Un ombudsman per l'informazione
Franco Cangini
Editorialista
1. Tra due età dei media
"Infopollution", é una parola coniata da
Aleksandr Solzenicyin una ventina d’anni fa. Esprimeva la sconcerto del
grande scrittore russo, esule negli Stati Uniti, dinanzi alla ricchezza
del mercato occidentale dell’informazione. Pur consapevole che lo
sguardo sulla varietà infinita del vasto mondo non fosse riducibile alla
scelta tra le due uniche paia di occhiali - o Pravda o Isvestja -
disponibili nell’Unione Sovietica, nella sovrabbondanza americana delle
fonti vide un pericolo di inquinamento da eccesso d’informazione. Gli
sembrò strana l’indifferenza americana per il senso di frustrazione che
coglie il pubblico quando vi sia discrepanza tra l’informazione, le
fonti della conoscenza e le possibilità d’intervento. Che fare, se la
vista di tutti i mali del mondo prende allo stomaco e confonde il
cervello, senza che s’intravedano ragionevoli possibilità
d’intervento? Capita, in casi del genere, che dal pubblico si sollevi
un’ondata emotiva tale da trascinare le decisioni del potere
democratico. Il disgraziato "intervento umanitario" in Somalia,
per esempio, seguì le immagini televisive dei bambini somali affamati,
come il giorno segue la notte. Vent’anni fa, nell’incerta luce
aurorale della "società dell’informazione", Solzenicyin aveva
dunque colto una minaccia annidata tra le promesse di crescita civile che
sostenevano i primi passi della cosiddetta "rivoluzione mediatica".
Concernente, cioè, gli effetti di cambiamento sociale attribuiti, sulla
scorta dell’esperienza storica, all’invenzione e applicazione delle
tecnologie della comunicazione. Dall’invenzione della stampa (545 anni
fa) alle "reti" elettroniche, passando per la televisione, i
balzi in avanti collettivi dell’età moderna sono avvenuti anche sulla
spinta dei progressi nella comunicazione. Che é stata di massa, in quanto
legata, fin dall’800, alla diffusione crescente di notizie e
informazione, pubblicità, formazione dell’opinione pubblica,
propaganda, intrattenimento. Ma che "di massa" potrebbe non
rimanere. Denis McQuail (1) ha messo a confronto due teorie contrastanti
dei fenomeni connessi con l’introduzione dei nuovi media. Prima teoria,
quella della "società dell’informazione". Concepita in
Giappone nell’81 sulla scia del concetto di "società
postindustriale": per definire una società dove il settore dei
servizi aveva sopravanzato l’industria manifatturiera come principale
forma di occupazione. In questa società domina il lavoro legato
all’informazione e la risorsa più preziosa, che tende a soppiantare in
questo senso il capitale, é l’informazione stessa. Seconda teoria,
elaborata in Olanda una dozzina di anni dopo. Sostituisce la definizione
di "società dell’informazione" con quella di "network
society". Vale a dire: una forma di società le cui relazioni si
strutturano sempre più secondo reti mediali che si stanno gradualmente
sostituendo o affiancando alle reti sociali basate sulla comunicazione
faccia a faccia. La struttura a reticolo della società, contrapposta alla
società di massa fondata sul modello centro-periferia, é caratterizzata
da numerosi circuiti comunicativi sovrapposti che possono svilupparsi sia
verticalmente sia orizzontalmente. Tali reticoli rispondono sia a una
logica inclusiva, sia a una logica esclusiva. Com’é noto, i mass media
tradizionali si distinguono invece per una forte inclusività.
Riassumendo. I media tradizionali sono stati strumenti di crescita civile
e di coesione sociale, rapportati alla dimensione territoriale dello
stato-nazione nonché alle esigenze dell’economia fondata sulla grande
industria. Mentre la diffusione dei nuovi media, senza vincoli
territoriali, accompagna la metamorfosi "reticolare"
dell’economia produttiva e crea le condizioni della formazione di reti
sociali con processi di identificazione assai diversificati. Il computer
mette gli individui in connessione tra loro, ma con le modalità di un
comportamento solitario, secondo scelte individuali, sostanzialmente
anonime. Difficile considerarli un antidoto alla solitudine dell’uomo
moderno; più facile vedervi potenzialità evolutive verso forme di
interazione sociale. Con effetti a cascata che, tra l’altro, mettono in
discussione il mestiere di giornalista.
2. Informazione affidabile?
"Società dell’informazione" o
"network society" che sia, abbiano o no un futuro i mezzi di
comunicazione di massa, alla base c’é, e continuerà ad esserci, una
questione di affidabilità. Affidabilità dell’informazione e quindi,
oggi, dei giornalisti. Una valutazione del tasso di affidabilità
dell’informazione in Italia, può desumersi dal confronto tra la poesia
e la prosa della professione giornalistica. Ossia tra codici di
comportamento e tendenze affiorate nei reali comportamenti. In una società
liberale, la più autentica garanzia dell’interesse pubblico alla libertà
e correttezza dell’informazione risiede nella capacità di autocontrollo
della stampa assai più che nell’esistenza di vincoli normativi. In
questo senso, la libertà di stampa si é identificata con la libertà
dalle restrizioni. Come recita il Primo Emendamento della Costituzione
americana del 1791: "Il Congresso non promulgherà leggi che limitino
la libertà di parola o di stampa". Fu la prima codificazione del
principio liberale, enunciato in Inghilterra da Edmund Burke, di un
"quarto potere" pubblico, quello del giornalismo, da affiancare
ai tre esistenti all’epoca (aristocrazia, chiesa e parlamento). Nella
fiduciosa attesa che il quarto potere fungesse da cane da guardia della
retta condotta di tutti gli altri, e che il libero mercato delle idee
mettesse il guinzaglio al cane. Nel senso che la forza della verità non
avrebbe mancato di trionfare sui possibili errori della stampa. Il buon
funzionamento del sistema era dunque affidato a un meccanismo di
autocorrezione. E tale è rimasto, poiché in duecento anni non ne é
stato inventato uno migliore. Nel nostro ordinamento, la libertà
d’informazione ha il suo caposaldo nella prima parte dell’articolo 21
della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure". Mentre alla deontologia del giornalista sono tracciati
binari normativi, anche penali. Particolarmente significativo l’articolo
2 della legge professionale: "E’ diritto insopprimibile dei
giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata
dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità
altrui ed é loro obbligo inderogabile il rispetto della verità
sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e
dalla buona fede" (2). Per buona misura, nel 1993 il Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato una "Carta dei
doveri" molto particolareggiata. Vi si enunciano principi
impegnativi, tra cui, con speciale insistenza, quello sacrosanto della
responsabilità del giornalista verso "il diritto all’informazione
di tutti i cittadini", prevalente su ogni altro interesse in causa,
compreso quello dell’editore. Si precisa che l’informazione dovuta ai
cittadini deve essere "corretta". Di conseguenza, il giornalista
"non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa
ricostruzione dell’avvenimento. I titoli, i sommari, le fotografie e le
didascalie non devono travisare, né forzare il contenuto degli articoli o
delle notizie". Fin qui la poesia.
