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L’ERTA VIA DELLE PRIVATIZZAZIONI

di Giuseppe Pennisi  e Salvatore Zecchini

 

 

Premessa

Anche col nuovo Esecutivo uscito dalle elezioni del 2001 la privatizzazione è rimasta uno dei capisaldi della strategia economica per il rafforzamento del potenziale di crescita. In questo saggio si portano avanti le considerazioni presentate nel novembre 2001, nel volume di Società Libera “Il processo di liberalizzazione nella società italiana”, per analizzare l’evoluzione del processo di privatizzazione nel periodo che intercorre tra il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) per gli anni 2002-2006, approvato dal Consiglio dei Ministri del 16 luglio 2001, ed il Dpef per gli anni 2003-2006, approvato il 2 luglio 2002 (1). Mentre l’analisi condotta l’anno scorso copriva lo svolgersi della privatizzazione in tre legislature, ossia nell’arco di nove anni, l’evoluzione nell’attuale legislatura riguarda un periodo ristretto di 12 mesi.

 È tuttavia un periodo segnato da sviluppi importanti, sia in generale, sia in nell’ambito delle privatizzazioni. In particolare:

§         Per la prima volta dalla costituzione del Regno d’Italia è risultata vincente alle elezioni politiche (maggio 2001) una coalizione il cui programma di governo fa perno sulla liberalizzazione dell’economia, e quindi anche sulle privatizzazioni.

§         Anche in altri importanti Paesi dell’Unione Europea (Ue), specialmente partecipanti all’Unione Economica e Monetaria, maggioranze parlamentari di ispirazioni socialdemocratica sono state sostituite da maggioranze di ispirazione liberale e da Governi più favorevoli, pure sotto il profilo  ideologico, a liberalizzazioni e privatizzazioni.

§         Nello stesso periodo l’economia europea è entrata in una fase di rallentamento con tendenza alla stagnazione, che si è accentuata a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Nel contempo, dopo un periodo di “esuberanza irrazionale” (2), si estendeva e si approfondiva la crisi dei mercati azionari (3).

Da un lato, finito il decennio di diversificazione tra le varie tipologie di “capitalismi” (4)  – ad esempio, tra “capitalismo renano” e “capitalismo reganiano” –  i nuovi Governi dell’Ue e dell’Eurozona si accingevano a un nuovo giro di privatizzazioni, apportando anche correttivi alle operazioni effettuate nel decennio scorso dai Governi, principalmente di centro-sinistra, che li avevano preceduti. Dall’altro lato, tuttavia, veniva a mancare il contesto di rapida crescita dell’economia e di espansione dei mercati finanziari che è essenziale per attirare risparmio ed investitori verso nuovi collocamenti sul mercato azionario, e in particolare in imprese in via di privatizzazione.

Nella prima parte di questo saggio si delinea il contesto internazionale, con particolare riguardo all’Ue, nel cui ambito si inserisce la più recente esperienza italiana di privatizzazioni. Nella seconda parte si tratteggiano gli aspetti salienti delle politiche, delle strategie e dei risultati, quali risultano dai documenti ufficiali, dalle rilevazioni statistiche e dal dibattito nel Paese. La terza si sofferma sulle prospettive future, alla luce degli indirizzi enunciati dal Governo e dei nodi principali che restano da sciogliere per raggiungere i traguardi fissati (5).

 

Il contesto internazionale ed europeo

Nei Paesi Ocse ed in particolare nell’Ue gli Anni Novanta sono stati un periodo caratterizzato da una marcia indietro dell’intervento statale in generale e da una riduzione del ruolo delle imprese pubbliche nell’economia; il peso delle loro attività nel pil dei Paesi Ocse è diminuito dall’8,5% del pil nel 1984 a meno del 5% nel 2000. In Gran Bretagna, uno dei Paesi europei in cui negli anni sessanta e settanta più si era insistito sulle politiche di nazionalizzazione, l’attività delle imprese a controllo statale nel 1997 era scesa al 2% dal 12% del pil nel 1979; di fatto, era rimasto ben poco da privatizzare (6).

Il ventunesimo secolo, quindi, si apriva all’insegna di un vento favorevole alle privatizzazioni in quei paesi, come la Francia e l’Italia che, rispetto alla Gran Bretagna, si erano mossi più tardi, ma che nell’ultimo lustro del secolo precedente avevano tentato di recuperare il tempo perduto (7). Proprio all’inizio del nuovo decennio, invece, in tutta Europa le privatizzazioni hanno segnato il passo. Anche se basati su definizioni statistiche differenti, le analisi disponibili indicano concordemente questo fenomeno. Ad esempio, secondo J.P. Morgan, mentre i ricavi totali da privatizzazioni in Europa hanno sfiorato i 650 miliardi di dollari tra il 1990 ed il 2000, nel 2001 sono scesi ad appena 38 miliardi di dollari con una contrazione fortissima rispetto ai 108 miliardi di dollari segnati nell’anno record, il 1998 (8). Nelle stime dell’Ocse, il gettito da privatizzazioni nel 2001 sarebbe stato solo 20,6 miliardi di dollari per l’intero gruppo dei 29 Paesi industrializzati, di cui due terzi (meno di 15 miliardi di dollari) riguardano l’Europa (9).

La fase di rallentamento e di attesa ha toccato l’insieme dei paesi Ocse e l’intera Ue. Soltanto in alcuni, come la Gran Bretagna, il processo delle privatizzazioni può considerarsi esaurito, grazie al suo stesso successo. Negli altri restano ancora da privatizzare vasti settori dell’industria e dei servizi di pubblica utilità. Il rallentamento e l’attesa non hanno come determinanti la fine di un processo, ma:

§         l’andamento dei mercati finanziari;

§         il crescente scetticismo degli investitori nei confronti delle prospettive delle imprese privatizzate sia interamente, sia parzialmente (specialmente nel settore delle telecomunicazioni); e

§         i dubbi sull’impatto che le liberalizzazioni possono avere sulla capacità di reddito di alcune grandi imprese privatizzate.

