Welfare e lavoro
Giuliano Cazzola
Dirigente dello Stato - Economista Esperto di Politiche Sociali
1. Premessa.
La XIII legislatura può essere suddivisa - a grandi
linee- in due fasi distinte. Durante i primi due anni, il Governo
presieduto da Romano Prodi ha tentato di impostare e attuare una linea di
condotta riformista. A parte il merito storico dell’aver consentito al
Paese, sia pure in zona Cesarini, di varcare la soglie della moneta unica
col gruppo di testa, all’Esecutivo presieduto dal professore bolognese
va riconosciuto di avere tentato una riforma organica del sistema di
sicurezza sociale (le conclusioni della Commissione presieduta da Paolo
Onofri costituiscono un contributo di grande rilievo ancorché negletto),
di aver realizzato una revisione degli aspetti più critici del riordino
pensionistico attuato dal Governo Dini e di aver portato a termine un
pacchetto di misure (noto col nome del ministro Tiziano Treu) che ha
contribuito- pur con tanti limiti - a sbloccare il mercato del lavoro e a
rimettere in moto le dinamiche dell’occupazione. In particolare, in tema
di pensioni, la legge n. 449/1997 ha fatto avanzare notevolmente
l’armonizzazione delle regole tra i diversi regimi e, segnatamente, tra
lavoro pubblico e privato ha corretto (sia pure con tante deroghe volute
dal Prc, allora parte integrante della maggioranza) la normativa per il
pensionamento anticipato di anzianità, proprio in chiave di maggiore
uniformità della disciplina. Nella seconda parte della legislatura, con i
governi D’Alema e Amato, si é determinato un circolo vizioso tra
maggioranza e Cgil che non solo ha guastato i rapporti tra le
confederazioni sindacali, ma ha sostanzialmente paralizzato - in una
spirale di veti e preclusioni - ogni azione veramente riformatrice. Anzi,
la legislazione del lavoro (la parte più moderna della dottrina si
interroga se il diritto del lavoro abbia ancora una sua autonomia o non
debba diventare invece una branca della problematica attinente alla
concorrenza) ha rischiato un ulteriore grave irrigidimento grazie a due
provvedimenti legislativi che hanno fatto la spola tra le Camere senza
arrivare- fortunatamente - all’approvazione definitiva. Si trattava dei
disegni di legge per la disciplina della rappresentanza sindacale (Rsu) e
per la regolamentazione dei c.d. contratti atipici. Vediamo, in primo
luogo, per quali motivi viene espresso un giudizio tanto severo a
proposito del tentativo di affrontare la questione (in sé essenziale)
della ridefinizione delle regole della rappresentanza e della
rappresentatività sindacali, entrate in crisi, dapprima, in via di fatto,
poi, di conseguenza, persino sul piano dell’assetto giuridico.
2. Il progetto delle Rsu.
Il disegno di legge (conosciuto per il nome del primo
firmatario, Piero Gasperoni, ex dirigente della Cgil) nasceva da un
lodevole intento: quello di riorganizzare l’impianto della
rappresentanza sindacale messo in crisi - nell’assetto definito nella
prassi dei decenni che hanno accompagnato la mancata attuazione
dell’articolo 39 della Costituzione - dalle trasformazioni intervenute
nel mercato del lavoro (sul piano sostanziale) e dall’esito del
referendum del 1995 per la (parziale) abrogazione dell’articolo 19 dello
Statuto dei lavoratori (sul piano giuridico-formale). Purtroppo, anche le
vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Così, il nuovo
modello della rappresentanza - dovendo ricomprendere e sintetizzare le
diverse tensioni delle tante anime e culture che si agitano nella Sinistra
politica e sindacale e sforzandosi di promuovere l’insediamento, ope
legis, del sindacato anche nelle realtà produttive più difficilmente
penetrabili - somigliava maggiormente ad un regolamento amministrativo
(ricco di casistiche puntigliose) che ad uno strumento agile delle
relazioni industriali. Il problema, però, non era solo quello
dell’intervento invasivo della norma statuale che pure restava
burocraticamente eccessivo. Si pensi, a titolo d’esempio, che é
affidato al ministro del Lavoro il compito di stabilire le regole per la
costituzione delle Rsu nelle piccole imprese nel caso in cui non sia
possibile raggiungere un’intesa negoziale tra le parti (in termini
applicativi dei criteri previsti dalla legge). Una scelta, questa, da
sindacato "obbligatorio", tale da accrescere e drogare il potere
contrattuale delle confederazioni, le quali avrebbero potuto trarre più
vantaggi dalla pressione politica sul Governo che dall’azione svolta al
tavolo delle trattative nel confronto con le associazioni datoriali.
L’innovazione più rilevante riguardava, però, l’impostazione
strategica del provvedimento, il quale spostava l’asse della
legislazione di sostegno da fuori a dentro il luogo di lavoro. E’ bene
ricordare, a questo proposito, che, nei primi decenni del dopoguerra, il
problema della libertà sindacale ha riguardato soprattutto la piena
legittimazione del sindacato esterno all’azienda e, in particolare,
della Cgil. In altre parole, la confederazione (allora) socialcomunista é
stata costretta a lottare per essere riconosciuta come soggetto
interlocutore, a pieno titolo e pari dignità, non solo dalle
organizzazioni imprenditoriali, ma anche dagli altri partner sindacali.
Col senno di poi si può onestamente riconoscere che le discriminazioni
ricordate (inaccettabili secondo la sensibilità di oggi) appartenevano al
clima politico di quegli anni di cui tutte le parti in causa avevano la
loro quota di responsabilità. I diritti di libertà dei lavoratori,
tuttavia, erano spesso conculcati, come ebbe a confermare persino una
Commissione parlamentare di indagine. In generale, però, negli anni del
decollo del "miracolo economico" (con la ripresa industriale del
Paese), il padronato nutriva una posizione ostile nei confronti
dell’agibilità sindacale in fabbrica, non tanto quale valore in sé,
quanto piuttosto come atteggiamento negativo nei confronti del
sindacalismo storico, di matrice confederale e, quindi, ispirato alle
grandi correnti ideali e partitiche del dopoguerra. Non a caso, in quei
tempi, la battaglia per l’autonomia del sindacato dai padroni (allora si
diceva così) si riversava contro i cosiddetti sindacati gialli, quelli
fondati e operanti, cioè, secondo logiche aziendaliste e ritenuti - juris
et de jure - succubi dei datori di lavoro. Fino al punto di provocare,
nello Statuto dei lavoratori, un esplicito divieto, all’articolo 17, ai
datori di lavoro e alle loro organizzazioni "di costruire o
sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di
lavoratori". In proposito, la giurisprudenza consolidata, in materia
di "sindacati di comodo", ha sottolineato che oggetto del
divieto é anche il favoreggiamento di organizzazioni sindacali che
abbiano radici fuori dell’azienda, pur ritenendo comunque
indispensabile, ai fini dell’applicazione della norma, che
l’associazione sindacale abbia una rappresentanza nell’azienda
medesima. Tali considerazioni evidenziano chiaramente come la struttura
sindacale in azienda fosse, in quella impostazione giuridica e culturale,
ancora sotto osservazione e per essa dovesse garantire l’organizzazione
esterna.
2.1. La storia alle spalle
C’era tutta questa storia a monte della legge n.
300/1970 (lo Statuto dei lavoratori) e delle innovazioni contrattuali
scoppiate alla fine degli anni sessanta durante l’autunno
"caldo". Nel senso, cioè, che i diritti riconosciuti al
sindacato in azienda (dall’agibilità all’esercizio della
contrattazione) erano una proiezione delle prerogative attribuite alla
struttura esterna, la cui legittimazione era alla base della svolta nel
campo delle relazioni industriali, conquistata, dapprima, da Cgil, Cisl e
Uil nei contratti collettivi; sanzionata ed estesa, poi, dalla legge.
