistica. Si tratta di
verificare la garanzia di una eguaglianza fra le diverse proprietà
rispetto agli effetti conseguenti alla definizione delle politiche di
gestione e trasformazione del territorio, nonché di evidenziare le
implicazioni della commercializzazione di diritti edificatori astratti
rispetto al bene reale di provenienza;
g) tutela della possibilità dei proprietari di
accedere a forme di partnerariato con gli enti pubblici nella attuazione
di programmi comportanti la valorizzazione dei suoli;
h) verifica degli strumenti di partecipazione alle
scelte dei decisori nelle politiche territoriali;
i) verifica del grado di giustiziabilità delle
posizioni soggettive dei proprietari e degli altri soggetti coinvolti a
fronte di atti e/o comportamenti illegittimamente assunti dai pubblici
poteri. Tali temi saranno trattati in una prospettiva più sincronica che
diacronica, attraverso un’impostazione per "problemi".
3. Obiettivi delle politiche in atto
3.1. Sviluppo sostenibile e forme di partnerariato
pubblico/privato
Nel quadro su esposto, la prima verifica attiene
all’efficienza ed efficacia delle potestà pubbliche, sotto il duplice
profilo, da una parte, del miglioramento delle condizioni economiche e di
qualità della vita e, dall’altra parte, dell’assetto armonico del
territorio. Si tratta, cioè, di stabilire se vi siano punti di conflitto
tra l’attuale ordinamento e le esigenze di comporre nella maniera più
soddisfacente l’insieme degli interessi pubblici costituzionalmente
tutelati e potenzialmente configgenti tra loro (9). In linea generale di
principio, il nostro sistema normativo può ritenersi idoneo laddove si
tratti di agire "in negativo" per contenere fenomeni di
disordinata espansione urbana, pregiudizievoli per l’ambiente. Basilari
a questo proposito sono, da un lato, sotto il profilo procedimentale,
l’attuale modello pianificatorio "a cascata" che - anche
attraverso partecipazioni incrociate dei diversi enti territoriali ai
procedimenti amministrativi (10) - subordina l’effettivo esercizio della
facoltà di "trasformare" il territorio ad una penetrante serie
di verifiche in sede amministrativa, dall’altro lato, il mantenimento
del sistema degli standards urbanistici, previsti a livello statale e
spesso resi più severi in sede regionale, costituenti un limite esterno
alla discrezionalità amministrativa operante - almeno in linea astratta
di principio e salva la necessità di alcuni interventi correttivi - a
salvaguardia delle condizioni minime di qualità ambientale e dotazione di
infrastrutture e servizi pubblici. Viceversa, l’impostazione basilare
del nostro sistema urbanistico non raggiunge gli obiettivi di efficienza e
di efficacia dell’azione amministrativa, laddove quest’ultima é
chiamata a rispondere "in positivo" alla richiesta di realizzare
operazioni di trasformazione urbana condivise dalle comunità territoriali
locali (11). Tale inidoneità del tradizionale sistema di pianificazione a
cascata (12) ha trovato e trova alcuni parziali rimedi in alcuni strumenti
che tendono a superare il modello "autoritativo" dell’atto
amministrativo in luogo di forme di consensualità e di partnerariato
pubblico/privato. Si tratta in particolare delle seguenti due nuove
tipologie di istituti amministrativi:
a) i modelli di "programmazione negoziata", a
cominciare dall’Accordo di programma, ora normato dall’art. 34 del
d.lgvo 18 agosto 200, n. 267 (T.U. sull’ordinamento degli enti locali),
concepito come una sorta di compromesso tra l’atto amministrativo e il
contratto, destinato ad unificare i diversi assensi occorrenti per la
realizzazione di opere, programmi e/o interventi, i quali normalmente
richiedono ingenti oneri finanziari e coinvolgono le attribuzioni di una
pluralità di soggetti sia pubblici che privati, anche al fine di
determinare le occorrenti variazioni degli strumenti urbanistici e
sostituendo, sotto il profilo procedurale, le concessioni edilizie. Per
giungere alle nuove figure di negoziazione, introdotte dall’art. 2,
comma 203 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ove testualmente viene
prevista la partecipazione di soggetti privati alla stipulazione degli
Accordi;
b) la previsione - astrattamente consentita dall’art.
25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e concretamente disciplinata dalle
singole normative regionali - di consentire la sottoscrizione di strumenti
urbanistici attuativi di natura convenzionata, anche in variante rispetto
al sovraordinato Piano regolatore generale, eventualmente nel contesto di
documenti di inquadramento unilateralmente predisposti ex ante dalle
amministrazioni comunali (13).
In entrambi i casi si verifica il positivo effetto di
consentire una trasparente contrattazione fra la mano pubblica e la
proprietà privata, con tutte le conseguenti positive implicazioni in
ordine alla visibilità e controllabilità del processo decisionale che
conduce a definire adeguate contropartite per l’interesse pubblico (in
termini di cessione di infrastrutture, di riqualificazione ambientale, etc.)
a fronte del riconoscimento di un "plusvalore", implicito
nell’attribuzione di una più appetibile destinazione urbanistica ad
aree di proprietà privata. Per quanto tali tipologie amministrative
perseguano anche obiettivi di celerità amministrativa, debbono tuttavia
ritenersi ancora carenti per quel che concerne l’effettività di una
rapida conclusione dell’iter ad essi propedeutico (spesso in ritardo
rispetto al termine ordinatorio previsto dalle disposizioni applicabili).