In primo luogo, tra privatizzazioni e andamento dei mercati finanziari sussiste un nesso molto forte: da un lato, le privatizzazioni sono un veicolo essenziale per ampliare ed irrobustire la capacità dei mercati finanziari, nonché la capitalizzazione stessa dei mercati azionari (10); dall’altro lato, uno dei primi effetti dei ribassi generalizzati delle quotazioni è la minore propensione al rischio, e, dunque, la  ridotta disponibilità degli operatori ad investire in imprese in via di privatizzazione. Ciò vale specialmente in un “contesto” di cui non sono chiare  importanti implicazioni (in termini di metodi per la selezione del management, vincoli relativi ai livelli occupazionali, strategie di prezzi e tariffe, mercati di sbocco, concorrenza interna ed internazionale). Naturalmente, tale fenomeno è particolarmente accentuato per imprese da privatizzare che operano in comparti (telecomunicazioni, tecnologia) in cui le quotazioni sono in caduta molto più drastica della media, proprio come è avvenuto dalla primavera del 2000 (11).

In secondo luogo, si osserva l’insorgere e il rafforzarsi di uno scetticismo nei confronti dell’investimento in titoli di imprese in via di privatizzazione, allorché le loro quotazioni hanno subito un forte ribasso nel periodo successivo al collocamento sul mercato. Non soltanto si allontanano i risparmiatori individuali, su cui si è puntato per la costituzione di “public company” ad azionariato diffuso, ma prendono le distanze pure gli investitori istituzionali su cui si è contato per dare vita a “nuclei duri” di controllo delle società. Nel caso di questi ultimi si aggiunge una dimensione tecnica alla “delusione” che li accomuna ai primi. I loro organi di gestione, per diversificare e limitare il rischio, tendono ad una strategia di impieghi “indicizzati”, tali cioè da rispecchiare le proporzioni esistenti tra comparti ed imprese nella capitalizzazione totale di borsa. In quasi tutti i Paesi europei (12) l’indicizzazione si riferisce al capitale posto sul mercato e liberamente trattabile. Pertanto, in presenza di strategie di impieghi “indicizzati”, sono sfavoriti i comparti ed i settori in cui parte significativa del capitale delle società operanti resta in mano pubblica, e quindi fuori dal mercato. Paradossalmente, l’appetito del mercato è meno forte proprio là dove sarebbe maggiormente necessario per privatizzare.

In terzo luogo, si rafforzano i dubbi sul se in Europa diverse importanti “privatizzazioni” degli anni novanta siano state vere “denazionalizzazioni” accompagnate da vere “liberalizzazioni”, nel senso che non sia stato sostituito ad un monopolista pubblico uno privato (o un connubio tra pubblico e privato nel monopolio). La privatizzazione ha o no rafforzato il ruolo del mercato in funzione sia di una migliore allocazione delle risorse, sia di un loro impiego per lo sviluppo? Si notano, infatti, società in cui, anche se il soggetto pubblico non dispone di poteri speciali, quali la “golden share” (14), i rappresentanti dei Governi conservano la parola finale nella nomina degli amministratori e nella formulazione ed attuazione delle strategie aziendali. Gli amministratori, a loro volta, operano spesso in stretto raccordo con dirigenti e funzionari pubblici, nonché con le autorità indipendenti preposte al loro controllo (15).

Perché in Europa si riapra una stagione significativa di privatizzazioni occorre, tra l’altro, che si affrontino con soluzioni adeguate i tre aspetti tratteggiati. 

 

La strategia di privatizzazione nel primo anno del  Governo Berlusconi

Per quanto elemento importante del programma presentato alle elezioni, le privatizzazioni non comparivano tra le misure che il nuovo Esecutivo si proponeva di  adottare nei primi 100 giorni dalla sua entrata in funzione. Ciò è spiegabile alla luce della esigenza di un momento di riflessione per rivisitare il percorso compiuto negli anni novanta, specialmente nella seconda metà, e predisporre eventuali correzioni di rotta. Nel Dpef, che segue dopo breve tempo (Dpef per il periodo 2002-2006 (16)), sono tracciati gli obiettivi dell’azione da sviluppare nell’intera legislatura e si fissano alcuni criteri per il loro raggiungimento.

L’obiettivo a cui si è data preminenza nella presentazione del Dpef è, come negli anni precedenti, il realizzare introiti per il bilancio pubblico; questi sono quantificati in circa Euro 62 miliardi (120.000 miliardi di lire). Ma a questo obiettivo si affiancano due esigenze di politica industriale: “rafforzare gli assetti produttivi nazionali e migliorarne l’efficienza”. L’attenzione è pertanto nel mantenere nelle mani dell’imprenditoria italiana una rilevante presenza industriale in comparti ritenuti importanti per l’intero sistema produttivo nazionale, quali quello dell’energia. Al tempo stesso, questa presenza avrebbe potuto essere salvaguardata nel tempo solo realizzando quei guadagni di efficienza che consentissero alle imprese privatizzate di competere efficacemente sui mercati.

L’enfasi sul recupero di efficienza si coniuga con l’interesse a massimizzare i proventi delle dismissioni delle aziende ancora in portafoglio. Essendo venuta meno l’urgenza di generare risorse per riportare le finanze pubbliche in linea con gli impegni al riequilibrio presi nell’ambito dell’unione monetaria, vi è tempo per attuare programmi di riorganizzazione e potenziamento aziendale, i quali conducano a incrementi di valore delle imprese, e quindi a ottenere maggiori proventi dalle cessioni.

È altresì significativo che l’Esecutivo affronti in sede di programma per la legislatura il problema di evitare che alle dismissioni decise dall’autorità centrale non corrisponda un atteggiamento analogo da parte delle autonomie locali nel privatizzare i servizi pubblici locali. In questo campo si assume l’impegno a dare attuazione al principio della separazione tra il potere di indirizzo e controllo, che spetta all’autorità locale responsabile del servizio verso la collettività, e i compiti di gestione dei servizi, che possono essere assegnati al settore privato, in quanto più orientato verso criteri di efficienza produttiva.