Spettava, infatti, al sindacato esterno nominare i propri rappresentanti
nei luoghi di lavoro, promuovere le assemblee, affiggere la stampa e i
comunicati, assegnare i distacchi e i permessi retribuiti, essere titolare
della contrattazione decentrata. Tutto questo in conseguenza del principio
del sindacato maggiormente rappresentativo (come tale ammesso al negoziato
e alla stipula dei contratti collettivi). Questo principio si fondava
essenzialmente su criteri empirici e fattuali, adottati per ragioni
pratiche in sostituzione della disciplina prevista dall’articolo 39
della Costituzione, mai attuato. In pratica, l’articolo 19 dello Statuto
delineava una tautologia: erano abilitate a costituire le rappresentanze
aziendali le associazioni sindacali aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale (un dato metagiuridico) e
quelle non affiliate, purché firmatarie di contratti di lavoro applicati
in azienda. L’effetto ablativo del voto degli italiani, nel referendum
del 1995, ha collegato direttamente il concetto di maggiore
rappresentatività al contratto vigente nel posto di lavoro. Anche per
queste ragioni, il disegno di legge all’esame del Parlamento ribaltava
l’impostazione tradizionale e trasferisce la titolarità del potere
sindacale dall’esterno all’interno dell’azienda, realizzando persino
una reductio ad unum del pluralismo sindacale in capo alle Rsu, organismi
a base strettamente elettiva (una sorta di Commissioni interne
"sindacalizzate") da parte di tutti i lavoratori. In aggiunta,
il consenso ricevuto dalle organizzazioni esterne nelle elezioni delle
rappresentanze unitarie aziendali (per essere considerata rappresentativa
ogni confederazione deve ottenere un minimo di suffragi tra i
lavoratori-elettori) diviene il principale requisito per l’ammissione al
club dei soggetti rappresentativi ( e per poter partecipare, quindi, ai
negoziati). In sostanza, quella legittimazione che derivava
dall’appartenere ad una delle formazioni "maggiormente
rappresentative" e (perciò) firmatarie dei contratti - una volta
approvata nella sua originaria impostazione la riforma Gasperoni - doveva
essere cercata da ciascuna forza sindacale attraverso la competizione
elettorale. E’ appena il caso di ricordare che il metro di misura
individuato dall’articolo 39 era dato dal numero degli aderenti. Ma non
vanno ricercate in quest’ultima discrepanza le principali critiche da
rivolgere al progetto.
2.2. Gli aspetti critici
Il diritto a promuovere la costituzione delle Rsu e di
presentare le relative liste spettava, congiuntamente o separatamente,
alle associazioni sindacali che avessero negoziato e sottoscritti i
contratti collettivi nazionali o territoriali, purché applicati nelle
unità produttive in cui si svolgeva l’elezione, nonché a tutte le
altre organizzazioni in grado di provare, tramite la contribuzione, una
presenza associativa non inferiore al 5 per cento del totale degli
addetti. Il medesimo diritto era riconosciuto a quelle forme spontanee di
lavoratori che siano in grado di raccogliere un numero di firme
anch’esso non inferiore alla percentuale del 5 per cento. Si tenga
presente che la complessa partita delle elezioni era sottoposta a
procedure di conciliazione (appositi comitati paritetici provinciali) il
cui intervento preliminare era condizione di procedibilità per poter
sottoporre le eventuali controversie al giudice del lavoro. Addirittura,
veniva previsto il ricorso ex articolo 28 della legge n. 300/1970 (lo
strumento individuato per rimuovere i comportamenti antisindacali) nel
caso che siano frapposti ostacoli allo svolgimento delle elezioni e alla
proclamazione dei risultati. Le modalità e i criteri di composizione
della rappresentanza unitaria erano puntigliosamente definiti dalla legge,
senza tenere conto che, quanto più é estesa la normativa, tanto più si
aprono spazi per conflitti davanti al giudice ordinario. Inoltre, uno dei
passaggi chiave della riforma (l’articolo 5) stabiliva, senza mezzi
termini, che alle Rsu, oltre ai cosiddetti diritti di informazione,
spettavano "i diritti alla contrattazione", sia pure con
"l’assistenza" delle organizzazioni rappresentative
negoziatrici del contratto nazionale applicato nell’unità produttiva,
al quale toccava il compito di definire "le modalità" con le
quali le Rsu potevano esercitare l’attività contrattuale sulle materie
rinviate ad accordi aziendali. In sostanza, nel momento in cui si
gettavano le basi per una possibile dissociazione tra la rappresentanza
esterna al posto di lavoro e quella interna, si doveva mettere nel conto
anche l’eventualità che i grandi apparati outsiders prendessero impegni
di moderazione al tavolo della concertazione, mentre, a livello di
azienda, le Rsu suonassero la musica delle rivendicazioni salariali. In
fondo, sia il negoziatore incallito e immanicato col potere padronale e
politico, sia il comitato di base avevano propri ambiti di intervento di
cui erano titolari. Si trattava, evidentemente, di soggetti diversi, non
più tenuti insieme, in via di principio, da legami di carattere
endoassociativo, come avveniva nella precedente situazione. Nel disegno
della legge, ogni organismo (nazionale ed aziendale) aveva una propria
fisionomia e compiti definiti. Solo che, mancando praticamente una
gerarchia delle fonti contrattuali, ogni istanza era abilitata a fare la
sua corsa. La circostanza critica é resa evidente anche dal dibattito
parlamentare che aveva dedicato molto impegno alla ricerca di una
soluzione maggiormente equilibrata, fino al punto di individuare una sorta
di partnership tra Rsu e associazioni sindacali nella titolarità della
contrattazione a livello aziendale. Su questo punto si sono concentrate
alcune delle preoccupazioni della Confindustria, la quale teme che i
datori debbano negoziare, in fabbrica, con interlocutori diversi da quelli
che essa trova al tavolo delle trattative nazionali e dei patti sociali.
Inoltre, all’imprenditore può essere legittimamente imposto l’obbligo
di convivere con un organo chiamato a svolgere una funzione di
rappresentanza dei propri dipendenti, a ricevere le informazioni e a
collaborare al buon svolgimento del processo produttivo. E’, invece,
assai discutibile che esso sia costretto dalla legge ad accettare - come
avviene nel progetto in discussione nella passata legislatura - una
struttura dotata di potere negoziale con la quale, nella sua interezza,
abbia l’obbligo giuridico di confrontarsi. Una struttura che risulta
essere, nel medesimo tempo, una sorta di litisconsorzio necessario per le
organizzazioni sindacali. Nel diritto privato - fino a prova contraria -
esercitare o meno la contrattazione é una opzione che si effettua con gli
interlocutori di propria scelta.
2.3. L’efficacia erga omnes dei contratti collettivi
Ma é toccato all’articolo 10 di suscitare un coro
unanime di critiche, tanto da essere ritenuto illegittimo sul piano
costituzionale e in palese violazione con l’articolo 39, il quale non
solo non é abrogato, ma non rientrava neppure tra quelli sottoposti a
revisione e a modifica ai tempi della Commissione bicamerale. A stare al
progetto Gasperoni, avevano efficacia generale e obbligavano i datori di
lavoro ad applicarli a tutti i dipendenti quei contratti collettivi
nazionali stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori che
rappresentino "almeno il 51 per cento come media tra dato associativo
e dato elettorale nel comparto o area contrattuale o almeno il 60 per
cento del dato elettorale nel medesimo ambito". Il punto cruciale
risiedeva, però, nel meccanismo dell’efficacia erga omnes (un argomento
di grande delicatezza e rilievo economico) che é del tutto avulso da
quanto previsto, in materia, dalla legge fondamentale. Il citato articolo
39 stabilisce, infatti, che le organizzazioni stipulanti debbano far
valere precisi requisiti: e cioè la registrazione e l’attribuzione
della personalità giuridica, per ottenere le quali é necessario uno
statuto a base democratica. In mancanza di tali requisiti in capo ai
soggetti stipulanti - e al di fuori dalla procedura indicata dalla norma
costituzionale - non é consentito realizzare, con altri mezzi,
l’effetto della applicazione erga omnes dei contatti collettivi. Non
pare, di certo, una indebita ingerenza negli affari delle confederazioni
sindacali il pretendere che esse abbiano una fisionomia giuridica un poco
più strutturata di quella consentita ad una bocciofila o ad una
associazione cultrice del ballo liscio alla romagnola. E non é una
violazione del sacrosanto principio della libertà sindacale richiedere
(prima di tutto nell’interesse degli iscritti), ad organizzazioni che
gestiscono circa 1.500 miliardi l’anno, di redigere e rendere pubblico
un bilancio d’esercizio. Tra l’altro, il disegno di legge affrontava
anche il tema delle trattenute sindacali in busta paga, già sottoposto a
referendum nel 1995. La soluzione trovata era veramente un colpo di
ingegno: da allora in avanti si sarebbe parlato di "cessione del
credito per salari e stipendi futuri" del lavoratore
all’organizzazione sindacale a cui é iscritto, per il tramite
dell’azienda. Il disegno di legge sulle Rsu ha imbarazzato non solo il
fronte sindacale (la Cisl non gradiva una soluzione legislativa pesante
come quella prefigurata), ma anche la stessa maggioranza di Centrosinistra
e, in particolare, la componente centrista. Il ministro Salvi tentò
qualche correzione; ma lo "strappo" con le regole della libertà
sindacale (che deve essere necessariamente un fatto bipartisan) restava
troppo violento. Per fortuna, il progetto é caduto, ma é bene ricordarne
l’impianto per avere consapevolezza del rischio che le libertà
economiche e sociali hanno corso nella passata legislatura: avere un
sindacato imposto per legge.