Il che può ritenersi ascrivibile, da un parte, ad una situazione di
inefficienza degli apparati amministrativi, soprattutto laddove si renda
necessario un raccordo tra amministrazioni diverse e, dall’altra parte,
ad un clima culturale e sociale spesso "sospettoso" verso ogni
iniziativa comportante una trasformazione del territorio. Tale clima
trova, peraltro, un facile terreno di coltura (in parte comprensibile) per
l’assenza di regole certe, che consentano di ricostruire la correttezza
dell’equilibrio economico-finanziario dell’intervento proposto e
cos"di assicurare in modo effettivo quella trasparenza in grado di
rendere attuale e concreta la conclamata funzionalizzazione
all’interesse pubblico degli strumenti convenzionali sottoscritti fra
enti pubblici e soggetti privati (14). Il tutto, nel contesto di una
auspicata sempre maggiore estensione all’urbanistica del sistema del
project financing e, comunque, di altri meccanismi di finanza strutturata
recepiti dalla prassi bancaria internazionale. E’ appena il caso di
accennare alla particolare sensibilità dimostrata da alcune legislazioni
regionali, tendenti, nel caso di ricorso alla formula dell’accordo di
programma, ad assicurare in ogni caso - attraverso i meccanismi di
osservazioni e/o opposizioni - il rispetto delle forme di partecipazione
previste in via generale dalla normativa urbanistica in favore non
soltanto dei soggetti privati direttamente interessati ma altresì degli
altri soggetti comunque portatori di interessi (collettivi o personali)
meritevoli di tutela. Sotto quest’ultimo profilo, merita attenzione il
rafforzamento della tutela della partecipazione al procedimento dei
soggetti interessati operato dal T.U. in materia di espropriazione per
p.u., con riferimento alla fase procedimentale connessa all’apposizione
dei vincoli preordinati all’esproprio (15). Ancora un cenno merita
l’affermazione - di per sé coerente con i postulati di un ordinamento
liberale - dell’esigenza di una semplificazione ed accelerazione dei
procedimenti amministrativi propedeutici alla localizzazione di opere
pubbliche, soprattutto laddove tali opere assumono una portata strategica
rispetto all’infrastrutturazione del Paese. In tal senso si muove il
contenuto del precitato disegno di legge n. 1516, presentato
nell’attuale legislatura e contenente delega al Governo in materia di
infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici. Non é questa la
sede per commentare un testo di legge delega, per di più ancora soggetto
alla navette parlamentare. Ci limitiamo a segnalare un caveat in relazione
ai contenuti dei futuri decreti delegati, nella parte in cui si tratterà
di coniugare il miglioramento degli standards di efficienza ed efficacia
dell’attività amministrativa nella realizzazione delle opere pubbliche
e di pubblico interesse, con il rispetto di alcune imprescindibili
esigenze di partecipazione dei diversi attori pubblici e privati nei
procedimenti localizzatori, anche con riferimento ai momenti di
valutazione degli impatti ambientali.
3.2. Interessi fondiari e modello perequativo
Le considerazioni su esposte si riflettono anche nella
valutazione della trasparenza a livello generale dei processi di
pianificazione urbanistica, con particolare riferimento al raggiungimento
di una condizione di perequazione/indifferenza tra le posizioni dei
diversi proprietari. A questo proposito, non può sfuggire la gravissima
situazione di allontanamento dell’attuale sistema urbanistico rispetto
al perseguimento dei principi di eguaglianza e di parità di trattamento,
con riferimento ai quali v’é una indiscutibile assonanza fra il nostro
ordinamento costituzionale (segnatamente l’art. 3 Cost.) e le norme
primarie dell’ordinamento comunitario canonizzate nei Trattati e
destinate ad assumere una portata sempre più assimilabile ad una sorta di
embrione di una futura Carta Costituzionale europea. Tali principi,
infatti, collidono col troppo ampio spettro di discrezionalità
amministrativa, che tuttora caratterizza l’esercizio della potestà
pianificatoria, anche per l’eccessivo self restraint seguito, per molto
tempo, dalla nostra giurisprudenza amministrativa nella valutazione delle
scelte pianificatorie operate dalle Amministrazioni. Con la conseguenza di
un eccessivo "range" fra i contenuti delle diverse
"figure" pianificatorie ed i modelli astrattamente previsti dal
legislatore, a nostro avviso configgente col generale principio di legalità
dell’azione amministrativa, oltretutto nella specie rafforzato dalla
riserva di legge canonizzata nel citato art. 42 Cost. In altre parole, se
é vero che - come s’accennava - la gestione del territorio sfugge ad
una specifica normativa comunitaria secondaria, non é men vero che nel
contesto del rapporto di circolarità tra diritto comunitario e
ordinamento degli Stati membri pare sempre più difficile poter continuare
a sostenere che il segmento "a monte" (corrispondente alla
scelta fra diverse iniziative imprenditoriali di trasformazione urbana)
possa permanere del tutto esente da ogni e qualsivoglia obbligo di
concorsualità, pur adattato alla "specificità" della materia
urbanistica. Resta, cioè, da domandarsi se, nonostante la mancanza
nell’ordinamento comunitario di una tutela espressa del diritto di
proprietà (tutela comunque accordata nel nostro sistema costituzionale)
possa comunque ammettersi a carico di proprietari-imprenditori operanti
nel medesimo settore economico un’alterazione della tensione
concorrenziale così grave come quella che può verificarsi a fronte di
una irragionevole ed arbitraria concentrazione, in un contesto
territoriale omogeneo, della facoltà edificatoria in capo ad un soggetto
e a detrimento dell’altro. Non si tratta di rimettere in discussione i
postulati-chiave del governo pubblico del territorio, riconducibili alla
riferita nozione costituzionale della "funzione sociale" della
proprietà canonizzata nel citato art. 42 Cost. Si tratta, piuttosto, di
auspicare l’introduzione di modelli tesi all’affermazione del
principio dell’indifferenza delle prescrizioni urbanistiche (di
zonizzazione e/o di localizzazione di opere pubbliche), interessanti i
diversi compendi immobiliari di proprietà privata. E, cioè, di favorire
forme di adeguata compensazione tra tutti i proprietari interessati al
processo di trasformazione urbana. Questo é sicuramente - unitamente al
cronico dilatarsi dei tempi di definizione dei procedimenti amministrativi
- il maggior profilo di criticità del sistema italiano rispetto ad un
modello liberale di gestione del territorio. Basti, sotto il profilo
comparativo, richiamare l’attenzione di altri Paesi europei che, seppur
nel contesto di diverse opzioni politiche, sono sicuramente riusciti a
garantire in modo più satisfattivo il principio di eguaglianza
connaturato a qualsiasi modello di Stato liberale. Ci riferiamo, in
particolare:
a) al sistema francese, caratterizzato da meccanismi di
perequazione economica tra proprietari beneficiari del diritto di
edificare e proprietari, comunque gravati a qualsiasi titolo da vincoli di
inedificabilità;
b) al modello britannico, che - nel privilegiare le
ragioni dell’impresa rispetto a quelle della proprietà fondiaria - ha
previsto un esproprio generalizzato per tutte le aree edificabili (e non,
come invece malauguratamente avviene in Italia, per le sole aree che hanno
la sventura di essere ricomprese nel perimetro di particolari strumenti
urbanistici attuativi, quali i P.E.E.P. e i P.I.P.);
c) alle raffinate tecniche di tutela dell’affidamento
e di proporzionalità fra sacrificio imposto e vantaggio comunitario
perseguito, accordate sia nel sistema tedesco sia nel sistema
statunitense, a proposito della determinazione dell’indennità di
esproprio ovvero in sede di verifica della razionalità/illegittimità di
previsioni urbanistiche sfavorevoli per la proprietà privata.
