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Un ombudsman per l'informazione

Franco Cangini
Editorialista

1. Tra due età dei media

"Infopollution", é una parola coniata da Aleksandr Solzenicyin una ventina d’anni fa. Esprimeva la sconcerto del grande scrittore russo, esule negli Stati Uniti, dinanzi alla ricchezza del mercato occidentale dell’informazione. Pur consapevole che lo sguardo sulla varietà infinita del vasto mondo non fosse riducibile alla scelta tra le due uniche paia di occhiali - o Pravda o Isvestja - disponibili nell’Unione Sovietica, nella sovrabbondanza americana delle fonti vide un pericolo di inquinamento da eccesso d’informazione. Gli sembrò strana l’indifferenza americana per il senso di frustrazione che coglie il pubblico quando vi sia discrepanza tra l’informazione, le fonti della conoscenza e le possibilità d’intervento. Che fare, se la vista di tutti i mali del mondo prende allo stomaco e confonde il cervello, senza che s’intravedano ragionevoli possibilità d’intervento? Capita, in casi del genere, che dal pubblico si sollevi un’ondata emotiva tale da trascinare le decisioni del potere democratico. Il disgraziato "intervento umanitario" in Somalia, per esempio, seguì le immagini televisive dei bambini somali affamati, come il giorno segue la notte. Vent’anni fa, nell’incerta luce aurorale della "società dell’informazione", Solzenicyin aveva dunque colto una minaccia annidata tra le promesse di crescita civile che sostenevano i primi passi della cosiddetta "rivoluzione mediatica". Concernente, cioè, gli effetti di cambiamento sociale attribuiti, sulla scorta dell’esperienza storica, all’invenzione e applicazione delle tecnologie della comunicazione. Dall’invenzione della stampa (545 anni fa) alle "reti" elettroniche, passando per la televisione, i balzi in avanti collettivi dell’età moderna sono avvenuti anche sulla spinta dei progressi nella comunicazione. Che é stata di massa, in quanto legata, fin dall’800, alla diffusione crescente di notizie e informazione, pubblicità, formazione dell’opinione pubblica, propaganda, intrattenimento. Ma che "di massa" potrebbe non rimanere. Denis McQuail (1) ha messo a confronto due teorie contrastanti dei fenomeni connessi con l’introduzione dei nuovi media. Prima teoria, quella della "società dell’informazione". Concepita in Giappone nell’81 sulla scia del concetto di "società postindustriale": per definire una società dove il settore dei servizi aveva sopravanzato l’industria manifatturiera come principale forma di occupazione. In questa società domina il lavoro legato all’informazione e la risorsa più preziosa, che tende a soppiantare in questo senso il capitale, é l’informazione stessa. Seconda teoria, elaborata in Olanda una dozzina di anni dopo. Sostituisce la definizione di "società dell’informazione" con quella di "network society". Vale a dire: una forma di società le cui relazioni si strutturano sempre più secondo reti mediali che si stanno gradualmente sostituendo o affiancando alle reti sociali basate sulla comunicazione faccia a faccia. La struttura a reticolo della società, contrapposta alla società di massa fondata sul modello centro-periferia, é caratterizzata da numerosi circuiti comunicativi sovrapposti che possono svilupparsi sia verticalmente sia orizzontalmente. Tali reticoli rispondono sia a una logica inclusiva, sia a una logica esclusiva. Com’é noto, i mass media tradizionali si distinguono invece per una forte inclusività. Riassumendo. I media tradizionali sono stati strumenti di crescita civile e di coesione sociale, rapportati alla dimensione territoriale dello stato-nazione nonché alle esigenze dell’economia fondata sulla grande industria. Mentre la diffusione dei nuovi media, senza vincoli territoriali, accompagna la metamorfosi "reticolare" dell’economia produttiva e crea le condizioni della formazione di reti sociali con processi di identificazione assai diversificati. Il computer mette gli individui in connessione tra loro, ma con le modalità di un comportamento solitario, secondo scelte individuali, sostanzialmente anonime. Difficile considerarli un antidoto alla solitudine dell’uomo moderno; più facile vedervi potenzialità evolutive verso forme di interazione sociale. Con effetti a cascata che, tra l’altro, mettono in discussione il mestiere di giornalista.

2. Informazione affidabile?

"Società dell’informazione" o "network society" che sia, abbiano o no un futuro i mezzi di comunicazione di massa, alla base c’é, e continuerà ad esserci, una questione di affidabilità. Affidabilità dell’informazione e quindi, oggi, dei giornalisti. Una valutazione del tasso di affidabilità dell’informazione in Italia, può desumersi dal confronto tra la poesia e la prosa della professione giornalistica. Ossia tra codici di comportamento e tendenze affiorate nei reali comportamenti. In una società liberale, la più autentica garanzia dell’interesse pubblico alla libertà e correttezza dell’informazione risiede nella capacità di autocontrollo della stampa assai più che nell’esistenza di vincoli normativi. In questo senso, la libertà di stampa si é identificata con la libertà dalle restrizioni. Come recita il Primo Emendamento della Costituzione americana del 1791: "Il Congresso non promulgherà leggi che limitino la libertà di parola o di stampa". Fu la prima codificazione del principio liberale, enunciato in Inghilterra da Edmund Burke, di un "quarto potere" pubblico, quello del giornalismo, da affiancare ai tre esistenti all’epoca (aristocrazia, chiesa e parlamento). Nella fiduciosa attesa che il quarto potere fungesse da cane da guardia della retta condotta di tutti gli altri, e che il libero mercato delle idee mettesse il guinzaglio al cane. Nel senso che la forza della verità non avrebbe mancato di trionfare sui possibili errori della stampa. Il buon funzionamento del sistema era dunque affidato a un meccanismo di autocorrezione. E tale è rimasto, poiché in duecento anni non ne é stato inventato uno migliore. Nel nostro ordinamento, la libertà d’informazione ha il suo caposaldo nella prima parte dell’articolo 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". Mentre alla deontologia del giornalista sono tracciati binari normativi, anche penali. Particolarmente significativo l’articolo 2 della legge professionale: "E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed é loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede" (2). Per buona misura, nel 1993 il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato una "Carta dei doveri" molto particolareggiata. Vi si enunciano principi impegnativi, tra cui, con speciale insistenza, quello sacrosanto della responsabilità del giornalista verso "il diritto all’informazione di tutti i cittadini", prevalente su ogni altro interesse in causa, compreso quello dell’editore. Si precisa che l’informazione dovuta ai cittadini deve essere "corretta". Di conseguenza, il giornalista "non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento. I titoli, i sommari, le fotografie e le didascalie non devono travisare, né forzare il contenuto degli articoli o delle notizie". Fin qui la poesia.