3. Deragliamenti
Alla prova dei fatti, é messa a dura prova la fede nel
meccanismo di autocorrezione che dovrebbe garantire la vittoria finale
della verità sull’errore, in competizione tra loro sul libero mercato
delle idee. Con la supremazia del mezzo televisivo, il mercato che più
conta ai fini della qualità dell’informazione, non é tanto quello
delle idee quanto il mercato pubblicitario. L’aspettativa della
"audience" più vasta condiziona i comportamenti ben più
dell’anelito alla verità, ininfluente ai fini della determinazione
delle tariffe pubblicitarie e del successo professionale degli operatori
dell’informazione. L’informazione televisiva va per la strada che più
le conviene e si tira dietro l’informazione scritta. Il grande pubblico
fa la bocca al crescendo di sensazionalismo e alla minoranza provvista di
spirito critico resta la scelta tra alzare le spalle e alzarsi dalla
poltrona, uscendo dalla platea dei telespettatori per tornare ai vecchi
mezzi di comunicazione, o convertirsi ai nuovissimi. Di fatto la
televisione ha cominciato a perdere per strada una parte del suo pubblico.
Col risultato di determinare ulteriori scelte sacrificali, sull’altare
dell’audience, della qualità dei programmi televisivi. E’ l’ora del
"grande fratello". Il professor Giovanni Sartori ha scritto un
saggio, una dozzina d’anni fa, per mettere in guardia dai miraggi
televisivi (3). Vi si sostiene che se l’homo sapiens é un prodotto
della cultura scritta, da quella televisiva non possiamo aspettarci altro
che l’homo insipiens. Non c’é completezza dell’informazione che
tenga: il mondo osservato dall’occhio della telecamera é solo quella
parte del pianeta dove la telecamera é ammessa. Non c’é gerarchia
delle notizie: nei telegiornali, l’ordine d’importanza, é
necessariamente dettato dalla disponibilità di materiale filmato.
Avvenimenti modesti balzano al posto d’onore in forza della qualità
drammatica delle immagini: "E’ la drammatizzazione del triviale,
congiunta alla castrazione del capire". Quel ch’é peggio, il mezzo
non si presta alla spiegazione delle questioni complesse, inevitabilmente
noiosa. Così anche i dibattiti sulle cose serie sono falsificati
dall’introduzione di elementi di spettacolarizzazione, che calamitano
l’attenzione deviandola dal suo oggetto. Al contrario, la denuncia, la
protesta, il catastrofismo fanno spettacolo in sé e in Tv vanno per la
maggiore. Lo spettro della catastrofe nucleare é infinitamente più
telegenico di qualsiasi rassicurazione razionale. In conclusione:
"L’uomo oculare, video-formato, é sempre meno un animale mentale,
capace di capire quel che vede". Sartori esagera nella sua
requisitoria. Non é giusto imputare al mezzo televisivo anche
responsabilità che ricadono sulle scelte di programmazione. Non é colpa
del mezzo, se la semplicità circense della diretta televisiva é così
spesso preferita alla complessità delle trasmissioni pensate, registrate
e onestamente montate alla moviola. Però ha ragione da vendere nel
denunciare l’illusione di verità che l’immagine può dare: "In
realtà l’immagine mente quanto le parole e con molta più efficacia
delle parole.... Chi ricorda la guerra del Vietnam ricorda la fotografia
di un colonnello sud vietnamita che spara alla tempia di un prigioniero
inginocchiato. Il mondo occidentale ne restò inorridito. Ma quella
immagine era un primo piano che non faceva vedere, intorno, i corpi di
donne e bambini uccisi e mutilati dai vietcong. Era dunque un’immagine
falsante perché cancellava il contesto dell’evento" (4). Un altro
esempio fatto da Sartori a sostegno della sua tesi riguarda le immagini
dei bambini iracheni "che muoiono di fame per colpa delle sanzioni
americane. E’ falso. Quei bambini sono affamati da un tiranno
sanguinario che spende tutto per armarsi e che é felicissimo di avere
bambini morenti da esibire". Per la verità, il tiranno in questione
esibisce le sue piccole vittime con una certa discrezione. E’ la Rai che
esibisce in continuazione nei telegiornali, da anni, lo stesso spezzone
filmato. La polemica antiamericana per le sanzioni all’Iraq giustifica
il rilancio dell’unico documento disponibile; a sua volta la
ripresentazione di quel filmato rilancia la polemica politica, in un gioco
di specchi senza fine. Sarebbe onesto, quando l’informazione ricorre a
immagini di archivio, precisarne la datazione. Ma questo non viene fatto.
Perché?
4. "O terror do mundo"
C’era una volta la stampa brasiliana. Nelle redazioni
dei giornali italiani veniva additata con finalità pedagogiche. Un po’
come nell’antica Sparta veniva additato ai giovani il meteco ubriaco,
allo scopo di propagandare la virtù della temperanza. Il Brasile, in quel
tempo remoto, imponeva a modeste navi da guerra, varate nei cantieri
italiani, nomi tonitruanti come O terror do mundo. E prediligeva una
stampa quotidiana altrettanto rimbombante di titoloni a sensazione, fatti
per lanciare pseudo-notizie che avevano la vita breve di una rosa e
sfiorivano per lasciare il posto ad altre impennate della fantasia. Una
ragione c’é, se quel fantasioso giornalismo carioca si direbbe promosso
a modello della nostra informazione, televisiva e non solo. E la ragione
riguarda assai più l’ansia di audience che non la passione politica.
Non si spiegherebbe altrimenti lo strano caso del carabiniere killer,
rivelato dal telegiornale leader di Mediaset il giorno stesso che il
presidente del Consiglio Berlusconi si trovava a Genova, sotto protezione
delle forze dell’ordine, per presenziare alla riunione del G-8.