Pur nel contesto di una valutazione, purtroppo,
sostanzialmente insoddisfacente, tuttavia, non possiamo non cogliere
alcuni segnali denotanti, quantomeno, una maggior manifestazione di
interesse al raggiungimento degli obiettivi di una disciplina urbanistica
rispettosa del principio di eguaglianza. Sicuramente significativi si
configurano i tentativi delle prescrizioni contenute in molti piani
urbanistici, volti a perseguire la disponibilità di tutti i proprietari
interessati al processo di trasformazione urbana ad attuare "comparti
edificatori di perequazione", caratterizzati dalla distribuzione di
un indice omogeneo indifferenziato fra i diversi proprietari: con la
conseguente possibilità di prevedere adeguate forme di reciproca
compensazione, attraverso i diversi strumenti offerti dal diritto civile
per la regolamentazione dei relativi rapporti interprivati. Sotto questo
profilo, va senz’altro segnalata una recente pronuncia del T.A.R. Emilia
Romagna (16), che ha ritenuto legittima la metodologia di un Piano
regolatore generale, comportante un trattamento paritetico per quei
soggetti che si trovano in ambiti urbani similari ed omogenei. Il tutto,
attraverso un meccanismo perequativo, incentrato sull’assegnazione di
indici di edificabilità territoriali unificati per situazioni tra loro
omogenee.
3.3. Procedimenti espropriativi e principi
costituzionali di uguaglianza
Orbene, soluzioni di tal fatta, nell’assicurare
maggior trasparenza nelle scelte pianificatorie e maggior certezza tra gli
operatori, riducono la tradizionale contrapposizione fra aree vincolate e
aree fabbricabili, cos"favorendo l’utilizzo di modelli consensuali
di "urbanistica concertata" che si avvicinano alle esperienze
straniere di vere e proprie "banche" di volumi edificabili.
Obiettivo certamente auspicabile anche per il nostro sistema normativo,
nel contesto di una nuova riforma urbanistica. Ed é appena il caso di
accennare altresì alla particolare coerenza di tali modelli urbanistici
con le tecniche bancarie di finanza strutturata cui s’é accennato.
Occorre a questo punto evidenziare l’imprescindibilità di una coerenza
tra gli obiettivi sopra esposti ed il loro recepimento nella
pianificazione urbanistica con la disciplina delle espropriazioni, che
della gestione del territorio in senso stretto costituisce la proiezione
vuoi nell’ipotesi fisiologica in cui l’esproprio di un suolo si rende
necessario per la realizzazione di un’opera pubblica, vuoi
nell’ipotesi patologica in cui l’esproprio medesimo si renda
necessario quale "sanzione" a fronte dell’inerzia della
proprietà nell’operare la trasformazione ritenuta essenziale ai fini
dell’interesse pubblico, ossia a fronte dell’incapacità/difficoltà
della proprietà (globalmente intesa) a "trasformarsi in
impresa". Tutto ciò sotto il duplice profilo rappresentato, da un
lato, dalla efficienza ed efficacia del procedimento espropriativo e,
dall’altro lato, dal rispetto di regole di equità e di parità di
trattamento nella determinazione dell’indennità di esproprio, nonché
nell’apposizione di vincoli urbanistici strumentali all’esproprio
medesimo. Ebbene, sotto entrambi i profili sopra testé richiamati, rileva
senz’altro il nuovo T.U. in materia di espropriazioni per pubblica
utilità, che ha contribuito in maniera indubbia ad una razionalizzazione
delle procedure espropriative, pur lasciando alcune lacune nella
definizione dei criteri per la determinazione dell’indennità nel caso
di esproprio delle aree edificabili. Ci riferiamo in particolare alla
mancata predeterminazione - da parte dell’art. 37 del detto T.U. - della
nozione di "possibilità legali ed effettive di edificazione",
soprattutto in relazione all’omesso chiaro recepimento dell’indirizzo
giurisprudenziale (antecedente al nuovo T.U.), che riconosceva spazio alla
edificabilità di fatto non soltanto in via suppletiva (ipotesi che può
verificarsi in carenza di strumenti urbanistici, ad esempio per effetto
della decadenza dei vincoli) ma puranco in via supplementare ed
integrativa (nell’assunto del riconoscimento di una "vocazione
edificatoria" in presenza di destinazioni di qualunque genere, purché
riconducibili alla nozione tecnica di edificazione e comportanti forme di
trasformazione non precluse all’iniziativa privata) (17). E così
analogamente il nuovo T.U. avrebbe potuto trovare maggior coraggio -
recependo, ancora una volta, spunti presenti nella giurisprudenza - nel
ribadire la scelta di computare in materia "perequativa"
l’indennità di esproprio all’interno del perimetro di uno strumento
urbanistico attuativo destinato all’esproprio generalizzato delle aree
in esso ricomprese (come avviene per i P.E.E.P. o i P.I.P.)1(8).
Sicuramente apprezzabile - ed in sintonia con il contenuto della sentenza
della Corte Costituzionale 20 maggio 1999 n. 179 - si configura la
formulazione dell’art. 39 del nuovo T.U., laddove risulta finalmente
canonizzato uno specifico rimedio di carattere giudiziale (innanzi alla
Corte d’Appello) nell’ipotesi in cui, all’atto della reiterazione di
vincoli strumentali di carattere urbanistico ed espropriativo, le
Amministrazioni comunali non abbiano proceduto a determinare un’indennità
commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto (o lo abbiano
fatto in maniera non satisfattiva). Emerge, tuttavia, un positivo pur se
graduale e talvolta ancor timido superamento della logica puramente
emergenziale che aveva purtroppo caratterizzato la legislazione in materia
espropriativa, sotto la spinta degli effetti della "contingenza
economica" che la stessa Corte Costituzionale nel recente passato
aveva richiamato a mo’ di giustificazione di "strappi"
rispetto al rigoroso rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza.
Così come - sempre sotto la spinta di interventi "correttivi"
della Corte Costituzionale - é avvenuto con l’art. 37 del nuovo T.U.,
il cui comma 2 prescrive che, ove l’accordo di cessione non sia stato
concluso per un fatto estraneo alla sfera di responsabilità
dell’espropriato (riconducibile, dunque, ad ipotesi di forza maggiore o
addirittura a fattispecie rientranti nella sfera di responsabilità
dell’autorità espropriante o del soggetto beneficiario
dell’esproprio), ovvero qualora l’offerta dell’indennità
provvisoria di cui all’art. 20 risulti inferiore agli otto decimi di
quella determinata in via definitiva ai sensi dell’art. 21 non
s’applichi la decurtazione del 40% dell’indennità di sproprio. Sicché
resta superata una grave distorsione del nostro sistema giuridico, che
talvolta costringeva i soggetti espropriati all’originaria alternativa
fra l’accettazione di una indennità manifestatamene incongrua e la
soggezione alla predetta riduzione del 40% dell’importo definitivamente
determinato: alternativa che solo l’intervento della giurisprudenza
(19), anche alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte
Costituzionale, aveva provveduto a stemperare. Nella medesima direzione
dell’art. 37 si muovono anche le disposizioni di cui all’art. 21, in
ordine al tentativo di componimento bonario mediante un collegio di tre
tecnici, pregiudiziale rispetto all’introduzione del vero e proprio
procedimento giudiziale ed ove pure l’attribuzione delle spese per la
nomina dei tecnici segue il criterio della rispondenza o meno
dell’indennità provvisoria alla determinazione dell’indennità
definitiva.
