Finanza, borsa e capitalismo italiano
Enrico Cisnetto
Economista - Editorialista
1. Premessa
Se esistesse la macchina del tempo, per
spostare indietro le lancette dell’orologio finanziario, o semplicemente per
chi fosse rimasto lontano dall’Italia negli ultimi dieci anni, oggi il nostro
paese si mostrerebbe molto diverso. Dagli inizi degli anni ‘90 profonde
trasformazioni hanno attraversato le fondamenta del sistema economico e
capitalistico nostrano, in parallelo con le vicende politiche e giudiziarie: lo
slancio verso la modernizzazione e verso un sistema di tipo anglosassone hanno
ridotto la distanza che separava l’Italia dagli altri paesi avanzati. Ma, in
obbedienza alla legge storica che vuole il Belpaese sempre attraversato da
contraddizioni e spinte contrapposte, nemmeno la finanza sfugge a questa
deterministica costante e a passi in avanti verso un libero mercato si
affiancano ancora vecchie storture e nuove asimmetrie. L’Italia degli anni
‘90 era sull’orlo della bancarotta. La situazione macroeconomica si
caratterizzava per un elevato indebitamento, mentre l’ampio ricorso ad una
falsa lettura - tutta italiana - delle dottrine keynesiane sul bilancio dello
Stato giustificava un sempre crescente deficit spending. L’unico modo
per frenare l’emorragia consisteva nel ricorrere a titoli del debito come
sistema di autofinanziamento, che a sua volta, però, richiedeva un alto tasso
di rendimento per invogliare i risparmiatori a prestare soldi a uno Stato con
forte rischio di insolvenza. Si era così creato un corto circuito in cui il
debito si autoalimentava fino a raggiungere livelli insostenibili (oltre il 120%
del Pil). Il circolo vizioso è stato spezzato dai vincoli dell’Unione
Europea, che hanno imposto rigidi paletti per l’ingresso della moneta unica.
Se un punto di svolta deve essere individuato nel continuum degli eventi per
tracciare una linea di demarcazione tra Prima e Seconda Repubblica economica,
questa la si deve cercare nel Trattato di Maastricht. I ferrei parametri per
l’ammissione alla moneta unica e all’Unione Europea hanno determinato una
sterzata di 180 gradi nella politica economica dell’Italia, imponendo un
rigoroso programma di risanamento dei conti pubblici, dal quale il sistema paese
ne è uscito complessivamente più credibile e rafforzato. La globalizzazione
dell’economia ha aperto i mercati finanziari, consentendone l’accesso a una
clientela di massa. Il risparmio degli italiani è emigrato da Bot e Cct, dove
era stato fermo per decenni, alla Borsa e alle società di intermediazione e di
gestione dei patrimoni. Il declino del reddito fisso, incarnato nei titoli di
Stato, ha coinciso con la discesa dei rendimenti e il crescente peso degli
investimenti finanziari in azioni, favoriti anche dalle massicce privatizzazioni
dell’industria pubblica condotte negli stessi anni. Buona parte del
portafoglio dei piccoli risparmiatori è stata dirottata sul risparmio gestito,
contribuendo alla nascita di un più maturo sistema economico. La
finanziarizzazione dell’economia è un fenomeno che ha interessato tutti i
paesi avanzati: basti pensare che dal 1990 al 1999 la ricchezza finanziaria nei
paesi del G6 è passata dal 210% al 360% del Pil. La globalizzazione e la
rivoluzione informatica, con l’avvento di Internet, hanno accelerato in modo
impressionante il processo. A differenza delle istituzioni e della politica, il
carattere immateriale e transnazionale dei servizi finanziari ha reso più
veloce ed evidente la trasformazione verso un modello di libero mercato. Nel
panorama italiano la finanza è il settore che più ha compiuto passi in avanti,
allineandosi con le strutture degli altri paesi avanzati, mentre lo stesso non
si può dire di altri settori (come l’istruzione, la sanità, i servizi
pubblici, ecc..). Ma il cammino verso un’affermazione piena della equity
culture, nel rispetto dei fondamenti del mercato e della tutela dei piccoli
risparmiatori appare un traguardo lontano. Ancora troppo radicate le scatole
cinesi, grazie alle quali si controllano grandi gruppi investendo cifre minime,
le partecipazioni incrociate e le alchimie finanziarie viste, tutte pratiche che
allontanano gli investimenti stranieri. Ancora troppo diffusi comportamenti che
vedono nei piccoli azionisti limoni da spremere, facendo dubitare sulla reale
capacità di garanzia dei diritti di chi investe e sul reale tasso di democrazia
economica raggiunta. Non meglio vanno le cose sul terreno industriale, dove
l’Italia paga lo scotto del suo capitalismo bonsai: nella classifica annuale
sui 500 maggiori gruppi del Vecchio Continente (1), il nostro paese partecipa
con appena 35 aziende, mentre la più alta in classifica è l’Eni ma solo
all’undicesimo posto. Essere fagocitati in un sol boccone dai "nuovi
barbari", come da tempo andiamo scrivendo, non è un timore allarmistico.
2. La Borsa italiana: ascesa e caduta
Fino a soli dieci anni fa la Borsa era un
luogo per addetti ai lavori. Poche le società quotate, scarso il livello di
capitalizzazione e per quel poco attuato con sistemi che penalizzavano i piccoli
risparmiatori, come per esempio l’uso estensivo delle azioni di risparmio,
strumento che con la carota di una cedola più alta relegava gli azionisti di
minoranza al ruolo di parco buoi, sovente chiamati a ripetute ricapitalizzazioni.
