I)
LA SCUOLA FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE: LUCI ED OMBRE DEI PROCESSI RIFORMATORI.
II)
L'UNIVERSITÀ ALLA VERIFICA: TRA
CONSOLIDAMENTO E REINDIRIZZO
di Luciana Lepri e di Stefania Fuscagni
I) La scuola
fra tradizione e innovazione: luci ed ombre dei processi riformatori.
Introduzione
I
parametri adottati nel Rapporto del 2001 per valutare il cambiamento e il
processo di liberalizzazione della scuola (grado e qualità dell’autonomia,
libertà di insegnamento, flessibilità dei curricula e integrazione dei sistemi)
sono a tutt’oggi validi, in quanto non si sono verificati fatti nuovi
nell'organizzazione della struttura-scuola e nell'elaborazione dei programmi.
L’attuale
schema bipolare, esacerbando le contrapposizioni, ha - di fatto - rallentato
l’approvazione della Riforma Moratti, attualmente incardinata al Senato (Atto
Senato n. 1306) e calendarizzata a partire dal 24 settembre. Se ne prevede il
passaggio a ottobre alla Camera e l’approvazione definitiva a novembre. Ad
alcune modifiche della L.30/2000 (Riordino dei cicli scolastici) si è
provveduto con la sperimentazione di alcuni aspetti della Riforma Moratti, in
200 scuole, con Decreto Ministeriale del 18 settembre 2002. Questa la
situazione legislativa.
Le
aperture ai processi di cambiamento e di liberalizzazione sono tuttavia da
ricercarsi, oltre che nell’articolato di legge, nei lavori delle varie
commissioni istituite dal Ministro Moratti e, in particolare, la cosiddetta
commissione Bertagna e la commissione per il “Codice deontologico degli insegnanti”.
Sull’elemento
forse più innovativo della riforma Moratti (l’istituzione di un canale autonomo
della formazione professionale), fortemente osteggiato dalle opposizioni, ci è
sembrato opportuno aprire una finestra sull’Europa onde fornire dati e materiali
di riflessione. Quanto all’autonomia delle istituzioni scolastiche, il cui
Regolamento è ancora in vigore, si deve constatare un notevole stato di
fluidità che ne disegna applicazioni disparate a livello locale. Non sono
chiare infatti le implicazioni derivanti dalla riforma del Titolo V della
Costituzione, che trasferisce alle Regioni facoltà legislativa autonoma e
concorrente in alcuni settori della organizzazione, gestione e governo della
scuola.
Dalla
Commissione Bertagna all’articolato della legge delega.
A
tutt’oggi (settembre 2002) uno dei risultati più interessanti per il settore
scuola è stato il lavoro del gruppo Bertagna che si è concluso con un Rapporto
di notevole spessore culturale e propositivo, presentato dal Ministro Moratti,
nella primavera scorsa, in occasione della convocazione degli “Stati generali
della scuola”. I pregi del rapporto sono stati l’estrema chiarezza e la
linearità del disegno che configura la struttura organizzativa della scuola, i
criteri cui essa si ispira e il superamento di alcune pregiudiziali
ideologiche. Nel Rapporto viene prospettato un sistema educativo nazionale
composto da due sottosistemi di uguale dignità ed equivalenti per valore
formativo, ma distinti negli obiettivi intermedi e finali.
Il
canale scolastico formale è composto da tre segmenti: scuola elementare di 5
anni, scuola secondaria di I grado di 3 anni, scuola secondaria di II grado
della durata di 4 anni, più un anno propedeutico ai percorsi universitari
chiamato anno di “riallineamento”. Nella prima stesura, il quinto anno delle
scuole secondarie era autonomo e finalizzato all’approfondimento di discipline
caratterizzanti i corsi di laurea scelti dagli studenti. L’anno di
“riallineamento” doveva essere gestito da docenti di scuole di II grado (scelti
in base al possesso di eccellenti requisiti disciplinari e professionali) e da
docenti universitari. Con ciò si instaurava un effettivo collegamento tra il
canale scolastico e quello universitario e si offriva l’occasione per una seria
riqualificazione di una quota di insegnanti delle secondarie di II grado.
Settori
dell’opinione pubblica e una parte della stessa maggioranza hanno criticato
l’anticipazione dello studio specialistico di una o più discipline e la
riduzione di un anno della scuola secondaria di II grado. La forza di tali
contestazioni ha portato alla modifica della originaria ipotesi Bertagna e
l’anno conclusivo delle scuole secondarie è così rientrato, seppure in modo
atipico, nel canale scolastico formale, impedendo la destinazione per chiamata
di docenti in possesso dei requisiti di cui sopra.
Il cosiddetto doppio canale
La
costituzione dei due sottosistemi di uguale durata, l’uno scolastico formale,
l’altro della formazione professionale che dà accesso a una specializzazione di
valenza universitaria della stessa durata degli attuali corsi accademici,
avrebbe permesso di superare quelle posizioni ideologicamente precostituite che
in Italia sono ancora vive ed operanti.