3.4. Monopoli pubblici delle infrastrutture ed obblighi
di trasparenza e parità di trattamento
Ancora un cenno meritano le sempre maggiori
interconnessioni, che - anche sotto la spinta dell’esigenza di un sempre
maggior ricorso al capitale privato per il soddisfacimento del fabbisogno
di infrastrutture - si sono verificate fra la gestione del territorio ed i
regimi di derivazione comunitaria in materia di appalti pubblici di lavori
e di servizi. Trattasi di una "liaison" assai delicata fra le
nuove formule di "urbanistica contrattata" (nella quale
l’Amministrazione - per usare le parole del T.A.R. Lombardia -
"rinuncia o attenua i connotati autoritativi ed unilaterali, per
negoziare direttamente con il privato il contenuto di atti amministrativi
che lo riguardino" (20), ed il rispetto di principi di concorrenza,
non discriminazione e parità di trattamento alla base del diritto
comunitario e, più in generale, sottesi ad ogni sistema normativo di
natura liberale. A questo proposito l’innovazione sopravvenuta é
riconducibile non già all’intervento legislativo del Legislatore
nazionale italiano, quanto all’intervento della Corte comunitaria del
Lussemburgo in sede di interpretazione ex art. 177 del Trattato C.E.E.(21).
Non resta dunque che tener conto del nuovo principio fissato nella
giurisprudenza comunitaria, destinato a vincolare il modus operandi delle
Amministrazioni comunali, attesa la ben nota prevalenza del diritto
comunitario (così come nella specie interpretato dalla Corte comunitaria)
sul diritto nazionale. Occorre, tuttavia, considerare che i paventati
effetti dirompenti della menzionata sentenza dei Giudici comunitari trova
comunque una parziale attenuazione, quanto meno sotto un duplice profilo.
In primo luogo, per avere il Giudice comunitario espressamente limitato
gli effetti della propria pronuncia alle opere il cui importo stimato
eguagli o superi la soglia di rilevanza comunitaria, delineata dall’art.
6 n.1 della Direttiva n. 93/37/CEE. Con la conseguente implicazione che,
mancando qualsivoglia richiamo ai principi generali del diritto
comunitario, almeno per quel che concerne la realizzazione delle opere di
urbanizzazione aventi un importo inferiore alla predetta "soglia
comunitaria", non si intravede alcun ostacolo alla permanenza della
piena efficacia giuridica della normativa di fonte interna sia essa
statale o regionale (22). Ne deriva pertanto che, nel segmento "a
valle" della materiale esecuzione dei lavori, i soggetti privati
(lottizzanti o attuatori di un accordo di programma) si trovano soggetti
alla sempre più crescente espansione di una vera e propria
pubblicizzazione dell’attività di diritto pubblico degli stessi
soggetti privati: quasi un’onda di ritorno rispetto all’enfatizzazione
della privatizzazione dell’attività giuridica degli enti pubblici, che
aveva invece contrassegnato la poderosa espansione del ruolo degli enti
pubblici nelle attività economiche intorno agli anni Sessanta e Settanta.
3.5. L’evoluzione della tutela giurisdizionale nei
confronti delle pubbliche amministrazioni
Assume certamente rilievo, ai fini di un apprezzamento
dell’effettività della tutela dei cittadini nei confronti delle
Amministrazioni, la ancor recente devoluzione alla giurisdizione esclusiva
del Giudice Amministrativo di tutte le controversie aventi per oggetto gli
atti, i provvedimenti e i comportamenti delle stesse Amministrazioni e dei
soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia,
devoluzione disposta dal nuovo testo degli artt. 34 e 35 del D.Lgvo n. 80
del 1998 (siccome novellati dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000,
recante disposizioni sul processo amministrativo). Con l’ulteriore
precisazione per cui, ai fini in questione, la materia urbanistica
concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio. L’attribuzione di
tale materia (intesa sotto il profilo degli "atti e
comportamenti" della pubblica Amministrazione) alla sfera della
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo consente di unire nel
medesimo giudizio la (tradizionale) cognizione della controversia sulla
legittimità degli atti amministrativi afferenti alla materia urbanistica,
da un lato, e dall’altro lato, la cognizione della lesione delle
posizioni giuridiche dedotte in atti e delle conseguenti misure
riparatorie, precedentemente devolute alla cognizione della magistratura
ordinaria. Il successivo art. 35 del D.Lgvo 31 marzo 1998 n. 80
stabilisce, a sua volta, che "il giudice amministrativo, nelle
controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli
articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, il risarcimento del danno ingiusto". Nel dare applicazione
alla citata disposizione, le Sezioni Unite della Suprema Corte di
Cassazione, con la sentenza 22 luglio 1999 n. 500 (che si può ben
definire un vero e proprio "leading case"), hanno
definitivamente superato l’interpretazione, un tempo
"pietrificata" sebbene contestata dalla migliore dottrina, che
escludeva la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di un
interesse legittimo: per affermare, viceversa, la piena risarcibilità del
danno ingiusto, con l’esclusione d’ogni rilevanza della situazione
giuridica lesa (23). A ciò aggiungasi che, fra i Tribunali amministrativi
di prima istanza, non é mancato chi s’é affrettato a riconoscere
l’applicazione di una forma di tutela risarcitoria di cui da tempo la
migliore dottrina aveva avvertito la necessità, onde rendere effettiva la
"giustiziabilità" delle posizioni giuridiche del cittadino
(24). Ed ancora, avvalendosi dei mezzi di prova previsti per il processo
civile (che l’art. 35 del citato D.Lgvo n. 80 del 1998 estende ai
giudizi rientranti nella sfera di giurisdizione esclusiva del Giudice
Amministrativo), il Tribunale Amministrativo é tenuto ad accertare la
sussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano a carico
dell’Amministrazione, secondo il criterio di cui all’art. 2043 cod.
civ25. Sicché, in buona sostanza, può ritenersi migliorato l’assetto
della tutela giurisdizionale a fronte di atti e comportamenti delle
pubbliche Amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, vuoi per
l’intervento del Legislatore (nel contesto della più vasta riforma dei
rapporti fra lo Stato e gli Enti territoriali, avviata con la c.d. leggi
Bassanini) vuoi per effetto del (da gran tempo auspicato) revirement della
giurisprudenza della Cassazione.