L’immagine, tagliata in primissimo piano, mostrava un ragazzo
incappucciato con una bombola rossa nelle mani, fulminato dalla
revolverata di un milite, esplosa attraverso il finestrino di una jeep. Il
messaggio politico di quella immagine era inequivocabile: col cambio di
governo la polizia ha di nuovo il grilletto facile. Equivocabile, invece,
era l’immagine. Se ricollocata nel suo contesto, rinunciando alla magia
del primissimo piano, mostrava la realtà di un atto di legittima difesa
dalla violenza micidiale di un’aggressione in atto. Domanda: come mai un
TG indipendente, sì, ma non antigovernativo, ha ceduto alla tentazione di
forzare l’immagine, a costo di sgambettare il governo? La risposta ha
qualcosa a che fare con la sovranità dell’audience, arbitra dei destini
professionali e degli introiti pubblicitari nella competizione tra i
soggetti di un’informazione urlata, dove si fa a chi la spara più
grossa. Piero Ostellino, giornalista di cultura liberale, s’indigna (5)
per come la nostra informazione, ideologica per formazione e
fastidiosamente moraleggiante per conformismo, si é lungamente diffusa
sul pericolo che lo spirito di vendetta porti gli americani a infierire
sulle popolazioni afghane con massicci bombardamenti. Ipotesi
manifestamente assurda, non solo perché esclusa dagli americani ma anche
a causa della inconsistenza degli obiettivi militari nelle città di quel
disgraziato paese. Cercando la causa del fenomeno, per lui increscioso,
Ostellino si é imbattuto in questa spiegazione: "Il buon
giornalista, si é detto, deve essere sempre in sintonia con i lettori, ne
deve assecondare i vizi, anche quando sono la paura e la diffidenza (per
gli Usa), e saperne apprezzare le virtù, anche quando sono
"piccole", ne deve riflettere la cultura politica. In poche
parole, deve dare loro quello che essi si aspettano da lui. E io, da
questo punto di vista, non sono un buon giornalista. Ma davvero i lettori
e telespettatori si aspettavano quello che i media europei hanno dato loro
in questi giorni, tanta retorica, tanta ideologia, tanto sensazionalismo,
tanto moralismo? Mah". Il fatto é che il sensazionalismo a fini di
audience va a braccetto con un soggetto di lui peggiore: il conformismo a
fini assicurativi contro gli incerti del mestiere. Insieme, formano una
coppia micidiale per la credibilità della professione giornalistica.
5. "Giornalismo pecorone"
Abbiamo già registrato la tendenza dell’informazione
a deragliare nel sensazionalismo, sotto la spinta dell’impulso più
potente: la ricerca del massimo tornaconto. Editoriale e professionale.
Difficile aspettarsi che si rimetta in carreggiata grazie ai soli
meccanismi autocorrettivi del libero mercato e del codice deontologico. Il
bacino di utenza servito dall’informazione ha dimensioni e sensibilità
che non sono più quelle, elitarie, del ‘700 illuminato o dell’800
borghese, quando si poteva fare un certo assegnamento sull’effetto
moderatore dei benpensanti. Quanto agli effetti correttivi dalle norme
deontologiche, sarebbe più ragionevole farci assegnamento, poiché viene
loro attribuito il valore stringente di norme giuridiche vere e proprie.
La Carta dei doveri dei giornalisti fa obbligo di rispettare il diritto
del cittadino a un’informazione "corretta". La condanna del
sensazionalismo ne risulta di conseguenza. Iscritto tra i peccati mortali
della professione, proprio in considerazione del fatto che per i
giornalisti é una forte tentazione. Come si legge nella premessa del
capitolo dedicato alla deontologia del giornalista: "L’inseguimento
dell’audience e dei gusti del pubblico, la comunicazione sempre più
urlata, l’omogeneizzazione dello stile del messaggio giornalistico con
quello televisivo (fenomeni innegabili e sempre più esasperati, a danno
della qualità e della serietà del prodotto) si accompagnano con la
deformazione dei fatti e la creazione di eventi che alla fine non
esistono: pseudo-fatti cioè oppure fatti deformati in quanto espressi in
modo del tutto non corrispondente al vero; i cosiddetti, con un neologismo
tratto dalla lingua americana, ‘fattoidi’ di cui é piena la nostra
stampa" (6). Giudizio ineccepibile, ma di ardua applicazione. Non é
semplice neppure sanzionare un determinato giornalista, responsabile di
una precisa e accertabile infrazione del codice di autodisciplina. Prova
ne siano le impugnative di sanzioni disciplinari decise dagli Ordini
territoriali competenti, giacenti a centinaia presso il Consiglio
nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Elefantiaco organo giudicante,
composto da centocinquanta colleghi del ricorrente. Figurarsi dunque quale
sia, in concreto, la possibilità di tutelare il diritto del pubblico alla
correttezza dell’informazione nei casi di "strutturazione della
realtà" a misura delle esigenze e degli interessi giornalistici.
Capita continuamente d’inciampare, lungo i canali dell’informazione,
in notizie gonfiate come vitelli agli estrogeni, o deformate per renderle
aderenti a tesi precostituite. "Fattoidi", appunto. Quando non
si tratti di pure invenzioni di eventi inesistenti. Praticamente
impossibile, poi, sanzionare quella particolare forma di deragliamento dai
binari della professione, che negli Stati Uniti é chiamato
"giornalismo pecorone". La definizione stigmatizza "la
tendenza dei giornalisti a lavorare in squadra, a non farsi concorrenza, a
trattare tutti le stesse storie e usare le stesse fonti" (7).
Tendenza diffusissima anche da noi, se a un noto giornalista non é
sembrato strano confermare, in un’intervista, che effettivamente i
redattori capo dei tre principali quotidiani d’informazione e
dell’organo del principale partito d’opposizione avevano lungamente
coltivato l’abitudine di telefonarsi alle otto della sera "per
dirsi le notizie che mettevano in prima pagina". Dove a stupire non
é tanto la vicenda in sé non ignota nell’ambiente, quanto che se ne
parli pubblicamente come se questo scampolo di "giornalismo
pecorone" non fosse la negazione di ogni sana retorica professionale
e del diritto del cittadino a un’informazione diversificata, oltre che
terreno di coltura di vere e proprie "distorsioni mediali". Non
tutte le distorsioni sono gravi, ma esse sono sempre una manifestazione
della pretesa dei media di adattare la vita reale alle proprie esigenze.
Così, per esempio, nella rappresentazione della protesta anti-G8 a
Genova, nel settembre scorso, dove si é passati dal catastrofismo
tambureggiante delle aspettative mediatiche, alla criminalizzazione della
protesta, identificata con la sua frangia più pittoresca e violenta, per
finire con la criminalizzazione della polizia attraverso l’uso
unilaterale del diritto di cronaca a documentazione dei pestaggi. Ma dove
la pecoraggine dell’informazione tocca il fondo é nella giudiziaria,
quando i media, raggiunta l’unanimità su una tesi, finiscono per
imporla come verità rivelata. Col risultato di dirottare le indagini
dalla ricerca della verità. Dalla realtà romanzesca, al romanzesco
imposto come reale.