3. Deragliamenti

Alla prova dei fatti, é messa a dura prova la fede nel meccanismo di autocorrezione che dovrebbe garantire la vittoria finale della verità sull’errore, in competizione tra loro sul libero mercato delle idee. Con la supremazia del mezzo televisivo, il mercato che più conta ai fini della qualità dell’informazione, non é tanto quello delle idee quanto il mercato pubblicitario. L’aspettativa della "audience" più vasta condiziona i comportamenti ben più dell’anelito alla verità, ininfluente ai fini della determinazione delle tariffe pubblicitarie e del successo professionale degli operatori dell’informazione. L’informazione televisiva va per la strada che più le conviene e si tira dietro l’informazione scritta. Il grande pubblico fa la bocca al crescendo di sensazionalismo e alla minoranza provvista di spirito critico resta la scelta tra alzare le spalle e alzarsi dalla poltrona, uscendo dalla platea dei telespettatori per tornare ai vecchi mezzi di comunicazione, o convertirsi ai nuovissimi. Di fatto la televisione ha cominciato a perdere per strada una parte del suo pubblico. Col risultato di determinare ulteriori scelte sacrificali, sull’altare dell’audience, della qualità dei programmi televisivi. E’ l’ora del "grande fratello". Il professor Giovanni Sartori ha scritto un saggio, una dozzina d’anni fa, per mettere in guardia dai miraggi televisivi (3). Vi si sostiene che se l’homo sapiens é un prodotto della cultura scritta, da quella televisiva non possiamo aspettarci altro che l’homo insipiens. Non c’é completezza dell’informazione che tenga: il mondo osservato dall’occhio della telecamera é solo quella parte del pianeta dove la telecamera é ammessa. Non c’é gerarchia delle notizie: nei telegiornali, l’ordine d’importanza, é necessariamente dettato dalla disponibilità di materiale filmato. Avvenimenti modesti balzano al posto d’onore in forza della qualità drammatica delle immagini: "E’ la drammatizzazione del triviale, congiunta alla castrazione del capire". Quel ch’é peggio, il mezzo non si presta alla spiegazione delle questioni complesse, inevitabilmente noiosa. Così anche i dibattiti sulle cose serie sono falsificati dall’introduzione di elementi di spettacolarizzazione, che calamitano l’attenzione deviandola dal suo oggetto. Al contrario, la denuncia, la protesta, il catastrofismo fanno spettacolo in sé e in Tv vanno per la maggiore. Lo spettro della catastrofe nucleare é infinitamente più telegenico di qualsiasi rassicurazione razionale. In conclusione: "L’uomo oculare, video-formato, é sempre meno un animale mentale, capace di capire quel che vede". Sartori esagera nella sua requisitoria. Non é giusto imputare al mezzo televisivo anche responsabilità che ricadono sulle scelte di programmazione. Non é colpa del mezzo, se la semplicità circense della diretta televisiva é così spesso preferita alla complessità delle trasmissioni pensate, registrate e onestamente montate alla moviola. Però ha ragione da vendere nel denunciare l’illusione di verità che l’immagine può dare: "In realtà l’immagine mente quanto le parole e con molta più efficacia delle parole.... Chi ricorda la guerra del Vietnam ricorda la fotografia di un colonnello sud vietnamita che spara alla tempia di un prigioniero inginocchiato. Il mondo occidentale ne restò inorridito. Ma quella immagine era un primo piano che non faceva vedere, intorno, i corpi di donne e bambini uccisi e mutilati dai vietcong. Era dunque un’immagine falsante perché cancellava il contesto dell’evento" (4). Un altro esempio fatto da Sartori a sostegno della sua tesi riguarda le immagini dei bambini iracheni "che muoiono di fame per colpa delle sanzioni americane. E’ falso. Quei bambini sono affamati da un tiranno sanguinario che spende tutto per armarsi e che é felicissimo di avere bambini morenti da esibire". Per la verità, il tiranno in questione esibisce le sue piccole vittime con una certa discrezione. E’ la Rai che esibisce in continuazione nei telegiornali, da anni, lo stesso spezzone filmato. La polemica antiamericana per le sanzioni all’Iraq giustifica il rilancio dell’unico documento disponibile; a sua volta la ripresentazione di quel filmato rilancia la polemica politica, in un gioco di specchi senza fine. Sarebbe onesto, quando l’informazione ricorre a immagini di archivio, precisarne la datazione. Ma questo non viene fatto. Perché?

4. "O terror do mundo"

