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Welfare e lavoro

Giuliano Cazzola
Dirigente dello Stato - Economista Esperto di Politiche Sociali

 

1. Premessa.

La XIII legislatura può essere suddivisa - a grandi linee- in due fasi distinte. Durante i primi due anni, il Governo presieduto da Romano Prodi ha tentato di impostare e attuare una linea di condotta riformista. A parte il merito storico dell’aver consentito al Paese, sia pure in zona Cesarini, di varcare la soglie della moneta unica col gruppo di testa, all’Esecutivo presieduto dal professore bolognese va riconosciuto di avere tentato una riforma organica del sistema di sicurezza sociale (le conclusioni della Commissione presieduta da Paolo Onofri costituiscono un contributo di grande rilievo ancorché negletto), di aver realizzato una revisione degli aspetti più critici del riordino pensionistico attuato dal Governo Dini e di aver portato a termine un pacchetto di misure (noto col nome del ministro Tiziano Treu) che ha contribuito- pur con tanti limiti - a sbloccare il mercato del lavoro e a rimettere in moto le dinamiche dell’occupazione. In particolare, in tema di pensioni, la legge n. 449/1997 ha fatto avanzare notevolmente l’armonizzazione delle regole tra i diversi regimi e, segnatamente, tra lavoro pubblico e privato ha corretto (sia pure con tante deroghe volute dal Prc, allora parte integrante della maggioranza) la normativa per il pensionamento anticipato di anzianità, proprio in chiave di maggiore uniformità della disciplina. Nella seconda parte della legislatura, con i governi D’Alema e Amato, si é determinato un circolo vizioso tra maggioranza e Cgil che non solo ha guastato i rapporti tra le confederazioni sindacali, ma ha sostanzialmente paralizzato - in una spirale di veti e preclusioni - ogni azione veramente riformatrice. Anzi, la legislazione del lavoro (la parte più moderna della dottrina si interroga se il diritto del lavoro abbia ancora una sua autonomia o non debba diventare invece una branca della problematica attinente alla concorrenza) ha rischiato un ulteriore grave irrigidimento grazie a due provvedimenti legislativi che hanno fatto la spola tra le Camere senza arrivare- fortunatamente - all’approvazione definitiva. Si trattava dei disegni di legge per la disciplina della rappresentanza sindacale (Rsu) e per la regolamentazione dei c.d. contratti atipici. Vediamo, in primo luogo, per quali motivi viene espresso un giudizio tanto severo a proposito del tentativo di affrontare la questione (in sé essenziale) della ridefinizione delle regole della rappresentanza e della rappresentatività sindacali, entrate in crisi, dapprima, in via di fatto, poi, di conseguenza, persino sul piano dell’assetto giuridico.

2. Il progetto delle Rsu.

Il disegno di legge (conosciuto per il nome del primo firmatario, Piero Gasperoni, ex dirigente della Cgil) nasceva da un lodevole intento: quello di riorganizzare l’impianto della rappresentanza sindacale messo in crisi - nell’assetto definito nella prassi dei decenni che hanno accompagnato la mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione - dalle trasformazioni intervenute nel mercato del lavoro (sul piano sostanziale) e dall’esito del referendum del 1995 per la (parziale) abrogazione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori (sul piano giuridico-formale). Purtroppo, anche le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Così, il nuovo modello della rappresentanza - dovendo ricomprendere e sintetizzare le diverse tensioni delle tante anime e culture che si agitano nella Sinistra politica e sindacale e sforzandosi di promuovere l’insediamento, ope legis, del sindacato anche nelle realtà produttive più difficilmente penetrabili - somigliava maggiormente ad un regolamento amministrativo (ricco di casistiche puntigliose) che ad uno strumento agile delle relazioni industriali. Il problema, però, non era solo quello dell’intervento invasivo della norma statuale che pure restava burocraticamente eccessivo. Si pensi, a titolo d’esempio, che é affidato al ministro del Lavoro il compito di stabilire le regole per la costituzione delle Rsu nelle piccole imprese nel caso in cui non sia possibile raggiungere un’intesa negoziale tra le parti (in termini applicativi dei criteri previsti dalla legge). Una scelta, questa, da sindacato "obbligatorio", tale da accrescere e drogare il potere contrattuale delle confederazioni, le quali avrebbero potuto trarre più vantaggi dalla pressione politica sul Governo che dall’azione svolta al tavolo delle trattative nel confronto con le associazioni datoriali. L’innovazione più rilevante riguardava, però, l’impostazione strategica del provvedimento, il quale spostava l’asse della legislazione di sostegno da fuori a dentro il luogo di lavoro. E’ bene ricordare, a questo proposito, che, nei primi decenni del dopoguerra, il problema della libertà sindacale ha riguardato soprattutto la piena legittimazione del sindacato esterno all’azienda e, in particolare, della Cgil. In altre parole, la confederazione (allora) socialcomunista é stata costretta a lottare per essere riconosciuta come soggetto interlocutore, a pieno titolo e pari dignità, non solo dalle organizzazioni imprenditoriali, ma anche dagli altri partner sindacali. Col senno di poi si può onestamente riconoscere che le discriminazioni ricordate (inaccettabili secondo la sensibilità di oggi) appartenevano al clima politico di quegli anni di cui tutte le parti in causa avevano la loro quota di responsabilità. I diritti di libertà dei lavoratori, tuttavia, erano spesso conculcati, come ebbe a confermare persino una Commissione parlamentare di indagine. In generale, però, negli anni del decollo del "miracolo economico" (con la ripresa industriale del Paese), il padronato nutriva una posizione ostile nei confronti dell’agibilità sindacale in fabbrica, non tanto quale valore in sé, quanto piuttosto come atteggiamento negativo nei confronti del sindacalismo storico, di matrice confederale e, quindi, ispirato alle grandi correnti ideali e partitiche del dopoguerra. Non a caso, in quei tempi, la battaglia per l’autonomia del sindacato dai padroni (allora si diceva così) si riversava contro i cosiddetti sindacati gialli, quelli fondati e operanti, cioè, secondo logiche aziendaliste e ritenuti - juris et de jure - succubi dei datori di lavoro. Fino al punto di provocare, nello Statuto dei lavoratori, un esplicito divieto, all’articolo 17, ai datori di lavoro e alle loro organizzazioni "di costruire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori". In proposito, la giurisprudenza consolidata, in materia di "sindacati di comodo", ha sottolineato che oggetto del divieto é anche il favoreggiamento di organizzazioni sindacali che abbiano radici fuori dell’azienda, pur ritenendo comunque indispensabile, ai fini dell’applicazione della norma, che l’associazione sindacale abbia una rappresentanza nell’azienda medesima. Tali considerazioni evidenziano chiaramente come la struttura sindacale in azienda fosse, in quella impostazione giuridica e culturale, ancora sotto osservazione e per essa dovesse garantire l’organizzazione esterna.