6. Cane non mangia cane.
Che fare per uscirne? Innanzi tutto rinunciare
all’idea che la correttezza dell’informazione poggi sull’automatismo
dei meccanismi autocorrettivi. L’Ordine fa del suo meglio, ma non gli si
può chiedere l’impossibile. Cane non mangia cane. Quanto agli effetti
taumaturgici attribuiti al "libero mercato delle idee", occorre
un faro che lo illumini. Non é facile sceverare verità ed errore nel
buio del "giornalismo pecorone". La Svezia affida a un Ombudsman
il compito di vigilare sulla correttezza dell’informazione
nell’interesse esclusivo del pubblico. Doveva essere anche il compito
del nostro garante della comunicazione, ma non gli é riuscito di essere
il guardiano del faro della correttezza giornalistica. Troppi compiti lo
gravano e troppi interessi politici si fanno sentire. Meglio un’autorità
imparziale che si occupi soltanto dell’informazione dal punto di vista
dell’interesse pubblico. Come in Svezia, appunto. Se é giusto affidare
a un’autorità imparziale la vigilanza sull’informazione, perché i
diritti dei cittadini siano meglio garantiti, lo é altrettanto
alleggerire ai magistrati il fardello del giudizio sulle querele per
diffamazione. Specie se sporte da loro colleghi. Il valore da tutelare é,
in entrambi i casi, il medesimo: il diritto dei cittadini a
un’informazione corretta. Le tentazioni a cui sensazionalismo e spirito
gregario espongono i giornalisti, non sono le uniche responsabili di
distorsioni dell’informazione. Lo é anche la legge in vigore sul reato
di diffamazione. I querelanti ne sono incoraggiati a ricorrere
all’azione civile, senza la concessione della facoltà di prova, senza
la possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza del giudice
monocratico e praticamente senza limiti di tempo dall’avvenuta
pubblicazione della notizia considerata diffamatoria. In pratica, questa
legge é un’autostrada aperta all’arricchimento personale per via
giudiziaria e un deterrente efficace all’esercizio della libertà di
stampa. Una ricerca dell’Ordine dei giornalisti ha rivelato che molte
centinaia di cause sono pendenti nei confronti di cronisti e dei direttori
responsabili dei loro giornali, con richieste di risarcimenti per un
totale di circa 3500 miliardi. Risarcimenti a cui non sempre l’editore
é disposto a far fronte. Sempre secondo l’Ordine dei giornalisti, i
magistrati figurano al primo posto tra i promotori di cause per
diffamazione, con richieste di ingenti risarcimenti. L’andamento dei
giudizi non é affatto tranquillizzante. Un giornalista ha scritto che
"a Palermo, su undici richieste di risarcimento presentate, la
magistratura ne ha accolte dieci". Sicché: "esiste un problema
legato al ricorso disinvolto alla querela (meglio se la denuncia é in
sede civile), ormai divenuta una sorta di strumento di vera e propria
censura politica. Tant’é che sempre più frequentemente si chiede la
"punizione" non solo dell’eventuale inesattezza sfuggita dalla
penna, ma addirittura di un commento o di un giudizio non gradito"
(8). E’ nell’interesse pubblico che il Parlamento si apra alle
iniziative legislative per la riforma del reato di diffamazione a mezzo
stampa. La salvaguardia del diritto dei singoli all’onorabilità e alla
reputazione non può avvenire a spese della libertà dell’informazione e
del diritto dei cittadini a essere informati. Tesi interessanti, al
riguardo, sono state espresse in un Forum del Consiglio nazionale
dell’Ordine dei giornalisti (8) . Il professor Vincenzo Caianello, già
presidente della Corte Costituzionale, ha messo il dito nella piaga:
"Il magistrato che viene oltraggiato, offeso in occasione
dell’esercizio della sua funzione, non é giusto che sia lui a lucrare
il risarcimento. L’azione giudiziaria (se intende promuoverla dovrebbe
essere assistito dall’avvocatura dello Stato) dovrebbe concludersi con
un giudizio in cui si dichiari che il giornalista é stato malevolo. Il
magistrato ne riceverebbe la soddisfazione morale del riconoscimento che
il suo offensore abbia agito male". Un esponente dell’Ordine
professionale, Roberto Martinelli, ha sollevato recentemente la questione
della rettifica, sempre in rapporto alla riforma della legge sulla
diffamazione. Non si tratta solo di garantire il rispetto delle norme che
regolano la rettifica, ma anche di evitare che essa sia "utilizzata
in maniera strumentale e surrettizia per avallare versioni di comodo non
rispondenti alla verità dei fatti. Per scongiurare questa eventualità,
suggerii di prevedere, nel caso in cui il giornalista decida di non
pubblicarla, la possibilità di deferire a un giurì d’onore il giudizio
sulla verità del fatto, accettando di correre tutti i rischi
dell’azione civile e di quella penale. L’istituto del Giurì, pur
essendo previsto dal codice e regolato dagli articoli 177-179 c. p. p., é
caduto in desuetudine. La ragione é da ricercare nel fatto che la parte
offesa non ha alcun interesse al semplice accertamento della verità, ma
preferisce la via del contenzioso giudiziario che garantisce parcelle
d’oro agli avvocati e risarcimenti profumati a persone che spesso non
avrebbero alcun diritto di pretenderli". Ecco un altro settore aperto
all’intervento di un Ombudsman, difensore civico del diritto dei
cittadini alla migliore informazione possibile. Se fossimo la Svezia.
7. Duopolio anomalo.
L’avventura de La 7 si é consumata nel breve spazio
di un’estate. Concepita, sotto gli auspici di una parte del
centrosinistra, per rompere l’equilibrio bipolare dei rapporti di forza
televisivi, é morta in culla in coincidenza con l’avvento del governo
di centrodestra. "Io ero pagato per fare la concorrenza a Rai e
Mediaset, per fargli male", ha detto il disavventurato direttore dei
programmi informativi de La 7, Gad Lerner (9). Non sapremo mai se ci
sarebbe riuscito. Né quale consistenza abbia quella parte di pubblico
"più colto della sua televisione", disposto a dislocarsi su un
terzo polo che si arrischi a volare un po’ più alto rispetto a Rai e
Mediaset. O comunque un po’ più a sinistra. Benché l’esito abortivo
non giovi alla crescita del pluralismo nell’offerta informativa, é
difficile immaginare che l’iniziativa sarebbe stata d’aiuto, se
vitale. La moltiplicazione dei referenti politici dell’emittenza poteva
apparire un rimedio al tempo del monopolio Rai. Che all’inizio fu un
monopolio politicamente monocolore, a causa dell’egemonia democristiana
nel sistema radiotelevisivo. Quindi prese tutti i colori della coalizione
di centrosinistra, per aggiungere infine alla tavolozza anche il rosso
dell’opposizione comunista. La tripartizione dei canali televisivi della
Rai, realizzando la lottizzazione dell’etere per quote d’influenza
partitica, sembrò - e in parte fu - una tappa importante del processo di
democratizzazione. Ma fu il successo della televisione commerciale, con
l’avvento di Mediaset, che aprì una breccia all’irruzione del mercato
negli stazzi del monopolio pubblico. Strano mercato, regolato dai rapporti
di forza tra patronages politici, secondo le regole in vigore nella
repubblica dei partiti. Che tuttavia fece fare un balzo avanti alla
modernizzazione del sistema televisivo e della stessa cultura politica del
paese, a prescindere dalle intenzioni degli interessi partitici dominanti.