C’era una volta la stampa brasiliana. Nelle redazioni dei giornali italiani veniva additata con finalità pedagogiche. Un po’ come nell’antica Sparta veniva additato ai giovani il meteco ubriaco, allo scopo di propagandare la virtù della temperanza. Il Brasile, in quel tempo remoto, imponeva a modeste navi da guerra, varate nei cantieri italiani, nomi tonitruanti come O terror do mundo. E prediligeva una stampa quotidiana altrettanto rimbombante di titoloni a sensazione, fatti per lanciare pseudo-notizie che avevano la vita breve di una rosa e sfiorivano per lasciare il posto ad altre impennate della fantasia. Una ragione c’é, se quel fantasioso giornalismo carioca si direbbe promosso a modello della nostra informazione, televisiva e non solo. E la ragione riguarda assai più l’ansia di audience che non la passione politica. Non si spiegherebbe altrimenti lo strano caso del carabiniere killer, rivelato dal telegiornale leader di Mediaset il giorno stesso che il presidente del Consiglio Berlusconi si trovava a Genova, sotto protezione delle forze dell’ordine, per presenziare alla riunione del G-8. L’immagine, tagliata in primissimo piano, mostrava un ragazzo incappucciato con una bombola rossa nelle mani, fulminato dalla revolverata di un milite, esplosa attraverso il finestrino di una jeep. Il messaggio politico di quella immagine era inequivocabile: col cambio di governo la polizia ha di nuovo il grilletto facile. Equivocabile, invece, era l’immagine. Se ricollocata nel suo contesto, rinunciando alla magia del primissimo piano, mostrava la realtà di un atto di legittima difesa dalla violenza micidiale di un’aggressione in atto. Domanda: come mai un TG indipendente, sì, ma non antigovernativo, ha ceduto alla tentazione di forzare l’immagine, a costo di sgambettare il governo? La risposta ha qualcosa a che fare con la sovranità dell’audience, arbitra dei destini professionali e degli introiti pubblicitari nella competizione tra i soggetti di un’informazione urlata, dove si fa a chi la spara più grossa. Piero Ostellino, giornalista di cultura liberale, s’indigna (5) per come la nostra informazione, ideologica per formazione e fastidiosamente moraleggiante per conformismo, si é lungamente diffusa sul pericolo che lo spirito di vendetta porti gli americani a infierire sulle popolazioni afghane con massicci bombardamenti. Ipotesi manifestamente assurda, non solo perché esclusa dagli americani ma anche a causa della inconsistenza degli obiettivi militari nelle città di quel disgraziato paese. Cercando la causa del fenomeno, per lui increscioso, Ostellino si é imbattuto in questa spiegazione: "Il buon giornalista, si é detto, deve essere sempre in sintonia con i lettori, ne deve assecondare i vizi, anche quando sono la paura e la diffidenza (per gli Usa), e saperne apprezzare le virtù, anche quando sono "piccole", ne deve riflettere la cultura politica. In poche parole, deve dare loro quello che essi si aspettano da lui. E io, da questo punto di vista, non sono un buon giornalista. Ma davvero i lettori e telespettatori si aspettavano quello che i media europei hanno dato loro in questi giorni, tanta retorica, tanta ideologia, tanto sensazionalismo, tanto moralismo? Mah". Il fatto é che il sensazionalismo a fini di audience va a braccetto con un soggetto di lui peggiore: il conformismo a fini assicurativi contro gli incerti del mestiere. Insieme, formano una coppia micidiale per la credibilità della professione giornalistica.

5. "Giornalismo pecorone"

Abbiamo già registrato la tendenza dell’informazione a deragliare nel sensazionalismo, sotto la spinta dell’impulso più potente: la ricerca del massimo tornaconto. Editoriale e professionale. Difficile aspettarsi che si rimetta in carreggiata grazie ai soli meccanismi autocorrettivi del libero mercato e del codice deontologico. Il bacino di utenza servito dall’informazione ha dimensioni e sensibilità che non sono più quelle, elitarie, del ‘700 illuminato o dell’800 borghese, quando si poteva fare un certo assegnamento sull’effetto moderatore dei benpensanti. Quanto agli effetti correttivi dalle norme deontologiche, sarebbe più ragionevole farci assegnamento, poiché viene loro attribuito il valore stringente di norme giuridiche vere e proprie. La Carta dei doveri dei giornalisti fa obbligo di rispettare il diritto del cittadino a un’informazione "corretta". La condanna del sensazionalismo ne risulta di conseguenza. Iscritto tra i peccati mortali della professione, proprio in considerazione del fatto che per i giornalisti é una forte tentazione. Come si legge nella premessa del capitolo dedicato alla deontologia del giornalista: "L’inseguimento dell’audience e dei gusti del pubblico, la comunicazione sempre più urlata, l’omogeneizzazione dello stile del messaggio giornalistico con quello televisivo (fenomeni innegabili e sempre più esasperati, a danno della qualità e della serietà del prodotto) si accompagnano con la deformazione dei fatti e la creazione di eventi che alla fine non esistono: pseudo-fatti cioè oppure fatti deformati in quanto espressi in modo del tutto non corrispondente al vero; i cosiddetti, con un neologismo tratto dalla lingua americana, ‘fattoidi’ di cui é piena la nostra stampa" (6). Giudizio ineccepibile, ma di ardua applicazione. Non é semplice neppure sanzionare un determinato giornalista, responsabile di una precisa e accertabile infrazione del codice di autodisciplina. Prova ne siano le impugnative di sanzioni disciplinari decise dagli Ordini territoriali competenti, giacenti a centinaia presso il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Elefantiaco organo giudicante, composto da centocinquanta colleghi del ricorrente. Figurarsi dunque quale sia, in concreto, la possibilità di tutelare il diritto del pubblico alla correttezza dell’informazione nei casi di "strutturazione della realtà" a misura delle esigenze e degli interessi giornalistici. Capita continuamente d’inciampare, lungo i canali dell’informazione, in notizie gonfiate come vitelli agli estrogeni, o deformate per renderle aderenti a tesi precostituite. "Fattoidi", appunto. Quando non si tratti di pure invenzioni di eventi inesistenti. Praticamente impossibile, poi, sanzionare quella particolare forma di deragliamento dai binari della professione, che negli Stati Uniti é chiamato "giornalismo pecorone". La definizione stigmatizza "la tendenza dei giornalisti a lavorare in squadra, a non farsi concorrenza, a trattare tutti le stesse storie e usare le stesse fonti" (7). Tendenza diffusissima anche da noi, se a un noto giornalista non é sembrato strano confermare, in un’intervista, che effettivamente i redattori capo dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’organo del principale partito d’opposizione avevano lungamente coltivato l’abitudine di telefonarsi alle otto della sera "per dirsi le notizie che mettevano in prima pagina". Dove a stupire non é tanto la vicenda in sé non ignota nell’ambiente, quanto che se ne parli pubblicamente come se questo scampolo di "giornalismo pecorone" non fosse la negazione di ogni sana retorica professionale e del diritto del cittadino a un’informazione diversificata, oltre che terreno di coltura di vere e proprie "distorsioni mediali". Non tutte le distorsioni sono gravi, ma esse sono sempre una manifestazione della pretesa dei media di adattare la vita reale alle proprie esigenze. Così, per esempio, nella rappresentazione della protesta anti-G8 a Genova, nel settembre scorso, dove si é passati dal catastrofismo tambureggiante delle aspettative mediatiche, alla criminalizzazione della protesta, identificata con la sua frangia più pittoresca e violenta, per finire con la criminalizzazione della polizia attraverso l’uso unilaterale del diritto di cronaca a documentazione dei pestaggi. Ma dove la pecoraggine dell’informazione tocca il fondo é nella giudiziaria, quando i media, raggiunta l’unanimità su una tesi, finiscono per imporla come verità rivelata. Col risultato di dirottare le indagini dalla ricerca della verità. Dalla realtà romanzesca, al romanzesco imposto come reale.