4. Conclusioni
Il quadro normativo delineatosi con la conclusione
della XIII legislatura reca l’introduzione di alcuni spunti di
significativo interesse per quel che concerne la cauta introduzione di
prescrizioni intese a migliorare la parità di trattamento dei cittadini
nel settore dell’amministrazione e gestione del territorio, oltre alla
previsione di strumenti più efficaci per la effettiva giustiziabilità
delle posizioni soggettive dei privati nei confronti delle amministrazioni
pubbliche. Tale miglioramento - che peraltro non può ritenersi ancora
pienamente satisfattivo - é risultato oltremodo implementato da alcuni
importanti interventi innovativi della giurisprudenza della Corte
Costituzionale, nonché delle altre giurisdizioni ordinaria e
amministrativa. Significativo rilievo ha assunto anche l’intervento
della Giustizia comunitaria, intesa ad affermare in modo quanto mai forte
- ancorché limitato al mondo dell’impresa e dei prestatori di servizi -
il principio comunitario della non discriminazione, oggetto di specifica
attuazione nei regimi comunitari degli appalti pubblici di lavori e degli
appalti pubblici di servizi. Né, da ultimo ma non per ultimo, va
tralasciato il ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo,
intervenuta per sanzionare pesantemente la normativa italiana in materia
espropriativa, così creando le premesse per la redazione del Nuovo Testo
Unico. Di grande importanza - anche a prescindere dai relativi contenuti -
é comunque il ritorno all’antica abitudine di redazione di testi unici,
strumenti essenziali per assicurare una maggiore certezza del diritto. Con
questo scenario si é aperta la XIV legislatura, con riferimento alla
quale é lecito avanzare l’auspicio che gli inevitabili adeguamenti
normativi - connessi anche all’evoluzione della naturale alternanza tra
i diversi schieramenti politici - non perda di vista l’esigenza di
mantenere una razionalità complessiva dell’ordinamento, così come da
gran tempo avviene negli altri Paesi europei. Resta, invece, in larga
parte irrisolto il grave problema della lentezza dei processi decisionali
in tema di gestione del territorio, che talvolta rischia di compromettere
o comunque fortemente limitare i positivi riflessi delle innovazioni
normative cui si é fatto cenno. Sicché può senz’altro ritenersi che
le due principali sfide sulle quali andranno misurate le nuove Camere e -
nell’esercizio dell’attività di legislazione delegata - il nuovo
Governo consistano soprattutto nel mantenimento e nell’accrescimento
degli obiettivi di "codificazione" connessi ai nuovi testi unici
(senza ritorno alle vecchie legislazioni emergenziali "a
pioggia"), in un miglioramento - il più possibile coraggioso -
dell’effettività della parità di trattamento fra i cittadini, anche
con riferimento alla gestione del territorio, nonché nel perseguimento di
obiettivi di efficienza ed efficacia dell’attività amministrativa, così
da coniugare - questo é il punto - la celerità indispensabile per
mantenere il "sistema Italia" in situazioni di non inferiorità
rispetto ai nostri competitor con il rispetto dei postulati (tradizionali
di ogni Stato liberale) della partecipazione della comunità al
procedimento e della effettività della tutela giurisdizionale dei diritti
e legittimi interessi di tutti i soggetti titolari di posizioni
qualificate.
Note
1 Significative al proposito sono senz’altro la legge
20 marzo 1865, n. 2248 all. F sulle opere pubbliche, nonché la legge 25
giugno 1865, n. 2359 sulle espropriazioni di pubblica utilità. Trattasi,
in entrambi i casi, di leggi immediatamente successive alla costituzione
del Regno d’Italia e ritenute per molto tempo "ossature
portanti" della legislazione giuspubblicistica italiana.
2 Significative in proposito sono la legge 1 giugno
1939, n. 1089 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, e
la legge 29 giugno 1939 n. 1497 sulla protezione delle bellezze naturali.
3 Trattasi di un regime che distingue i Paesi di Civil
Law rispetto a quelli di Common Law, ove non esiste un vero e proprio
diritto amministrativo, risultando i soggetti pubblici sottoposti al
diritto comune (con la conseguente forte utilizzabilità di rimedi
risarcitori e, comunque, della generalità dei rimedi offerti dal diritto
sostanziale e processuale).
4 D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 e D.P.R. 24 luglio 1977,
n. 616.
5 Cassazione penale, sez. III, 23 gennaio 2001, n. 204
6 La Cassazione penale, in particolare, muoveva da una
"lettura adeguatrice della norma ..... in conformità al suo
significato letterale e alla sua ratio", escludendo che il
legislatore regionale della Lombardia avesse inteso esorbitare dai limiti
della potestà legislativa regionale previsti dall’art. 117 Cost., che
richiede il rispetto dei principi fondamentali stabiliti con leggi dello
Stato.
7 Più precisamente il citato art. 22 sotto il profilo
formale si configura come una norma di carattere generale, sottoponendo a
D.I.A. tutti gli interventi non subordinati a concessione edilizia ai
sensi del precedente art. 10, ma, dall’altro lato, il contenuto
dell’art. 10 sottopone a concessione edilizia oltre agli interventi di
nuova costruzione anche gli interventi di totale demolizione e
ricostruzione, gli interventi di ristrutturazione urbanistica, gli
interventi di ristrutturazione edilizia comportanti aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici, nonché
i mutamenti di destinazione d’uso connessi a interventi di
ristrutturazione edilizia, nonché, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, i mutamenti di destinazione d’uso realizzati con
opere edilizie. Occorre, tuttavia, dare atto che é attualmente in itinere
il disegno di legge n. 1516 già approvato dal Senato, che intende
modificare il T.U. in materia edilizia non ancora in vigore, estendendo
l’ambito di applicazione della D.I.A. ad una serie di ulteriori
tipologie di interventi edilizi ancor- ché soggette agli oneri
concessori. Tale disegno di legge - di per sé non self executing, dovendo
comunque essere integrato, ovviamente dopo l’approvazione ed entrata in
vigore, da un successivo decreto legislativo del Governo ex art. 76 Cost.
- pare rappresentare una sorta di "compromesso" fra la più
marcata deregulation presente in alcune legislazioni regionali di cui si
é detto (che sostanzialmente "sganciavano" il titolo
abilitativo formale dal regime sostanziale dell’intervento, sotto i
profili contenutistico e sanzionatorio) e l’atteggiamento di maggior
prudenza nell’utilizzo della D.I.A. sin qui seguito dal legislatore
statale, anche in sede di redazione del T.U.. Un ulteriore profilo di
diversità del nuovo disegno di legge rispetto al T.U. consiste nel
mantenimento della facoltatività della D.I.A. in alternativa alla
concessione edilizia o all’autorizzazione edilizia, che viene così
ripristinata. Sicché l’indirizzo della nuova legislatura pare orientato
alla reintroduzione di uno spazio di scelta per il soggetto privato
interessato fra l’attesa del rilascio di un titolo abilitativo espresso
e l’assunzione diretta della responsabilità nell’interpretazione ed
applicazione della normativa vigente alla singola fattispecie.
8 Nello stesso senso si muove altresì - in sintonia
col precedente art. 13 della legge n. 47 del 1985 - l’art. 35 del nuovo
T.U., nel prevedere il rilascio di concessioni in sanatorie,
subordinandolo al pagamento a titolo di oblazione del contributo di
concessione in misura doppia, ovvero nei casi di gratuità della
concessione, in misura pari a quella prevista in via ordinaria.