Per esempio, non c’é dubbio che la televisione commerciale,
incrementando la diffusione di programmi made in Usa, abbia dato un
contributo decisivo all’evasione di massa dalla democrazia
all’italiana. Davanti ai teleschermi, gl’italiani hanno fatto
l’abitudine a vedere da un punto di vista americano i casi della
competizione politica, dell’amministrazione della giustizia, dei
rapporti tra le classi all’interno della società. Senza il duopolio
Rai-Mediaset, l’americanizzazione degli italiani avrebbe seguito un
itinerario più lungo e tormentato. A questo punto, però, proprio la
perpetuazione del duopolio é in contraddizione con il processo di
modernizzazione che da esso ha preso le mosse. Si finge di credere che il
problema sia un altro, riconducibile al conflitto d’interessi di un
presidente del Consiglio, Berlusconi, che é anche il proprietario di
Mediaset. E che, di conseguenza, occorra preoccuparsi di evitare che il
governo arrivi a disporre politicamente di tutt’e sei i principali
canali televisivi. Come sarebbe se il presidente del Consiglio sommasse
all’influenza diretta esercitata su Mediaset in forza dei diritti
proprietari, il controllo politico sulla Rai in quanto presidente del
Consiglio. Donde l’applicazione dei principi della lotta giapponese ai
rapporti tra maggioranza parlamentare di centrodestra e consiglio
d’amministrazione Rai residuale, di centrosinistra. La gestione uscente
si fa forte della propria debolezza per resistere alla pressione dei
vincitori, spinti non tanto da zelo missionario, nell’intento di aprire
alla loro propaganda l’intera platea televisiva, quanto da avidità di
spoglie e di trofei. Ma poiché l’accusa di tendere al monopolio
dell’informazione é di quelle che lasciano il segno, ecco il vincitore
indursi a praticare l’arte dei fair play, rifuggendo dalle tentazioni
dell’informazione asservita e riconoscendo all’opposizione la
titolarità della presidenza della commissione parlamentare di vigilanza
sulla Rai. Ma sono toppe cucite su uno strappo aperto. Non se ne esce
senza la privatizzazione della Rai, la rottura dell’equilibrio bipolare
dell’etere e l’apertura del mercato a nuovi soggetti. Il conflitto
d’interessi del presidente del Consiglio non é pericoloso in quanto
tendente a ridurre il duopolio a posizione monopolistica, ma per il motivo
opposto. Il gioco delle parti fa di Berlusconi il naturale guardiano del
sistema esistente. Come non s’é mai visto un proprietario di diligenze
mettersi a costruire ferrovie, così i due "partiti" Rai e
Mediaset hanno tutto l’interesse di sostenersi a vicenda per far durare
il più a lungo possibile lo status quo. Lo stesso potere di nomina del
consiglio d’amministrazione della Rai, attribuito per legge ai
presidenti delle due Camere, non diventerà uno strumento di controllo
dell’informazione da parte della maggioranza parlamentare.
Semplicemente, i presidenti d’Assemblea cambieranno di spalla al loro
fucile: dopo essere stato funzionale alla lottizzazione della Rai nella
repubblica dei partiti, il criterio di nomina dei consiglieri diventerà
funzionale alla continuità del duopolio. Mentre é evidente che gli
interessi della società libera s’identificano con la riduzione ai
minimi termini dei pascoli a disposizione del potere politico, di governo
e non. Dunque, privatizzazione della Rai e competizione aperta
all’irruzione di nuovi concorrenti sul libero mercato televisivo. La
soluzione ragionevole che ci é fin qui negata dalla politica, possiamo
aspettarcela dal progresso tecnologico e dall’Unione Europea.
L’esistenza di una emittente televisiva giapponese installata in
Germania, e l’installazione di parabole in grado di captare 250 canali
fanno intendere che il futuro non appartiene alla rendita di posizione del
duopolio. Inoltre, l’Europa preme perché si distingua tra servizio
pubblico e impresa, cioè tra quel che si paga con il canone di
abbonamento televisivo e le prestazioni che si sostengono succhiando
pubblicità. Per queste si richiede concorrenza ad armi pari sul mercato.
Fin qui la Rai fa della distinzione tra le sue due vesti una questione
interna all’azienda. Ma fatalmente si arriverà al suo sdoppiamento in
due società: una sul mercato a fare impresa e l’altra a fare servizio
pubblico col canone. Come la BBC e con analoga aspettativa di contrazione
della sua quota di mercato a un misero 1%. Quanto prima, tanto meglio. Non
serve a nulla un servizio pubblico che rinnega la sua ragion d’essere.
Come la Rai ha fatto in occasione del referendum cosiddetto
"federalista" del 7 ottobre, quando tra il dovere istituzionale
di informare al meglio i cittadini e il timore di perdere
"audience" nella trattazione di un argomento ostico e circondato
dal disinteresse generale, non ha avuto dubbi: ha scelto la
"audience".
8. "Senza oneri per lo Stato".
C’é una frase di Clemenceau abbastanza nota, se non
altro perché Biagi la cita spesso: "I giornalisti sono come le
donne: le amanti che non domandano niente sono quelle che costano di più".