Alle indicazioni di principio del Dpef 2002-2006 è seguito un avvio lento del programma di dismissioni. Nel primo anno di vita del nuovo governo l’unica vera privatizzazione, ovvero cessione del controllo su un impresa pubblica, ha riguardato il Credito Industriale Sardo, un istituto di credito di media grandezza (euro 21,7 milioni di ricavo dalla vendita) (17). Le altre cessioni riguardano quote di minoranza o partecipazioni che residuano da precedenti privatizzazioni. Tra di esse, l’unica significativa è la vendita di una quinta tranche del capitale azionario dell’ENI, che da sola, con euro 2,7 miliardi di introiti lordi, ha generato il 90 % del totale dei ricavi del periodo. Complessivamente, nei 12 mesi fino a luglio 2002 lo Stato ha realizzato poco meno del 5 % (circa euro 3 miliardi) dell’importo programmato per la legislatura.

Questi ricavi portano l’ammontare complessivo dei proventi generati dal programma di privatizzazione iniziato nel 1992 al livello di circa euro 116 miliardi (18). Più dei tre quarti dei ricavi (euro 89,1 miliardi) sono stati destinati al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato. Solo una parte di questo importo, che si può stimare in poco più della metà, è servita a ridurre la consistenza del debito pubblico accumulato, mentre la parte restante è stata impiegata per il servizio del debito, con conseguente sollievo per la spesa di bilancio ed con il risultato di agevolare il contenimento del disavanzo entro il limite su cui il Paese aveva assunto un impegno verso l’UE. In ogni caso si è trattato di un contributo consistente per piegare la dinamica ascendente del rapporto debito/PIL, ma che per le sue limitate dimensioni in relazione al valore del debito accumulato non è stato in grado di permettere al Paese di abbassare significativamente quel rapporto dal livello del 110,6 %  registrato nel 2000 verso l’obiettivo del 60 % stabilito nel Trattato di Maastricht.

Nel condurre le vendite la pubblica amministrazione ha mostrato intento e capacità di massimizzare i proventi, affidandosi alla trattativa privata per le quote residue di partecipazioni e alle offerte agli investitori istituzionali per piazzare la quinta tranche del capitale dell’ENI. Non emerge, quindi, che si sia fatto ricorso all’underpricing al fine di sollecitare l’interesse del pubblico all’investimento azionario. Né sarebbe stato necessario nel caso dell’ENI, nonostante le gravi incertezze che dominano da tempo il mercato borsistico, dato l’apprezzamento mostrato dagli investitori per i positivi risultati di gestione dell’azienda e le favorevoli prospettive di redditività. In questo senso ha pesato anche la considerazione della posizione dominante che l’azienda detiene all’interno del Paese in alcuni segmenti di mercato, quale quello del gas.

La lentezza iniziale nella prosecuzione del programma di dismissioni si può attribuire ad alcuni fattori, che in buona parte si ritrovano anche nell’esperienza vissuta da altri paesi industriali nello stesso anno. Non si rileva, pertanto, uno scostamento significativo tra l’andamento delle privatizzazioni in Italia e quello emerso nell’area OCSE (19). Tale considerazione vale specialmente per un primo fattore, che riguarda la tendenza al ribasso dei valori azionari, iniziata nel 2000 e non ancora conclusa; essa interessa tutti i principali mercati, e non solo quello italiano. La caduta delle quotazioni insieme alla sfavorevole congiuntura economica ha allontanato ampie fasce di risparmiatori dall’investimento azionario, e reso difficile la vendita da parte delle autorità di consistenti pacchetti di azioni a prezzi coerenti con la capacità di reddito delle imprese nel medio periodo. Il soggetto pubblico poteva, tuttavia, predisporre condizioni migliori per la futura cessione, anticipando parte dei proventi della vendita, e in tal senso si sono di fatto indirizzate le autorità italiane. Una tecnica simile fu usata negli anni novanta per la cessione dell’INA, attraverso l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile in azioni dopo qualche anno.

Secondo, nell’indirizzo dato dal titolare della proprietà, ovvero il Ministero dell’Economia, è prevalso l’interesse a ristrutturare le aziende da cedere per spuntare prezzi di piazzamento più allettanti. Un simile orientamento ha già prodotto i suoi frutti, con risultati evidenziati dalle indagini sui bilanci d’impresa. Dall’analisi condotta da Mediobanca (20) su un gruppo di 1925 imprese di grandi e medie dimensioni, operanti nei settori manifatturiero e terziario, emerge un forte recupero di redditività delle imprese ancora in mano pubblica sia rispetto al passato, sia nel raffronto con quelle private. Dal 1997 in poi i margini di utile, misurati dal risultato netto di esercizio in rapporto al fatturato, si fanno più consistenti, allineandosi prima su quelli delle imprese private e superandoli nel 2001. Il miglioramento è rilevabile in particolare in alcuni indicatori di costo. Il grado di indebitamento, che anno dopo anno eccedeva il corrispondente valore nel settore privato per effetto di una struttura tendenzialmente distorta delle fonti di finanziamento, è sceso allo stesso livello nel 1998 e si è portato al di sotto nel 2001. Il costo medio unitario del lavoro, uno dei punti caratteristici di debolezza della gestione delle aziende pubbliche, tra il 1993 e il 2001 è cresciuto tra le imprese pubbliche 1/3 in meno che tra quelle private, benché risulti ancora superiore.