6. Cane non mangia cane.

Che fare per uscirne? Innanzi tutto rinunciare all’idea che la correttezza dell’informazione poggi sull’automatismo dei meccanismi autocorrettivi. L’Ordine fa del suo meglio, ma non gli si può chiedere l’impossibile. Cane non mangia cane. Quanto agli effetti taumaturgici attribuiti al "libero mercato delle idee", occorre un faro che lo illumini. Non é facile sceverare verità ed errore nel buio del "giornalismo pecorone". La Svezia affida a un Ombudsman il compito di vigilare sulla correttezza dell’informazione nell’interesse esclusivo del pubblico. Doveva essere anche il compito del nostro garante della comunicazione, ma non gli é riuscito di essere il guardiano del faro della correttezza giornalistica. Troppi compiti lo gravano e troppi interessi politici si fanno sentire. Meglio un’autorità imparziale che si occupi soltanto dell’informazione dal punto di vista dell’interesse pubblico. Come in Svezia, appunto. Se é giusto affidare a un’autorità imparziale la vigilanza sull’informazione, perché i diritti dei cittadini siano meglio garantiti, lo é altrettanto alleggerire ai magistrati il fardello del giudizio sulle querele per diffamazione. Specie se sporte da loro colleghi. Il valore da tutelare é, in entrambi i casi, il medesimo: il diritto dei cittadini a un’informazione corretta. Le tentazioni a cui sensazionalismo e spirito gregario espongono i giornalisti, non sono le uniche responsabili di distorsioni dell’informazione. Lo é anche la legge in vigore sul reato di diffamazione. I querelanti ne sono incoraggiati a ricorrere all’azione civile, senza la concessione della facoltà di prova, senza la possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza del giudice monocratico e praticamente senza limiti di tempo dall’avvenuta pubblicazione della notizia considerata diffamatoria. In pratica, questa legge é un’autostrada aperta all’arricchimento personale per via giudiziaria e un deterrente efficace all’esercizio della libertà di stampa. Una ricerca dell’Ordine dei giornalisti ha rivelato che molte centinaia di cause sono pendenti nei confronti di cronisti e dei direttori responsabili dei loro giornali, con richieste di risarcimenti per un totale di circa 3500 miliardi. Risarcimenti a cui non sempre l’editore é disposto a far fronte. Sempre secondo l’Ordine dei giornalisti, i magistrati figurano al primo posto tra i promotori di cause per diffamazione, con richieste di ingenti risarcimenti. L’andamento dei giudizi non é affatto tranquillizzante. Un giornalista ha scritto che "a Palermo, su undici richieste di risarcimento presentate, la magistratura ne ha accolte dieci". Sicché: "esiste un problema legato al ricorso disinvolto alla querela (meglio se la denuncia é in sede civile), ormai divenuta una sorta di strumento di vera e propria censura politica. Tant’é che sempre più frequentemente si chiede la "punizione" non solo dell’eventuale inesattezza sfuggita dalla penna, ma addirittura di un commento o di un giudizio non gradito" (8). E’ nell’interesse pubblico che il Parlamento si apra alle iniziative legislative per la riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa. La salvaguardia del diritto dei singoli all’onorabilità e alla reputazione non può avvenire a spese della libertà dell’informazione e del diritto dei cittadini a essere informati. Tesi interessanti, al riguardo, sono state espresse in un Forum del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti (8) . Il professor Vincenzo Caianello, già presidente della Corte Costituzionale, ha messo il dito nella piaga: "Il magistrato che viene oltraggiato, offeso in occasione dell’esercizio della sua funzione, non é giusto che sia lui a lucrare il risarcimento. L’azione giudiziaria (se intende promuoverla dovrebbe essere assistito dall’avvocatura dello Stato) dovrebbe concludersi con un giudizio in cui si dichiari che il giornalista é stato malevolo. Il magistrato ne riceverebbe la soddisfazione morale del riconoscimento che il suo offensore abbia agito male". Un esponente dell’Ordine professionale, Roberto Martinelli, ha sollevato recentemente la questione della rettifica, sempre in rapporto alla riforma della legge sulla diffamazione. Non si tratta solo di garantire il rispetto delle norme che regolano la rettifica, ma anche di evitare che essa sia "utilizzata in maniera strumentale e surrettizia per avallare versioni di comodo non rispondenti alla verità dei fatti. Per scongiurare questa eventualità, suggerii di prevedere, nel caso in cui il giornalista decida di non pubblicarla, la possibilità di deferire a un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto, accettando di correre tutti i rischi dell’azione civile e di quella penale. L’istituto del Giurì, pur essendo previsto dal codice e regolato dagli articoli 177-179 c. p. p., é caduto in desuetudine. La ragione é da ricercare nel fatto che la parte offesa non ha alcun interesse al semplice accertamento della verità, ma preferisce la via del contenzioso giudiziario che garantisce parcelle d’oro agli avvocati e risarcimenti profumati a persone che spesso non avrebbero alcun diritto di pretenderli". Ecco un altro settore aperto all’intervento di un Ombudsman, difensore civico del diritto dei cittadini alla migliore informazione possibile. Se fossimo la Svezia.