E’ possibile che la situazione non sia molto diversa, rispetto ai tempi
del "Tigre". Ma solo per quel che riguarda i singoli
giornalisti. Come categoria, invece, i giornalisti chiedono molto, in
duetto con gli editori, e molto costano al contribuente. Almeno un
migliaio di miliardi l’anno. Resta un mistero come si possa conciliare
la poesia del "quarto potere" con la prosa di un’informazione
mantenuta di Stato. A meno di un atto di fede nella bontà della tesi
sorprendente di Michael Ignatieff (10), secondo cui un’informazione
indipendente é incompatibile con la proprietà privata dei media:
"Dobbiamo farla finita con la stampa che collude, o resta in silenzio
sulla corruzione. Dobbiamo bloccare i tentativi che le imprese e i grandi
proprietari dei mezzi di comunicazione mettono in atto per frenare la
libertà di stampa.... Per diventare indipendente, con funzioni di
controllo, dovrebbe essere pubblica". Difficile condividere l’idea
di affidare il controllo del potere a un cane da guardia con l’osso del
finanziamento pubblico in bocca. Chi tuttavia fosse disposto a
condividerla potrebbe trarre motivo di ottimismo dallo stato delle cose in
Italia. Dove l’informazione é sì, tranne la Rai, di proprietà privata
ma foraggiata con fondi pubblici.
9. Un mestiere che cambia
Un giovane lettore ha scritto a Indro Montanelli,
l’estate scorsa, per sapere cosa significa essere giornalista oggi.
"Di certo non quello che significava cinquant’anni fa - si legge
nella risposta - Allora era il veicolo delle notizie. Oggi, direi, ne é
soprattutto l’interprete. Non solo quando fa il commentatore. Anche
quando fa il cronista. La mole di informazioni é tale che la scelta già
implica un giudizio (di opportunità e di valore). Questa é la prima cosa
da dire, e forse la più importante" (11). Un riferimento a più
radicali prospettive di trasformazione del mestiere é contenuto nelle
ultime righe, dove si accenna alla "abitudine alla lettura che va
scomparendo, in questa nostra vita frettolosa". Si dirà che
l’informazione non finisce con la scomparsa della lettura. Ma il
giornalismo non sarà più la stessa cosa. L’espressione "postgiornalisti"
é entrata nell’uso corrente perché la metamorfosi del mestiere é
percepita come un fenomeno già in atto. La bipartizione montanelliana del
ruolo del giornalista - veicolo o interprete delle notizie - esprime la
tradizionale autorappresentazione della categoria. Risale a una quarantina
di anni la distinzione dei ruoli: "quello del cronista neutrale, che
evoca l’idea della stampa che informa e interpreta (facendo da canale o
da specchio) e quello del cronista ‘partecipante’ (concetto del quarto
potere) che racchiude l’idea di una stampa rappresentativa
dell’opinione pubblica, critica verso il governo, schierata e impegnata
politicamente" (12). I giornalisti hanno generalmente preferito
riconoscersi nel ruolo neutrale, informativo e non impegnato, confacente
all’ossequio tributato al valore dell’obiettività. Più recentemente
si é fatta strada l’idea che il giornalista s’identifichi con un
"ruolo antagonistico" nei confronti del governo, corrispondente
all’aspirazione a servire il segmento di pubblico che si intende
rappresentare. Concetto estremizzato nel 1985 da una definizione che fece
discutere, dovuta al comandante dell’esercito svizzero, Roger Mabillard:
"Il cronista é un avversario potenziale delle istituzioni dello
Stato". Il passaggio dalla tradizionale bipartizione del ruolo del
giornalista a una tripartizione, é registrato nel libro del McQuail:
interprete (per la capacità di analizzare questioni complesse),
divulgatore (per la tempestiva informazione del pubblico), e antagonista
(nei confronti del potere, politico e no). Quale che sia la distinzione di
ruolo, ovunque il giornalista tende a un ideale di professionalità, come
"esercizio di una abilità nel confezionare il prodotto-notizia
richiesto, caratterizzato da un alto grado di obiettività,
contrassegnata, a sua volta, da un’ossessiva fedeltà ai fatti e
neutralità di atteggiamento". Naturalmente, le cose si complicano
quando l’ideale viene messo alla prova nella realtà dell’agire
quotidiano. Come confermato anche dalle vicende dell’ultimo anno.
Conformismo. Difficile servire l’ideale dell’obiettività quando
parlano le armi. Osservando la linea di condotta della stampa francese
nella crisi del Kosovo, Règis Debray ne ha constatato l’unanimismo. Non
solo nell’approvazione dell’intervento Nato, ma anche nella tendenza a
vedere i fatti attraverso le lenti della propaganda. Il filosofo ne ha
ricavato un violento pamphlet sul conto della stampa, definita una
"figura moderna del clericalismo" (13). La questione di
principio é stata poi riproposta dalle polemiche - non solo americane -
sul ruolo dei media in genere, e della televisione in specie, nei
confronti degli appelli alla guerra santa lanciati dal terrorista Bin
Laden e dai suoi accoliti. Riecheggiare gli appelli in omaggio alla
completezza dell’informazione, o censurarli inchinandosi alle superiori
esigenze della sicurezza e del patriottismo? Un dilemma analogo a quello
che si pose ai nostri media negli "anni di piombo" dinanzi ai
proclami delle Br. In casi del genere, quando non si verifichino
interventi censorii autoritativi, é l’atteggiamento del pubblico che
impone la soluzione. Il pubblico americano ha manifestato per i proclami
dei terroristi una tale crisi di rigetto che i media si sono affrettati ad
adeguarsi. Da noi la pressione dell’opinione pubblica é meno massiccia,
il fronte politico interno più frazionato e i media, di conseguenza, meno
allineati.
10. Miti editoriali.
Quello dell’editore puro é un mito duro a morire:
"Io penso che un giorno torneranno gli editori puri. Io sogno che un
giorno le aziende editoriali siano fatte e gestite da chi ha interessi
primari, se non esclusivi, nell’editoria" (14). Eppure fu un
editore puro che trascinò il "Corriere della Sera" in un tale
sottobosco che Agnelli, editore impuro, dovette inglobarlo a grande
richiesta nel suo impero "per un dovere di disinfestazione e di
purificazione". Inoltre, la purezza della sfera dei primari interessi
editoriali non garantisce, di per sé, la purezza del prodotto.
L’intreccio degli altri interessi, "secondari" ma consistenti,
non é certo privo di effetti condizionanti. Il problema é un altro:
quali che siano gli interessi primari o secondari dell’editore, esiste
un’istanza abbastanza forte da farsi carico di una mediazione
giornalistica rispettosa dei diritti del pubblico? Al direttore
responsabile ne viene addossato il fardello, ma nessuno si preoccupa di
dargli la forza per farsene realmente carico. Nei fatti, la bilancia dei
rapporti di forza all’interno delle aziende editoriali é andata sempre
più pendendo dalla parte manageriale. Per restituire credibilità al
garante della qualità dell’informazione, delle tre l’una: o dare la
responsabilità a chi ha la forza, facendo dell’editore il direttore
responsabile; o dare forza a chi porta la responsabilità, puntellando
convenientemente il ruolo istituzionale del direttore; ovvero rimettere il
potere di controllo e d’intervento, a garanzia dell’interesse pubblico
alla correttezza dell’informazione, al medesimo Ombudsman evocato
all’inizio di questo rapporto. Probabilmente la terza soluzione é la più
praticabile. Un altro mito duro a morire concerne la garanzia di libertà
dell’informazione attribuita alla buona salute dei conti aziendali.