9 In quest’ottica, diventa essenziale operare una
verifica della validità delle politiche pubbliche in funzione della loro
capacità di soddisfare realmente l’esigenza di sostenibilità degli
interventi e, cioé, di perseguire un ragionevole equilibrio tra le
aspettative di crescita economica e di qualità ambientale. Questo
riconoscimento della dipendenza del benessere dai rapporti di
complementarità tra crescita ed ambiente rende naturale la considerazione
del concetto di sviluppo come miglioramento della qualità della vita. La
impossibilità di indicare quest’ultima condizione mediante la sola
variabile reddito reale porta a spostare l’attenzione verso un insieme
di fattori in grado di rappresentare adeguatamente i seguenti tre bisogni
di: a) attribuzione di un valore agli ambienti naturali, artificiali e
culturali; b) equità intragenerazionale e, quindi, l’assicurazione di
un’ampia possibilità di godimento attuale o futuro delle risorse, con
il contenimento dei motivi di conflitto tra i diversi gruppi sociali; c)
equità intergenerazionale. L’estensione dell’orizzonte temporale -
operata a quest’ultimo livello - impegna ogni singola generazione alla
conservazione nel tempo del valore complessivo dell’ambiente, come
ricchezza non-decrescente e nella consapevolezza di dover salvaguardare
una quota irrinunciabile di "capitale naturale". Con ogni
probabilità, un punto di svolta in una tale direzione si é avuto con
l’accrescimento delle condizioni reddituali e con la conseguente
maturazione culturale della società attorno ai problemi della qualità -
e non più soltanto della quantità - delle risorse ambientali e dei beni
territoriali. Al proposito, non appare condivisibile la tesi che riconduce
questo nuovo atteggiamento alla crisi del welfare state. A nostro avviso,
i principi dello sviluppo sostenibile - pur affermandosi proprio in
concomitanza con il "fallimento" delle politiche keynesiane -
orientano i sistemi economici verso obbiettivi ben più ampi rispetto alla
semplice presa di coscienza della impossibilità di dar vita ad una società
del benessere mediante un intervento diffuso dello Stato nel sistema
economico. Il problema della qualità ambientale risulta peraltro
strettamente correlato alle condizioni culturali degli individui. Nel
momento in cui prendiamo atto del fallimento delle politiche che hanno
privilegiato l’intervento pubblico diretto, risulta ancora più evidente
l’esigenza di pervenire ad una corretta traduzione spaziale delle
interdipendenze tra i modelli culturali/normativi e i modelli di
suddivisione e distribuzione delle funzioni e delle attività economiche.
L’accoglimento di una tale impostazione appare rilevante per evitare di
ostacolare ulteriormente la soluzione del problema pubblico di (ri)organizzare
la città e il territorio.
10 Partecipazioni "incrociate" che per molto
tempo, nel nostro diritto amministrativo, hanno determinato il
collegamento con la categoria giuridica dell’atto amministrativo
complesso, contrassegnato dal concorso di più organi (o -addirittura- di
più enti) mossi dallo stesso fine. Trattasi del classico modello connesso
all’iter di formazione del Piano regolatore generale in base alla legge
urbanistica n. 1150 del 1942, oggi in parte superato in alcune
legislazioni regionali (a cominciare dalla Lombardia, con le leggi
regionali 23 giugno 1997 n. 23 e 5 gennaio 2000 n. 1) tendenti -sotto la
spinta dell’affermazione del principio di sussidiarietà- a lasciare
sempre maggiori spazi di responsabilità diretta in capo agli enti locali
e, in particolare, ai comuni.
11 A questo livello, non si può fare a meno - e ci
riferiamo puntualmente ai contenuti della Carta di Megaride - degli
strumenti di controllo, di analisi e di supporto alle decisioni che
garantiscono alla collettività la possibilità di porre domande e di
ricevere risposte, con la riaffermazione di quella relazione biunivoca tra
città e cittadini che, nel passato, ha garantito la qualità di molti
luoghi urbani. L’introduzione nel sistema giuridico di un processo
valutativo, opportunamente concepito e sviluppato, può rendere sicuro e
costruttivo il momento della verifica empirica a livello comunitario della
equità degli obbiettivi sociali perseguiti dal decisore. Oltre a
facilitare lo svolgimento dei processi decisionali di uso pianificato
delle risorse, risulta perfettamente idoneo alla definizione del grado di
accettazione a livello comunitario degli effetti prodotti da ogni ipotesi
di intervento sul territorio. La previsione, peraltro, di un più diretto
coinvolgimento della collettività é tale da conferire allo stesso
processo valutativo un’importanza ancora più rilevante, sia per quanto
riguarda la limitazione dei conflitti di interesse tra i diversi gruppi
coinvolti dalle scelte di piano, sia riguardo al contenimento della
crescente opposizione delle collettività rispetto al primato della
politica. La valutazione deve permeare ogni fase della pianificazione,
proprio perché consente l’indirizzo, la regolazione ed il controllo dei
fenomeni urbani, con un contributo decisivo ad un’adeguata ricerca
dell’equilibrio tra l’assetto spaziale e l’organizzazione funzionale
della città. Secondo una visione complessiva e sistemica possono essere
utilmente affrontate le numerose questioni dalla soluzione delle quali
dipende la possibilità di garantire un lento e graduale miglioramento
della qualità della vita. In questa ottica, appare evidente il fatto che
la pianificazione fisica debba costituire il risultato di un processo
rivolto principalmente alla comprensione dinamica dei problemi.
L’oggetto stesso della pianificazione non può che diventare il processo
decisionale all’interno di uno studio allargato ad un insieme di
alternative possibili e rivolto a limitare ogni rischio. Un reale
passaggio dalla pianificazione tecnocratica alla più opportuna
impostazione sociocratica può essere operato proprio conferendo al piano
le indispensabili condizioni per il contemporaneo ed effettivo
perseguimento di questi due importanti obbiettivi:
a) l’esaltazione del ruolo delle istituzioni nella
salvaguardia dell’interesse diffuso;
b) l’attribuzione di un giusto spazio al bisogno
comunitario di consultazione e negoziazione.
Il piano stesso diventa così uno strumento flessibile:
traccia le principali linee di sviluppo e consente, in ogni momento,
l’implementazione della qualità delle decisioni. La generazione delle
alternative e la definizione di scale di importanza, strettamente
correlate anche a problemi di equità, facilita fortemente lo sviluppo di
un processo che in definitiva deve coinvolgere, ponendosi in un ruolo
centrale, aspetti intellettuali, organizzativi, politici e sociali. Molti
settori della società lo avvertono oramai come un indispensabile
strumento di trasparenza, efficacia ed efficienza delle decisioni. La
constatazione del riconoscimento delle potenzialità della pianificazione
strategica nel nostro ordinamento unitamente alla convinzione che ai suoi
principi dovrebbe allinearsi al più presto l’intero quadro della
strumentazione urbanistica, non può evitare tuttavia di farci osservare
come per alcune sue prime applicazioni siano del tutto insufficienti le
previsioni inerenti allo sviluppo del percorso operativo. Pur risultando
adeguatamente specificati i principali elementi per l’assunzione degli
obbiettivi e la conseguente definizione delle diverse strategie di
intervento, si ritiene necessaria l’introduzione ad ogni livello di
adeguati modelli per rendere realmente efficace, efficiente e trasparente
il momento decisionale.