7. Duopolio anomalo.

L’avventura de La 7 si é consumata nel breve spazio di un’estate. Concepita, sotto gli auspici di una parte del centrosinistra, per rompere l’equilibrio bipolare dei rapporti di forza televisivi, é morta in culla in coincidenza con l’avvento del governo di centrodestra. "Io ero pagato per fare la concorrenza a Rai e Mediaset, per fargli male", ha detto il disavventurato direttore dei programmi informativi de La 7, Gad Lerner (9). Non sapremo mai se ci sarebbe riuscito. Né quale consistenza abbia quella parte di pubblico "più colto della sua televisione", disposto a dislocarsi su un terzo polo che si arrischi a volare un po’ più alto rispetto a Rai e Mediaset. O comunque un po’ più a sinistra. Benché l’esito abortivo non giovi alla crescita del pluralismo nell’offerta informativa, é difficile immaginare che l’iniziativa sarebbe stata d’aiuto, se vitale. La moltiplicazione dei referenti politici dell’emittenza poteva apparire un rimedio al tempo del monopolio Rai. Che all’inizio fu un monopolio politicamente monocolore, a causa dell’egemonia democristiana nel sistema radiotelevisivo. Quindi prese tutti i colori della coalizione di centrosinistra, per aggiungere infine alla tavolozza anche il rosso dell’opposizione comunista. La tripartizione dei canali televisivi della Rai, realizzando la lottizzazione dell’etere per quote d’influenza partitica, sembrò - e in parte fu - una tappa importante del processo di democratizzazione. Ma fu il successo della televisione commerciale, con l’avvento di Mediaset, che aprì una breccia all’irruzione del mercato negli stazzi del monopolio pubblico. Strano mercato, regolato dai rapporti di forza tra patronages politici, secondo le regole in vigore nella repubblica dei partiti. Che tuttavia fece fare un balzo avanti alla modernizzazione del sistema televisivo e della stessa cultura politica del paese, a prescindere dalle intenzioni degli interessi partitici dominanti. Per esempio, non c’é dubbio che la televisione commerciale, incrementando la diffusione di programmi made in Usa, abbia dato un contributo decisivo all’evasione di massa dalla democrazia all’italiana. Davanti ai teleschermi, gl’italiani hanno fatto l’abitudine a vedere da un punto di vista americano i casi della competizione politica, dell’amministrazione della giustizia, dei rapporti tra le classi all’interno della società. Senza il duopolio Rai-Mediaset, l’americanizzazione degli italiani avrebbe seguito un itinerario più lungo e tormentato. A questo punto, però, proprio la perpetuazione del duopolio é in contraddizione con il processo di modernizzazione che da esso ha preso le mosse. Si finge di credere che il problema sia un altro, riconducibile al conflitto d’interessi di un presidente del Consiglio, Berlusconi, che é anche il proprietario di Mediaset. E che, di conseguenza, occorra preoccuparsi di evitare che il governo arrivi a disporre politicamente di tutt’e sei i principali canali televisivi. Come sarebbe se il presidente del Consiglio sommasse all’influenza diretta esercitata su Mediaset in forza dei diritti proprietari, il controllo politico sulla Rai in quanto presidente del Consiglio. Donde l’applicazione dei principi della lotta giapponese ai rapporti tra maggioranza parlamentare di centrodestra e consiglio d’amministrazione Rai residuale, di centrosinistra. La gestione uscente si fa forte della propria debolezza per resistere alla pressione dei vincitori, spinti non tanto da zelo missionario, nell’intento di aprire alla loro propaganda l’intera platea televisiva, quanto da avidità di spoglie e di trofei. Ma poiché l’accusa di tendere al monopolio dell’informazione é di quelle che lasciano il segno, ecco il vincitore indursi a praticare l’arte dei fair play, rifuggendo dalle tentazioni dell’informazione asservita e riconoscendo all’opposizione la titolarità della presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Ma sono toppe cucite su uno strappo aperto. Non se ne esce senza la privatizzazione della Rai, la rottura dell’equilibrio bipolare dell’etere e l’apertura del mercato a nuovi soggetti. Il conflitto d’interessi del presidente del Consiglio non é pericoloso in quanto tendente a ridurre il duopolio a posizione monopolistica, ma per il motivo opposto. Il gioco delle parti fa di Berlusconi il naturale guardiano del sistema esistente. Come non s’é mai visto un proprietario di diligenze mettersi a costruire ferrovie, così i due "partiti" Rai e Mediaset hanno tutto l’interesse di sostenersi a vicenda per far durare il più a lungo possibile lo status quo. Lo stesso potere di nomina del consiglio d’amministrazione della Rai, attribuito per legge ai presidenti delle due Camere, non diventerà uno strumento di controllo dell’informazione da parte della maggioranza parlamentare. Semplicemente, i presidenti d’Assemblea cambieranno di spalla al loro fucile: dopo essere stato funzionale alla lottizzazione della Rai nella repubblica dei partiti, il criterio di nomina dei consiglieri diventerà funzionale alla continuità del duopolio. Mentre é evidente che gli interessi della società libera s’identificano con la riduzione ai minimi termini dei pascoli a disposizione del potere politico, di governo e non. Dunque, privatizzazione della Rai e competizione aperta all’irruzione di nuovi concorrenti sul libero mercato televisivo. La soluzione ragionevole che ci é fin qui negata dalla politica, possiamo aspettarcela dal progresso tecnologico e dall’Unione Europea. L’esistenza di una emittente televisiva giapponese installata in Germania, e l’installazione di parabole in grado di captare 250 canali fanno intendere che il futuro non appartiene alla rendita di posizione del duopolio. Inoltre, l’Europa preme perché si distingua tra servizio pubblico e impresa, cioè tra quel che si paga con il canone di abbonamento televisivo e le prestazioni che si sostengono succhiando pubblicità. Per queste si richiede concorrenza ad armi pari sul mercato. Fin qui la Rai fa della distinzione tra le sue due vesti una questione interna all’azienda. Ma fatalmente si arriverà al suo sdoppiamento in due società: una sul mercato a fare impresa e l’altra a fare servizio pubblico col canone. Come la BBC e con analoga aspettativa di contrazione della sua quota di mercato a un misero 1%. Quanto prima, tanto meglio. Non serve a nulla un servizio pubblico che rinnega la sua ragion d’essere. Come la Rai ha fatto in occasione del referendum cosiddetto "federalista" del 7 ottobre, quando tra il dovere istituzionale di informare al meglio i cittadini e il timore di perdere "audience" nella trattazione di un argomento ostico e circondato dal disinteresse generale, non ha avuto dubbi: ha scelto la "audience".

8. "Senza oneri per lo Stato".

C’é una frase di Clemenceau abbastanza nota, se non altro perché Biagi la cita spesso: "I giornalisti sono come le donne: le amanti che non domandano niente sono quelle che costano di più". E’ possibile che la situazione non sia molto diversa, rispetto ai tempi del "Tigre". Ma solo per quel che riguarda i singoli giornalisti. Come categoria, invece, i giornalisti chiedono molto, in duetto con gli editori, e molto costano al contribuente. Almeno un migliaio di miliardi l’anno. Resta un mistero come si possa conciliare la poesia del "quarto potere" con la prosa di un’informazione mantenuta di Stato. A meno di un atto di fede nella bontà della tesi sorprendente di Michael Ignatieff (10), secondo cui un’informazione indipendente é incompatibile con la proprietà privata dei media: "Dobbiamo farla finita con la stampa che collude, o resta in silenzio sulla corruzione. Dobbiamo bloccare i tentativi che le imprese e i grandi proprietari dei mezzi di comunicazione mettono in atto per frenare la libertà di stampa.... Per diventare indipendente, con funzioni di controllo, dovrebbe essere pubblica". Difficile condividere l’idea di affidare il controllo del potere a un cane da guardia con l’osso del finanziamento pubblico in bocca. Chi tuttavia fosse disposto a condividerla potrebbe trarre motivo di ottimismo dallo stato delle cose in Italia. Dove l’informazione é sì, tranne la Rai, di proprietà privata ma foraggiata con fondi pubblici.