3. Il lavoro atipico.
Il progetto di legge per la disciplina del lavoro
atipico portava la firma di Carlo Smuraglia, diessino, presidente della
Commissione Lavoro del Senato, da sempre legato alla Cgil. Il fenomeno é
noto. Si tratta di una condizione di lavoro, regolata da rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, che si é fortemente ampliata
negli ultimi anni, proprio perché rappresenta una forma di flessibilità
accentuata in un contesto del mercato del lavoro "ufficiale"
connotato da troppe rigidità. Per queste figure é stato istituito, in
sede di riforma delle pensioni (legge n. 335/1995), un regime di
previdenza obbligatoria (la gestione dei parasubordinati presso l’Inps),
che oltre alla pensione tutela, in parte, la malattia, la maternità e
l’infortunio. Tale gestione- forzatamente attiva, poiché per ora si
limita a riscuotere i contributi, senza erogare prestazioni- rappresenta
il solo elemento di unificazione delle differenti realtà professionali
riconducibili alla fattispecie. Il numero delle iscrizioni é in costante
crescita (tav. 1).
Tav. 1- Iscritti alla gestione dei parasubordinati presso l’Inps
1996
|
1997
|
1998
|
1999
|
2000
|
822.892
|
1.080.045
|
1.516.472
|
1.685.934
|
1.897.348
|
Fonte: Rendiconto Inps 2000
Nota. La tavola indica le posizioni contributive. Le persone fisiche
sono in numero inferiore, in quanto la stessa persona può avere nel corso
dell’anno posizioni diverse.
L’analisi della distribuzione percentuale dei
collaboratori per numero di committenti dimostra che in realtà si tratta
di una della tante forme escogitate negli ultimi anni per dare flessibilità
al mercato del lavoro (purtroppo a scapito delle generazioni più
giovani). Le analisi compiute sul dualismo del mercato del lavoro sono
note: é la condizione relativamente privilegiata degli insiders a
provocare una totale messa a carico sugli outsiders della flessibilità di
cui necessita il sistema nel suo insieme. Infatti, il 91% dei
collaboratori presta la propria opera per un solo committente. E non si
tratta solo di persone giovani, a prova di quanto sia estesa la
precarizzazione del lavoro (tav. 2) e come tale scomoda condizione si
spinga fino ad età in cui le persone sono chiamate solitamente a precise
responsabilità familiari. Nel caso dei collaboratori più anziani va
tenuto presente che anche i pensionati che lavorano devono essere iscritti
alla gestione.
Tav. 2- Classi di età dei lavoratori parasubordinati (1999)
Inf. 20
|
20-24
|
25-29
|
30-39
|
40-49
|
50-59
|
60 e +
|
Totale
|
8.304
|
88.551
|
187.862
|
379.049
|
274.674
|
234.047
|
99.618
|
1.272.094
|
Fonte: Commissione Brambilla 2001
Nota: sono indicate le persone fisiche.
Va da sé che la materia merita una regolamentazione.
La via corretta da battere doveva essere quella della unificazione del
mercato del lavoro (non più riconducibile a fattispecie comuni), mediante
l’adozione di nuove regole minime, in grado di valere in modo
universale. Un tentativo, questo, a cui si era dedicato il ministro del
Lavoro Tiziano Treu, all’inizio della legislatura. Avvalendosi della
collaborazione del prof. Marco Biagi (allora suo consulente) Treu aveva
messo in circolazione un progetto di Statuto dei lavori che aveva
l’ambizione di ridisegnare la sfera delle tutele, superando l’attuale
suddivisione per caste. L’attuale modello delle garanzie, infatti,
propone un pacchetto di diritti fortemente discriminante, secondo logiche
del tutto inique. Il generoso tentativo di Treu fallì proprio per
l’opposizione dei sindacati e della maggioranza, trovando in Carlo
Smuraglia il maggiore oppositore all’interno delle istituzioni. Il
progetto del senatore della Quercia per la disciplina dei contratti
atipici rappresentò la massima espressione della cultura gerarchica dei
diritti, secondo il solito schema: il lavoro subordinato nella grande
impresa (il modello dello Statuto dei lavoratori del 1970) costituisce il
prototipo giuridico; gli altri rapporti sono ricavati "a
scalare" su quel modello. Così, ai collaboratori venivano estesi, in
quanto compatibili, spezzoni di istituti e di prerogative riconosciuti a
Cipputi. Il progetto di legge creava imbarazzi agli stessi sindacati, ai
quali non sfuggono le realtà dell’economia e sanno bene di non poter
irreggimentare il mondo del lavoro secondo i canoni della parte più
sindacalizzata e tutelata. Se in Italia non vi fosse il potere giudiziario
di reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamento ritenuto
ingiustificato, i rapporti di lavoro sarebbero normalmente a tempo
indeterminato e non ci sarebbe stato bisogno di trovare le scappatoie
della flessibilità in entrata, proprio per ottenerla anche in uscita. I
sindacati lo sanno bene: le regole che valgono per i settori protetti non
possono essere estese anche a quelli non protetti; anzi, sono le aree di
flessibilità estrema che consentono di mantenere (perché la compensano)
una marcata rigidità a favore degli insiders. Anche il progetto Smuraglia
si perse nella navetta tra Senato e Camera e cadde insieme alla
legislatura. Prima di chiudere i battenti il Parlamento (con un voto
inspiegabilmente bipartisan) varò una riforma dei patronati sindacali
assai favorevole, sul piano delle risorse assicurate attraverso il
finanziamento pubblico e di ruoli assegnati a queste istituzioni tanto
rilevanti nel determinare il radicamento del sindacato nel territorio.