Il terzo fattore che ha pesato sull’avanzamento del processo di privatizzazione è rappresentato dalle difficoltà incontrate nel tracciare coerenti politiche industriali e di mercato. Cedere il controllo di aziende detentrici di posizioni dominanti in settori strategici per l’economia rischia di produrre costi per la collettività superiori ai benefici finanziari, se non si accompagna a misure dirette a selezionare il nuovo gruppo di controllo, ad aumentare il grado effettivo di concorrenza nello specifico segmento e a disciplinare l’esercizio del potere di mercato. Le principali imprese che restano ancora nel portafoglio pubblico operano nei settori dell’energia, dei servizi di trasporto (per terra, mare ed aria) e dei servizi postali, comparti questi in cui l’interesse della collettività è preminente e le economie di scala sono indispensabili per assicurare livelli adeguati di servizio. Nella scelta del nuovo gruppo di controllo è essenziale individuare una imprenditoria che si impegni direttamente nello sviluppare il potenziale produttivo delle aziende, piuttosto che propendere per logiche di investimento finanziario, miranti semplicemente a cogliere opportunità di profitto nel breve periodo.

La cessione del controllo dovrebbe, inoltre, avvenire in un contesto in cui il mercato di sbocco della produzione sia effettivamente contendibile e caratterizzato dalla presenza di concorrenti di taglia non troppo distante da quella dell’azienda da privatizzare.                               

Sotto questo profilo, la definizione della strategia per la liberalizzazione del mercato dell’energia, ad esempio, ha richiesto tempi più lunghi di quelli previsti: essa si è scontrata, tra l’altro, con l’esigenza di compensare i forti costi non recuperabili, risultanti da passate scelte pubbliche, nonché con l’interesse a non deprimere eccessivamente il valore ricavabile dalla vendita dell’impresa pubblica che è dotata di un potere di mercato destinato a essere ridimensionato. 

Benché apparentemente i progressi nella cessione del controllo su imprese pubbliche siano limitati in termini quantitativi, la strategia dell’Esecutivo segna importanti avanzamenti su due versanti.

Primo, si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, un evento di portata storica, con cui il Governo sancisce la fine di un’epoca iniziata nel lontano 1933 e l’abbandono definitivo di una filosofia di politica industriale imperniata sull’impegno diretto dello Stato nella produzione di beni e servizi nei settori più disparati, e non solo in quelli fondamentali per lo sviluppo dell’intera economia. Sul piano formale, l’IRI è stata assorbita per fusione nella Fintecna, a cui ha conferito partecipazioni che sono ancora da dismettere (cfr. tab. 1-b).           

Con le cessioni realizzate nel 2001 (euro 71,6 milioni) il Gruppo IRI ha portato a compimento un processo di dismissioni, che dal 1992 ha generato proventi per euro 56,4 miliardi; tra questi è compreso anche il beneficio del trasferimento ( euro 12,8 miliardi) agli acquirenti di debiti finanziari relativi alle aziende cedute (21).

Accanto a questo risultato positivo va annoverato l’avanzamento nel definire il regolamento che condurrà le Fondazioni bancarie ad abbandonare posizioni di controllo diretto su importanti gruppi bancari privati e, per loro tramite, su grandi imprese private operanti in settori non-bancari. Il regolamento di riforma delle Fondazioni, benché non sia ancora entrato in vigore e sia stato oggetto di rilievi critici, in particolare dal Consiglio di Stato, è imperniato su principi largamente condivisibili. Esso tende a stabilire scadenze certe per ridimensionare l’influenza di questi enti parapubblici sulle decisioni degli istituti di credito, e mira a indirizzare una quota dei loro investimenti al finanziamento dei piani di potenziamento delle infrastrutture del Paese, in ciò contribuendo ad elevare competitività e potenziale di crescita economica.

Secondo risultato importante, nella strategia di privatizzazione dell’Esecutivo i progressi più significativi si registrano sul piano del metodo e della natura degli attivi che sono ceduti ai privati. Data l’esigenza di mobilitare ogni fonte di entrata per raggiungere l’obiettivo di azzerare il deficit di bilancio pubblico e ridurre il debito in rapporto al PIL e non volendo svendere attivi in un contesto di mercato dai toni depressi, si è fatto ricorso a tecniche innovative per realizzare quella che si può definire un’ondata di privatizzazione “virtuale”, cioè prodromica rispetto alla cessione definitiva ai privati, che avverrà in tempi migliori dal punto di vista del mercato.

È una strategia di ampia portata, con diramazioni in più campi e guidata al tempo stesso da più esigenze: la necessità di reperire risorse in tempi abbreviati, l’esigenza di imprimere nuovi stimoli all’efficienza nel sistema produttivo e l’interesse a precostituire un contesto economico e finanziario favorevole al piazzamento delle imprese e degli attivi patrimoniali a prezzi remunerativi. Una prima componente innovativa riguarda la cessione degli immobili di proprietà pubblica attraverso la costituzione di una società veicolo che finanzia l’acquisto emettendo titoli sul mercato. Per effetto della cartolarizzazione dei proventi che la società otterrà dalla vendita finale degli immobili si anticipano introiti futuri. A parte l’irreversibilità del processo di cessione che si è messo in moto, l’effetto immediato si avverte sul bilancio pubblico, dato che la cessione viene registrata come una voce di spesa negativa, che va in detrazione della spesa in conto capitale e contribuisce a raggiungere l’obiettivo di riduzione del disavanzo.

Questo intervento si lega a misure di carattere fiscale volte a promuovere il decollo dei fondi d’investimento immobiliari. La possibilità offerta alle società immobiliari di conferire a tali fondi, a prezzo di perizia, parte del loro patrimonio immobiliare ed alcune esenzioni da imposte su redditi e guadagni in conto capitale servono a espandere l’impiego del risparmio delle famiglie in forme d’investimento immobiliare, accrescendo il potenziale di domanda col risultato di facilitare l’assorbimento del patrimonio immobiliare, quando sarà ceduto dalle società veicolo.