2.1. La storia alle spalle

C’era tutta questa storia a monte della legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori) e delle innovazioni contrattuali scoppiate alla fine degli anni sessanta durante l’autunno "caldo". Nel senso, cioè, che i diritti riconosciuti al sindacato in azienda (dall’agibilità all’esercizio della contrattazione) erano una proiezione delle prerogative attribuite alla struttura esterna, la cui legittimazione era alla base della svolta nel campo delle relazioni industriali, conquistata, dapprima, da Cgil, Cisl e Uil nei contratti collettivi; sanzionata ed estesa, poi, dalla legge. Spettava, infatti, al sindacato esterno nominare i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro, promuovere le assemblee, affiggere la stampa e i comunicati, assegnare i distacchi e i permessi retribuiti, essere titolare della contrattazione decentrata. Tutto questo in conseguenza del principio del sindacato maggiormente rappresentativo (come tale ammesso al negoziato e alla stipula dei contratti collettivi). Questo principio si fondava essenzialmente su criteri empirici e fattuali, adottati per ragioni pratiche in sostituzione della disciplina prevista dall’articolo 39 della Costituzione, mai attuato. In pratica, l’articolo 19 dello Statuto delineava una tautologia: erano abilitate a costituire le rappresentanze aziendali le associazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (un dato metagiuridico) e quelle non affiliate, purché firmatarie di contratti di lavoro applicati in azienda. L’effetto ablativo del voto degli italiani, nel referendum del 1995, ha collegato direttamente il concetto di maggiore rappresentatività al contratto vigente nel posto di lavoro. Anche per queste ragioni, il disegno di legge all’esame del Parlamento ribaltava l’impostazione tradizionale e trasferisce la titolarità del potere sindacale dall’esterno all’interno dell’azienda, realizzando persino una reductio ad unum del pluralismo sindacale in capo alle Rsu, organismi a base strettamente elettiva (una sorta di Commissioni interne "sindacalizzate") da parte di tutti i lavoratori. In aggiunta, il consenso ricevuto dalle organizzazioni esterne nelle elezioni delle rappresentanze unitarie aziendali (per essere considerata rappresentativa ogni confederazione deve ottenere un minimo di suffragi tra i lavoratori-elettori) diviene il principale requisito per l’ammissione al club dei soggetti rappresentativi ( e per poter partecipare, quindi, ai negoziati). In sostanza, quella legittimazione che derivava dall’appartenere ad una delle formazioni "maggiormente rappresentative" e (perciò) firmatarie dei contratti - una volta approvata nella sua originaria impostazione la riforma Gasperoni - doveva essere cercata da ciascuna forza sindacale attraverso la competizione elettorale. E’ appena il caso di ricordare che il metro di misura individuato dall’articolo 39 era dato dal numero degli aderenti. Ma non vanno ricercate in quest’ultima discrepanza le principali critiche da rivolgere al progetto.

2.2. Gli aspetti critici

Il diritto a promuovere la costituzione delle Rsu e di presentare le relative liste spettava, congiuntamente o separatamente, alle associazioni sindacali che avessero negoziato e sottoscritti i contratti collettivi nazionali o territoriali, purché applicati nelle unità produttive in cui si svolgeva l’elezione, nonché a tutte le altre organizzazioni in grado di provare, tramite la contribuzione, una presenza associativa non inferiore al 5 per cento del totale degli addetti. Il medesimo diritto era riconosciuto a quelle forme spontanee di lavoratori che siano in grado di raccogliere un numero di firme anch’esso non inferiore alla percentuale del 5 per cento. Si tenga presente che la complessa partita delle elezioni era sottoposta a procedure di conciliazione (appositi comitati paritetici provinciali) il cui intervento preliminare era condizione di procedibilità per poter sottoporre le eventuali controversie al giudice del lavoro. Addirittura, veniva previsto il ricorso ex articolo 28 della legge n. 300/1970 (lo strumento individuato per rimuovere i comportamenti antisindacali) nel caso che siano frapposti ostacoli allo svolgimento delle elezioni e alla proclamazione dei risultati. Le modalità e i criteri di composizione della rappresentanza unitaria erano puntigliosamente definiti dalla legge, senza tenere conto che, quanto più é estesa la normativa, tanto più si aprono spazi per conflitti davanti al giudice ordinario. Inoltre, uno dei passaggi chiave della riforma (l’articolo 5) stabiliva, senza mezzi termini, che alle Rsu, oltre ai cosiddetti diritti di informazione, spettavano "i diritti alla contrattazione", sia pure con "l’assistenza" delle organizzazioni rappresentative negoziatrici del contratto nazionale applicato nell’unità produttiva, al quale toccava il compito di definire "le modalità" con le quali le Rsu potevano esercitare l’attività contrattuale sulle materie rinviate ad accordi aziendali. In sostanza, nel momento in cui si gettavano le basi per una possibile dissociazione tra la rappresentanza esterna al posto di lavoro e quella interna, si doveva mettere nel conto anche l’eventualità che i grandi apparati outsiders prendessero impegni di moderazione al tavolo della concertazione, mentre, a livello di azienda, le Rsu suonassero la musica delle rivendicazioni salariali. In fondo, sia il negoziatore incallito e immanicato col potere padronale e politico, sia il comitato di base avevano propri ambiti di intervento di cui erano titolari. Si trattava, evidentemente, di soggetti diversi, non più tenuti insieme, in via di principio, da legami di carattere endoassociativo, come avveniva nella precedente situazione. Nel disegno della legge, ogni organismo (nazionale ed aziendale) aveva una propria fisionomia e compiti definiti. Solo che, mancando praticamente una gerarchia delle fonti contrattuali, ogni istanza era abilitata a fare la sua corsa. La circostanza critica é resa evidente anche dal dibattito parlamentare che aveva dedicato molto impegno alla ricerca di una soluzione maggiormente equilibrata, fino al punto di individuare una sorta di partnership tra Rsu e associazioni sindacali nella titolarità della contrattazione a livello aziendale. Su questo punto si sono concentrate alcune delle preoccupazioni della Confindustria, la quale teme che i datori debbano negoziare, in fabbrica, con interlocutori diversi da quelli che essa trova al tavolo delle trattative nazionali e dei patti sociali. Inoltre, all’imprenditore può essere legittimamente imposto l’obbligo di convivere con un organo chiamato a svolgere una funzione di rappresentanza dei propri dipendenti, a ricevere le informazioni e a collaborare al buon svolgimento del processo produttivo. E’, invece, assai discutibile che esso sia costretto dalla legge ad accettare - come avviene nel progetto in discussione nella passata legislatura - una struttura dotata di potere negoziale con la quale, nella sua interezza, abbia l’obbligo giuridico di confrontarsi. Una struttura che risulta essere, nel medesimo tempo, una sorta di litisconsorzio necessario per le organizzazioni sindacali. Nel diritto privato - fino a prova contraria - esercitare o meno la contrattazione é una opzione che si effettua con gli interlocutori di propria scelta.