Più che a creare valore per gli shareholders, la Borsa serviva come una
grande mangiatoia dove le poche e finanziariamente deboli famiglie del
capitalismo italiano cercavano mezzi freschi per le loro aziende. Parallelamente
al mutamento in atto negli anni ‘90, Piazza Affari si è aperta a una platea
sempre più vasta di investitori e la Borsa si è dotata di una struttura
adeguata al mutato scenario dei mercati. Come risultato della privatizzazione
delle precedenti strutture (Borsa, Montetitoli, ecc.) dal gennaio 1998 è nata
Borsa spa, la società per azioni che organizza e gestisce i mercati
regolamentati. Azionisti ne sono i principali istituti bancari italiani, che
sono venuti così a ricoprire l’ambiguo ruolo di proprietari e al contempo di
società quotate (quindi sottoposte ai controlli degli organi di Borsa).
Nell’impressionante espansione della Borsa c’è il senso della rivoluzione
che si è consumata negli ultimi anni. Il 2000 è stato l’anno dei record per
Piazza Affari: complessivamente sono sbarcate in Borsa 49 società, di cui 16
sul Mibtel e 34 al Nuovo Mercato (2). E’ stato il miglior risultato di sempre,
superiore ai 42 debutti del 1986 e ai 46 del 1905. A livello globale, a fine
dello scorso anno le società quotate in Borsa erano 297, un nuovo massimo
storico (3). Dalla nascita di Borsa spa, in soli tre anni, le matricole sono
state 107, mentre nei dieci anni precedenti erano state 101. Parallelamente al
balzo dell’indice Mibtel è schizzato verso l’alto il volume degli scambi:
ancora nel 1997 il listino si muoveva stabile intorno ai 12mila punti, con
volumi il cui controvalore superava a fatica i 10 miliardi di euro, mentre a
marzo 2000, il picco massimo raggiunto dal mercato, l’indice Mibtel ha toccato
quota 33mila punti con gli scambi oltre i 100 miliardi di euro. Anche dopo la
fine della bolla che ha gonfiato i mercati il listino si è mosso sopra i 20mila
punti mentre i volumi hanno oscillato sopra i 70 miliardi (4). A fine anno la
capitalizzazione (cioè il valore complessivo dei titoli in Borsa, dato dal
numero delle azioni moltiplicato il prezzo corrente per ciascuna) è salita a
818,4 miliardi di euro (più 12,9%) con una punta massima a febbraio 2000 (871,1
miliardi di euro). A favore dell’espansione della Borsa ha giocato anche la
legislazione sugli intermediari finanziari, che ha adeguato l’Italia agli
altri paesi europei. Scomparsi i vecchi "broker", gli agenti di
cambio, sono state introdotti, agli inizi degli anni ‘90, nuovi soggetti (Sim
e Sgr) che hanno aperto i mercati anche al vasto popolo dei cassettisti. Il vero
e proprio boom delle attività finanziarie ha portato alla creazione del mercato
After Hour (TAH), lanciato nel maggio del 2000. Ad aprile 2001, inoltre, è
stata operata un’ulteriore segmentazione di Borsa con lo spin-off del
listino Star, dedicato alle Pmi con elevati requisiti di trasparenza, liquidità
e corporate governance. La corsa alle Ipo è durata anche in questi mesi
del 2001, ma i primi segnali di un raffreddamento hanno già fatto capolino con
alcuni rinvii sine die e soprattutto con i clamorosi fallimenti dei
recenti debutti: tutte le matricole del 2001 viaggiano sotto il prezzo di
collocamento, performance imputabile solo in parte al declino delle Borse
mondiali. E’ il segnale di un cambiamento di clima o quanto meno della fine
degli entusiasmi (e degli eccessi) della prima ora. I titoli del Nuovo Mercato
sono quelli che hanno perso di più, perché nel listino sono state immesse
società con un prezzo gonfiato, del tutto sproporzionato. Ma se i piccoli
risparmiatori piangono e vedono evaporare i propri investimenti, con poche
speranze di un recupero, c’è anche chi se la ride. Un recente studio
dell’Università di Bergamo (5) ha mostrato che, nel caso del Nuovo Mercato i
"venture capitalisti" e gli azionisti di controllo delle matricole di
Borsa hanno realizzato notevoli plusvalenze, costituite in gran parte della
liquidità raccolta con l’Opv. Pur se molti dei guadagni sono virtuali, in
virtù dei vincoli dei lock-up, è ormai opinione concorde che i prezzi con cui
molte nuove società sono state lanciate in Borsa è stato eccessivo. Non poche
responsabilità gravano su chi doveva vigilare riguardo alla bontà delle Ipo:
l’euforia che ha contagiato operatori, risparmiatori e banche ha fatto
lievitare oltremodo i prezzi dei collocamenti, molto al di sopra del reale
valore delle matricole e della loro effettiva capacità di creare ricchezza.
Ambiziosi business plan approvati con estrema scioltezza, advisor e global
coordinator non scontenti di lucrare alle spalle di facili acquirenti,
abbindolati dal sogno di fare soldi in poco tempo, non sono esenti da colpe
nell’aver alimentato oltremodo la bolla speculativa, la cui esplosione si è
riversata maggiormente sui piccoli risparmiatori. Tra l’altro il comportamento
di molti titoli non è immune da alcune tare genetiche che affliggono il
capitalismo italiano: autorevoli osservatori come il Wall Street Journal hanno
puntato il dito contro l’arcaico e deplorevole behaviour di giudicare
le aziende in base al carisma e alla personalità del "capo". E non
sulla base dei parametri di mercato, vale a dire i fondamentali di bilancio.