4. L’occupazione
Con l’aiuto dell’Istat (tav. 3) proviamo a
ragionare sulle trasformazioni intervenute, nella passata legislatura, nel
mercato del lavoro. Innanzi tutto, si é avuto un incremento complessivo
di 955mila persone occupate dal 1996 al 2000 (+ 4,7%). Di queste, 859mila
sono alle dipendenze e 95mila autonomi. Se limitiamo il confronto al 1999,
notiamo che gli occupati crescono di 388mila unità (+ 1,9%), che
corrispondono, in pratica, a un terzo dell’incremento registrato
nell’intero periodo. Non a caso l’anno scorso é stato particolarmente
dinamico sul piano dello sviluppo economico (+ 2,9% contro un aumento
medio del Pil, nel periodo 1996-1999, dell’1,6%). Ad osservare i trend
interni si notano alcune tendenze interessanti. E’ abbastanza sostenuto
l’incremento dei dipendenti con rapporto di lavoro permanente (373mila,
pari al + 2,8% nell’intero periodo considerato), ma é più consistente
quello degli occupati temporanei (+ 486mila, pari al 46,6% nel 2000 sul
1996). Se poi volessimo sommare gli occupati con rapporti flessibili
(permanenti a tempo parziale, temporanei a tempo pieno e a part time)
scopriremmo che a questo insieme non troppo omogeneo ma rappresentativo di
una linea di tendenza appartiene (741mila lavoratori) il nucleo della
nuova occupazione. Per quanto riguarda il rapporto tra lavoro dipendente e
indipendente, l’Italia continua ad avere un vero e proprio primato della
seconda tipologia (quasi 6 milioni di persone occupate pari ad oltre il
28% del totale dei lavoratori). In generale, non é elevata la quota del
lavoro a part time tra gli autonomi (438mila) anche se in crescita (+
11,9% nell’arco temporale considerato). Anche in questo caso, volendo
sommare i lavoratori, autonomi e alle dipendenze, impiegati in rapporti a
tempo parziale e temporanei si arriva a sfiorare i due milioni di unità
(quasi il 10% del totale). Escludendo il lavoro agricolo, dove i rapporti
saltuari sono assai frequenti, la quota di contratti a termine é
aumentata dell’8,6% nel 1999 e del 9,3% nel 2000. Interessante é pure
il dato del lavoro interinale (o in affitto). Le associazioni operanti nel
settore stimano che, lo scorso anno, si siano avute 472mila chiamate,
oltre l’80% in più sul 1999. La durata media é salita a 240 ore, per
un input equivalente a quello fornito da 67mila occupati a full time per
l’intero anno contro 29mila del 1999. I lavoratori interinali sono in
prevalenza maschi: una quota del 62%, praticamente equivalente a quella
dell’occupazione maschile sul totale. Ciò significa il segmento più
forte del mercato del lavoro rimane tale anche quando i rapporti sono
saltuari e precari. I lavoratori in affitto sono giovani (il 68% ha meno
di 30 anni), impiegati soprattutto nell’industria (54%). La mobilità di
questi lavoratori nel territorio é assai elevata. Uno studio del
Ministero del lavoro, infatti, ha esaminato un campione da cui risultava
che, negli ultimi due anni, più di un terzo dei lavoratori residenti nel
Mezzogiorno prestava la propria opera in aziende del Nord. Sul piano delle
politiche attive del lavoro (il dato é del 1999) si sono spesi
(formazione professionale, incentivi all’occupazione, integrazione dei
disabili, creazione diretta di posti di lavoro, incentivi all’autoimpiego)
più di 15mila miliardi di lire a favore di 2,5 milioni di beneficiari.
Tav. 3 – La struttura dell’occupazione in Italia.
Tipo di occupazione
|
Anno 2000
|
Variazione 2000/1999
|
Variazione 2000/1996
|
|
In migliaia
|
Quota %
|
In migliaia
|
Increm. %
|
In migliaia
|
Increm. %
|
Indipendente
|
5.949
|
28.2
|
80
|
1.4
|
95
|
1.6
|
A tempo pieno
|
5.511
|
26.1
|
60
|
1.1
|
49
|
0.9
|
A tempo parziale
|
438
|
2.1
|
20
|
4.7
|
47
|
11.9
|
Dipendente
|
15.131
|
71.8
|
308
|
2.1
|
859
|
6.0
|
Permanente
|
13.601
|
64.5
|
188
|
1.4
|
373
|
2.8
|
A tempo pieno
|
12.748
|
60.5
|
105
|
0.8
|
118
|
0.9
|
A tempo parziale
|
853
|
4.0
|
83
|
10.8
|
255
|
42.5
|
Temporanea
|
1530
|
7.2
|
120
|
8.5
|
486
|
46.6
|
A tempo pieno
|
1.042
|
4.9
|
80
|
8.3
|
313
|
42.9
|
A tempo parziale
|
488
|
2.3
|
40
|
8.8
|
173
|
55.0
|
Totale
|
21.080
|
100.00
|
388
|
1.9
|
955
|
4.7
|
Fonte: Istat Indagine sulla forza lavoro.
Deludente (tav. 4) é ancora il rapporto con gli
andamenti dell’Unione europea. Come si vede, le differenze sono
sostanziali (all’interno del dato vi é anche il divario Nord-Sud che le
esaspera maggiormente).
Tav. 4 - Tasso (%) di occupazione: il gap con l’Europa (anno 2000).
|
Maschi
|
Femmine
|
Totale
|
55-64enni
|
Italia
|
67.5
|
39.6
|
53.5
|
27.7
|
Unione Europea
|
72.5
|
54.0
|
63.3
|
37.7
|
Fonte: Ministero del welfare.
5. Pensioni e previdenza
Per avere un’idea sulla condizione di salute dei
regimi obbligatori non é necessario scoprire arcani misteri; basterebbe
considerare con un po’ di attenzione i documenti ufficiali degli Enti e
valutare le stesse previsioni che il Governo ha tracciato negli atti di
sua competenza. Cominciamo da questi ultimi. Nel Rapporto 2001 del Nucleo
di vigilanza sulla spesa pensionistica (Nvsp), alle dirette dipendenze del
Ministro del Lavoro, si é dovuto riconoscere che il disavanzo (la
differenza tra uscite per prestazioni ed entrate contributive per 29,6mila
miliardi di lire, nel 2000) é pari all’1,7% del Pil. A tale ammontare
si deve aggiungere l’importo dei trasferimenti dal bilancio dello Stato
a titolo di interventi assistenziali a supporto delle pensioni
(integrazione al minimo, ecc.), corrispondente (si tratta di circa 50mila
miliardi) al 2,3% del Pil. Tenendo conto, allora, dei parametri e delle
scadenze che, in forza del Patto di stabilità, devono portare il nostro
Paese al pareggio di bilancio entro il 2003, si comprende che il deficit
pensionistico, in senso stretto, condiziona e assorbe praticamente il
disavanzo della Pubblica amministrazione.
Tav. 5 - Il disavanzo pensionistico in % su Pil
Settore
|
% del Pil
|
Settore
|
% del Pil
|
Privati
|
0.60
|
Parasubordinati
|
-0.10
|
Pubblici
|
1.00
|
Gias
|
2.35
|
Autonomi
|
0.15
|
|
|
Fonte: Paolo Onofri
Inoltre, dovendo fare fronte (tav. 5) ad un onere
complessivo pari al 4% del Pil (al di fuori della copertura contributiva)
per sostenere il finanziamento del sistema pensionistico, non vi sarà
modo per ridurre sostanzialmente la pressione tributaria e il
"cuneo" fiscale- contributivo e per garantire una maggiore
competitività dell’apparato produttivo. Nella pubblicistica consueta,
poi, si racconta che qualche problema si porrà nella fase di transizione
(la famosa "gobba" del grafico presentato in tutte le sedi,
secondo il quale la spesa pensionistica dovrebbe salire fino al 16% del
Pil intorno al 2030 per poi ridiscendere a metà del secolo), ma che tutto
andrà a posto quando la riforma Dini sarà a regime. Il fatto é che, in
queste analisi, non si mette a confronto la dinamica della spesa con
quella delle entrate; e, quindi, si perdono di vista gli andamenti dei
deficit delle più importanti gestioni. Se ci prendessimo la briga di
osservare i bilanci preventivi 2001 dei maggiori Istituti previdenziali
(approvati a fine 2000) e di considerare gli andamenti dei fondi, delle
casse e delle gestioni che erogano solo trattamenti pensionistici
scopriremmo delle amare verità: a) un deficit di 17mila miliardi nell’Inps
(incluso un apporto positivo di 5.500 miliardi della gestione dei
parasubordinati) e un debito accumulato di 234mila miliardi; b) un
disavanzo di 2mila miliardi nell’Inpdap (l’Ente del pubblico impiego
espone, poi, un debito complessivo di 22mila miliardi nelle sole gestioni
degli statali ed enti locali, ancorché compensato da un forte avanzo, sia
d’esercizio che consolidato, della cassa dei sanitari). E’ vero che
questi risultati "in rosso" vengono elisi- ma non interamente-
da quelli "in nero" delle poste positive. Le prestazioni
temporanee (assegni familiari, cassa integrazione, disoccupazione,
indennità varie) nel caso dell’Inps soccorrono, ad esempio, le pensioni
dei lavoratori dipendenti con 11mila miliardi di attivo. Ma questo andazzo
é il segno di un sistema di sicurezza sociale distorto, in quanto grandi
risorse, raccolte con finalità specifiche, vengono dirottate (nel tempo
si é trattato di centinaia di migliaia di miliardi) a sostegno di
traballanti regimi pensionistici. Così, vi sono bisogni ed esigenze che
risultano sacrificati (si pensi- benché le relative voci siano in attivo
- alla mancanza di una riforma degli ammortizzatori sociali in una logica
di promozione del lavoro e della formazione). M e n t r e altri interessi,
dotati di maggiore protezione nell’ambito del sistema di rappresentanza
sociale, si appropriano di tutte le risorse disponibili. E il belpaese si
accontenta di pagare tante pensioni e basta. Inoltre, rimane da dire che
il futuro non é certo radioso. L’Inps ha tracciato un bilancio
previsionale 2001-2003. A legislazione invariata, il disavanzo relativo
all’intero bilancio passerà dai 4,7mila miliardi di quest’anno ai
16,5mila del 2003. Questo dato conferma le considerazioni che abbiamo
svolto in precedenza, circa la rilevanza dei saldi nel determinare
l’andamento dei conti pensionistici. Infatti, nel prossimo triennio, in
cui il deficit - a legislazione invariata- si moltiplicherà per circa
quattro volte, il rapporto tra la spesa pensionistica dell’Inps e il Pil
- a stare alle previsioni dell’Istituto- rimarrà pressoché invariato
intorno all’11%. In sostanza, dietro una spesa stazionaria in termini di
Pil si nasconderà un maggiore squilibrio di bilancio. Ancora più
devastanti sono le proiezioni al 2010 contenute nella recente Relazione
istituzionale della Corte dei Conti (tav. 6). Vi si legge (limitatamente
alle principali gestioni pensionistiche) un disavanzo, a fine periodo, di
poco inferiore a 70mila miliardi. Per quanto riguarda la situazione
patrimoniale viene previsto, nel 2010; un debito superiore a 755mila
miliardi. Le compensazioni derivanti dalla Gestione delle prestazioni
temporanee non saranno in grado di pareggiare i conti.