9. Un mestiere che cambia

Un giovane lettore ha scritto a Indro Montanelli, l’estate scorsa, per sapere cosa significa essere giornalista oggi. "Di certo non quello che significava cinquant’anni fa - si legge nella risposta - Allora era il veicolo delle notizie. Oggi, direi, ne é soprattutto l’interprete. Non solo quando fa il commentatore. Anche quando fa il cronista. La mole di informazioni é tale che la scelta già implica un giudizio (di opportunità e di valore). Questa é la prima cosa da dire, e forse la più importante" (11). Un riferimento a più radicali prospettive di trasformazione del mestiere é contenuto nelle ultime righe, dove si accenna alla "abitudine alla lettura che va scomparendo, in questa nostra vita frettolosa". Si dirà che l’informazione non finisce con la scomparsa della lettura. Ma il giornalismo non sarà più la stessa cosa. L’espressione "postgiornalisti" é entrata nell’uso corrente perché la metamorfosi del mestiere é percepita come un fenomeno già in atto. La bipartizione montanelliana del ruolo del giornalista - veicolo o interprete delle notizie - esprime la tradizionale autorappresentazione della categoria. Risale a una quarantina di anni la distinzione dei ruoli: "quello del cronista neutrale, che evoca l’idea della stampa che informa e interpreta (facendo da canale o da specchio) e quello del cronista ‘partecipante’ (concetto del quarto potere) che racchiude l’idea di una stampa rappresentativa dell’opinione pubblica, critica verso il governo, schierata e impegnata politicamente" (12). I giornalisti hanno generalmente preferito riconoscersi nel ruolo neutrale, informativo e non impegnato, confacente all’ossequio tributato al valore dell’obiettività. Più recentemente si é fatta strada l’idea che il giornalista s’identifichi con un "ruolo antagonistico" nei confronti del governo, corrispondente all’aspirazione a servire il segmento di pubblico che si intende rappresentare. Concetto estremizzato nel 1985 da una definizione che fece discutere, dovuta al comandante dell’esercito svizzero, Roger Mabillard: "Il cronista é un avversario potenziale delle istituzioni dello Stato". Il passaggio dalla tradizionale bipartizione del ruolo del giornalista a una tripartizione, é registrato nel libro del McQuail: interprete (per la capacità di analizzare questioni complesse), divulgatore (per la tempestiva informazione del pubblico), e antagonista (nei confronti del potere, politico e no). Quale che sia la distinzione di ruolo, ovunque il giornalista tende a un ideale di professionalità, come "esercizio di una abilità nel confezionare il prodotto-notizia richiesto, caratterizzato da un alto grado di obiettività, contrassegnata, a sua volta, da un’ossessiva fedeltà ai fatti e neutralità di atteggiamento". Naturalmente, le cose si complicano quando l’ideale viene messo alla prova nella realtà dell’agire quotidiano. Come confermato anche dalle vicende dell’ultimo anno. Conformismo. Difficile servire l’ideale dell’obiettività quando parlano le armi. Osservando la linea di condotta della stampa francese nella crisi del Kosovo, Règis Debray ne ha constatato l’unanimismo. Non solo nell’approvazione dell’intervento Nato, ma anche nella tendenza a vedere i fatti attraverso le lenti della propaganda. Il filosofo ne ha ricavato un violento pamphlet sul conto della stampa, definita una "figura moderna del clericalismo" (13). La questione di principio é stata poi riproposta dalle polemiche - non solo americane - sul ruolo dei media in genere, e della televisione in specie, nei confronti degli appelli alla guerra santa lanciati dal terrorista Bin Laden e dai suoi accoliti. Riecheggiare gli appelli in omaggio alla completezza dell’informazione, o censurarli inchinandosi alle superiori esigenze della sicurezza e del patriottismo? Un dilemma analogo a quello che si pose ai nostri media negli "anni di piombo" dinanzi ai proclami delle Br. In casi del genere, quando non si verifichino interventi censorii autoritativi, é l’atteggiamento del pubblico che impone la soluzione. Il pubblico americano ha manifestato per i proclami dei terroristi una tale crisi di rigetto che i media si sono affrettati ad adeguarsi. Da noi la pressione dell’opinione pubblica é meno massiccia, il fronte politico interno più frazionato e i media, di conseguenza, meno allineati.