L’abitudine a guardare allo "strong-man" è tipica di
un mercato ancora immaturo dove manca la trasparenza e regole chiare di corporate
governance. Non bisogna dimenticare, però, che questo è il paese dove
fino a l’altro ieri la Borsa era un tempio per iniziati, che serviva a pochi
eletti per e dove gli altri azionisti erano relegati nella serie B dei titoli di
risparmio, che stanno via via scomparendo. L’approdo in massa a Piazza Affari
di molte nuove società, specialmente di piccole e medie imprese, deve essere
comunque salutato come una trasformazione profonda e radicale di una parte del
sistema capitalistico italiano, dove se a un polo siedono pochi grandi gruppi
familistici, fino a poco tempo fa arroccati intorno a Mediobanca, nell’altro
polo si agita una marea di Pmi, ma sarebbe meglio dire di micro-imprese,
strutturalmente deboli e scarsamente efficienti. Il popolo delle partite Iva,
sorto dalla crisi economica e inflazionistica del 1973, e rinforzatosi dopo la
riforma Visentini negli anni ‘80 si è sviluppato ed è cresciuto al di fuori
del giro della finanza. Di imprese degne di questo nome, in Italia, ce ne sono
solo 70mila, a fronte delle quali scalpita un esercito di 3,5 milioni di micro
realtà poco più che individuali. I grandi gruppi, quelli che fanno ricerca e
innovazione, sono appena 2.500. Le imprese a gestione familiare che hanno
trainato il boom degli anni ‘90 si fondano su un sistema economico basato sul
modello del ricorso all’autofinanziamento e alla mobilitazione del risparmio
personale, dove alto è il rischio di fallimento. Da questo punto in poi il
ricorso alla quotazione è stata una vera e propria svolta nel modello di
business. Di una maggiore presenza in Borsa di società avremmo bisogno per
garantire al capitalismo italiano quei capitali di cui sempre è stato privo e
che ora di fronte alla calata degli Unni (che di volta in volta assumono le
sembianze di Edf, Bbva o Nestlè) paga un conto eccessivamente salato. In una
prospettiva di medio e lungo periodo la collocazione in Borsa rappresenta una
fonte di finanziamento maggiore e più matura in grado di poter imprimere quel
salto di qualità alle imprese. I distretti italiani sono riusciti a
sopravvivere alle ondate cicliche di crisi e alle maggiori difficoltà del
sistema italiano (tassazione crescente, mancanza di flessibilità, alto costo
del lavoro) grazie al fragile equilibrio dell’innovazione di prodotto, mentre
l’innovazione di sistema e la ricerca è quasi sempre assente. Non tenendo
conto dell’attuale congiuntura, e della fase calante di Borsa, la presenza sul
mercato può fornire quei mezzi e quella stabilità che finora sono mancati. I
mercati italiani stanno dunque muovendo i primi passi verso una necessaria
modernizzazione, ma sarebbe ugualmente sciocco non vedere anche il rovescio
della medaglia: nonostante la crescita record, Milano, se paragonata agli altri
partner europei, ha ancora dimensioni troppo ridotte. Risibile il livello di
capitalizzazione e il numero di società quotate: il Nuovo Mercato è più un
mercatino, visto che, tolta Tiscali, gli altri titoli arrivano difficilmente a
scambiare 10 milioni di euro giornalieri. Non solo è la quantità a difettare,
ma, cosa ancor peggiore, la qualità del mercato, dove le principali società
non sono contendibili e prolifera il numero di holding e subholding
con cui si controllano le aziende. In base alla nuova classificazione degli
indici MSCI della Morgan Stanley (6), uno dei principali benchmark,
riponderati sul flottante di Borsa dei titoli (l’effettiva disponibilità sul
mercato) e non più sulla capitalizzazione l’Italia subirà un forte
declassamento. Solo le società con un flottante superiore al 15% saranno
inserite nell’indice, sancendo così la fine del fittizio mercato di società
quotate, di fatto, però, controllate da partecipazioni incrociate e a cascata.
Nell’indice complessivo globale il nostro Paese, assieme a molti dell’area
asiatica, peserà per un valore percentuale di poche unità, a conferma del
lungo cammino che ci separa da una vera affermazione di un libero mercato.
Conferma indiretta ne è la quasi totale assenza di società straniere nella
Borsa di Milano: mentre il Neuer Markt tedesco nel solo 2000 ha attratto
17 società straniere, al Nuovo Mercato è entrata solo un società svizzera (già
quotata a Zurigo) (7). Anche il fenomeno opposto è piuttosto raro. La doppia
quotazione, in Italia e all’estero, interessa pochissimi titoli: Benetton,
Telecom Italia, Pirelli ed Enel (scambiate anche a Wall Street), tra i grandi
gruppi, Tiscali (al Nouveau Marchè di Parigi) tra le aziende high-tech.
Lo Star e il mercato After Hour sono nati più sull’onda dell’entusiasmo che
di reali esigenze di mercato, come dimostrano i poco significativi livelli degli
scambi operati sulle due piattaforme. La sessione serale della Borsa è solo un
mercatino di divertimento per maniaci del trading on line, mentre del tutto
assenti sono gli investitori istituzionali: i volumi non hanno mai raggiunto
quote significative (in un intero anno si è raggiunta la misera cifra di 6,8
miliardi di euro (8), praticamente quanto scambiato in un giorno solo dal
mercato tradizionale). Non va meglio con lo Star, dove languono le società che
vi sono quotate e non si sono avuti ulteriori ingressi dal momento del lancio.