2.3. L’efficacia erga omnes dei contratti collettivi

Ma é toccato all’articolo 10 di suscitare un coro unanime di critiche, tanto da essere ritenuto illegittimo sul piano costituzionale e in palese violazione con l’articolo 39, il quale non solo non é abrogato, ma non rientrava neppure tra quelli sottoposti a revisione e a modifica ai tempi della Commissione bicamerale. A stare al progetto Gasperoni, avevano efficacia generale e obbligavano i datori di lavoro ad applicarli a tutti i dipendenti quei contratti collettivi nazionali stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori che rappresentino "almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o area contrattuale o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito". Il punto cruciale risiedeva, però, nel meccanismo dell’efficacia erga omnes (un argomento di grande delicatezza e rilievo economico) che é del tutto avulso da quanto previsto, in materia, dalla legge fondamentale. Il citato articolo 39 stabilisce, infatti, che le organizzazioni stipulanti debbano far valere precisi requisiti: e cioè la registrazione e l’attribuzione della personalità giuridica, per ottenere le quali é necessario uno statuto a base democratica. In mancanza di tali requisiti in capo ai soggetti stipulanti - e al di fuori dalla procedura indicata dalla norma costituzionale - non é consentito realizzare, con altri mezzi, l’effetto della applicazione erga omnes dei contatti collettivi. Non pare, di certo, una indebita ingerenza negli affari delle confederazioni sindacali il pretendere che esse abbiano una fisionomia giuridica un poco più strutturata di quella consentita ad una bocciofila o ad una associazione cultrice del ballo liscio alla romagnola. E non é una violazione del sacrosanto principio della libertà sindacale richiedere (prima di tutto nell’interesse degli iscritti), ad organizzazioni che gestiscono circa 1.500 miliardi l’anno, di redigere e rendere pubblico un bilancio d’esercizio. Tra l’altro, il disegno di legge affrontava anche il tema delle trattenute sindacali in busta paga, già sottoposto a referendum nel 1995. La soluzione trovata era veramente un colpo di ingegno: da allora in avanti si sarebbe parlato di "cessione del credito per salari e stipendi futuri" del lavoratore all’organizzazione sindacale a cui é iscritto, per il tramite dell’azienda. Il disegno di legge sulle Rsu ha imbarazzato non solo il fronte sindacale (la Cisl non gradiva una soluzione legislativa pesante come quella prefigurata), ma anche la stessa maggioranza di Centrosinistra e, in particolare, la componente centrista. Il ministro Salvi tentò qualche correzione; ma lo "strappo" con le regole della libertà sindacale (che deve essere necessariamente un fatto bipartisan) restava troppo violento. Per fortuna, il progetto é caduto, ma é bene ricordarne l’impianto per avere consapevolezza del rischio che le libertà economiche e sociali hanno corso nella passata legislatura: avere un sindacato imposto per legge.

3. Il lavoro atipico.

Il progetto di legge per la disciplina del lavoro atipico portava la firma di Carlo Smuraglia, diessino, presidente della Commissione Lavoro del Senato, da sempre legato alla Cgil. Il fenomeno é noto. Si tratta di una condizione di lavoro, regolata da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, che si é fortemente ampliata negli ultimi anni, proprio perché rappresenta una forma di flessibilità accentuata in un contesto del mercato del lavoro "ufficiale" connotato da troppe rigidità. Per queste figure é stato istituito, in sede di riforma delle pensioni (legge n. 335/1995), un regime di previdenza obbligatoria (la gestione dei parasubordinati presso l’Inps), che oltre alla pensione tutela, in parte, la malattia, la maternità e l’infortunio. Tale gestione- forzatamente attiva, poiché per ora si limita a riscuotere i contributi, senza erogare prestazioni- rappresenta il solo elemento di unificazione delle differenti realtà professionali riconducibili alla fattispecie. Il numero delle iscrizioni é in costante crescita (tav. 1).

Tav. 1- Iscritti alla gestione dei parasubordinati presso l’Inps

1996

1997

1998

1999

2000

822.892

1.080.045

1.516.472

1.685.934

1.897.348

Fonte: Rendiconto Inps 2000

Nota. La tavola indica le posizioni contributive. Le persone fisiche sono in numero inferiore, in quanto la stessa persona può avere nel corso dell’anno posizioni diverse.

L’analisi della distribuzione percentuale dei collaboratori per numero di committenti dimostra che in realtà si tratta di una della tante forme escogitate negli ultimi anni per dare flessibilità al mercato del lavoro (purtroppo a scapito delle generazioni più giovani). Le analisi compiute sul dualismo del mercato del lavoro sono note: é la condizione relativamente privilegiata degli insiders a provocare una totale messa a carico sugli outsiders della flessibilità di cui necessita il sistema nel suo insieme. Infatti, il 91% dei collaboratori presta la propria opera per un solo committente. E non si tratta solo di persone giovani, a prova di quanto sia estesa la precarizzazione del lavoro (tav. 2) e come tale scomoda condizione si spinga fino ad età in cui le persone sono chiamate solitamente a precise responsabilità familiari. Nel caso dei collaboratori più anziani va tenuto presente che anche i pensionati che lavorano devono essere iscritti alla gestione.

Tav. 2- Classi di età dei lavoratori parasubordinati (1999)

Inf. 20

20-24

25-29

30-39

40-49

50-59

60 e +

Totale

8.304

88.551

187.862

379.049

274.674

234.047

99.618

1.272.094

Fonte: Commissione Brambilla 2001

Nota: sono indicate le persone fisiche.

Va da sé che la materia merita una regolamentazione. La via corretta da battere doveva essere quella della unificazione del mercato del lavoro (non più riconducibile a fattispecie comuni), mediante l’adozione di nuove regole minime, in grado di valere in modo universale. Un tentativo, questo, a cui si era dedicato il ministro del Lavoro Tiziano Treu, all’inizio della legislatura. Avvalendosi della collaborazione del prof. Marco Biagi (allora suo consulente) Treu aveva messo in circolazione un progetto di Statuto dei lavori che aveva l’ambizione di ridisegnare la sfera delle tutele, superando l’attuale suddivisione per caste. L’attuale modello delle garanzie, infatti, propone un pacchetto di diritti fortemente discriminante, secondo logiche del tutto inique. Il generoso tentativo di Treu fallì proprio per l’opposizione dei sindacati e della maggioranza, trovando in Carlo Smuraglia il maggiore oppositore all’interno delle istituzioni. Il progetto del senatore della Quercia per la disciplina dei contratti atipici rappresentò la massima espressione della cultura gerarchica dei diritti, secondo il solito schema: il lavoro subordinato nella grande impresa (il modello dello Statuto dei lavoratori del 1970) costituisce il prototipo giuridico; gli altri rapporti sono ricavati "a scalare" su quel modello. Così, ai collaboratori venivano estesi, in quanto compatibili, spezzoni di istituti e di prerogative riconosciuti a Cipputi. Il progetto di legge creava imbarazzi agli stessi sindacati, ai quali non sfuggono le realtà dell’economia e sanno bene di non poter irreggimentare il mondo del lavoro secondo i canoni della parte più sindacalizzata e tutelata. Se in Italia non vi fosse il potere giudiziario di reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento ritenuto ingiustificato, i rapporti di lavoro sarebbero normalmente a tempo indeterminato e non ci sarebbe stato bisogno di trovare le scappatoie della flessibilità in entrata, proprio per ottenerla anche in uscita. I sindacati lo sanno bene: le regole che valgono per i settori protetti non possono essere estese anche a quelli non protetti; anzi, sono le aree di flessibilità estrema che consentono di mantenere (perché la compensano) una marcata rigidità a favore degli insiders. Anche il progetto Smuraglia si perse nella navetta tra Senato e Camera e cadde insieme alla legislatura. Prima di chiudere i battenti il Parlamento (con un voto inspiegabilmente bipartisan) varò una riforma dei patronati sindacali assai favorevole, sul piano delle risorse assicurate attraverso il finanziamento pubblico e di ruoli assegnati a queste istituzioni tanto rilevanti nel determinare il radicamento del sindacato nel territorio.