Tav. 6 - Proiezioni del risultato d’esercizio e della situazione
patrimoniale delle principali gestioni Inps (in miliardi di lire)
|
2000
|
2005
|
2010
|
Gestioni Inps
|
Risultato
esercizio
|
Gestione
patrimon.
|
Risultato
esercizio
|
Gestione
patrimon.
|
Risultato
esercizio
|
Gestione
patrimon.
|
FPLD (lavor. dipendenti)
|
-15.713
|
-222.227
|
-30.435
|
-345.239
|
-42.836
|
-536.350
|
Lavoratori autonomi
|
-7.492
|
-29.844
|
-14.261
|
-87.413
|
-20.941
|
-179.147
|
Altre gestioni
|
-1.600
|
-8.266
|
-3.245
|
-19.253
|
-5.400
|
-40.200
|
Gestioni pensionistiche
|
-24.802
|
-260.437
|
-47.941
|
-451.905
|
-69.267
|
-755.697
|
Prestazioni temporanee
|
-9.827
|
237.112
|
13.222
|
296.841
|
15.938
|
370.397
|
Gestione complessiva
|
-14.978
|
-23.235
|
-37.719
|
-155.064
|
-53.329
|
-374.360
|
Fonte: Corte dei Conti.
Per ciò che riguarda il trend delle prestazioni, c’é
da dire che, nell’anno in corso - una volta smaltiti gli effetti
prodotti dall’inasprimento delle regole dell’età pensionabile entrati
in vigore nel 2000 (in particolare il raggiungimento dei 65 anni per gli
uomini e di 60 per le donne, per il trattamento di vecchiaia)- il numero
delle nuove pensioni tornerà a crescere (+30,8%), raggiungendo (tav. 7)
quota 800mila solo nei regimi Inps (ciò vuol dire che, nel complesso di
tutti gli enti, quest’anno andrà in quiescenza circa un milione di
persone, di cui 80-90mila nel pubblico impiego).
Tav. 7 - Inps: previsione del numero delle nuove pensioni
Nuove pensioni
|
2000
|
2001
|
Variazioni
|
Variazioni %
|
Gestioni previdenziali
|
554.467
|
742.467
|
188.000
|
33.9
|
Vecchiaia
|
95.251
|
259.070
|
163.819
|
172.0
|
Anzianità
|
174.959
|
199.503
|
24.544
|
14.0
|
Prepensionamento
|
2.400
|
800
|
-1.600
|
-66.7
|
Invalidità
|
56.141
|
56.109
|
-32
|
-0.1
|
Superstiti
|
255.716
|
226.985
|
1.269
|
0.6
|
Assegni sociali
|
55.000
|
55.000
|
|
|
Totale
|
609.467
|
797.467
|
188.000
|
30.8
|
Fonte: Inps bilancio preventivo 2001
Va ricordato, infine, che nel 2001, a fronte di un
numero di pensioni pressoché stazionario (15,34 milioni), la spesa totale
subirà un incremento del 5,1% rispetto al 2000 (raggiungendo i 224mila
miliardi di lire). Il comparto vecchiaia e anzianità sfiorerà i 150mila
miliardi con un aumento del 6,7%. Un ulteriore e più specifico
approfondimento ci porta a considerare, segnatamente, le vicende della
Gestione delle pensioni dei lavoratori dipendenti (Fpld) presso l’Inps,
dalle quali si trae un’idea plastica ed immediata dei problemi della
previdenza italiana. Tale Gestione é l’architrave del sistema
obbligatorio. Nel complesso (inclusi i fondi confluiti - trasporti,
telefonici, elettrici - ora in posizione di evidenza contabile) vanterà,
nel 2001, quasi 12 milioni di iscritti, erogherà oltre 10,3 milioni di
prestazioni (vi saranno, cioé, 114 iscritti ogni cento pensioni) per una
spesa pari a circa 172mila miliardi, avrà un disavanzo di 16,2mila
miliardi. E’ noto che la riforma del bilancio Inps del 1989 (legge n.