Piazza Affari non si sottrae al rachitismo che affligge il sistema economico del
Paese: le dimensioni modeste della Borsa dipendono dal fatto che la crescita
della capitalizzazione è legata quasi esclusivamente al rialzo delle
quotazioni, a fattori episodici e non strutturali. La preannunciata prossima
quotazione di Borsa spa, sulla scia di altre Borse straniere, che però nel
frattempo hanno fatto marcia indietro, solleva, inoltre, una serie di fondati
timori, sulla anomalia di una Borsa che quota se stessa, dando vita a uno
schizofrenico conflitto di interesse in cui la società quotata deve obbedire
alle regole che lei stessa fissa, essendo contemporaneamente controllante e
controllata, o se si vuole ospite e ospitata. I modesti volumi dei mercati
italiani non riescono dunque a trattenere entro i confini i risparmi delle
famiglie che così prendono la strada dell’estero: nel 2000 il saldo dei
movimenti di portafoglio (le operazioni effettuate da e verso l’Italia) è
stato negativo per 51mila miliardi. Se i soldi italiani vanno fuori confine, non
avviene però il contrario, e nell’ultimo anno gli investimenti finanziari di
operatori esteri sono scesi da 190mila a 116mila miliardi (9). D’altronde
tutte le Borse europee continentali soffrono di nanismo nei confronti di Wall
Street e di Londra: il naufragio del progetto iX, la fusione delle Borse di
Londra, Francoforte e Milano, fallito miseramente nel corso dei mesi finali del
2000 ha bloccato la possibilità di creare per la prima volta un mercato
veramente concorrenziale a quello americano.
3. Nuovi padroni, vecchi monopoli
In Italia c’è stata una Prima
Repubblica economica, che si identificava nelle Partecipazioni statali. I grandi
colossi pubblici, Iri, Eni, Efim ed Enel assicuravano lo sviluppo e l’impiego,
mentre i costi gravavano sulla casse del Tesoro. Lo scotto da pagare era il
fatto che l’Italia, tra i paesi occidentali, aveva la più alta presenza dello
Stato nell’economia, configurandosi come il più sovietico dei sistemi
capitalisti. Le privatizzazioni, imposte dall’Unione europea, hanno spazzato
via il sistema produttivo ideato negli anni ‘60, che però aveva alcuni
vantaggi: si sapeva chiaramente qual‘era il ruolo di ognuno e ciascuna azienda
si concentrava sul proprio settore. Paradossalmente le privatizzazioni e le mega
fusioni, conseguenza dell’apertura dei mercati, hanno portato alla nascita di
oligopoli, in cui colossi mondiali controllano interi settori. I merger e
le dismissioni hanno determinato un’apertura solo parziale alla concorrenza,
mentre nel frattempo molti hanno puntato una massiccia diversificazione, che
talora sfiora la confusione, di attività e business. Ora tutti vogliono fare
tutto, in ossequio alla logica multi-utility, idolatrato simbolo di un
liberismo troppo spesso di molta maniera e di poca sostanza. E’ l’effetto
perverso di privatizzazioni realizzate con il solo intento di fare cassa. Questo
perché le dismissioni dell’industria pubblica sono state messe in cantiere
senza che prima venissero creati gli intermediari finanziari in grado di
gestirla, come fondi pensioni e fondi di private equity. Dietro il
mantello liberista del "creare valore degli azionisti" si giustificano
operazioni che molto spesso non portano nessun beneficio reale né agli
azionisti, né ai consumatori, che avrebbero dovuto assistere a una riduzione
delle tariffe, ma che, cifre alla mano, ancora pagano le bollette più salate
d’Europa.
4. Chi fa la guardia ai guardiani?
La legislazione è la struttura ossea di
un mercato liberale. Non si può immaginare di creare un sistema finanziario
maturo e libero, senza il pendant di istituzioni che limitino proprio quei
diritti, vestendo il ruolo di cani da guardia contro le violazioni delle regole
e le condotte anticoncorrenziali. Un altro, conto, poi è il corretto
funzionamento dei meccanismi di controllo. L’Italia si è trovata a dover
fronteggiare entrambi i problemi: la mancanza di sceriffi, prima, e la loro
scarsa incisività, dopo. La Consob è stata istituita nel 1975, mentre solo a
partire dagli anni ‘90 è stata affiancata da altri organi tecnici, come
l’Antitrust e le varie Authority (Tlc, Energia) e l’Isvap. Eppure,
molto spesso, accade che alla moltiplicazione di controllori non è coincisa
un’adeguata attività di tutela dei "consumatori". Nel 2000 la
Consob ha inviato alla magistratura 21 segnalazioni di reati (di cui 17 per insider
trading e 4 per aggiotaggio): nove in meno dell’anno precedente (10).
Stando alle cifre fornite dalla Consob i casi sono due: o l’insider trading è
in via di estinzione, nonostante il crescente numero di investitori in Borsa e
nonostante l’esecuzione in tempo reale delle transazioni grazie a Internet,
oppure la Consob si è presa qualche distrazione. In realtà, per stessa
ammissione della squadra di Luigi Spaventa, la Commissione non ce la fa a
vigilare su tutto a causa della complessità delle indagini. Non sempre per far
pulizia occorre essere sorretti da regole dettagliate, da sanzioni precise. La
Sec, omologa americana della Consob, basa la sua autorevolezza anche sul peso
morale che può vantare. Ma di carisma la Consob non sembra averne nella misura
sufficiente, almeno rispetto allo straordinario bisogno che le condizioni del
mercato oggi richiedono. Senza contare, poi, poteri d’indagine più ampi che
Spaventa non solo non chiede a governo e parlamento, ma esplicitamente rifiuta.