4. L’occupazione

Con l’aiuto dell’Istat (tav. 3) proviamo a ragionare sulle trasformazioni intervenute, nella passata legislatura, nel mercato del lavoro. Innanzi tutto, si é avuto un incremento complessivo di 955mila persone occupate dal 1996 al 2000 (+ 4,7%). Di queste, 859mila sono alle dipendenze e 95mila autonomi. Se limitiamo il confronto al 1999, notiamo che gli occupati crescono di 388mila unità (+ 1,9%), che corrispondono, in pratica, a un terzo dell’incremento registrato nell’intero periodo. Non a caso l’anno scorso é stato particolarmente dinamico sul piano dello sviluppo economico (+ 2,9% contro un aumento medio del Pil, nel periodo 1996-1999, dell’1,6%). Ad osservare i trend interni si notano alcune tendenze interessanti. E’ abbastanza sostenuto l’incremento dei dipendenti con rapporto di lavoro permanente (373mila, pari al + 2,8% nell’intero periodo considerato), ma é più consistente quello degli occupati temporanei (+ 486mila, pari al 46,6% nel 2000 sul 1996). Se poi volessimo sommare gli occupati con rapporti flessibili (permanenti a tempo parziale, temporanei a tempo pieno e a part time) scopriremmo che a questo insieme non troppo omogeneo ma rappresentativo di una linea di tendenza appartiene (741mila lavoratori) il nucleo della nuova occupazione. Per quanto riguarda il rapporto tra lavoro dipendente e indipendente, l’Italia continua ad avere un vero e proprio primato della seconda tipologia (quasi 6 milioni di persone occupate pari ad oltre il 28% del totale dei lavoratori). In generale, non é elevata la quota del lavoro a part time tra gli autonomi (438mila) anche se in crescita (+ 11,9% nell’arco temporale considerato). Anche in questo caso, volendo sommare i lavoratori, autonomi e alle dipendenze, impiegati in rapporti a tempo parziale e temporanei si arriva a sfiorare i due milioni di unità (quasi il 10% del totale). Escludendo il lavoro agricolo, dove i rapporti saltuari sono assai frequenti, la quota di contratti a termine é aumentata dell’8,6% nel 1999 e del 9,3% nel 2000. Interessante é pure il dato del lavoro interinale (o in affitto). Le associazioni operanti nel settore stimano che, lo scorso anno, si siano avute 472mila chiamate, oltre l’80% in più sul 1999. La durata media é salita a 240 ore, per un input equivalente a quello fornito da 67mila occupati a full time per l’intero anno contro 29mila del 1999. I lavoratori interinali sono in prevalenza maschi: una quota del 62%, praticamente equivalente a quella dell’occupazione maschile sul totale. Ciò significa il segmento più forte del mercato del lavoro rimane tale anche quando i rapporti sono saltuari e precari. I lavoratori in affitto sono giovani (il 68% ha meno di 30 anni), impiegati soprattutto nell’industria (54%). La mobilità di questi lavoratori nel territorio é assai elevata. Uno studio del Ministero del lavoro, infatti, ha esaminato un campione da cui risultava che, negli ultimi due anni, più di un terzo dei lavoratori residenti nel Mezzogiorno prestava la propria opera in aziende del Nord. Sul piano delle politiche attive del lavoro (il dato é del 1999) si sono spesi (formazione professionale, incentivi all’occupazione, integrazione dei disabili, creazione diretta di posti di lavoro, incentivi all’autoimpiego) più di 15mila miliardi di lire a favore di 2,5 milioni di beneficiari.

Tav. 3 – La struttura dell’occupazione in Italia.

Tipo di occupazione

Anno 2000

Variazione 2000/1999

Variazione 2000/1996

 

In migliaia

Quota %

In migliaia

Increm. %

In migliaia

Increm. %

Indipendente

5.949

28.2

80

1.4

95

1.6

A tempo pieno

5.511

26.1

60

1.1

49

0.9

A tempo parziale

438

2.1

20

4.7

47

11.9

Dipendente

15.131

71.8

308

2.1

859

6.0

Permanente

13.601

64.5

188

1.4

373

2.8

A tempo pieno

12.748

60.5

105

0.8

118

0.9

A tempo parziale

853

4.0

83

10.8

255

42.5

Temporanea

1530

7.2

120

8.5

486

46.6

A tempo pieno

1.042

4.9

80

8.3

313

42.9

A tempo parziale

488

2.3

40

8.8

173

55.0

Totale

21.080

100.00

388

1.9

955

4.7

Fonte: Istat Indagine sulla forza lavoro.

Deludente (tav. 4) é ancora il rapporto con gli andamenti dell’Unione europea. Come si vede, le differenze sono sostanziali (all’interno del dato vi é anche il divario Nord-Sud che le esaspera maggiormente).

Tav. 4 - Tasso (%) di occupazione: il gap con l’Europa (anno 2000).

 

Maschi

Femmine

Totale

55-64enni

Italia

67.5

39.6

53.5

27.7

Unione Europea

72.5

54.0

63.3

37.7

Fonte: Ministero del welfare.

5. Pensioni e previdenza

Per avere un’idea sulla condizione di salute dei regimi obbligatori non é necessario scoprire arcani misteri; basterebbe considerare con un po’ di attenzione i documenti ufficiali degli Enti e valutare le stesse previsioni che il Governo ha tracciato negli atti di sua competenza. Cominciamo da questi ultimi. Nel Rapporto 2001 del Nucleo di vigilanza sulla spesa pensionistica (Nvsp), alle dirette dipendenze del Ministro del Lavoro, si é dovuto riconoscere che il disavanzo (la differenza tra uscite per prestazioni ed entrate contributive per 29,6mila miliardi di lire, nel 2000) é pari all’1,7% del Pil. A tale ammontare si deve aggiungere l’importo dei trasferimenti dal bilancio dello Stato a titolo di interventi assistenziali a supporto delle pensioni (integrazione al minimo, ecc.), corrispondente (si tratta di circa 50mila miliardi) al 2,3% del Pil. Tenendo conto, allora, dei parametri e delle scadenze che, in forza del Patto di stabilità, devono portare il nostro Paese al pareggio di bilancio entro il 2003, si comprende che il deficit pensionistico, in senso stretto, condiziona e assorbe praticamente il disavanzo della Pubblica amministrazione.

Tav. 5 - Il disavanzo pensionistico in % su Pil

Settore

% del Pil

Settore

% del Pil

Privati

0.60

Parasubordinati

-0.10

Pubblici

1.00

Gias

2.35

Autonomi

0.15

 

 