Oltre ai fondi immobiliari, l’azione dell’Esecutivo si è rivolta a promuovere l’espansione dell’investimento nei fondi pensione, in un’ottica in cui l’esigenza di contenere il crescente onere per il bilancio pubblico derivante dalla spesa previdenziale si salda con il bisogno di agevolare il piazzamento delle imprese ancora da privatizzare.    La proposta di legge di modifica del sistema previdenziale, attualmente all’esame del Parlamento, prevede, infatti, che gli accantonamenti futuri per il “trattamento di fine rapporto” debbano essere investiti in fondi pensioni. Si favorisce pertanto l’emergere di consistenti investitori istituzionali, i quali, avendo come scopo il soddisfacimento di esigenze della collettività, sono ritenuti più idonei di altri ad assumere il ruolo di investitore di riferimento nel controllo di società da privatizzare, che operano in settori strategici, come l’energia, i trasporti e altri servizi per la collettività. Attraverso l’intervento di grandi investitori istituzionali si prospetta una soluzione al problema dell’individuazione degli assetti di controllo più idonei in imprese ritenute strategiche: l’interesse all’incremento di valore degli attivi per far fronte all’erogazione di prestazioni previdenziali dovrà bilanciarsi con l’interesse della collettività a disporre di energia o servizi a costi competitivi e di qualità.

Altra componente innovativa è la privatizzazione di servizi svolti all’interno della pubblica amministrazione: con l’emanazione di un apposito regolamento si è sollecitata l’applicazione della pratica dell’outsourcing. Mediante il trasferimento ai privati di funzioni di produzione di servizi, attualmente svolte direttamente dallo Stato, si mira a ridurne il costo ed offrire di riflesso più spazio al ruolo della concorrenza sul mercato.

Un’altra rilevante innovazione consiste nel conferimento di gran parte degli attivi patrimoniali dello Stato a una nuova società in mano pubblica, la Patrimonio S.p.a.. Essa è chiamata ad accrescere il valore di questi attivi, per utilizzarli in un contesto di mercato finanziario che possa giovare a coprire interventi in materia di investimenti pubblici, oppure per cedere l’uso di queste attività al settore privato, qualora siano suscettibili di impieghi commerciali. Si prevede che il patrimonio pubblico, una volta gestito secondo criteri di valorizzazione, possa offrire nuove garanzie per la collocazione sul mercato di strumenti di credito, destinati a coprire programmi d’investimento.

A questa strategia sui molti fronti della privatizzazione non ha, tuttavia, dato un forte sostegno il processo di liberalizzazione della concorrenza; questa avrebbe dovuto precedere la cessione di imprese con posizioni dominanti, qualora si fosse considerato prioritario stimolare per questa via l’efficienza e la competitività nel sistema produttivo. Ad ogni modo, passi in tal senso sono stati compiuti con la privatizzazione della rete del gas e con il disegno di legge sull’energia del Ministro Marzano: si intende creare una borsa dell’energia elettrica, liberalizzare gli acquisti per le piccole imprese ed introdurre un’effettiva concorrenza tra produttori, favorendo il frazionamento del monopolio pubblico all’atto della privatizzazione e tenendo separata la proprietà (ovvero il controllo) delle reti di distribuzione (gas ed elettricità) dalle imprese produttrici. Sono queste alcune delle precondizioni per determinare per il sistema economico un abbassamento del costo dell’energia ai livelli a cui si approvvigiona la concorrenza straniera. Nondimeno l’attuazione di queste misure si presenta irta di difficoltà, non ultime le resistenze delle autorità regionali; tali difficoltà allungano i tempi perché il nuovo assetto divenga realtà, e nel frattempo mantengono situazioni di mercato che sono fonte potenziale di distorsioni. Ad esempio, si è privatizzata la rete del gas, ma per i prossimi tre anni (22) sussistono pesanti ipoteche sulla contendibilità del mercato a causa dell’elevata concentrazione dell’offerta su un fornitore dotato di notevole potere di mercato. Un esempio analogo si incontra nella passata legislatura in un altro settore: si è proceduto a cedere ai privati la società Autostrade, ma essa detiene ancora una posizione dominante, “prossima al ruolo di monopolista”, secondo le valutazioni della Corte dei Conti (23).

 

La strategia per i prossimi anni e le prospettive a breve

Attualmente il portafoglio di imprese su cui lo Stato può esercitare ancora il controllo proprietario risulta molto consistente, comprendendo tutte le maggiori imprese che dominano all’interno del Paese i settori dell’energia, dei trasporti, e dei servizi di pubblica utilità (cfr. tabella 1). Considerando soltanto Eni, Enel e le residue partecipazioni di minoranza, la loro cessione in un mercato non depresso potrebbe generare entrate valutabili attorno a euro 50 miliardi. Ad esse si dovrebbero aggiungere i proventi da eventuali cessioni di società di grandi dimensioni, quali Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, RAI, e delle residue società controllate dall’IRI, tra le quali spiccano Fincantieri e Tirrenia (tab. 1-b). Privatizzare tutto quanto è privatizzabile richiede, quindi, un impegno e una determinazione d’intensità forse maggiore di quanto mostrato nella seconda metà degli anni novanta, dal momento che si tratta di cedere aziende che sono coinvolte in servizi essenziali per la collettività e in cui gli interessi del mercato, dopo la privatizzazione, possono con più immediatezza entrare in conflitto con quelli collettivi.

L’Esecutivo si accinge a questa impresa con la consapevolezza di dover intervenire su più piani e per fasi. Nel Dpef 2003-2006 si indicano quattro direttrici di marcia: 1) vendita entro 18 mesi dell’insieme delle partecipazioni non ritenute strategiche; 2) cessione di una quota delle altre partecipazioni più importanti, che non intacchi il controllo sulle imprese; 3) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio periodo; e 4) interventi per promuovere e tutelare la concorrenza, particolarmente nel comparto dei servizi di pubblica utilità.

La coerenza della strategia traspare tanto dalla interconnessione funzionale esistente tra i quattro indirizzi, quanto dall’indicazione delle scadenze nel breve termine e dalla fissazione di condizioni per il passaggio alle successive fasi delle dismissioni. Nei prossimi 18 mesi si cederanno le partecipazioni nelle società riportate nella tabella 2. Tra queste si avrebbe una privatizzazione effettiva, che comporta la perdita di controllo, soltanto per ETI, Mediocredito F.V.G., Coopercredito, Tirrenia e Fincantieri. La parte più ambiziosa del programma riguarda, tuttavia, la vendita di una quota pari al 37,58 % del capitale dell’Enel. Si prevede che dall’insieme di queste operazioni si possa ricavare circa euro 20 miliardi.