Due, invece, sarebbero gli interventi necessari: una riduzione del numero delle Authority,
sulla scorta di quanto aveva già detto Giuliano Amato durante il suo periodo a
palazzo Chigi, e maggiori poteri ispettivi e di sanzione per la Consob come
hanno gli analoghi organi in America e Spagna. Se Spaventa piange, Tesauro non
ride: nel 2000 l’attività sanzionatoria dell’organo che vigila sulla
concorrenza ha raggiunto la non disprezzabile cifra di 1.200 miliardi, mente nei
primi nove anni di attività si erano toccati i 300 miliardi scarsi. Purtroppo,
però, l’attivismo dell’Antitrust rischia di finire in una bolla di sapone,
visto che sulle due maxi-multe inflitte ai petrolieri e agli assicuratori
(rispettivamente di 480 e 700 miliardi), che da sole coprono la quasi totalità
delle ammende comminate, pendono ricorsi che lasciano presagire una
vanificazione dello sforzo ispettivo. Aprendo, in caso di vittoria da parte dei
multati, la strada a una valanga di ricorsi che renderebbero di fatto inutile la
presenza stessa dell’Antitrust. Il vuoto lasciato da chi dovrebbe vigilare
viene così a essere colmato da organi, come il Tar del Lazio (basti pensare ai
casi di Blu, Seat-Tmc) che si sostituiscono agli enti preposti. E allo stesso
tempo troppi custodi che finiscono per pestarsi i piedi. Non solo: le sentenze,
molto spesso contraddittorie e talora in aperto contrasto con quelle delle
Autorità, non contribuiscono a dare vita a quella giurisprudenza di cui ci
sarebbe bisogno. Solo da poco tempo alcuni assunti base di corporate
governance si vanno affermando tra le società quotate, come ad esempio la
pubblicazione di bilanci trimestrali e semestrali: un traguardo comunque
apprezzabile si considera che per molti era già difficile vedere un bilancio
annuale. Il tracollo del Numtel, che agli inizi di settembre 2001 ha toccato il
momento più nero, bruciando tutti i rialzi degli ultimi due anni, è il simbolo
che ancora vecchi vizi tardano a scomparire e dovrebbe far riflettere sul modo
in cui è stata gestita l’euforia che ha pervaso la net economy nel 2000.
Tutto questo, unito alla fase di forte rallentamento dell’economia mondiale,
sta ingenerando una sfiducia del risparmiatore, dato in pasto alla macina
tritta-tutto della Borsa. C’è una correità della stessa Borsa Italiana e
della Consob che condividono la responsabilità delle Ipo: la prima ammette alla
quotazione, la seconda analizza il prospetto informativo. Ma per entrambe molte
delle "bufale" immesse sul mercato erano senza difetti. Fenomeni come
il trading on line sono certamente stati una rivoluzione: la finanza democratica
ha aperto ai comuni risparmiatori, ma senza un adeguato controllo e una risoluta
attività di vigilanza il processo di ammodernamento e di liberalizzazione
rischia di generare storture e di dare vita a un sistema con gravi anomalie.
Negli ultimi mesi, però, è sembrato di intravedere un cambiamento di rotta: la
Consob ha deciso di interpretare in modo attivo la normativa sull’opa,
rendendola ad esempio obbligatoria per l’operazione Sai-Fondiaria. Il
decisionismo dell’autorithy guidata da Luigi Spaventa potrebbe
preludere a una nuova fase di maggiore incisività che non può che essere
benvenuta. La situazione è allo stesso modo complessa sul versante legislativo,
dove pure l’Italia può vantare di essersi dotata di norme all’avanguardia
come il Testo Unico sulla Finanza, con la regolazione delle offerte di acquisto
e vendita, entrato in vigore nel 1998. La Legge Draghi è nata con l’intento
di tutelare gli azionisti di minoranza: tra le disposizioni più rigide c’è
l’obbligo di lanciare una opa quando il compratore superi la soglia del 30%
del possesso azionario e l’applicazione della passivity rule. E
tuttavia non sono mancati vari episodi di elusione, quando di non vera e propria
evasione della legge. Solo per citare alcuni degli esempi più recenti
l’acquisizione della Telecom da parte della Pirelli, che ha dato vita al
maggior gruppo per capitalizzazione di Borsa, è avvenuto con un semplice
aggiramento della disciplina sull’opa. Nella vicenda Telecom molti fini
commentatori si sono stracciati le vesti gridando ai quattro venti il fallimento
della Legge Draghi, un’architettura legislativa per certi versi anche troppo
avanzata per l’Italia, figlia di una concezione scolastica di liberismo.
Adesso, però, quello stesso impianto è stato messo sotto accusa perché si
scopre che comunque non mette al riparo da operazioni di ingegneria finanziaria
che scavalcano il mercato. Tra chi difende la legge Draghi e chi l’accusa di
aver fallito per difetto, mi permetto di sostenere la tesi del peccato per
eccesso. E’ inutile, anzi dannoso, credere che il mercato finanziario e il
capitalismo italiani possano evolvere verso il modello anglosassone - come è
giusto che sia - per costrizione legislativa. Il liberalismo non si impone per
decreto. Si abbassi pure la soglia dell’opa o si deleghi alla Consob il
compito di sancirla ogni volta che passa di mano il comando di una società
(come vorrebbero autorevoli commentatori), e il mercato si fermerà: non si farà
più un’operazione e le già poche società quotate diventeranno sempre meno.
Con danno per i risparmiatori e per l’intero sistema economico. L’unico
difetto imputabile alla disciplina dell’offerta è la pretesa di regolare
secondo criteri anglosassoni un mercato che tale non è. Con la conseguenza che
oggi si moltiplicano le scatole cinesi e tutti controllano tutto con il 29,9%.
Continuare a illudersi che l’Italia sia l’America - senza peraltro fare
riforme indispensabili, come l’introduzione dei fondi pensione - ci porta
dritti dritti nelle mani degli stranieri. Magari bastasse, per modernizzare il
capitalismo italiano, adottare tout court le regole di Wall Street. A ben
vedere, poi, la Legge Draghi, con tutti i suoi limiti, interessa solo le 250
società quotate, mentre una questione molto più seria e importante per
l’intero settore produttivo è l’impianto del diritto societario, la cui
modifica - che prevede, tra l’altro, l’abolizione del reato penale di falso
in bilancio per le società non quotate - è un importante passo in avanti per
dare una moderna "corporate governance" all’azienda Italia.