Fonte: Paolo Onofri

Inoltre, dovendo fare fronte (tav. 5) ad un onere complessivo pari al 4% del Pil (al di fuori della copertura contributiva) per sostenere il finanziamento del sistema pensionistico, non vi sarà modo per ridurre sostanzialmente la pressione tributaria e il "cuneo" fiscale- contributivo e per garantire una maggiore competitività dell’apparato produttivo. Nella pubblicistica consueta, poi, si racconta che qualche problema si porrà nella fase di transizione (la famosa "gobba" del grafico presentato in tutte le sedi, secondo il quale la spesa pensionistica dovrebbe salire fino al 16% del Pil intorno al 2030 per poi ridiscendere a metà del secolo), ma che tutto andrà a posto quando la riforma Dini sarà a regime. Il fatto é che, in queste analisi, non si mette a confronto la dinamica della spesa con quella delle entrate; e, quindi, si perdono di vista gli andamenti dei deficit delle più importanti gestioni. Se ci prendessimo la briga di osservare i bilanci preventivi 2001 dei maggiori Istituti previdenziali (approvati a fine 2000) e di considerare gli andamenti dei fondi, delle casse e delle gestioni che erogano solo trattamenti pensionistici scopriremmo delle amare verità: a) un deficit di 17mila miliardi nell’Inps (incluso un apporto positivo di 5.500 miliardi della gestione dei parasubordinati) e un debito accumulato di 234mila miliardi; b) un disavanzo di 2mila miliardi nell’Inpdap (l’Ente del pubblico impiego espone, poi, un debito complessivo di 22mila miliardi nelle sole gestioni degli statali ed enti locali, ancorché compensato da un forte avanzo, sia d’esercizio che consolidato, della cassa dei sanitari). E’ vero che questi risultati "in rosso" vengono elisi- ma non interamente- da quelli "in nero" delle poste positive. Le prestazioni temporanee (assegni familiari, cassa integrazione, disoccupazione, indennità varie) nel caso dell’Inps soccorrono, ad esempio, le pensioni dei lavoratori dipendenti con 11mila miliardi di attivo. Ma questo andazzo é il segno di un sistema di sicurezza sociale distorto, in quanto grandi risorse, raccolte con finalità specifiche, vengono dirottate (nel tempo si é trattato di centinaia di migliaia di miliardi) a sostegno di traballanti regimi pensionistici. Così, vi sono bisogni ed esigenze che risultano sacrificati (si pensi- benché le relative voci siano in attivo - alla mancanza di una riforma degli ammortizzatori sociali in una logica di promozione del lavoro e della formazione). M e n t r e altri interessi, dotati di maggiore protezione nell’ambito del sistema di rappresentanza sociale, si appropriano di tutte le risorse disponibili. E il belpaese si accontenta di pagare tante pensioni e basta. Inoltre, rimane da dire che il futuro non é certo radioso. L’Inps ha tracciato un bilancio previsionale 2001-2003. A legislazione invariata, il disavanzo relativo all’intero bilancio passerà dai 4,7mila miliardi di quest’anno ai 16,5mila del 2003. Questo dato conferma le considerazioni che abbiamo svolto in precedenza, circa la rilevanza dei saldi nel determinare l’andamento dei conti pensionistici. Infatti, nel prossimo triennio, in cui il deficit - a legislazione invariata- si moltiplicherà per circa quattro volte, il rapporto tra la spesa pensionistica dell’Inps e il Pil - a stare alle previsioni dell’Istituto- rimarrà pressoché invariato intorno all’11%. In sostanza, dietro una spesa stazionaria in termini di Pil si nasconderà un maggiore squilibrio di bilancio. Ancora più devastanti sono le proiezioni al 2010 contenute nella recente Relazione istituzionale della Corte dei Conti (tav. 6). Vi si legge (limitatamente alle principali gestioni pensionistiche) un disavanzo, a fine periodo, di poco inferiore a 70mila miliardi. Per quanto riguarda la situazione patrimoniale viene previsto, nel 2010; un debito superiore a 755mila miliardi. Le compensazioni derivanti dalla Gestione delle prestazioni temporanee non saranno in grado di pareggiare i conti.

Tav. 6 - Proiezioni del risultato d’esercizio e della situazione patrimoniale delle principali gestioni Inps (in miliardi di lire)

 

2000

2005

2010

Gestioni Inps

Risultato esercizio

Gestione patrimon.

Risultato esercizio

Gestione patrimon.

Risultato esercizio

Gestione patrimon.

FPLD (lavor. dipendenti)

-15.713

-222.227

-30.435

-345.239

-42.836

-536.350

Lavoratori autonomi

-7.492

-29.844

-14.261

-87.413

-20.941

-179.147

Altre gestioni

-1.600

-8.266

-3.245

-19.253

-5.400

-40.200

Gestioni pensionistiche

-24.802

-260.437

-47.941

-451.905

-69.267

-755.697

Prestazioni temporanee

-9.827

237.112

13.222

296.841

15.938

370.397

Gestione complessiva

-14.978

-23.235

-37.719

-155.064

-53.329

-374.360

Fonte: Corte dei Conti.

Per ciò che riguarda il trend delle prestazioni, c’é da dire che, nell’anno in corso - una volta smaltiti gli effetti prodotti dall’inasprimento delle regole dell’età pensionabile entrati in vigore nel 2000 (in particolare il raggiungimento dei 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne, per il trattamento di vecchiaia)- il numero delle nuove pensioni tornerà a crescere (+30,8%), raggiungendo (tav. 7) quota 800mila solo nei regimi Inps (ciò vuol dire che, nel complesso di tutti gli enti, quest’anno andrà in quiescenza circa un milione di persone, di cui 80-90mila nel pubblico impiego).

Tav. 7 - Inps: previsione del numero delle nuove pensioni

Nuove pensioni

2000

2001

Variazioni

Variazioni %

Gestioni previdenziali

554.467

742.467

188.000

33.9

Vecchiaia

95.251

259.070

163.819

172.0

Anzianità

174.959

199.503

24.544

14.0

Prepensionamento

2.400

800

-1.600

-66.7

Invalidità

56.141

56.109

-32

-0.1

Superstiti

255.716

226.985

1.269

0.6

Assegni sociali

55.000

55.000

 

 

Totale

609.467

797.467

188.000

30.8

Fonte: Inps bilancio preventivo 2001

Va ricordato, infine, che nel 2001, a fronte di un numero di pensioni pressoché stazionario (15,34 milioni), la spesa totale subirà un incremento del 5,1% rispetto al 2000 (raggiungendo i 224mila miliardi di lire). Il comparto vecchiaia e anzianità sfiorerà i 150mila miliardi con un aumento del 6,7%. Un ulteriore e più specifico approfondimento ci porta a considerare, segnatamente, le vicende della Gestione delle pensioni dei lavoratori dipendenti (Fpld) presso l’Inps, dalle quali si trae un’idea plastica ed immediata dei problemi della previdenza italiana. Tale Gestione é l’architrave del sistema obbligatorio. Nel complesso (inclusi i fondi confluiti - trasporti, telefonici, elettrici - ora in posizione di evidenza contabile) vanterà, nel 2001, quasi 12 milioni di iscritti, erogherà oltre 10,3 milioni di prestazioni (vi saranno, cioé, 114 iscritti ogni cento pensioni) per una spesa pari a circa 172mila miliardi, avrà un disavanzo di 16,2mila miliardi. E’ noto che la riforma del bilancio Inps del 1989 (legge n. 88) ha accorpato nel "comparto" dei lavoratori dipendenti sia il fondo pensioni sia la gestione delle prestazioni temporanee (assegni familiari, cig, disoccupazione, indennità varie), allo scopo di compensare con i forti attivi di quest’ultima il "profondo rosso" dei trattamenti pensionistici. In aggiunta, la riforma Dini ha trasferito più di 4 punti di aliquota dalle prestazioni temporanee alle pensioni. E’ a questa gestione, poi, che confluisce la maggior parte degli apporti dello Stato, a titolo di oneri pensionistici (inclusi gli effetti della recente maxi-sanatoria delle anticipazioni di Tesoreria). Il risultato finale, però, rimane disastroso. Dal 1989 al 2001 il Fpld ha accumulato 190.532 miliardi di disavanzo che salgono a quasi 203mila comprendendo anche le casse confluite. A questo proposito, si fanno notare gli 8.823 miliardi di deficit attribuibili, dal 1996, all’ex fondo trasporti, i 1.278 di "rosso" riguardanti, dal 2000, l’ex fondo elettrici, mentre gli ex telefonici recano in dote saldi attivi per 851 miliardi. Nel 1996 é entrata in vigore la legge n. 335/1995 (la quale, come abbiamo ricordato, ha distribuito un bonus di quattro punti di aliquota alla voce pensioni, per raggiungere il 32,7%). Da quell’anno alla fine del 2001, il deficit accumulato dal Fpld é previsto pari a 76,4mila miliardi che salgono a 85,6mila considerando anche il complesso dei "nuovi acquisiti". Abbiamo detto che, all’interno del comparto, i trattamenti pensionistici si avvalgono del generoso soccorso delle prestazioni temporanee, che dal 1996 al 2001 realizzeranno una situazione in avanzo per 57,6mila miliardi. Si tratta di un ammontare imponente: non sufficiente, però, a portare in attivo (come avveniva fino al 1992) l’intero "comparto", il quale é destinato a sommare, nel periodo considerato, un debito di 28mila miliardi. Da questa ridda di cifre derivano alcune ineludibili considerazioni: a) sono le gestioni pensionistiche del lavoro dipendente quelle più esposte. Basta aggiungere all’Inps i dati delle più importanti gestioni (enti locali e Stato) dell’Inpdap nel pubblico impiego (il cui preventivo nel suo complesso evidenzia ancora un modesto avanzo di circa 300 miliardi), le quali prevedono, a fine anno, un debito rispettivamente di 14,6mila e di quasi 8mila miliardi. I ferrovieri, poi - ultimi arrivati in casa Inps - otterranno dallo Stato, nell’anno in corso, un apporto, a ripiano, di 5.500 miliardi, dopo i 4,5mila del 2000; b) ancorché sia l’aliquota più elevata del mondo, quella del 32,7% é assolutamente sottodimensionata se é vero che, all’interno del bilancio Inps, le prestazioni temporanee "liberano" mediamente 10mila miliardi l’anno a favore delle pensioni (nel 2001 addirittura 11.400 miliardi); c) non vi é corrispondenza tra la struttura delle entrate contributive e quella della spesa; d) un vero e proprio patrimonio (quasi 250mila miliardi dal 1989) raccolto per "l’altra previdenza" é stato sacrificato all’esigenza di finanziare le pensioni, mentre non é mai stato possibile, durante tutta la legislatura, reperire le risorse necessarie ad attuare una organica riforma degli "ammortizzatori sociali". Il nodo delle pensioni si colloca, dunque, al crocevia di numerosi problemi, vecchi e nuovi. Da quelli concernenti il rispetto dei parametri del Patto di stabilità, in un contesto di contenimento della pressione fiscale a quelli riguardanti una più equa distribuzione delle risorse a disposizione di programmi più equilibrati nel campo delle politiche sociali. Basti vedere l’evoluzione della spesa pensionistica in quanto valore assoluto e in rapporto al Pil (tav. 8).