L’attuazione del programma è vincolata, in generale, al realizzarsi di condizioni migliori nei mercati finanziari; nel caso specifico delle cessioni da effettuare nel medio termine, la loro realizzazione è subordinata all’ampliamento dei mercati finanziari e alla ristrutturazione delle aziende nel senso di concentrarle sulla loro linea principale di attività produttiva. Le implicazioni di questi condizionamenti non sono di poco conto. Bisognerà attendere una ripresa dei mercati azionari, visto che quelli creditizi presentano già condizioni favorevoli. Si conta anche sull’allargamento dell’interesse all’acquisto di partecipazioni in imprese pubbliche, ossia sul rafforzamento della domanda, possibilmente con l’ingresso dei nuovi fondi pensione. Al tempo stesso, saranno necessarie scelte forti negli indirizzi da impartire al management delle aziende, perché perseguano strategie d’impresa dirette a massimizzarne il valore. Una delle conseguenze del concentrare le loro attività nel core business consiste nel porre un freno alle strategie di diversificazione delle grandi imprese in molteplici linee di business, come è avvenuto negli ultimi anni, con esiti reddituali incerti. Si dovrebbe tendere, piuttosto, al frazionamento delle società operanti su più settori in diverse unità orientate ciascuna su una propria specializzazione produttiva.

Riguardo alle aziende impegnate in servizi di pubblica utilità, si ritiene essenziale assicurare in via prioritaria condizioni di concorrenza. In particolare, si intende far leva sulla responsabilità che è assegnata allo Stato, per quanto riguarda la disciplina della concorrenza, nel nuovo assetto di federalismo dettato dal Titolo V della Costituzione. Ciò non è ritenuto, tuttavia, sufficiente per assecondare l’abbassamento delle tariffe per gli utenti; pertanto, si progettano interventi quadro per regolare l’esercizio di questi servizi.

Indubbiamente il piano tracciato nel Dpef è di grande impegno e di complessa realizzazione, perché postula l’intervento di più soggetti pubblici, tra cui le autorità di regolamentazione dei servizi e a tutela della concorrenza, e deve essere sostenuto anche da misure sul piano del rafforzamento della corporate governance e della disciplina dei mercati azionari.

L’ostacolo principale non sembra derivare né dalla debolezza dei valori di borsa, né dalla carenza di domanda del pubblico per l’investimento azionario. Sono infatti possibili diverse tecniche per preparare il terreno alla vendita. Ad esempio si è già sperimentata l’emissione di titoli convertibili dopo un certo termine in azioni di aziende da privatizzare, e si è fatto già ricorso alla clausola che prevede un’integrazione del prezzo di vendita sulla base dell’andamento dei valori di borsa successivamente alla cessione. Una carenza di domanda appare, inoltre, poco probabile, trattandosi di cedere imprese dotate di potere di mercato e con un notevole avviamento, e per le quali anche in tempi di mercati depressi si è manifestato un forte interesse da parte di grandi investitori, pronti ad assumerne il controllo. L’ostacolo, tuttavia, sussiste per il piazzamento di azioni a prezzi remunerativi presso il pubblico, ma esso non va sopravvalutato.

Ben più importanti appaiono le difficoltà sia nell’individuare nuovi assetti proprietari che mostrino sensibilità verso gli interessi collettivi, sia nel definire un solido quadro regolatorio, tale da garantire al tempo stesso il soddisfacimento delle esigenze del Paese e l’equilibrio del conto economico dell’impresa. Come mostra l’esperienza recente del Regno Unito, in cui lo Stato è dovuto intervenire per il salvataggio di aziende privatizzate da pochi anni che operano in settori essenziali, come le ferrovie e la produzione di energia nucleare, una regolazione che non riesca a bilanciare gli interessi aziendali con quelli collettivi conduce inevitabilmente alla rinazionalizzazione delle imprese. In presenza di un assetto regolatorio inadeguato per la gestione di attività essenziali, l’interesse collettivo può essere tutelato a minor costo con la proprietà pubblica dell’azienda produttrice.

Quanto ai nuovi assetti societari di controllo, l’attenzione non può che rivolgersi o a grandi investitori istituzionali (fondi pensioni, compagnie di assicurazioni, fondi d’investimento ed altri), o a imprenditori non finanziari, o a entrambi. Una linea di azione potrebbe essere il collocamento del pacchetto di controllo della società presso azionisti privati con interessi “industriali” ben radicati, allo scopo di rafforzare la posizione italiana nei comparti indicati in  un contesto di ristrutturazione complessiva del sistema economico lungo direttrici non solo nazionali, ma europee.

Per evitare di cadere nelle trappole protezionistiche di interventi a favore di questo o quel “campione nazionale”, occorre stabilire in anticipo chiari parametri di valutazione e criteri di scelta dei nuovi azionisti nella cessione di aziende operanti in comparti che richiedono grandi investimenti in ricerca scientifica e tecnologica, ed in cui nell’Europa del futuro la concorrenza sarà, prevedibilmente, tra poche imprese di grandi dimensioni. Queste in vario grado saranno una derivazione dei “monopoli tecnici” esistenti precedentemente in diversi paesi. Tale percorso, seguito già da altri Paesi europei (come la Francia, la Germania e la Spagna), non rappresenta necessariamente un nazionalismo od uno statalismo in nuova guisa, ma piuttosto un metodo per assicurare reciprocità di trattamento tra Paesi nel processo in corso, il quale tende verso l’aggregazione (o concentrazione) in poli di società che siano in grado di sostenere la concorrenza nel mercato europeo in comparti di grande rilievo (24). 