12 V’é da chiedersi, infatti, quanto di una siffatta
impostazione, imperniata sul sistema di pianificazione urbanistica "a
cascata", possa ritenersi compatibile con una rilettura della nostra
organizzazione giuridica alla luce del richiamato principio di
sussidiarietà, soprattutto per quel che concerne la formula della "sussidiarietà
orizzontale". In particolare, non possono non sorgere dubbi e
perplessità se si considera che, nel regime di carattere generale tuttora
riconducibile alla portata precettiva della menzionata legge urbanistica
fondamentale n. 1150 del 1942, la possibilità di un’ "urbanistica
contrattata" fra la "mano pubblica" ed i soggetti privati
permane limitata alla sola fase della pianificazione attuativa e, per di
più, con una sorta di sussidiarietà "alla rovescia". Occorre
invero tener conto che, sempre nella riferita impostazione tradizionale
del nostro sistema normativo, gli strumenti attuativi convenzionati ad
iniziativa privata, qualificabili nell’alveo dei contratti "ad
oggetto pubblico", non solo presuppongono una scelta urbanistica già
compiuta con un sufficiente grado di dettaglio al livello di
pianificazione generale ma soprattutto -quel che più rileva-
costituiscono addirittura una sorta di rimedio all’inerzia
dell’Amministrazione nella predisposizione dei piani attuativi ad
iniziativa pubblica.
13 Particolare rilievo assume in proposito la
disciplina dei Programmi Integrati di Intervento da parte della Regione
Lombardia, contenuta nella l.r. 12 aprile 1999, n. 9, che si caratterizza
per un largo spazio all’iniziativa dei privati purché coerente con gli
obiettivi fissati dalle amministrazioni locali.
14 A questo proposito, occorre sottolineare che la
rilevanza di questi temi é stata pienamente avvertita a livello politico
nella Regione Lombardia. Ci riferiamo, in particolare, alle previsioni del
P.d.l. inerente alla "Disciplina di programmazione, pianificazione e
gestione del territorio regionale", presentato nella passata
legislatura per iniziativa consiliare ma purtroppo non approvato. In esso
vediamo posti ai primi punti i seguenti principi e finalità:
a) la promozione di un armonioso sviluppo sostenibile,
secondo criteri di compatibilità tra processi di sviluppo socioeconomico
ed esigenze di tutela dell’equilibrio ambientale, con particolare
riferimento alla tutela delle risorse non rinnovabili;
b) l’assicurazione del soddisfacimento dei bisogni di
interesse generale e collettivo, anche attraverso forme di intervento di
soggetti privati;
c) la disciplina delle trasformazioni urbanistiche ed
edilizie, nel rispetto dei generali principi di trasparenza, efficacia ed
efficienza dell’azione amministrativa;
d) l’individuazione di uno statuto
dell’urbanistica, attraverso la previsione di una serie articolata di
diritti e doveri per tutti i soggetti pubblici e privati, titolari e/o
destinatari dei poteri di programmazione e pianificazione territoriale;
e) il coordinamento della programmazione e
pianificazione del territorio con gli atti di carattere economico ed
ambientale, nonché con la programmazione dei lavori pubblici.
La rilevanza di questo quadro appare del tutto
evidente. Il suo significato aumenta se consideriamo la capacità
propositiva e trainante spesso dimostrata da questa Regione nei processi
di formazione e modificazione della legislazione nazionale. La pluralità
degli obbiettivi ed il loro stesso ordinamento confermano peraltro la
nostra idea sulla principale motivazione del superamento di schemi di
ragionamento e degli strumenti tradizionalmente posti a fondamento delle
politiche territoriali. A nostro avviso, sono proprio le condizioni
economico-culturali di questa regione che spingono una componente
rilevante del sistema politico-legislativo a riconoscere l’importanza
dei principi dell’economia dello sviluppo sostenibile. Anche sulla base
dell’esperienza di altri paesi, essi vengono ritenuti come condizione
essenziale per avviare una politica destinata a produrre conseguenze
rilevanti. In questo tentativo, appare inoltre evidente come sia venuta a
maturazione - o a nuova maturazione - una lunga riflessione sulla necessità
di porre il problema delle opere pubbliche nell’ambito di una tematica
allargata al governo dei processi di trasformazione della città e del
territorio, nonché coerente con gli obbiettivi della politica economica
ed ambientale. Si ha buona ragione di ritenere che, qualora dovesse essere
realmente confermato un tale indirizzo, gli effetti di questa nuova
politica difficilmente potrebbero essere a lungo ignorati dal legislatore
nazionale. L’orientamento definitivo secondo queste linee di indirizzo
della legge quadro in materia di lavori pubblici diventerebbe del tutto
naturale. Questa nostra convinzione non può, tuttavia, portare a
nascondere le difficoltà che si presenteranno nell’affermazione di
questa visione. Non si può, ad esempio, dimenticare che - nonostante la
recente introduzione di modifiche sicuramente innovative - gli obbiettivi
della legge 109/94 sono rimasti ancorati al solo principio generale
dell’assicurazione, in attuazione dell’art. 97 della Costituzione, del
buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione in
materia di opere e lavori pubblici. La mancata indicazione di ulteriori e
- come si é visto - rilevanti finalità non sembra potersi addebitare ad
una semplice disattenzione. Dobbiamo ritenere che, in effetti, si é
voluta evitare una applicazione generalizzata di principi e finalità che
costituiscono le linee guida nelle procedure di valutazione degli impatti
ambientali (e/o comunitari).
15 Cfr. art. 11 del citato T.U.
16 T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 14 gennaio
1999, n. 22
17 Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 23 aprile 2001, n. 172
18 Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 21 marzo 2001, n. 125
19 Era stata infatti la Corte Costituzionale (con la
sentenza n. 262 dell’11 luglio 2000), da un lato, a rilevare l’assenza
di profili di incostituzionalità nella decurtazione del 40% prevista
dall’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 e, dall’altro lato, a
statuire che "gli eventuali prospettati abusi delle autorità
amministrative nella determinazione dell’indennità di esproprio offerta
al soggetto espropriato, ovvero le non congrue valutazioni nella
determinazione della indennità non possono influire sulla legittimità
costituzionale delle stesse norme, restando tali profili estranei al
presente giudizio di costituzionalità, limitato, peraltro, al comma 1
dell’art. 5 bis." Sicché, per la stessa pronuncia costituzionale,
"le esigenze di superare alcune anomalie di applicazione della norma
denunciata o di malfunzionamento di organi amministrativi nei casi più
manifesti hanno trovato, nella prassi e nella giurisprudenza una pluralità
di risposte, la cui concreta praticabilità rientra nelle scelte di tutela
delle parti e nelle esclusive valutazioni interpretative dei giudici
chiamati ad applicare le norme relative."