Tav. 8- Spesa pensionistica in % su Pil

 

1992

1993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

Spesa

194.194

207.105

221.754

235.533

255.126

276.755

286.076

296.826

307.302

% Pil

12.8

13.2

13.4

13.2

13.4

13.9

13.8

13.8

13.6

Fonte: Nvsp

In sostanza, anche in presenza di importanti riforme, nel periodo considerato il peso della spesa pensionistica sul Pil é cresciuto di uno 0,8%. Si consideri anche l’evoluzione della quota Gias: era pari a 31.853 miliardi nel 1992, é ammontata a 49.367 miliardi nel 2000. A conti fatti, sommando il saldo negativo tra contributi e prestazioni pari a 31,7mila miliardi alla quota Gias per le gestioni pensionistiche si arriva a determinare un "buco" (da finanziare attraverso la fiscalità generale) di oltre 81mila miliardi. Come già ricordato si tratta del 4% del Pil.

5.1. Fondi pensione

La Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip) ha presentato la sua Relazione istituzionale per l’anno 2000. A voler sintetizzare il senso delle considerazioni che l’Autorità vigilante ha tracciato circa l’andamento e le prospettive della previdenza complementare in Italia si potrebbe far il verso al Manzoni e al suo "Adelante Pedro, con juicio". Secondo la Commissione, infatti, "Con l’anno 2000, il settore della previdenza complementare ha ormai superato la fase di primo impianto, dal punto di vista sia ordinamentale che operativo, per entrare nella fase di consolidamento". Con riferimento al 31 marzo scorso, i fondi pensione di natura negoziale autorizzati hanno raggiunto le 43 unità. Di essi, 23 sono autorizzati all’esercizio dell’attività (solo 12 hanno effettivamente iniziato, però, la raccolta dei contributi). I rimanenti 20 sono nella fase della raccolta delle adesioni preliminare al completamento della procedura autorizzativa. I fondi aperti autorizzati, istituiti da intermediari finanziari abilitati, sono 98 di cui 84 lo sono per l’esercizio dell’attività, di cui 70 già operativi alla fine del 2000. Pertanto, i fondi autorizzati di nuova istituzione sono saliti a 141 contro i 121 esistenti al 31.12.1999. Se si aggiungono le forme preesistenti il numero complessivo diventa pari a 718. Gli iscritti ai fondi negoziali, alla fine del 2000, sono 885.651 con un incremento del 26% rispetto all’anno precedente. Gli aderenti ai fondi aperti sono 223.032 e pertanto gli iscritti all’insieme dei fondi di nuova istituzione risultano essere 1.108.683, con una crescita del 32% rispetto al 1999. Considerando anche le forme previgenti (prima della riforma del 1993) il numero totale degli iscritti sfiora 1,8 milioni di lavoratori. Le risorse complessivamente destinate alle prestazioni dei fondi preesistenti raggiungono i 54.200 miliardi a cui devono aggiungersi le somme riguardanti l’attivo netto destinato alle prestazioni (Andp) raggiunto, alla fine dello scorso anno, dai fondi di nuova istituzione nell’ordine di 3.373 miliardi (dei quali 2.305 miliardi provenienti dalle forme negoziali e 1.068 miliardi dai fondi aperti). Al 31 marzo di quest’anno tale Andp é salito a 4.136 miliardi (2.936 miliardi per i fondi negoziali e 1.200 per quelli aperti). I dati dimostrano dunque che la situazione é in movimento, se non fosse che gli 885.651 aderenti ai fondi negoziali sono tuttora una (modesta ?) avanguardia all’interno di un bacino di potenziali iscritti pari ad oltre 13 milioni di lavoratori. Se scomposto in termini di lavoro dipendente e autonomo, la discrepanza fa ancora più impressione: sono aderenti 868.532 prestatori subordinati rispetto ad un’utenza potenziale di oltre 9 milioni di persone, mentre nel campo del lavoro indipendente vi sono solo 17mila iscritti contro un potenziale di poco inferiore ai 4 milioni. 61.718 (su 630mila potenziali aderenti) sono gli iscritti (quasi tutti lavoratori dipendenti) alle forme negoziali istituite nel territorio (un’esperienza fortemente contrastata dalle parti sociali che preferiscono la dimensione nazionale di categoria). L’area economicamente più forte del Paese fa la parte del leone anche nel campo della previdenza complementare. Gli iscritti ai fondi negoziali sono in misura del 55% nelle regioni del Nord, mentre solo il 16% nel Meridione e nelle Isole (il resto al Centro). Passando ora ad esaminare taluni aspetti qualitativi, balza in evidenza una caratteristica dei fondi che, fino ad ora, non é stato possibile correggere: lo scarso appeal tra i lavoratori più giovani. Uomini e donne con meno di 35 anni rappresentano complessivamente un quarto del totale delle adesioni. Interessante é notare, inoltre, che il confronto con i dati degli iscritti al Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dell’Inps (il caposaldo del regime obbligatorio) mette in evidenza che, mediamente, é più elevata l’età dei partecipanti alle forme previdenziali private a capitalizzazione che non quella degli iscritti al Fondo erogatore dei trattamenti di mano pubblica. Altre considerazioni meritevoli di attenzione, tra le tante, possono essere tratte dalla relazione (che ha accompagnato il documento istituzionale) del presidente della Covip, Lucio Francario: é la prima volta che osservazioni critiche su temi politicamente delicati sono esposte, in una sede ufficiale, da parte dell’Autorità vigilante. Partiamo dal rapporto tra fondi negoziali chiusi e fondi aperti. Vengono rilevati a chiare lettere i seri dubbi di costituzionalità riguardanti l’originaria impostazione del dlgs n.124/1993 che aveva espresso "una forte preferenza per i fondi chiusi, relegando ai margini la prospettiva offerta dai fondi aperti". E’ vero: la disciplina successiva ha modificato tale impianto, specie dopo l’istituzione delle forme pensionistiche individuali (di cui la Covip riconosce l’importanza), realizzabili mediante adesione individuale a un fondo aperto (che si aggiunge alla possibilità di adesione collettiva), il quale é tenuto a fornire la medesima griglia di prestazioni consentite ai fondi negoziali, fruendo dello stesso regime fiscale; ma non si é raggiunta ancora- Francario lo ha riconosciuto in conferenza stampa- un’effettiva parità di condizioni, come sarebbe necessario, soprattutto in un contesto in cui venga previsto lo smobilizzo del tfr. Un altro interrogativo, adombrato della relazione del presidente, riguarda la gerarchia delle fonti istitutive, nel senso che il privilegio riconosciuto alla contrattazione centralizzata sembra essere in contrasto con l’esigenza di diffusione di queste esperienze e- aggiungiamo noi- con il quadro di competenze conferito alle Regioni dalle riforme federaliste. Severa é poi la critica al marchingegno virtuale che contraddistingue la previdenza complementare nel pubblico impiego. In sostanza, afferma il presidente della Covip, vi é il rischio che pure questa tipologia pensionistica - sovraccaricata, nelle categorie pubbliche, di accrediti figurativi, rivalutati a tavolino con una capitalizzazione finta - finisca anch’essa per pesare prevalentemente sulle generazioni future, sulla finanza pubblica e sui bilanci dell’Inpdap e non sugli effettivi rendimenti dei contributi investiti e versati nelle singole posizioni individuali, le quali, tra l’altro sono adesso difficilmente trasferibili, proprio perché ingessate in assetti troppo simili a quelli dei trattamenti obbligatori. Per quanto riguarda la disciplina fiscale, la Covip, anziché rivendicare, come fanno disinvoltamente in tanti, agevolazioni più consistenti con riguardo alle diverse aliquote applicate, sostiene che occorre cambiare radicalmente il sistema di tassazione (che l’Italia condivide solo con Svezia e Danimarca), attraverso l’adozione del modello EET (esenzione della contribuzione e dei rendimenti; tassazione delle prestazioni). Per quanto riguarda la questione del tfr, la Covip sviluppa alcune simulazioni dalle quali scaturisce che soltanto l’utilizzo di tale istituto può determinare un’adeguata "massa critica" per la contribuzione ai fondi, oggi, e per la qualità delle prestazioni, domani. Tuttavia, viene fatto rilevare che sarebbe sbagliato imporre soluzioni dirigistiche e obbligatorie, sottovalutare certe peculiarità del tfr (facoltà di ottenere anticipazioni nel caso di spese familiari importanti) e soprattutto ragionare come se si trattasse di un "risorsa gratuita", di cui le imprese possono agevolmente privarsi. Tanto più che la valorizzazione del tfr, nel 2000, é stata pari al 3,4%: un risultato competitivo anche nei confronti dei rendimenti dei fondi. Oltre ai rammentati apprezzamenti per il progressivo evolversi della situazione, la Covip ha stilato l’atto di morte (decadenza dall’autorizzazione alla raccolta delle adesioni) per quelle esperienze negoziali che non riescono a decollare. Alla fine, un elegante avvertimento alle parti stipulanti del fondo della scuola, il quale non riesce a partire perché non c’é accordo sulla composizione dell’organo amministrativo, che, aggiungendo "posti a tavola" per accontentare tutti gli appetiti, rischia di diventare pletorica. Occorre evitare - lascia intendere la Covip - che, nel pubblico impiego, in conseguenza di una rappresentanza sindacale complessa e articolata, vi siano più amministratori che forme pensionistiche.