Questa considerazione è rafforzata dal fatto che un nuovo assetto di controllo, che lo Stato ritenga idoneo all’atto della privatizzazione, non potrà in futuro essere difeso come nel passato con il ricorso ai poteri speciali (golden share), dato che la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata contro l’uso discriminatorio di questi poteri. È piuttosto necessario, prima di cedere il controllo, rafforzare al tempo stesso il quadro regolatorio che si applica al settore di attività delle imprese privatizzate, il contesto di concorrenza nel mercato, specialmente nei servizi a rete (25), e la contendibilità degli assetti azionari di controllo.

Sul piano regolatorio è auspicabile una nitida definizione degli standard di servizio da assicurare, dei criteri di disciplina nella formazione delle tariffe (che scontino incrementi di produttività) e delle procedure per consentire all’utente di ottenere il rispetto dei criteri di qualità nei servizi. Sono questi parametri di grande peso nella determinazione del valore di vendita dell’impresa pubblica. Riguardo alla concorrenza, una strada ancora da utilizzare è la collaborazione con l’Autorità Garante della Concorrenza nel disegnare il piano di liberalizzazione del mercato, che dovrebbe precedere la privatizzazione (26), e uno schema di regolamentazione, una volta liberalizzato l’accesso al mercato. Vanno studiate misure per garantire parità di condizioni di mercato tra l’impresa dominante e le nuove concorrenti. La contendibilità degli assetti di controllo è un altro aspetto rilevante: se da un lato, esso ha ricevuto sufficiente spazio per realizzarsi, dall’altro lato, la sua realizzazione concreta ha messo in evidenza una scarsa protezione degli interessi degli azionisti di minoranza e alcune falle nella “corporate governance”. Il quadro normativo richiede, quindi, integrazioni.

La necessità di efficaci interventi regolatori per la conduzione dei servizi e per l’apertura alla concorrenza degli stessi comparti è emersa con particolare evidenza nella riforma dei servizi pubblici locali. Le misure inserite nella Legge Finanziaria 2002, che si richiamano in parte a un disegno di legge presentato nella precedente legislatura, hanno incontrato, tra l’altro, l’opposizione della Commissione UE in relazione ad alcuni aspetti discriminatori: questi riguardano l’affidamento dei servizi idrici a società di capitali controllate dagli stessi enti locali, e la durata del periodo transitorio per le gestioni di servizi assegnate senza il ricorso a gara. Le diverse obiezioni in essenza richiamano il quasi paradosso secondo cui, se per ottenere efficienza bisogna liberalizzare il mercato dei servizi e privatizzare la loro gestione, la liberalizzazione stessa comporta la necessità di nuove regole affinché si esplichino pienamente i benefici della concorrenza, e non si affermino disparità nei poteri di mercato tra concorrenti e comportamenti anticoncorrenziali (27). Il processo di liberalizzazione, a sua volta, si interseca con un problema di politica industriale: occorre favorire con la liberalizzazione della concorrenza l’emergere di poche grandi imprese specializzate in specifici rami di servizi, oppure assecondare le imprese diversificate su più servizi (multiutility), con il rischio di sussidi incrociati a mezzo di redditi estratti da settori non liberalizzati? (28)            

In conclusione, portare a termine la privatizzazione delle aziende ancora in mano pubblica, per le loro stesse caratteristiche, non è tanto una mera questione di mercati finanziari, quanto di ricomposizione in un quadro coerente degli interventi di privatizzazione con le misure di liberalizzazione e regolamentazione dei mercati. Alla grande creatività e perizia sul fronte finanziario e di gestione delle vendite, che l’Esecutivo ha recentemente mostrato, dovrà corrispondere prossimamente altrettanta perizia e creatività nel creare quell’ambiente di libera concorrenza nell’ambito di regole adeguate, che è condizione necessaria perché la privatizzazione continui ad avanzare e sia veicolo di efficienza e competitività per il sistema produttivo del Paese.

 

 

Riferimenti.

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Credible commitment and success with public enterprises reform,  in “World Development” n. 28

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Isae, Istituto Studi e Analisi Economica (2002),

Rapporto annuale sullo stato dell’Unione europea, Roma

Jones S.L., Megginson W.L., Nash R.C. e Netter J.M. (1999),

Share issue privatizations as financial means to political and economic ends, in “Journal of Financial Economics” n. 53

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Documento di programmazione economica e finanziaria per gli anni 2002-2006,  Roma

Ministero dell’Economia e delle Finanze (2001b),

Italy’s report on economic reform, Roma

Ministero dell’Economia e delle Finanze (gennaio 2002),

La relazione sulle privatizzazioni.

Ministero dell’Economia e Finanze (maggio 2002),

La relazione sulle privatizzazioni.

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Documento di programmazione economica e finanziaria per gli anni 2003-2006, Roma

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Economic Surveys – Italy, vol.2002/4 – February

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Le privatizzazioni,  in Società Libera “Il processo di liberalizzazione nella società italiana”, Milano

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Credible privatization,  in “American Economic Review” n. 85

Privatization in Europe (2002),  in The Economist 29 giugno

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B.Spadoni (2002),

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G.Vaciago (2002),

Meno servizi, meno pubblici, meno locali. Un commento, in op.cit..

Yarrow G.(1999),

A theory of privatization or why bureaucrats are still in business, in World Development n. 27.

 

 

Note.

1  Lo sfasamento tra i due Dpef  è più apparente che reale. A norma di legge, un Dpef deve coprire un triennio (ossia giungere sino al 2004 se approvato nel 2001 ed al 2005 se approvato nel 2002). Il Governo risultante dalle elezioni del maggio 2001 ha inteso, invece, far riferimento all’intero periodo della XIV legislatura anche per meglio tararlo al “contratto con gli italiani” con il quale, durante la campagna elettorale,  ha articolato il proprio programma.