Questa é un’ovvietà: é evidente che una testata dissestata é una
testata facilmente ricattabile. Ma l’attivo di bilancio non é di per sé
garanzia d’incorruttibilità. Se fosse, dovremmo dedurne che la libertà
dell’informazione é - meglio: é stata negli ultimi anni - in una botte
di ferro. Per convincersene basta un’occhiata alle scrupolose relazioni
Fieg sull’andamento delle imprese editoriali. Tra cui le 121 imprese che
pubblicano le 138 testate quotidiane esistenti al 31 maggio 2001, per un
totale di vendite stimato in 6.023 milioni di copie nel 2000. Le analisi
sull’evoluzione della stampa italiana nel periodo 1997-2000 sono
bollettini trionfali. L’utile di esercizio delle 63 imprese considerate,
editrici di 73 quotidiani, é passato da 125 miliardi/97, a 217/98, a
364/99. Le imprese in utile, 41 nel ‘99 da 38 che erano del ‘97;
quelle in perdita sono rimaste tra 23 e 22 nel triennio: in compenso gli
utili complessivi sono aumentati del 29% e le perdite diminuite del 28,3%.
Risultati indubbiamente brillanti, dovuti all’abbattimento dei costi di
produzione e all’exploit dei ricavi pubblicitari: +16,4% nel ‘99.
Tutto per bene? Non tanto. Non depone bene sullo stato di salute
dell’editoria la flessione dei ricavi da vendita di copie (-4,2% nel
‘99) nonostante il recupero attribuito, per l’anno seguente, alla
liberalizzazione dei punti vendita. La stampa fa fatica a resistere sulla
quota delle copie conquistate. C’é un limite anche alla fantasia
promozionale del management, punto di forza delle ambizioni diffusionali
di gran lunga privilegiato rispetto ai contenuti giornalistici. Bingo e
gadget ormai costano più di quanto rendano e la confezione dei giornali
"panino" serve, più che a guadagnare copie, a pescare nel
trogolo dei fondi per l’editoria, poiché l’abbinamento con un
giornale locale fatto in cooperativa ne fa partecipe anche la testata
"importante". Quanto agli investimenti pubblicitari sulla
stampa, l’imponente mietitura del primo semestre 2001 (2.731 miliardi
netti, di cui 1.702 sui quotidiani e 1.029 sui periodici) trae in inganno.
I quotidiani hanno perso circa il 10% della pubblicità commerciale
nazionale, in parte compensato dall’incremento di quella locale. Non é
un segno di buona salute, specie in coincidenza con la caduta dei consumi
per effetto della crisi internazionale. La situazione non é più quella,
rosea, del consuntivo per l’anno 2000, quando la torta pubblicitaria
sfiorava i 17.000 miliardi, di cui più della metà ingoiati dalla
televisione (e molti di più con la radio). Il quinquennio delle vacche
grasse é alle spalle e si può solo sperare che l’editoria non torni
alle vacche magre degli anni Ottanta e della prima metà dei Novanta. La
fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" delle imprese
editoriali aveva partorito l’idea che il quotidiano fosse ormai avviato
a un destino di contenitore pubblicitario da diffondere gratuitamente
(come le tre testate esistenti, per 750.000 copie), avendo come
alternativa smilzi fogli di commenti di poco costo e poche copie. Quelle
certezze sono scosse, ma una riconversione ai contenuti giornalistici
richiederebbe un faticoso salto culturale. Aspettarsela, é probabilmente
chiedere troppo al potere del management. In compenso, due gruppi
editoriali, Rcs e Poligrafici, si stanno prodigando per iniziare 200.000
ragazzi delle scuole a prendere confidenza con la lettura dei giornali.
L’avvento prossimo di una generazione "fesso chi legge"
comincia a preoccupare. Come le monache. In passato si diventava
giornalisti più o meno come ci si faceva monache: chi per vocazione, chi
per bisogno faute de mieux. La vocazione continua a essere la molla
decisiva nella metà dei casi. Però la vocazione non basta, dunque si sta
facendo strada l’idea che non ci si può limitare a fare assegnamento su
qualche anno di gavetta per acquisire la preparazione occorrente. Le
redazioni non sono più le botteghe artigiane d’una volta, quando ogni
novizio trovava un vecchio del mestiere disposto a tirarlo su. Da ciò il
successo delle nove scuole di giornalismo abilitate a tenere corsi
biennali di specializzazione, sulla cui effettiva qualificazione sarebbe
bene tenere gli occhi aperti. Dei novecento praticanti che si presentano
nelle due sessioni per l’esame di idoneità professionale, almeno 140
sono allievi delle scuole di giornalismo. Il mestiere ha ancora forza di
attrazione, ma ha perso la sua poesia. Troppe ore passate incollati sulla
sedia con gli occhi fissi sul monitor. Troppa dipendenza dalla tv. I
redattori cedono a frustrazioni impiegatizie. Un poco alla volta, il
mestiere tende a dislocarsi all’esterno delle redazioni. Il giornalista
operativo é sempre più spesso un autonomo che lavora in "service"
o collabora da "free lance". Qualcuno scommette sul nuovo
mercato dei giornali "on line", che hanno finito per riconoscere
ai loro redattori il contratto di lavoro giornalistico. Può darsi che
rappresenti il futuro, ma il presente non corrisponde alle speranze.
Quanto alla "rivoluzione" di Internet, la possibilità che
arrivi a sopprimere la mediazione giornalistica, sostituendola con la
circolarità di un’informazione "fai da te", continua a essere
l’oggetto di atti di fede affioranti su un mare di scetticismo.
L’incubo del "digital divide", la frattura generazionale e
geografica tra chi padroneggia le nuove tecnologie della comunicazione e
chi ne é tagliato fuori, preoccupa ma non fino al punto di fare qualcosa
per accorciare le distanze. Anche se lo schieramento che ha vinto le
ultime elezioni ne ha fatto un caposaldo della sua proposta programmatica.
Nel capitolo del piano di governo intitolato alla new economy, accanto
alla promessa di equiparazione fiscale tra editoria elettronica e
tradizionale, si legge testualmente: "L’obiettivo per i prossimi
cinque anni é quello di favorire l’avvento della società digitale, per
mettere in condizione tutti gli italiani - cittadini, famiglie, imprese,
mondo del no profit e del volontariato - di cogliere le opportunità
offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione" (15).