6. Sanità

La riforma ter, che porta il nome di Rosy Bindi, é stata archiviata dal Governo Amato, prima ancora che le elezioni del 13 maggio segnassero la vittoria della coalizione della Casa delle libertà, la quale quella riforma aveva sempre osteggiato. Il progetto di Rosy Bindi non era criticabile solo per le problematiche dei medici (esclusività del rapporto di lavoro, full time e attività intra-moenia), ma anche e soprattutto per l’ordinamento istituzionale prefigurato. In primo luogo, la prevista revisione- dotata di un ambito inutilmente vasto e rivolta a cancellare i pochi aspetti innovativi- avrebbe avuto inevitabili ricadute destabilizzanti a livello nazionale, regionale e locale e gettato per anni il Servizio nel caos, costringendolo a riaprire percorsi appena definiti in base alla vigente legislazione e alle modifiche recate- ripetutamente- dal 1992 in poi. Inoltre, mentre la normativa previgente aveva tentato una difficile quadratura del cerchio tra risorse disponibili e servizi, ancorando i secondi alle prime, la riforma Bindi aveva fatto saltare questo vincolo, nel senso di legare il finanziamento alla definizione (mancata) di livelli di assistenza congrui ed essenziali. E’ evidente che tale impostazione può determinare una perdita di controllo sui flussi di spesa, dal momento che viene meno il vincolo delle disponibilità per fare posto alla demagogica priorità dei bisogni. Al di là delle enunciazioni, era evidente, poi, un disegno esplicito di centralizzazione emergente da un impianto legislativo che eccedeva in strumenti - nazionali e uniformi - in regolamentazione, per cui le Regioni sarebbero state costrette a organizzare processi regolati compiutamente - in una logica a canne d’organo- a livello nazionale e ministeriale. Questa logica era in netta contraddizione sia con un diverso assetto di poteri ispirati al federalismo, sia con una maggiore responsabilizzazione delle Regioni nel governo delle risorse. Sarebbe praticamente impossibile organizzare in sede regionale il servizio sanitario, dovendo amministrare apparati e strutture, secondo regole e oneri definiti dal Governo, in sede nazionale. Veniva negata, in pratica, ogni logica di sussidiarietà orizzontale (tra pubblico e privato). Era prevista, infatti, la costituzione (anche con agevolazioni fiscali) di fondi sanitari integrativi (la normativa di attuazione non é ancora stata emanata) chiamati a fornire le prestazioni non assicurate dalla mano pubblica; ma, in assenza di un reale passo indietro del regime pubblico, all’autotutela dei cittadini erano lasciati interventi marginali e frantumati, difficilmente riconducibili a un "pacchetto" organico. Ma l’aspetto più iniquo riguardava la creazione di un livello di sanità privata all’interno del sistema pubblico. La problematica del rapporto esclusivo dei medici, affrontata con furore biecamente ideologico, implicava che il Servizio sanitario dovesse garantire - caricandosi delle relative misure - lo svolgimento della libera professione dei medici optanti (la differenza dai non optanti stava solo a livello stipendiale) all’interno delle strutture ospedaliere. A conti fatti, tale operazione avrebbe comportato un onere di 3-4mila miliardi per lo Stato, determinando per giunta due livelli qualitativi di assistenza (medica ed "alberghiera", a pagamento) all’interno del servizio pubblico. Come si vede, questa impostazione ricordava il sistema sovietico, in cui vi erano strutture pubbliche che fornivano servizi migliori alla "nomenclatura" di regime. Invece, la soluzione dei "mali" del sistema sanitario avrebbe bisogno di una reale sinergia tra il settore pubblico e quello privato, una volta che ne siano ripartiti i compiti e le funzioni. Occorrerebbe definire, cioè, le prestazioni e i servizi essenziali riconosciuti dal Servizio nazionale a tutti i cittadini, mentre ad alcune aree della popolazione si potrebbe garantire di più, sulla base di specifiche condizioni di età, di salute, di reddito. L’importante é che gli utenti siano tutelati per i grandi rischi e che siano salvaguardate, a carico del Servizio pubblico, le funzioni di interesse collettivo: dalla prevenzione all’igiene e profilassi pubblica. Lo Stato deve regolare tutti gli aspetti attinenti alla salute dei cittadini e accreditare le strutture abilitate a erogare assistenza, ma deve incoraggiare il più possibile l’autotutela privata, collettiva ed individuale, per le prestazioni non coperte dal sistema pubblico. Va altresì ricordata la vicenda dell’abolizione (di cui alla legge n. 388/2000) dei ticket sui prodotti farmaceutici che ha provocato una serie di problemi non solo ai conti della sanità, ma più in generale all’andamento del fabbisogno delle amministrazioni pubbliche. Si tenga conto che entro il 2003 é prevista, a legislazione vigente, la completa soppressione delle quote di compartecipazione su tutte le prestazioni sanitarie. Il disordine dei conti in sanità rischia di creare seri problemi anche all’avvio del federalismo.