Ma, ancora una volta è tutto il Vecchio Continente a trovarsi impreparato, come
ha messo in luce la contrastata querelle sull’opa europea, la direttiva che
unifica le legislazioni continentali in materia di scalate ostili. Il parlamento
Ue aveva insistito per lasciare di fatto mano libera al management
dell’azienda oggetto di scalata di assumere misure protettive - le cosiddette
"pillole avvelenate"- senza consultare l’assemblea degli azionisti.
Così voleva la Germania, ma così non sarà: la preventiva consultazione dei
soci, che rende più facile le scalate aggressive, sarà obbligatoria. Solo che
l’adeguamento delle leggi di mercato nazionali alla direttiva comunitaria
entrerà in vigore dal luglio 2006, perché i governi hanno tempo quattro anni
più, volendo, altri 12 mesi di "congelamento" ulteriore. Ora, di
fronte alla velocità con cui marciano i mercati e, soprattutto, di fronte al
dilagare del modello angloamericano, cinque anni sono un’eternità. Come
dimostra il caso Edf-Montedison, comunque lo si voglia giudicare, l’Europa
della moneta unica non può più permettersi le asimmetrie legislative non solo
in campo macroeconomico (fisco, diritto del lavoro, ecc.) ma anche quelle
relative ai sistemi industriali e finanziari. Le politiche di liberalizzazione
dei mercati mono e duopolistici, i processi di privatizzazione, le operazioni
cross-border richiedono hic et nunc uno sforzo di omogeneizzazione. La
fragilità dell’Europa rende debole il capitalismo continentale, il quale,
essendo già di suo più piccolo e fragile rispetto a quello americano,
soprattutto nei settori strategici a tecnologia avanzata, rischia seriamente di
soccombere. Esattamente quello che può capitare alle imprese italiane rispetto
a quelle degli altri paesi europei. E il fatto che il recente attacco di Edf
alla Montedison sia stato coperto dalla pelle di leone della Fiat, questo serve
solo ad addolcire la pillola di un Italia fertile pascolo di greggi straniere.
5. Le Banche: nani contro giganti
Il sistema bancario italiano soffre di
rachitismo: ha le dimensioni di un bambino, ma con tutti gli acciacchi del corpo
di un anziano, dove peraltro è difficile intervenire per correggere le
disfunzioni. Ma questi non sono altro che i postumi di un paese storicamente
privo di capitali: l’endemica difficoltà a reperire risorse, unita
all’esasperazione del particulare, per dirla con Guicciardini, anche in campo
economico, ha portato alla nascita di un panorama creditizio frammentato in
mille rivoli, con tante e piccole banche, molte delle quali alle prese con
sofferenze congenite. Nonostante l’Italia sia ancora, dopo Giappone e Francia,
tra i paesi con la più alta propensione al risparmio (11). Per decenni il
sistema si è retto sulle fondamenta ideate, negli anni ‘30, da Raffaele
Mattioli e Alberto Beneduce: le tre Bin (più Mediobanca), le più importanti
banche del paese banche erano gestite dai loro manager, eredi della tradizione
della banca mista tedesca, mentre la proprietà era assai concentrata e niente
affatto diffusa, anche se le società erano quotate. Da quando Antonio Fazio è
salito alla guida di Bankitalia la strada imboccata è quella di un
rafforzamento interno. Da tempo la Banca Centrale ha assunto il ruolo di
fustigatore dei vizi e delle storture del sistema creditizio: le banche italiane
sono poco redditive ed efficienti, scarseggia l’offerta di servizi per le
imprese e le famiglie, ma soprattutto debbono ancora rinforzarsi e assumere
dimensioni internazionali. Negli ultimi cinque anni il processo aggregativo ha
dato vita a numerosi gruppi di rilievo (basti pensare agli esempi di Unicredito,
Intesa-Bci, Monte dei Paschi). Solo che ancora non basta, soprattutto se appena
si getta lo sguardo fuori dagli angusti confini di casa nostra. A via Nazionale
sanno che un’apertura tout court delle banche all’Europa finirebbe con i
grossi istituti di credito stranieri a farsi un sol boccone dell’Italia. Così
la strategia, neanche troppo velata, portata avanti da Fazio con tenacia e a
costo di accuse di eccessivo protezionismo è stata quella di portare prima a un
rafforzamento delle banche e poi lasciare i buoi liberi per i pascoli, ma solo
quando questi abbiano raggiunto una dimensione minima che ne consenta la
sopravvivenza. Più volte, infatti, il Governatore è intervenuto con tutto il
peso della sua moral suasion per frenare i progetti di espansione di
istituti stranieri. Il ciclo economico positivo degli ultimi anni, culminato con
la crescita boom dei primi sei mesi del 2000, ha migliorato la redditività
degli istituti, in concomitanza con l’aumento degli impieghi, dovuto alla
crescente domanda di denaro. Ma la forte espansione ha, allo stesso tempo, anche
accentuato il grado di inadeguatezza patrimoniale. Il rapporto di solvibilità,
il cui livello minimo è fissato all’8%, nel 2000 è sceso al 10,3% (mentre
nel 1998 era stato dell’11,3%). Le banche italiane non solo hanno una
dotazione patrimoniale ben al di sotto di quella europea, ma perdono
competitività e quote di mercato a scapito delle banche d’affari straniere:
lo scorso anno quasi la metà delle eurobbligazioni emesse dalle imprese
italiane sono state collocate da istituti esteri. Così come privatizzazioni e
Ipo sono sempre più spesso aggiudicati da advisor d’Oltralpe. Sul
sistema bancario italiano, poi, pende la spada di Damocle delle Fondazioni,
ibridi politico-economici che ne condizionano fortemente la gestione, senza le
quali, però, una fetta importante del sistema bancario sarebbe già straniera.