88) ha accorpato nel "comparto" dei lavoratori dipendenti sia il
fondo pensioni sia la gestione delle prestazioni temporanee (assegni
familiari, cig, disoccupazione, indennità varie), allo scopo di
compensare con i forti attivi di quest’ultima il "profondo
rosso" dei trattamenti pensionistici. In aggiunta, la riforma Dini ha
trasferito più di 4 punti di aliquota dalle prestazioni temporanee alle
pensioni. E’ a questa gestione, poi, che confluisce la maggior parte
degli apporti dello Stato, a titolo di oneri pensionistici (inclusi gli
effetti della recente maxi-sanatoria delle anticipazioni di Tesoreria). Il
risultato finale, però, rimane disastroso. Dal 1989 al 2001 il Fpld ha
accumulato 190.532 miliardi di disavanzo che salgono a quasi 203mila
comprendendo anche le casse confluite. A questo proposito, si fanno notare
gli 8.823 miliardi di deficit attribuibili, dal 1996, all’ex fondo
trasporti, i 1.278 di "rosso" riguardanti, dal 2000, l’ex
fondo elettrici, mentre gli ex telefonici recano in dote saldi attivi per
851 miliardi. Nel 1996 é entrata in vigore la legge n. 335/1995 (la
quale, come abbiamo ricordato, ha distribuito un bonus di quattro punti di
aliquota alla voce pensioni, per raggiungere il 32,7%). Da quell’anno
alla fine del 2001, il deficit accumulato dal Fpld é previsto pari a
76,4mila miliardi che salgono a 85,6mila considerando anche il complesso
dei "nuovi acquisiti". Abbiamo detto che, all’interno del
comparto, i trattamenti pensionistici si avvalgono del generoso soccorso
delle prestazioni temporanee, che dal 1996 al 2001 realizzeranno una
situazione in avanzo per 57,6mila miliardi. Si tratta di un ammontare
imponente: non sufficiente, però, a portare in attivo (come avveniva fino
al 1992) l’intero "comparto", il quale é destinato a sommare,
nel periodo considerato, un debito di 28mila miliardi. Da questa ridda di
cifre derivano alcune ineludibili considerazioni: a) sono le gestioni
pensionistiche del lavoro dipendente quelle più esposte. Basta aggiungere
all’Inps i dati delle più importanti gestioni (enti locali e Stato)
dell’Inpdap nel pubblico impiego (il cui preventivo nel suo complesso
evidenzia ancora un modesto avanzo di circa 300 miliardi), le quali
prevedono, a fine anno, un debito rispettivamente di 14,6mila e di quasi
8mila miliardi. I ferrovieri, poi - ultimi arrivati in casa Inps -
otterranno dallo Stato, nell’anno in corso, un apporto, a ripiano, di
5.500 miliardi, dopo i 4,5mila del 2000; b) ancorché sia l’aliquota più
elevata del mondo, quella del 32,7% é assolutamente sottodimensionata se
é vero che, all’interno del bilancio Inps, le prestazioni temporanee
"liberano" mediamente 10mila miliardi l’anno a favore delle
pensioni (nel 2001 addirittura 11.400 miliardi); c) non vi é
corrispondenza tra la struttura delle entrate contributive e quella della
spesa; d) un vero e proprio patrimonio (quasi 250mila miliardi dal 1989)
raccolto per "l’altra previdenza" é stato sacrificato
all’esigenza di finanziare le pensioni, mentre non é mai stato
possibile, durante tutta la legislatura, reperire le risorse necessarie ad
attuare una organica riforma degli "ammortizzatori sociali". Il
nodo delle pensioni si colloca, dunque, al crocevia di numerosi problemi,
vecchi e nuovi. Da quelli concernenti il rispetto dei parametri del Patto
di stabilità, in un contesto di contenimento della pressione fiscale a
quelli riguardanti una più equa distribuzione delle risorse a
disposizione di programmi più equilibrati nel campo delle politiche
sociali. Basti vedere l’evoluzione della spesa pensionistica in quanto
valore assoluto e in rapporto al Pil (tav. 8).
Tav. 8- Spesa pensionistica in % su Pil
|
1992
|
1993
|
1994
|
1995
|
1996
|
1997
|
1998
|
1999
|
2000
|
Spesa
|
194.194
|
207.105
|
221.754
|
235.533
|
255.126
|
276.755
|
286.076
|
296.826
|
307.302
|
% Pil
|
12.8
|
13.2
|
13.4
|
13.2
|
13.4
|
13.9
|
13.8
|
13.8
|
13.6
|
Fonte: Nvsp
In sostanza, anche in presenza di importanti riforme,
nel periodo considerato il peso della spesa pensionistica sul Pil é
cresciuto di uno 0,8%. Si consideri anche l’evoluzione della quota Gias:
era pari a 31.853 miliardi nel 1992, é ammontata a 49.367 miliardi nel
2000. A conti fatti, sommando il saldo negativo tra contributi e
prestazioni pari a 31,7mila miliardi alla quota Gias per le gestioni
pensionistiche si arriva a determinare un "buco" (da finanziare
attraverso la fiscalità generale) di oltre 81mila miliardi. Come già
ricordato si tratta del 4% del Pil.
5.1. Fondi pensione
La Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip)
ha presentato la sua Relazione istituzionale per l’anno 2000. A voler
sintetizzare il senso delle considerazioni che l’Autorità vigilante ha
tracciato circa l’andamento e le prospettive della previdenza
complementare in Italia si potrebbe far il verso al Manzoni e al suo
"Adelante Pedro, con juicio". Secondo la Commissione, infatti,
"Con l’anno 2000, il settore della previdenza complementare ha
ormai superato la fase di primo impianto, dal punto di vista sia
ordinamentale che operativo, per entrare nella fase di
consolidamento". Con riferimento al 31 marzo scorso, i fondi pensione
di natura negoziale autorizzati hanno raggiunto le 43 unità. Di essi, 23
sono autorizzati all’esercizio dell’attività (solo 12 hanno
effettivamente iniziato, però, la raccolta dei contributi). I rimanenti
20 sono nella fase della raccolta delle adesioni preliminare al
completamento della procedura autorizzativa. I fondi aperti autorizzati,
istituiti da intermediari finanziari abilitati, sono 98 di cui 84 lo sono
per l’esercizio dell’attività, di cui 70 già operativi alla fine del
2000. Pertanto, i fondi autorizzati di nuova istituzione sono saliti a 141
contro i 121 esistenti al 31.12.1999. Se si aggiungono le forme
preesistenti il numero complessivo diventa pari a 718. Gli iscritti ai
fondi negoziali, alla fine del 2000, sono 885.651 con un incremento del
26% rispetto all’anno precedente. Gli aderenti ai fondi aperti sono
223.032 e pertanto gli iscritti all’insieme dei fondi di nuova
istituzione risultano essere 1.108.683, con una crescita del 32% rispetto
al 1999. Considerando anche le forme previgenti (prima della riforma del
1993) il numero totale degli iscritti sfiora 1,8 milioni di lavoratori. Le
risorse complessivamente destinate alle prestazioni dei fondi preesistenti
raggiungono i 54.200 miliardi a cui devono aggiungersi le somme
riguardanti l’attivo netto destinato alle prestazioni (Andp) raggiunto,
alla fine dello scorso anno, dai fondi di nuova istituzione nell’ordine
di 3.373 miliardi (dei quali 2.305 miliardi provenienti dalle forme
negoziali e 1.068 miliardi dai fondi aperti). Al 31 marzo di quest’anno
tale Andp é salito a 4.136 miliardi (2.936 miliardi per i fondi negoziali
e 1.200 per quelli aperti). I dati dimostrano dunque che la situazione é
in movimento, se non fosse che gli 885.651 aderenti ai fondi negoziali
sono tuttora una (modesta ?) avanguardia all’interno di un bacino di
potenziali iscritti pari ad oltre 13 milioni di lavoratori. Se scomposto
in termini di lavoro dipendente e autonomo, la discrepanza fa ancora più
impressione: sono aderenti 868.532 prestatori subordinati rispetto ad
un’utenza potenziale di oltre 9 milioni di persone, mentre nel campo del
lavoro indipendente vi sono solo 17mila iscritti contro un potenziale di
poco inferiore ai 4 milioni. 61.718 (su 630mila potenziali aderenti) sono
gli iscritti (quasi tutti lavoratori dipendenti) alle forme negoziali
istituite nel territorio (un’esperienza fortemente contrastata dalle
parti sociali che preferiscono la dimensione nazionale di categoria).
L’area economicamente più forte del Paese fa la parte del leone anche
nel campo della previdenza complementare. Gli iscritti ai fondi negoziali
sono in misura del 55% nelle regioni del Nord, mentre solo il 16% nel
Meridione e nelle Isole (il resto al Centro). Passando ora ad esaminare
taluni aspetti qualitativi, balza in evidenza una caratteristica dei fondi
che, fino ad ora, non é stato possibile correggere: lo scarso appeal tra
i lavoratori più giovani. Uomini e donne con meno di 35 anni
rappresentano complessivamente un quarto del totale delle adesioni.