Tav. 9 - Incidenza % sul Pil della spesa sanitaria pubblica e privata nei maggiori paesi europei (1996)

 

Spesa pubblica % pil

Spesa privata % pli

Totale spesa % pil

Rapporto privata/totale %

Francia

7.8

1.8

9.6

19.3

Germania

8.2

2.3

10.5

21.7

Italia

5.3

2.3

7.6

30.1

Paesi Bassi

6.6

2.0

8.6

23.0

Regno Unito

5.8

1.1

6.9

6.9

Spagna

5.9

1.8

7.7

14.2

Fonte: Ocse 1998

 

 

 

Tav. 10 - Soggetti che hanno effettuato un consumo sanitario secondo le tipologie di prestazione (%)- anno 1996

Visite specialistiche

Specialista pubblico

45.7

Ricoveri

Ospedale pubblico

87.4

Specialista privato

54.3

Casa cura convenz.

7.7

Accertamenti diagnostici

Privato convenzion.

22.9

Casa cura pagamen.

4.8

Privato a pagamento

14.3

Odontoiatria

Pubblico

9.9

Pubblico

62.8

Privato

90.1

Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat 1998.

Le Regioni, infatti, non possono assumersi, in tale situazione, la responsabilità di finanziare con entrate proprie un settore vitale come la sanità quando continua ad essere lo Stato a regolare centralmente i grandi addendi di spesa (assistenza farmaceutica, convenzioni, contratti, ticket, eccetera). Come anticipato, gli interventi in materia sanitaria contenuti nella Finanziaria per il 2001 hanno rischiato di compromettere l’avvio del federalismo e non solo nella impostazione parziale portata avanti dal Governo e dalla maggioranza, ma anche nel quadro di un eventuale più ampio contesto che potrebbe essere determinato nella prossima legislatura. E’ noto, per altro, che la sanità é la chiave di volta di qualunque processo di decentramento ispirato al criterio della sussidiarietà verticale. L’importanza che il settore riveste nel rapporto con i cittadini e il suo peso economico sono destinati ad influenzare decisamente un nuovo sistema di responsabilizzazione diretta delle Regioni nei confronti dei finanziamenti a disposizione e dei servizi da garantire con quelle risorse, senza poter contare sui meccanismi dei trasferimenti vincolati da parte dello Stato. Va da sé, infatti, che, nel contesto che verrà a determinarsi, la spesa sanitaria- che rappresenta la gran parte della manovra finanziaria delle Regioni - può scappare di mano e provocare squilibri drammatici nei bilanci delle Regioni, se l’avvio del processo di decentramento non sarà corretto nella individuazione del fabbisogno necessario ad assicurare il funzionamento del Servizio sanitario. La cosa assume particolare rilevanza con riferimento ai disavanzi pregressi, nell’ordine di 16mila miliardi. La copertura di questo disavanzo era stata definita con una modulazione pluriennale sulla base di un’intesa intervenuta tra Stato e Regioni. A fronte di quella intesa (realizzata in sede politica il 3 agosto 2000) le Regioni si sono dichiarate disponibili a farsi carico degli ulteriori saldi negativi che dovessero emergere nei prossimi anni. La soluzione trovata aveva dunque un senso. Non sarebbe stata compresa una esperienza di federalismo che "derogasse" il finanziamento del settore sanitario, conservando il meccanismo dei trasferimenti dal Fondo sanitario nazionale. Il fatto é che questa soluzione razionale, faticosamente raggiunta dopo anni, é stata praticamente vanificata dai pesanti interventi recati alla Finanziaria 2001. Lo smantellamento progressivo (entro il 2003) del sistema della partecipazione degli assistiti alla spesa sanitaria (i c.d. ticket) é destinato a produrre effetti devastanti sulla spesa sanitaria e quindi sul quadro più generale dei rapporti finanziari tra Stato e Regioni, proprio nel momento del decollo del federalismo. Per adesso é prevista una (incerta ed insufficiente) copertura soltanto per il 2001, mentre ai bilanci regionali mancheranno (ecco il lucro cessante) le entrate derivanti dalle quote di partecipazione (per altro riscosse immediatamente in sede locale) e si deteriorerà l’assetto delle uscite (ecco il danno emergente), perché rifluiranno all’interno del Servizio prestazioni che ne erano praticamente uscite (si pensi alle prestazioni specialistiche e di diagnostica strumentale, fino ad ora tenute a freno dalle franchigie). E’ pericoloso, poi, riaprire la spirale dei consumi farmaceutici. L’assistenza farmaceutica, nei primi anni novanta, ha pagato il prezzo più elevato al contenimento della spesa sanitaria. Negli anni scorsi- ai tempi di Rosy Bindi - si era perfino messo nella Finanziaria una norma per la quale l’industria farmaceutica doveva farsi carico degli sfondamenti di spesa. Poi, come tutte le "gride", questa norma non é mai stata applicata, fino alla sua abolizione formale nella legge n. 388/2000. Non ha senso, però, una totale revisione delle prestazioni farmaceutiche, anche per quanto riguarda la classificazione dei farmaci, dopo anni in cui faticosamente si era trovato un equilibrio. Del resto, le disposizioni di razionalizzazione, controllo e monitoraggio, contenute nella Finanziaria, sembrano abbastanza inefficaci e predicatorie. Si tenga presente che l’aggravarsi di un rischio-sanità comporterà necessariamente una tensione sul versante dell’Irap, che é divenuta la principale fonte di finanziamento.

7. Valutazioni conclusive

La XIII legislatura, dunque, nel campo del lavoro e del welfare state, ha avuto un avvio contrastato, ma non privo di speranze e di risultati. L’eclissi del riformismo ha coinciso con la direzione diessina dell’Esecutivo: più forti sono diventati i condizionamenti del sindacato e della Cgil. Ovviamente a scapito del tasso di liberalizzazione dell’economia e della società italiana. Nella XIII legislatura é stata varata anche la legge di riforma dell’assistenza, il cui interesse é pari soltanto alla sua mancata applicazione e alle difficoltà con cui si potrà attuarla. La legge, infatti, riconosce ai cittadini altri diritti sociali, fino ad ora affidati a quanto le amministrazioni locali avevano predisposto nel corso del tempo (nel campo dell’assistenza, i trasferimenti monetari sono in prevalenza a carico dello Stato, mentre i servizi sono fioriti a livello locale, con interventi organizzati secondo mix di pubblico e privato). Il fatto é che ai diritti riconosciuti non corrisponde un adeguato piano di risorse dal lato del finanziamento. Eppure, l’assistenza rappresenta il settore con maggiori potenzialità nella difficile "missione" di dare risposte ai nuovi bisogni. Il discorso torna dunque daccapo: é necessario riconvertire la spesa sociale per poter realizzare politiche più moderne ed innovative.

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