L’Italia, così, vive il paradosso di un sistema bancario che rappresenta
l’unico settore in cui le aziende hanno assunto una dimensione ragionevolmente
confrontabile con gli standard europei. Solo le banche sono le uniche imprese
pronte per i mercati, ma sono anche le imprese in cui esistono azionisti assai
peculiari, le Fondazioni, che ne sono proprietarie. Non è facile sciogliere
insieme questi due nodi: impedire che le banche italiane diventino solo
satelliti di grandi gruppi bancari europei e internazionali ed impedire che
questi azionisti anomali diventino i registi di un capitalismo renano
all’italiana: dove le ragnatele di comando ubbidiscano a gruppi autoreferenti.
Il tutto mentre il grande processo aggregativo che va sotto il nome di bancassurance
ci vede assenti: l’unica entità che ha mosso alcuni passi verso
l’integrazione di servizi bancari e finanziari e che può vantare una
dimensione internazionale è Generali. Ma l’intimo legame con l’incerto e
travagliato destino di Mediobanca, fa sì che il Leone di Trieste rischi una
marginalità nei grandi giochi internazionali del settore. Se si vuole il più
possibile salvaguardare l’identità nazionale del sistema creditizio, la
strada non sembra quella di insistere sull’uscita delle fondazioni dalle
banche (chi si comprerebbe le quote di Unicredito, Intesa-Bci, Sanpaolo, Mps
ecc. se non gli stranieri?), bensì quella di evitare un’anomala
concentrazione di potere in mano a improbabili banchieri-politici (un ruolo
ricorda troppo da vicino il pericoloso modello della banca mista, che portò
l’Italia vicina al collasso negli anni ‘30). A questo fine l’unico
strumento è la separazione obbligatoria tra gestione del patrimonio, da
affidare a soggetti idonei (fondi di investimento, banche d’affari, ecc.) e
amministrazione dei dividendi (che potrebbe continuare a rimanere sotto la
gestione delle fondazioni).
6. Montedison e Telecom: quale futuro per
l’establishment?
Fiat che compra Montedison e Pirelli che
compra Telecom: l’estate quest’anno è stata più calda del solito. Le due
più importanti operazioni dell’anno, l’opa su Montedison e l’acquisizione
di Olivetti- Telecom portano entrambe la firma di importanti soggetti italiani,
gli Agnelli da una parte e Tronchetti Provera dall’altra. La cosa ha aspetti
positivi e negativi: in entrambi i casi si sono chiusi due cicli negativi, ma
forti dubbi permangono sul futuro di queste realtà. In tutti i casi, il senso
che si ricava dalle due mosse, giunte a un anno dalla morte di Enrico Cuccia, è
la frantumazione dell’establishment finanziario che ha retto per un
cinquantennio le sorti dell’economia. La centralità di Mediobanca è venuta
meno, senza però che all’orizzonte s’intraveda ancora un soggetto capace di
avere una visione complessiva e strategica sul lungo periodo, che a Via
Filodrammatici, indipendentemente dal giudizio di merito che se ne può dare,
comunque avevano. L’assenza di una strategia industriale è una carenza
atavica che il paese si porta dietro, anche per colpa della classe politica, che
nel passato ha interpretato la politica industriale come mezzo per distribuire
denaro e favori, e negli anni Novanta l’ha demonizzata per far credere di aver
perso i cromosomi statalisti. In particolare la sinistra, ancor oggi per lo più
priva di una cultura liberal, ha scontato decenni di negazione del mercato e del
profitto facendo propria una concezione scolastica e ideologica, del capitalismo
e della sua etica. Il risultato non è stata la trasformazione in senso
policentrico del sistema industriale e finanziario, come sarebbe auspicabile, ma
un consolidamento del potere economico tradizionale. Così, per esempio, è
stato anche nel caso della scalata di Edf a Montedison, dove si è perpetrata
quella cultura dell’emergenza che fa gridare allo scandalo dopo che i buoi
sono usciti dalla stalla, senza accorgersi però che prima il recinto era
aperto. Sicché per bloccare l’esecrata espansione in Italia del colosso
francese, è stato concepito un decreto di dubbia legittimità comunitaria, la
cui bocciatura è stata superata dall’ingresso della Fiat e di altri italiani
nell’affare. In questa vicenda si vedono con tutta evidenza la differenze di
due sistemi paese. La storia della Francia, energeticamente parlando, è quella
di un paese che ha investito in modo deciso sul nucleare, arrivando a produrre
con l’atomo il 70% della sua elettricità. Con tutto quello che ne consegue:
il chilowattora per il signor Dupont costa la metà di quello che l’Enel vende
al signor Rossi. E soprattutto la Francia ha una ricca eccedenza di produzione,
che viene esportata in tutta Europa, e massicciamente in Italia. L’Italia è
rimasta invece orfana del nucleare e la sua politica energetica si è cullata da
allora nell’illusione che non finisse mai l’epoca del petrolio a buon
mercato. Negli ultimi anni, mentre il governo francese teneva chiuso il mercato
interno, l’Edf si è espansa in 26 paesi stranieri. Ma il "caso Edf"
non sembra più pericoloso di quanto non lo fossero le colonizzazioni che i
nostri sistemi industriali e finanziario hanno subito in questi anni, settore
alimentare e farmaceutico in testa, dove è ormai scomparsa la presenza degli
italiani, fatte salve alcune enclave partigiane (Ferrero, Barilla), senza che
nessuno muovesse un dito, ubriacati come eravamo da una visione distorta del
liberismo e del mercato che ci ha portato ad aprire le porte quando gli altri le
tenevano ben chiuse, senza assicurarci neppure un briciolo di reciprocità (come
insegna il caso dell’Enel che ha dovuto riporre ogni velleità di
internazionalizzazione dopo il recente ritiro dall’asta per la scozzese
Southern Water, controllata dalla Scottish Power). La vicenda Pirelli-Telecom,
poi, ha riacceso i riflettori dei commentatori esteri, che hanno tirato fuori
dall’armadio il polveroso armamentario dell’Italia paese delle scatole
cinesi, dei diritti degli shareholders calpestati, dell’assenza di corporate
governance. Tutte osservazioni pertinenti, per carità, che però sembrano
non tenere conto della realtà. Bisogna avere il coraggio di dire che continuare
a guardare la Borsa e il capitalismo italiani con lenti angloamericane è
distorcente. Nell’ottica anglosassone non c’è operazione in Italia che non
sia assoggettabile a critiche, ma continuare a illudersi che l’Italia sia
l’America - magari, contemporaneamente, non facendo quelle riforme, come
l’introduzione dei fondi pensione, che sono indispensabili per modernizzare il
mercato - ci porta dritti dritti nelle mani dei capitali stranieri. Verso i
quali occorre avere la stessa apertura, o paura, di quanta gli altri nutrono
verso quelli espressi in lire.