Interessante é notare, inoltre, che il confronto con i dati degli
iscritti al Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dell’Inps (il
caposaldo del regime obbligatorio) mette in evidenza che, mediamente, é
più elevata l’età dei partecipanti alle forme previdenziali private a
capitalizzazione che non quella degli iscritti al Fondo erogatore dei
trattamenti di mano pubblica. Altre considerazioni meritevoli di
attenzione, tra le tante, possono essere tratte dalla relazione (che ha
accompagnato il documento istituzionale) del presidente della Covip, Lucio
Francario: é la prima volta che osservazioni critiche su temi
politicamente delicati sono esposte, in una sede ufficiale, da parte
dell’Autorità vigilante. Partiamo dal rapporto tra fondi negoziali
chiusi e fondi aperti. Vengono rilevati a chiare lettere i seri dubbi di
costituzionalità riguardanti l’originaria impostazione del dlgs
n.124/1993 che aveva espresso "una forte preferenza per i fondi
chiusi, relegando ai margini la prospettiva offerta dai fondi
aperti". E’ vero: la disciplina successiva ha modificato tale
impianto, specie dopo l’istituzione delle forme pensionistiche
individuali (di cui la Covip riconosce l’importanza), realizzabili
mediante adesione individuale a un fondo aperto (che si aggiunge alla
possibilità di adesione collettiva), il quale é tenuto a fornire la
medesima griglia di prestazioni consentite ai fondi negoziali, fruendo
dello stesso regime fiscale; ma non si é raggiunta ancora- Francario lo
ha riconosciuto in conferenza stampa- un’effettiva parità di
condizioni, come sarebbe necessario, soprattutto in un contesto in cui
venga previsto lo smobilizzo del tfr. Un altro interrogativo, adombrato
della relazione del presidente, riguarda la gerarchia delle fonti
istitutive, nel senso che il privilegio riconosciuto alla contrattazione
centralizzata sembra essere in contrasto con l’esigenza di diffusione di
queste esperienze e- aggiungiamo noi- con il quadro di competenze
conferito alle Regioni dalle riforme federaliste. Severa é poi la critica
al marchingegno virtuale che contraddistingue la previdenza complementare
nel pubblico impiego. In sostanza, afferma il presidente della Covip, vi
é il rischio che pure questa tipologia pensionistica - sovraccaricata,
nelle categorie pubbliche, di accrediti figurativi, rivalutati a tavolino
con una capitalizzazione finta - finisca anch’essa per pesare
prevalentemente sulle generazioni future, sulla finanza pubblica e sui
bilanci dell’Inpdap e non sugli effettivi rendimenti dei contributi
investiti e versati nelle singole posizioni individuali, le quali, tra
l’altro sono adesso difficilmente trasferibili, proprio perché
ingessate in assetti troppo simili a quelli dei trattamenti obbligatori.
Per quanto riguarda la disciplina fiscale, la Covip, anziché rivendicare,
come fanno disinvoltamente in tanti, agevolazioni più consistenti con
riguardo alle diverse aliquote applicate, sostiene che occorre cambiare
radicalmente il sistema di tassazione (che l’Italia condivide solo con
Svezia e Danimarca), attraverso l’adozione del modello EET (esenzione
della contribuzione e dei rendimenti; tassazione delle prestazioni). Per
quanto riguarda la questione del tfr, la Covip sviluppa alcune simulazioni
dalle quali scaturisce che soltanto l’utilizzo di tale istituto può
determinare un’adeguata "massa critica" per la contribuzione
ai fondi, oggi, e per la qualità delle prestazioni, domani. Tuttavia,
viene fatto rilevare che sarebbe sbagliato imporre soluzioni dirigistiche
e obbligatorie, sottovalutare certe peculiarità del tfr (facoltà di
ottenere anticipazioni nel caso di spese familiari importanti) e
soprattutto ragionare come se si trattasse di un "risorsa
gratuita", di cui le imprese possono agevolmente privarsi. Tanto più
che la valorizzazione del tfr, nel 2000, é stata pari al 3,4%: un
risultato competitivo anche nei confronti dei rendimenti dei fondi. Oltre
ai rammentati apprezzamenti per il progressivo evolversi della situazione,
la Covip ha stilato l’atto di morte (decadenza dall’autorizzazione
alla raccolta delle adesioni) per quelle esperienze negoziali che non
riescono a decollare. Alla fine, un elegante avvertimento alle parti
stipulanti del fondo della scuola, il quale non riesce a partire perché
non c’é accordo sulla composizione dell’organo amministrativo, che,
aggiungendo "posti a tavola" per accontentare tutti gli
appetiti, rischia di diventare pletorica. Occorre evitare - lascia
intendere la Covip - che, nel pubblico impiego, in conseguenza di una
rappresentanza sindacale complessa e articolata, vi siano più
amministratori che forme pensionistiche.
6. Sanità
La riforma ter, che porta il nome di Rosy Bindi, é
stata archiviata dal Governo Amato, prima ancora che le elezioni del 13
maggio segnassero la vittoria della coalizione della Casa delle libertà,
la quale quella riforma aveva sempre osteggiato. Il progetto di Rosy Bindi
non era criticabile solo per le problematiche dei medici (esclusività del
rapporto di lavoro, full time e attività intra-moenia), ma anche e
soprattutto per l’ordinamento istituzionale prefigurato. In primo luogo,
la prevista revisione- dotata di un ambito inutilmente vasto e rivolta a
cancellare i pochi aspetti innovativi- avrebbe avuto inevitabili ricadute
destabilizzanti a livello nazionale, regionale e locale e gettato per anni
il Servizio nel caos, costringendolo a riaprire percorsi appena definiti
in base alla vigente legislazione e alle modifiche recate- ripetutamente-
dal 1992 in poi. Inoltre, mentre la normativa previgente aveva tentato una
difficile quadratura del cerchio tra risorse disponibili e servizi,
ancorando i secondi alle prime, la riforma Bindi aveva fatto saltare
questo vincolo, nel senso di legare il finanziamento alla definizione
(mancata) di livelli di assistenza congrui ed essenziali. E’ evidente
che tale impostazione può determinare una perdita di controllo sui flussi
di spesa, dal momento che viene meno il vincolo delle disponibilità per
fare posto alla demagogica priorità dei bisogni. Al di là delle
enunciazioni, era evidente, poi, un disegno esplicito di centralizzazione
emergente da un impianto legislativo che eccedeva in strumenti - nazionali
e uniformi - in regolamentazione, per cui le Regioni sarebbero state
costrette a organizzare processi regolati compiutamente - in una logica a
canne d’organo- a livello nazionale e ministeriale. Questa logica era in
netta contraddizione sia con un diverso assetto di poteri ispirati al
federalismo, sia con una maggiore responsabilizzazione delle Regioni nel
governo delle risorse. Sarebbe praticamente impossibile organizzare in
sede regionale il servizio sanitario, dovendo amministrare apparati e
strutture, secondo regole e oneri definiti dal Governo, in sede nazionale.
Veniva negata, in pratica, ogni logica di sussidiarietà orizzontale (tra
pubblico e privato). Era prevista, infatti, la costituzione (anche con
agevolazioni fiscali) di fondi sanitari integrativi (la normativa di
attuazione non é ancora stata emanata) chiamati a fornire le prestazioni
non assicurate dalla mano pubblica; ma, in assenza di un reale passo
indietro del regime pubblico, all’autotutela dei cittadini erano
lasciati interventi marginali e frantumati, difficilmente riconducibili a
un "pacchetto" organico. Ma l’aspetto più iniquo riguardava
la creazione di un livello di sanità privata all’interno del sistema
pubblico. La problematica del rapporto esclusivo dei medici, affrontata
con furore biecamente ideologico, implicava che il Servizio sanitario
dovesse garantire - caricandosi delle relative misure - lo svolgimento
della libera professione dei medici optanti (la differenza dai non optanti
stava solo a livello stipendiale) all’interno delle strutture
ospedaliere. A conti fatti, tale operazione avrebbe comportato un onere di
3-4mila miliardi per lo Stato, determinando per giunta due livelli
qualitativi di assistenza (medica ed "alberghiera", a pagamento)
all’interno del servizio pubblico. Come si vede, questa impostazione
ricordava il sistema sovietico, in cui vi erano strutture pubbliche che
fornivano servizi migliori alla "nomenclatura" di regime.