10. Miti editoriali.

Quello dell’editore puro é un mito duro a morire: "Io penso che un giorno torneranno gli editori puri. Io sogno che un giorno le aziende editoriali siano fatte e gestite da chi ha interessi primari, se non esclusivi, nell’editoria" (14). Eppure fu un editore puro che trascinò il "Corriere della Sera" in un tale sottobosco che Agnelli, editore impuro, dovette inglobarlo a grande richiesta nel suo impero "per un dovere di disinfestazione e di purificazione". Inoltre, la purezza della sfera dei primari interessi editoriali non garantisce, di per sé, la purezza del prodotto. L’intreccio degli altri interessi, "secondari" ma consistenti, non é certo privo di effetti condizionanti. Il problema é un altro: quali che siano gli interessi primari o secondari dell’editore, esiste un’istanza abbastanza forte da farsi carico di una mediazione giornalistica rispettosa dei diritti del pubblico? Al direttore responsabile ne viene addossato il fardello, ma nessuno si preoccupa di dargli la forza per farsene realmente carico. Nei fatti, la bilancia dei rapporti di forza all’interno delle aziende editoriali é andata sempre più pendendo dalla parte manageriale. Per restituire credibilità al garante della qualità dell’informazione, delle tre l’una: o dare la responsabilità a chi ha la forza, facendo dell’editore il direttore responsabile; o dare forza a chi porta la responsabilità, puntellando convenientemente il ruolo istituzionale del direttore; ovvero rimettere il potere di controllo e d’intervento, a garanzia dell’interesse pubblico alla correttezza dell’informazione, al medesimo Ombudsman evocato all’inizio di questo rapporto. Probabilmente la terza soluzione é la più praticabile. Un altro mito duro a morire concerne la garanzia di libertà dell’informazione attribuita alla buona salute dei conti aziendali. Questa é un’ovvietà: é evidente che una testata dissestata é una testata facilmente ricattabile. Ma l’attivo di bilancio non é di per sé garanzia d’incorruttibilità. Se fosse, dovremmo dedurne che la libertà dell’informazione é - meglio: é stata negli ultimi anni - in una botte di ferro. Per convincersene basta un’occhiata alle scrupolose relazioni Fieg sull’andamento delle imprese editoriali. Tra cui le 121 imprese che pubblicano le 138 testate quotidiane esistenti al 31 maggio 2001, per un totale di vendite stimato in 6.023 milioni di copie nel 2000. Le analisi sull’evoluzione della stampa italiana nel periodo 1997-2000 sono bollettini trionfali. L’utile di esercizio delle 63 imprese considerate, editrici di 73 quotidiani, é passato da 125 miliardi/97, a 217/98, a 364/99. Le imprese in utile, 41 nel ‘99 da 38 che erano del ‘97; quelle in perdita sono rimaste tra 23 e 22 nel triennio: in compenso gli utili complessivi sono aumentati del 29% e le perdite diminuite del 28,3%. Risultati indubbiamente brillanti, dovuti all’abbattimento dei costi di produzione e all’exploit dei ricavi pubblicitari: +16,4% nel ‘99. Tutto per bene? Non tanto. Non depone bene sullo stato di salute dell’editoria la flessione dei ricavi da vendita di copie (-4,2% nel ‘99) nonostante il recupero attribuito, per l’anno seguente, alla liberalizzazione dei punti vendita. La stampa fa fatica a resistere sulla quota delle copie conquistate. C’é un limite anche alla fantasia promozionale del management, punto di forza delle ambizioni diffusionali di gran lunga privilegiato rispetto ai contenuti giornalistici. Bingo e gadget ormai costano più di quanto rendano e la confezione dei giornali "panino" serve, più che a guadagnare copie, a pescare nel trogolo dei fondi per l’editoria, poiché l’abbinamento con un giornale locale fatto in cooperativa ne fa partecipe anche la testata "importante". Quanto agli investimenti pubblicitari sulla stampa, l’imponente mietitura del primo semestre 2001 (2.731 miliardi netti, di cui 1.702 sui quotidiani e 1.029 sui periodici) trae in inganno. I quotidiani hanno perso circa il 10% della pubblicità commerciale nazionale, in parte compensato dall’incremento di quella locale. Non é un segno di buona salute, specie in coincidenza con la caduta dei consumi per effetto della crisi internazionale. La situazione non é più quella, rosea, del consuntivo per l’anno 2000, quando la torta pubblicitaria sfiorava i 17.000 miliardi, di cui più della metà ingoiati dalla televisione (e molti di più con la radio). Il quinquennio delle vacche grasse é alle spalle e si può solo sperare che l’editoria non torni alle vacche magre degli anni Ottanta e della prima metà dei Novanta. La fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" delle imprese editoriali aveva partorito l’idea che il quotidiano fosse ormai avviato a un destino di contenitore pubblicitario da diffondere gratuitamente (come le tre testate esistenti, per 750.000 copie), avendo come alternativa smilzi fogli di commenti di poco costo e poche copie. Quelle certezze sono scosse, ma una riconversione ai contenuti giornalistici richiederebbe un faticoso salto culturale. Aspettarsela, é probabilmente chiedere troppo al potere del management. In compenso, due gruppi editoriali, Rcs e Poligrafici, si stanno prodigando per iniziare 200.000 ragazzi delle scuole a prendere confidenza con la lettura dei giornali. L’avvento prossimo di una generazione "fesso chi legge" comincia a preoccupare. Come le monache. In passato si diventava giornalisti più o meno come ci si faceva monache: chi per vocazione, chi per bisogno faute de mieux. La vocazione continua a essere la molla decisiva nella metà dei casi. Però la vocazione non basta, dunque si sta facendo strada l’idea che non ci si può limitare a fare assegnamento su qualche anno di gavetta per acquisire la preparazione occorrente. Le redazioni non sono più le botteghe artigiane d’una volta, quando ogni novizio trovava un vecchio del mestiere disposto a tirarlo su. Da ciò il successo delle nove scuole di giornalismo abilitate a tenere corsi biennali di specializzazione, sulla cui effettiva qualificazione sarebbe bene tenere gli occhi aperti. Dei novecento praticanti che si presentano nelle due sessioni per l’esame di idoneità professionale, almeno 140 sono allievi delle scuole di giornalismo. Il mestiere ha ancora forza di attrazione, ma ha perso la sua poesia. Troppe ore passate incollati sulla sedia con gli occhi fissi sul monitor. Troppa dipendenza dalla tv. I redattori cedono a frustrazioni impiegatizie. Un poco alla volta, il mestiere tende a dislocarsi all’esterno delle redazioni. Il giornalista operativo é sempre più spesso un autonomo che lavora in "service" o collabora da "free lance". Qualcuno scommette sul nuovo mercato dei giornali "on line", che hanno finito per riconoscere ai loro redattori il contratto di lavoro giornalistico. Può darsi che rappresenti il futuro, ma il presente non corrisponde alle speranze. Quanto alla "rivoluzione" di Internet, la possibilità che arrivi a sopprimere la mediazione giornalistica, sostituendola con la circolarità di un’informazione "fai da te", continua a essere l’oggetto di atti di fede affioranti su un mare di scetticismo. L’incubo del "digital divide", la frattura generazionale e geografica tra chi padroneggia le nuove tecnologie della comunicazione e chi ne é tagliato fuori, preoccupa ma non fino al punto di fare qualcosa per accorciare le distanze. Anche se lo schieramento che ha vinto le ultime elezioni ne ha fatto un caposaldo della sua proposta programmatica. Nel capitolo del piano di governo intitolato alla new economy, accanto alla promessa di equiparazione fiscale tra editoria elettronica e tradizionale, si legge testualmente: "L’obiettivo per i prossimi cinque anni é quello di favorire l’avvento della società digitale, per mettere in condizione tutti gli italiani - cittadini, famiglie, imprese, mondo del no profit e del volontariato - di cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione" (15).