20 T.A.R. Lombardia, Sez. III, 11 luglio 1998-7 agosto
1998 n. 1953/98
21 Preme infatti segnalare che - nonostante le difformi
conclusioni dell’Avvocato Generale- la sentenza del 12 luglio 2001, resa
dalla Sezione sesta della Corte di Giustizia comunitaria, nel procedimento
C 399/98, ha accolto e fatto proprio la tesi sostenuta dal Giudice
nazionale italiano (e, in particolare, dalla Sezione terza del T.A.R.
Lombardia), sulla base del seguente iter logico-giuridico:
a) alla luce dell’interpretazione della normativa
interna italiana, resa dal Giudice nazionale del rinvio, il titolare di
una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione approvato che
realizzi le opere di urbanizzazione non effettua alcuna prestazione a
titolo gratuito, in quanto egli estingue un debito di pari valore - salvo
conguaglio in denaro - che sorge in favore del Comune, ossia il contributo
per gli oneri di urbanizzazione. Ciò, senza che il carattere alternativo
dell’obbligazione -contributo pecuniario o esecuzione diretta delle
opere - consenta di differenziarne la causa a seconda delle modalità di
adempimento prescelta (o prestabilita dal legislatore). Con la conseguenza
che l’elemento relativo al carattere oneroso del contratto deve
ritenersi sussistente;
b) quanto all’elemento soggettivo, incentrato sulla
titolarità della qualità di imprenditore, é stato rilevato che l’art.
1, lett. a) della Direttiva n. 93/37/CEE non richiede che il soggetto che
conclude un contratto con un’amministrazione aggiudicatrice sia in grado
di realizzare direttamente con mezzi propri la prestazione pattuita, perché
il medesimo possa essere qualificato come imprenditore, essendo viceversa
sufficiente che tale soggetto abbia la possibilità di fare eseguire la
prestazione di cui trattasi, fornendo le garanzie necessarie a tal fine.
22 In ogni caso, é stata la stessa Corte di Giustizia
del Lussemburgo a chiarire che "per garantire il rispetto della
direttiva in caso di realizzazione di un’opera di urbanizzazione, debba
necessariamente essere l’amministrazione comunale ad applicare le
procedure di aggiudicazione previste dalla direttiva in questione".
Ciò, dal momento che "l’effetto utile di quest’ultima
risulterebbe egualmente garantito qualora la normativa nazionale
conferisse all’amministrazione comunale il potere di obbligare il
lottizzante titolare della concessione, mediante accordi stipulati con
questo, a realizzare le opere pattuite ricorrendo alle procedure previste
dalla direttiva, e ciò affinché vengano rispettati gli obblighi
incombenti in proposito all’amministrazione comunale in forza della
direttiva medesima". "In tal caso, infatti - prosegue la citata
sentenza della Corte comunitaria - il lottizzante, alla luce degli accordi
conclusi con il Comune che lo esentano dal contributo per gli oneri di
urbanizzazione in cambio della realizzazione di un’opera di
urbanizzazione pubblica, deve essere considerato come titolare di un
mandato espresso conferito dal Comune ai fini della costruzione di tale
opera. Una tale possibilità di applicazione delle regole di pubblicità
della direttiva da parte di soggetti diversi dalle amministrazioni
aggiudicatrici é peraltro espressamente prevista dall’art. 3, n. 4
della direttiva stessa in caso di concessione di lavori pubblici".
23 Nello stesso senso s’é pronunziata l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato che, con l’ordinanza del 30 marzo 2000
n. 1, ha confermato sul piano sostanziale, che "deve ritenersi che il
potere di condannare la P.A. al risarcimento del danno ingiusto previsto
dall’art. 35, 1° comma, del decreto legislativo n. 80 del 1998 possa
essere esercitato dal Giudice amministrativo non solo quando sia stato
leso un diritto, ma anche quando sia stato leso un interesse
legittimo". Con l’ulteriore precisazione, sul piano processuale,
per cui "nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva, i
diritti soggettivi (pur se relativi e di natura patrimoniale) possono
ottenere piena ed effettiva tutela giurisdizionale, anche d’urgenza, da
parte del Consiglio di Stato e degli altri organi della giustizia
amministrativa" (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 30 marzo 2000 n. 1).
24 E così, la giurisprudenza amministrativa ha avuto
occasione di giudicare, con riferimento ad una fattispecie comunque
afferente all’esercizio "contra jus" di potestà
amministrative in materia urbanistica, che "nell’ipotesi di
variante limitata e ad oggetto specifico (e cioé come nel caso che ne
occupa, afferente ad un singolo immobile), l’autorità amministrativa é
tenuta ad esternare analiticamente i motivi della scelta innovativa, ove
questa sacrifichi aspettative private tutelate, anche non
intangibili". Con la conseguente implicazione dell’insorgenza, a
carico dell’Amministrazione, di un’obbligazione risarcitoria per i
danni addebitabili al cattivo esercizio dell’attività amministrativa di
autotutela da parte della stessa Amministrazione. (Cfr. T.A.R. Lombardia,
Sez. II, 12 aprile 2000, n. 2973 attualmente in corso di pubblicazione e
qui prodotta, per comodità del collegio, come ns. all. B)
25 Al proposito, é appena il caso di richiamare
l’insegnamento giurisprudenziale recentemente formatosi sulla scorta
delle statuizioni del D. Lgvo 31 marzo 1998 n. 80, giusta il quale
"in presenza di un atto (o comportamento) della P.A. inficiato da
violazione di legge e/o da eccesso di potere, la condotta illegittima
della medesima P.A. può non essere colposa (e quindi non caratterizzata
da negligenza, imprudenza o imperizia o da inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini e discipline), solo quando "si riscontri, nella
fattispecie concreta, l’esistenza di particolari circostanze (equivocità
o contraddittorietà della normativa di riferimento, contrastanti
orientamenti giurisprudenziali, novità delle questioni) che abbiano
contribuito in misura determinante a condizionare negativamente
l’operato dell’amministrazione. Tale situazione di incertezza non é
ravvisabile nel caso di specie, mancando quelle esimenti peculiarità
sopra puntualizzate con conseguente responsabilità risarcitoria del
Comune intimato". (Cfr. sul punto T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II,
n. 2793/00, ns. all. B, in motivazione, che sul punto richiama T.A.R.
Lombardia, Sez. III, n. 5049 del 23 dicembre 1999; cfr. anche Sez. III n.
4070 del 29 novembre 1999). |
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