Invece, la soluzione dei "mali" del sistema sanitario avrebbe
bisogno di una reale sinergia tra il settore pubblico e quello privato,
una volta che ne siano ripartiti i compiti e le funzioni. Occorrerebbe
definire, cioè, le prestazioni e i servizi essenziali riconosciuti dal
Servizio nazionale a tutti i cittadini, mentre ad alcune aree della
popolazione si potrebbe garantire di più, sulla base di specifiche
condizioni di età, di salute, di reddito. L’importante é che gli
utenti siano tutelati per i grandi rischi e che siano salvaguardate, a
carico del Servizio pubblico, le funzioni di interesse collettivo: dalla
prevenzione all’igiene e profilassi pubblica. Lo Stato deve regolare
tutti gli aspetti attinenti alla salute dei cittadini e accreditare le
strutture abilitate a erogare assistenza, ma deve incoraggiare il più
possibile l’autotutela privata, collettiva ed individuale, per le
prestazioni non coperte dal sistema pubblico. Va altresì ricordata la
vicenda dell’abolizione (di cui alla legge n. 388/2000) dei ticket sui
prodotti farmaceutici che ha provocato una serie di problemi non solo ai
conti della sanità, ma più in generale all’andamento del fabbisogno
delle amministrazioni pubbliche. Si tenga conto che entro il 2003 é
prevista, a legislazione vigente, la completa soppressione delle quote di
compartecipazione su tutte le prestazioni sanitarie. Il disordine dei
conti in sanità rischia di creare seri problemi anche all’avvio del
federalismo.
Tav. 9 - Incidenza % sul Pil della spesa sanitaria pubblica e privata
nei maggiori paesi europei (1996)
|
Spesa pubblica % pil
|
Spesa privata % pli |
Totale spesa % pil |
Rapporto privata/totale %
|
Francia
|
7.8
|
1.8
|
9.6
|
19.3
|
Germania
|
8.2
|
2.3
|
10.5
|
21.7
|
Italia
|
5.3
|
2.3
|
7.6
|
30.1
|
Paesi Bassi
|
6.6
|
2.0
|
8.6
|
23.0
|
Regno Unito
|
5.8
|
1.1
|
6.9
|
6.9
|
Spagna
|
5.9
|
1.8
|
7.7
|
14.2
|
Fonte: Ocse 1998
Tav. 10 - Soggetti che hanno effettuato un consumo sanitario secondo le
tipologie di prestazione (%)- anno 1996
Visite specialistiche
|
Specialista pubblico
|
45.7
|
Ricoveri
|
Ospedale pubblico
|
87.4
|
Specialista privato
|
54.3
|
Casa cura convenz.
|
7.7
|
Accertamenti diagnostici
|
Privato convenzion.
|
22.9
|
Casa cura pagamen.
|
4.8
|
Privato a pagamento
|
14.3
|
Odontoiatria
|
Pubblico
|
9.9
|
Pubblico
|
62.8
|
Privato
|
90.1
|
Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat 1998.
Le Regioni, infatti, non possono assumersi, in tale
situazione, la responsabilità di finanziare con entrate proprie un
settore vitale come la sanità quando continua ad essere lo Stato a
regolare centralmente i grandi addendi di spesa (assistenza farmaceutica,
convenzioni, contratti, ticket, eccetera). Come anticipato, gli interventi
in materia sanitaria contenuti nella Finanziaria per il 2001 hanno
rischiato di compromettere l’avvio del federalismo e non solo nella
impostazione parziale portata avanti dal Governo e dalla maggioranza, ma
anche nel quadro di un eventuale più ampio contesto che potrebbe essere
determinato nella prossima legislatura. E’ noto, per altro, che la sanità
é la chiave di volta di qualunque processo di decentramento ispirato al
criterio della sussidiarietà verticale. L’importanza che il settore
riveste nel rapporto con i cittadini e il suo peso economico sono
destinati ad influenzare decisamente un nuovo sistema di
responsabilizzazione diretta delle Regioni nei confronti dei finanziamenti
a disposizione e dei servizi da garantire con quelle risorse, senza poter
contare sui meccanismi dei trasferimenti vincolati da parte dello Stato.
Va da sé, infatti, che, nel contesto che verrà a determinarsi, la spesa
sanitaria- che rappresenta la gran parte della manovra finanziaria delle
Regioni - può scappare di mano e provocare squilibri drammatici nei
bilanci delle Regioni, se l’avvio del processo di decentramento non sarà
corretto nella individuazione del fabbisogno necessario ad assicurare il
funzionamento del Servizio sanitario. La cosa assume particolare rilevanza
con riferimento ai disavanzi pregressi, nell’ordine di 16mila miliardi.
La copertura di questo disavanzo era stata definita con una modulazione
pluriennale sulla base di un’intesa intervenuta tra Stato e Regioni. A
fronte di quella intesa (realizzata in sede politica il 3 agosto 2000) le
Regioni si sono dichiarate disponibili a farsi carico degli ulteriori
saldi negativi che dovessero emergere nei prossimi anni. La soluzione
trovata aveva dunque un senso. Non sarebbe stata compresa una esperienza
di federalismo che "derogasse" il finanziamento del settore
sanitario, conservando il meccanismo dei trasferimenti dal Fondo sanitario
nazionale. Il fatto é che questa soluzione razionale, faticosamente
raggiunta dopo anni, é stata praticamente vanificata dai pesanti
interventi recati alla Finanziaria 2001. Lo smantellamento progressivo
(entro il 2003) del sistema della partecipazione degli assistiti alla
spesa sanitaria (i c.d. ticket) é destinato a produrre effetti devastanti
sulla spesa sanitaria e quindi sul quadro più generale dei rapporti
finanziari tra Stato e Regioni, proprio nel momento del decollo del
federalismo. Per adesso é prevista una (incerta ed insufficiente)
copertura soltanto per il 2001, mentre ai bilanci regionali mancheranno
(ecco il lucro cessante) le entrate derivanti dalle quote di
partecipazione (per altro riscosse immediatamente in sede locale) e si
deteriorerà l’assetto delle uscite (ecco il danno emergente), perché
rifluiranno all’interno del Servizio prestazioni che ne erano
praticamente uscite (si pensi alle prestazioni specialistiche e di
diagnostica strumentale, fino ad ora tenute a freno dalle franchigie).
E’ pericoloso, poi, riaprire la spirale dei consumi farmaceutici.
L’assistenza farmaceutica, nei primi anni novanta, ha pagato il prezzo
più elevato al contenimento della spesa sanitaria. Negli anni scorsi- ai
tempi di Rosy Bindi - si era perfino messo nella Finanziaria una norma per
la quale l’industria farmaceutica doveva farsi carico degli sfondamenti
di spesa. Poi, come tutte le "gride", questa norma non é mai
stata applicata, fino alla sua abolizione formale nella legge n. 388/2000.
Non ha senso, però, una totale revisione delle prestazioni farmaceutiche,
anche per quanto riguarda la classificazione dei farmaci, dopo anni in cui
faticosamente si era trovato un equilibrio. Del resto, le disposizioni di
razionalizzazione, controllo e monitoraggio, contenute nella Finanziaria,
sembrano abbastanza inefficaci e predicatorie. Si tenga presente che
l’aggravarsi di un rischio-sanità comporterà necessariamente una
tensione sul versante dell’Irap, che é divenuta la principale fonte di
finanziamento.
7. Valutazioni conclusive
La XIII legislatura, dunque, nel campo del lavoro e del
welfare state, ha avuto un avvio contrastato, ma non privo di speranze e
di risultati. L’eclissi del riformismo ha coinciso con la direzione
diessina dell’Esecutivo: più forti sono diventati i condizionamenti del
sindacato e della Cgil. Ovviamente a scapito del tasso di liberalizzazione
dell’economia e della società italiana. Nella XIII legislatura é stata
varata anche la legge di riforma dell’assistenza, il cui interesse é
pari soltanto alla sua mancata applicazione e alle difficoltà con cui si
potrà attuarla. La legge, infatti, riconosce ai cittadini altri diritti
sociali, fino ad ora affidati a quanto le amministrazioni locali avevano
predisposto nel corso del tempo (nel campo dell’assistenza, i
trasferimenti monetari sono in prevalenza a carico dello Stato, mentre i
servizi sono fioriti a livello locale, con interventi organizzati secondo
mix di pubblico e privato). Il fatto é che ai diritti riconosciuti non
corrisponde un adeguato piano di risorse dal lato del finanziamento.
Eppure, l’assistenza rappresenta il settore con maggiori potenzialità
nella difficile "missione" di dare risposte ai nuovi bisogni. Il
discorso torna dunque daccapo: é necessario riconvertire la spesa sociale
per poter realizzare politiche più moderne ed innovative. |
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