11. Conclusioni

Si continua ad attribuire un peso esagerato all’influenza dell’informazione sul mercato politico-elettorale. Ma le ricerche condotte sull’impatto dei media ai fini della creazione del consenso descrivono una realtà diversa. Le persone "tendono per lo più ad accordare la propria attenzione ai messaggi che provengono dalla parte politica nella quale si riconoscono. Di fronte ai messaggi della parte avversa sono in grado di trovare contro-argomentazioni critiche. In queste condizioni, é dunque molto difficile che i contenuti veicolati dai media provochino un cambiamento diretto del comportamento di voto. Tutt’al più possono agire nel lungo periodo sulla modificazione della percezione dell’importanza da attribuire ad alcune questioni" (16). In pratica, sono proprio i cittadini meno politicizzati e meno raggiungibili dai media che formano la parte fluttuante dell’elettorato. Mentre continua a esserci disattenzione per il modo come l’informazione contribuisce a formare il libero mercato delle idee. Se il modo non é quello corretto, la formazione dell’opinione pubblica ne risente. Una rappresentazione men che scrupolosa dei fatti, sia pure dovuta alle migliori intenzioni, produce effetti distorcenti sulla percezione della realtà. In questo senso, il conformismo degli "operatori dell’informazione" e l’eccesso di politically correct non sono meno dannosi del sensazionalismo. Spetta ai giornalisti il dovere di raddrizzare il "legno storto" dell’informazione. Interventi dall’esterno - a parte, si capisce, quelli di competenza della magistratura - assumerebbero fatalmente un carattere censorio. Un rimedio peggiore del male. Tuttavia, l’informazione é una cosa troppo importante per lasciarne il controllo di qualità interamente nelle mani della corporazione giornalistica. Difficilmente l’autoreferenzialità dà garanzie sufficienti. Molto meglio irrobustire la capacità di autocontrollo dei giornalisti con la creazione di un difensore civico del pubblico interesse alla correttezza dell’informazione. Un Ombudsman come in Svezia, appunto. L’esigenza di un appropriato meccanismo di salvaguardia del pubblico interesse nell’informazione si avverte specialmente oggi che la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione promette di accorciare di molto il processo di formazione delle decisioni. I radicali sono stati i primi a cavalcare il "futuribile" con il lancio della proposta di una "e-democracy" nel loro convegno romano del 29 settembre. Significa accessibilità, in rete, degli atti di tutti gli organi istituzionali e giurisdizionali, nonché introduzione del voto elettronico e del voto on-line per elezioni, referendum, proposte di legge d’iniziativa popolare. Sarebbe sbagliato considerarla un’alzata d’ingegno del solito Pannella, destinata, al più, ad accelerare il superamento del classico modo di votare deponendo la scheda nell’urna. In realtà é un primo passo nella direzione della realizzazione dell’idea di una "democrazia deliberativa", che ha già fatto molta strada nella letteratura scientifica anglosassone. In pratica, una specie di terza via tra il modello dominante della democrazia rappresentativa e l’ideale classico della democrazia diretta e partecipata. Più precisamente, s’intende per democrazia deliberativa "una concezione della democrazia che tratti tutti gli individui come agenti autonomi, capaci di formarsi giudizi meditati attraverso l’assimilazione di informazioni e punti di vista diversi, e che istituzionalizzi una serie di meccanismi attraverso i quali incorporare le valutazioni dei singoli in processi decisionali collettivi" (17). Non é l’agorà ateniese, luogo di confronto tra cittadini col fine di esprimere una volontà collettiva. E’ piuttosto un processo di deliberazione collettiva derivato dall’esistenza di una società dell’informazione. Perché "é scorretto pensare che il processo che consiste nel leggere un libro, o nel guardare un programma televisivo, dia meno contributi alla deliberazione di quanti ne assicuri la partecipazione a una conversazione faccia a faccia". Insomma, la democrazia deliberativa come fase suprema della società dell’informazione, servita dai mass media. Più che un traguardo in avvicinamento, va considerato un futuro del presente, essendo fin d’ora avvertibili le conseguenze politico- istituzionali della crescente diffusione delle informazioni e della comunicazione in una società libera. "E’ per questo che la coltivazione della diversità e del pluralismo nei mezzi di comunicazione é una condizione essenziale per lo sviluppo della democrazia deliberativa. La deliberazione prospera grazie allo scontro tra idee differenti: nulla può soffocare il processo di deliberazione più di un coro orchestrato di opinioni che non lascia spazio al dissenso. Poiché assicura le condizioni che consentono di criticare il potere e di esprimere una molteplicità di opinioni diverse, il principio del pluralismo regolato é uno degli elementi essenziali della cornice istituzionale necessaria alla democrazia deliberativa". Pluralismo regolato significa una cornice istituzionale a garanzia della libertà e correttezza dell’informazione. L’Ombudsman può esserne il pilastro.

Note

1 Denis McQuail, "Sociologia dei media", pagg. 118 e 119. "Il Mulino", 2001

2 Antonio Viali, "Giornalista. La professione, le regole, la giursprudenza" pag. 116 e seguenti. Centro documentazione giornalistica, 2001

3 Giovanni Sartori, "Videopolitica"

4 Giovanni Sartori, "Il nemico visibile", Corriere della Sera, 25.9.2001

5 Piero Ostellino, "Giornali anglosassoni e mosche cocchiere", Corriere della Sera, 29.9.2001

6 Viali, pag. 113

7 Viali, pag. 363

8 Francesco La Licata, "L’arma della querela", La Stampa, 29.6.2001

9 "OG Informazione", Marzo-Aprile 2001

10 "Prima", Settembre 2001, pag.57

11 Michael Ignatieff (intervista), Foglio, 18.2.2000

12 Indro Montanelli, "Che significa essere giornalisti oggi", Corriere della Sera. 2.7.2001

13 McQuail, pag. 225

14 Règis Debray, "Lettera di un viaggiatore al presidente della Repubblica", nell’articolo di Philippe Descamps, "Problemi dell’Informazione", 1/2001, pag.16

15 Paolo Mieli (intervista) in "Problemi dell’informazione", 1/2001, pag.16

16 Nicoletta Cavazza, "Comunicazione e persuasione", pag.75. Il Mulino 1998

17 John B. Thompson, "Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media", Il Mulino 1998

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