2  Shiller (2000)

3  Per una sintesi, Imf (2001) e Imf (2002)

4  Hall e Soskice (2001)

5  Per un’analisi dettagliata della letteratura e delle evidenze empiriche, si rimanda a Megginson e Netter (2002)

6   Privatization in Europe (2002)

7  Pennisi e Zecchini (2001)

8  Intervista di P. Gibbs in “Privatization in Europe” (2002)

9  Mahboobi (2002)

10  Jones, Megginson, Nash e Netter (1999) e Guiso, Jappelli,e Haliassos (2000).

11  Dai picchi toccati nella primavera del 2000, l’indicatore Morgan Stanley dei mercati azionari mondiali ha segnato una contrazione del 40%; il comparto TMT (Telecom-Media-Tecnology) ne ha accusata una superiore al 50%.

12  La sola eccezione significativa è la Francia

13  Perotti (1995), Campos e Esfahani (2000), Yarrow (1999)

14  Meccanismo che dà potere di veto ai rappresentanti della mano pubblica rispetto ad offerte pubbliche d’acquisto od altre circostanze definite negli statuti societari.

15  Isae (2002)

16  Ministero dell’Economia e delle Finanze (16 luglio 2001), p.33

17  Ministero dell’Economia e delle Finanze (gennaio 2002).

18  Stima della Corte dei Conti, riportata su Il Sole 24 Ore 16-7-2002.

19  OECD (2002).

20  Mediobanca (2002).

21  Ministero dell’Economia e Finanze (maggio 2002).

22  Il disegno di legge sull’energia approvato dall’Esecutivo prevede che entro tre anni dalla sua approvazione le società del settore debbano dismettere la proprietà delle reti metanifera e dell’elettricità ad alta tensione.

23  Riportate in un articolo di A.Arona  su Il Sole 24 Ore del Lunedì, 5-8-2002 pag.5..

24  Isae (2002)

25  In essi il vincolo alla concorrenza, che discende dalla dipendenza dalla rete, è pervadente.

26  OECD (February 2002).

27  B.Spadoni (2002).

28 G.Vaciago(2002).

 

 

TAB. 1

PARTECIPAZIONI DETENUTE DAL MINISTERO DELL'ECONOMIA E FINANZE

 

Società per settore

Quota di Partecipazione

Assicurativo

 

Consap - Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici S.p.A.

100%

Bancario

 

Coopercredito S.p.A.

14,42%

Mediocredito Friuli V. G. S.p.A.

34,01%

Difesa e Aereospazio

 

Finmeccanica S.p.A.

32,34%

Editoriale

 

SEAT S.p.A.

0,1%

Energetico

 

ENEL S.p.A.

67,58%

ENI S.p.A.

30,33%

Gestore Rete Trasmissione Nazionale S.p.A.

100%

SOGIN - Società Gestione Impianti Nucleari S.p.A.

100%

Holding di partecipazione

 

IRI (in liquidazione ) S.p.A.

100%

Rai Holding S.p.A.

100%

Mezzogiorno

 

Sviluppo Italia S.p.A.

100%

Italia Lavoro S.p.A.

100%

Sogesid - Società per la Gestione degli Impianti Idrici S.p.A.

100%

Postale

 

Poste Italiane S.p.A.

100%

Servizi vari

 

Consip - Concessionaria Servizi Informativi Pubblici S.p.A.

100%

EUR S.p.A.

90%

Cinecittà Holding S.p.A.

100%

Tabacco

 

ETI S.p.A. (Ente Tabacchi Italiani)

100%

Telecomunicazioni

 

Telecom Italia S.p.A.

3,46%

Trasporti

 

Alitalia S.p.A.

62,39%

Ferrovie dello Stato S.p.A.

100%

ENAV S.p.A.

100%

Fonte: Ministero Economia e Finanze, giugno 2002.

 

 

TAB. 1-B

PARTECIPAZIONI DELL' IRI AL 30 GIUGNO 2002

Sigla

Azionista

Numero azioni

Valore di carico (*)

Partecipazione IRI %
 sul capitale sociale

BAGNOLI

IRI IN LIQ.

1.500.000

7,68

30,00%

EDINDUSTRIA

IRI IN LIQ.

426.000

0,26

35,50%

FINCANTIERI

IRI IN LIQ.

549.999.240

281,12

83,21%

FINMECCANICA

IRI IN LIQ.

143.597.608

44,69

1,70%

FINTECNA

IRI IN LIQ.

4.648.200

241,64

100,00%

TIRRENIA

IRI IN LIQ.

16.800.000

193,57

80,00%

Iniziative  Sardegna SpA

IRI IN LIQ.

1.298.184.691

2,17

7,89%

Totale

 

 

771,13

 

(*) in ml. di € e riferiti ai dati di consuntivo 2001

 

TAB. 1-B

PARTECIPAZIONI DELL' IRI AL 30 GIUGNO 2002

Società

Quota detenuta del capitale sociale

BAGNOLI

30,00%

EDINDUSTRIA

35,50%

FINCANTIERI

83,21%

FINMECCANICA

1,70%

FINTECNA

100,00%

TIRRENIA

80,00%

INIZIATIVE  SARDEGNA SPA

7,89%

Fonte: Ministero Economia e Finanze.

 

 

TAB. 2

PARTECIPAZIONI DELLO STATO DA CEDERE A BREVE TERMINE

 

Telecom Italia

Tirrenia

Seat

Fincantieri

ETI

Tema

ENEL

Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale

Mediocredito Friuli Venezia Giulia

Alitalia - Linee Aeree Italiane

Coopercredito

 

Fonte: Dpef Anni 2003-2006 pag.143.

archivio rapporti

Introduzione

Informazione: prigionieri del passato

Welfare e lavoro

Il “dinamismo immobile”politiche di liberalizzazione e cambiamento istituzionale agli inizi della xiv legislatura

Regolazione e liberalizzazione dell’economia

I) la scuola fra tradizione e innovazione: luci ed ombre dei processi riformatori

II) l'università alla verifica: tra consolidamento e reindirizzo

Amministrazione e gestione del territorio

L’erta via delle privatizzazioni

La sicurezza tra controllo formale e controllo informale

Gli autori