11. Conclusioni
Si continua ad attribuire un peso esagerato
all’influenza dell’informazione sul mercato politico-elettorale. Ma le
ricerche condotte sull’impatto dei media ai fini della creazione del
consenso descrivono una realtà diversa. Le persone "tendono per lo
più ad accordare la propria attenzione ai messaggi che provengono dalla
parte politica nella quale si riconoscono. Di fronte ai messaggi della
parte avversa sono in grado di trovare contro-argomentazioni critiche. In
queste condizioni, é dunque molto difficile che i contenuti veicolati dai
media provochino un cambiamento diretto del comportamento di voto.
Tutt’al più possono agire nel lungo periodo sulla modificazione della
percezione dell’importanza da attribuire ad alcune questioni" (16).
In pratica, sono proprio i cittadini meno politicizzati e meno
raggiungibili dai media che formano la parte fluttuante dell’elettorato.
Mentre continua a esserci disattenzione per il modo come l’informazione
contribuisce a formare il libero mercato delle idee. Se il modo non é
quello corretto, la formazione dell’opinione pubblica ne risente. Una
rappresentazione men che scrupolosa dei fatti, sia pure dovuta alle
migliori intenzioni, produce effetti distorcenti sulla percezione della
realtà. In questo senso, il conformismo degli "operatori
dell’informazione" e l’eccesso di politically correct non sono
meno dannosi del sensazionalismo. Spetta ai giornalisti il dovere di
raddrizzare il "legno storto" dell’informazione. Interventi
dall’esterno - a parte, si capisce, quelli di competenza della
magistratura - assumerebbero fatalmente un carattere censorio. Un rimedio
peggiore del male. Tuttavia, l’informazione é una cosa troppo
importante per lasciarne il controllo di qualità interamente nelle mani
della corporazione giornalistica. Difficilmente l’autoreferenzialità dà
garanzie sufficienti. Molto meglio irrobustire la capacità di
autocontrollo dei giornalisti con la creazione di un difensore civico del
pubblico interesse alla correttezza dell’informazione. Un Ombudsman come
in Svezia, appunto. L’esigenza di un appropriato meccanismo di
salvaguardia del pubblico interesse nell’informazione si avverte
specialmente oggi che la diffusione delle nuove tecnologie della
comunicazione promette di accorciare di molto il processo di formazione
delle decisioni. I radicali sono stati i primi a cavalcare il
"futuribile" con il lancio della proposta di una "e-democracy"
nel loro convegno romano del 29 settembre. Significa accessibilità, in
rete, degli atti di tutti gli organi istituzionali e giurisdizionali,
nonché introduzione del voto elettronico e del voto on-line per elezioni,
referendum, proposte di legge d’iniziativa popolare. Sarebbe sbagliato
considerarla un’alzata d’ingegno del solito Pannella, destinata, al più,
ad accelerare il superamento del classico modo di votare deponendo la
scheda nell’urna. In realtà é un primo passo nella direzione della
realizzazione dell’idea di una "democrazia deliberativa", che
ha già fatto molta strada nella letteratura scientifica anglosassone. In
pratica, una specie di terza via tra il modello dominante della democrazia
rappresentativa e l’ideale classico della democrazia diretta e
partecipata. Più precisamente, s’intende per democrazia deliberativa
"una concezione della democrazia che tratti tutti gli individui come
agenti autonomi, capaci di formarsi giudizi meditati attraverso
l’assimilazione di informazioni e punti di vista diversi, e che
istituzionalizzi una serie di meccanismi attraverso i quali incorporare le
valutazioni dei singoli in processi decisionali collettivi" (17). Non
é l’agorà ateniese, luogo di confronto tra cittadini col fine di
esprimere una volontà collettiva. E’ piuttosto un processo di
deliberazione collettiva derivato dall’esistenza di una società
dell’informazione. Perché "é scorretto pensare che il processo
che consiste nel leggere un libro, o nel guardare un programma televisivo,
dia meno contributi alla deliberazione di quanti ne assicuri la
partecipazione a una conversazione faccia a faccia". Insomma, la
democrazia deliberativa come fase suprema della società
dell’informazione, servita dai mass media. Più che un traguardo in
avvicinamento, va considerato un futuro del presente, essendo fin d’ora
avvertibili le conseguenze politico- istituzionali della crescente
diffusione delle informazioni e della comunicazione in una società
libera. "E’ per questo che la coltivazione della diversità e del
pluralismo nei mezzi di comunicazione é una condizione essenziale per lo
sviluppo della democrazia deliberativa. La deliberazione prospera grazie
allo scontro tra idee differenti: nulla può soffocare il processo di
deliberazione più di un coro orchestrato di opinioni che non lascia
spazio al dissenso. Poiché assicura le condizioni che consentono di
criticare il potere e di esprimere una molteplicità di opinioni diverse,
il principio del pluralismo regolato é uno degli elementi essenziali
della cornice istituzionale necessaria alla democrazia deliberativa".
Pluralismo regolato significa una cornice istituzionale a garanzia della
libertà e correttezza dell’informazione. L’Ombudsman può esserne il
pilastro.
Note
1 Denis McQuail, "Sociologia dei media",
pagg. 118 e 119. "Il Mulino", 2001
2 Antonio Viali, "Giornalista. La professione, le
regole, la giursprudenza" pag. 116 e seguenti. Centro documentazione
giornalistica, 2001
3 Giovanni Sartori, "Videopolitica"
4 Giovanni Sartori, "Il nemico visibile",
Corriere della Sera, 25.9.2001
5 Piero Ostellino, "Giornali anglosassoni e mosche
cocchiere", Corriere della Sera, 29.9.2001
6 Viali, pag. 113
7 Viali, pag. 363
8 Francesco La Licata, "L’arma della
querela", La Stampa, 29.6.2001
9 "OG Informazione", Marzo-Aprile 2001
10 "Prima", Settembre 2001, pag.57
11 Michael Ignatieff (intervista), Foglio, 18.2.2000
12 Indro Montanelli, "Che significa essere
giornalisti oggi", Corriere della Sera. 2.7.2001
13 McQuail, pag. 225
14 Règis Debray, "Lettera di un viaggiatore al
presidente della Repubblica", nell’articolo di Philippe Descamps,
"Problemi dell’Informazione", 1/2001, pag.16
15 Paolo Mieli (intervista) in "Problemi
dell’informazione", 1/2001, pag.16
16 Nicoletta Cavazza, "Comunicazione e
persuasione", pag.75. Il Mulino 1998
17 John B. Thompson, "Mezzi di comunicazione e
modernità. Una teoria sociale dei media", Il Mulino 1998 |
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