7. Conclusioni
Il capitalismo italiano è giunto a un
bivio: per decenni il sistema è riuscito, nonostante gravi disfunzioni
strutturali e un tasso di accumulazione decrescente, a mantenere un elevato
tasso di benessere, ma sacrificando la crescita demografica (non a caso
l’Italia risulta il paese più vecchio del mondo) e a patto che non
accadessero grossi sconvolgimenti, verso i quali vi è assoluta impreparazione.
Ora che la popolazione è al massimo della contrazione, anzi restiamo in live
attivo solo grazie all’immigrazione, è la globalizzazione impone rapidi e
profondi cambiamenti, la macchina mostra tutti i suoi limiti. Alcune scelte di
fondo sono state fatte, l’adesione alla moneta unica e l’apertura dei
mercati, e stanno producendo, bene o male, i loro effetti. A questo punto il
problema vero non è spingere al cambiamento, che è ormai in corso ed è
irreversibile, quanto semmai come governare il cambiamento: una volta impostata
la via, non c’è un solo percorso. L’Italia può continuare come ha fatto
finora, ma è chiaro che non ci sarebbe futuro, all’interno di una comunità
economica internazionale, per un paese che si rifiuti di adeguarsi a un moderno
ed efficiente sistema di regole. A quasi dieci anni dal Trattato di Maastricht
il timore non è tanto nell’apertura dei mercati, che sembravano aver
intrapreso una direzione precisa, irreversibile, ma nel modo con cui la
trasformazione viene gestita e soprattutto nelle modalità. Paradossalmente, una
struttura avanzata come quella in vigore nei paesi anglosassoni, sebbene
condivisibile e auspicabile da chi è sostenitore delle tesi liberali, nondimeno
esporrebbe l’Italia a facile terreno di caccia da parte delle imponenti corporation
straniere, processo già in parte in corso. Insomma prima di fare l’Italia
finanziaria occorre fare gli italiani. Va colmata la mancanza di una cultura
d’impresa prima di buttare il nuotatore in acqua senza braccioli. O, rigirando
la ciambella, non basta togliere il salvagente perché una persona sappia
nuotare. La maturazione del sistema deve avvenire attraverso la creazione di
strutture finanziarie, come i fondi pensione, e il potenziamento del risparmio
gestito, che sottraggano i mercati dalla volubilità della speculazione e dei day-trader
. Il nostro è un capitalismo dove gli imprenditori diventano ricchi, ma
rimangono piccoli dal punto di vista industriale. I singoli investitori e
risparmiatori dirigano il flusso finanziario anche verso la piccola azienda del
signor Rossi, come accade in tutti gli altri paesi avanzati. Un mercato stabile
necessita di public companies, dietro cui vi è la sicurezza dei
fondi pensione. Senza di questa ogni accelerazione in avanti verso un libero
mercato porterebbe alla creazione di un mercato fragile a rischio di deriva
oligopolistica straniera. L’Italia ha bisogno di robuste dosi di liberalismo e
di dotarsi di una struttura finanziaria moderna, capace di reggere di fronte
alla competitività degli altri mercati e allo stesso tempo di garantire un
adeguato tasso di democrazia economica. Ma quello di cui non s’avverte il
bisogno è una pedante applicazione di un liberismo accademico. Copiare
pedissequamente schemi economici dai libri non può esser certo la cura adatta
per il paese.
Note
1 Dati del rapporto annuale stilato dalla
Dow Jones, pubblicato su Wall Street Journal e Handelsblatt. Fonte: Repubblica
11.06.01.
2 Incluso un trasferimento dal listino
tradizionale al Numtel. (Fonte: Italian Exchange Yearbook 2000).
3 Le Opv sono continuate anche nel 2001
con nuovi collocamenti che hanno incrementato il numero dei titoli contrattati.
4 Fonte: Italian Exchange Yearbook 2000
5 Fonte: Il Sole24Ore 23.06.01.
6 Il nuovo sistema entrerà in vigore
ufficialmente dal novembre 2001.
7 Fonte: Relazione annuale di Bankitalia,
maggio 2001.
8 Fonte: IlSole24ore 02.06.01.
9 Fonte: Relazione annuale Bankitalia,
maggio 2001
10 Fonte: Relazione annuale della Consob,
aprile 2001.
11 Tuttavia gli ultimi dati di Bankitalia
hanno rivelato, per gli anni 90, un progressivo deterioramento della quota che
le famiglie destinano al risparmio, che rimane comunque a un livello elevato
rispetto a molti altri paesi.
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