Una
parte dell’opinione pubblica e del mondo politico italiano ritiene, infatti,
che la scuola possa e debba riparare alle sperequazioni sociali; da questo
assunto consegue che l’istruzione debba essere uguale per tutti. Un’altra parte
pensa, invece, che l’uguaglianza sociale si raggiunga più efficacemente
assicurando ai cittadini percorsi educativi e formativi di pari rilevanza ma
differenziati nell’offerta, al fine di soddisfare esigenze diverse, anche nel
rispetto delle inclinazioni personali e delle aspirazioni per il futuro
lavorativo.
Come
è noto, la Costituzione affida alle Regioni tutto il settore della formazione
professionale. Attualmente essa presenta una struttura a mosaico per quanto
concerne le iniziative e, a macchia di leopardo, per i livelli di efficacia e
di efficienza dei vari Centri di formazione. Non aver messo a sistema la
formazione professionale pone l’Italia in una situazione anomala rispetto
all’Europa: il canale scolastico formale accoglie, da noi, circa il 95% della
popolazione studentesca; negli altri paesi, invece, circa il 70% degli studenti
frequenta istituti di istruzione formale ed il restante 30% opta per la
formazione professionale strutturata in un sistema vero e proprio diversificato
per livelli e per qualifiche. Le ripercussione dell’assetto del nostro sistema,
che comporta una carenza di competenze tecniche e tecnologiche di livello medio
alto, incidono considerevolmente sia sul mercato del lavoro (la disoccupazione
giovanile è molto alta in Italia, in particolare al sud e nelle isole), sia
sull’organizzazione dei servizi.
La
riforma del Titolo V della Costituzione, peraltro non ancora operante, affida
all’esclusiva iniziativa legislativa delle Regioni tutta la formazione
professionale compresi gli istituti che rilasciano un diploma
professionalizzante (istituti tecnici, istituti professionali, ecc.) che, fino
ad oggi, rientravano nel sistema scolastico formale. Posto che si riesca in
tempi brevi a superare il conflitto di competenze e la riluttanza di alcuni
istituti a passare nel canale della formazione professionale, resta da capire
come agiranno le Regioni e, di conseguenza, se sarà possibile raggiungere
un’intesa, oppure se ognuna di esse darà vita ad iniziative indipendenti. Un
ulteriore punto da chiarire è se si agirà nell’ottica di sistema o se si
preferirà consolidare l’attuale stato di fatto. La risposta a questi
interrogativi sarà decisiva tanto per il cambiamento quanto per l’apertura ai
processi di liberalizzazione.
Quale autonomia per le istituzioni scolastiche italiane nella prospettiva
europea
L’allora
Ministro della Funzione Pubblica, Franco Bassanini, nell’ampio disegno sulle
autonomie (L. 59/97), dedicò un notevole spazio anche alle scuole (art. 21). Ci
sembra di poter osservare che l’autonomia degli istituti scolastici, nata
nell’ambito della riforma della Pubblica Amministrazione, abbia ereditato
un’impronta che ha contribuito a darle una connotazione più vicina al
decentramento amministrativo di quanto avrebbe richiesto una autonomia fondata
sul principio di sussidiarietà, pur esplicitamente richiamato dall’art. 21 della
suddetta legge.
Il
Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche del Ministro
Berlinguer (DPR 8 marzo 1999, n. 275) che, in 17 articoli, disegna il profilo
delle scuole autonome, è ancora in vigore. Anche per quanto riguarda
l’autonomia, non è chiaro in che modo e in quale direzione essa si coniugherà
con la riforma del Titolo V della Costituzione, in particolare per quanto
concerne l’iniziativa legislativa autonoma delle Regioni e quella concorrente
in materia di educazione, istruzione e formazione. Ci sembra perciò opportuno
aprire una finestra sull’Europa per fornire una prospettiva di possibili linee
per il cambiamento.
L’autonomia
degli istituti scolastici in Italia si configura come autonomia didattica, di
ricerca, finanziaria e organizzativa.
Osservazioni sulle caratteristiche delle autonomie in Europa
In
genere, in regime di autonomia totale o parziale, non ci sono differenze di
rilievo tra il livello primario e quello secondario all’interno di uno stesso
paese. Fanno eccezione la Francia (alle scuole primarie non è concessa
l’autonomia di cui, invece, godono i collèges), il Lussemburgo e l’Austria,
paesi nei quali si registra una situazione analoga. Le scuole che godono di
maggiore autonomia sono quelle della Comunità fiamminga del Belgio (livello
primario), quelle dei Paesi Bassi e quelle del Regno Unito.
Altri
elementi importanti per l’autonomia sono la gestione del personale docente e la
nomina dei capi d’istituto. Nella maggior parte dei paesi, il reclutamento e la
gestione del personale devono essere concertati dalle scuole con le autorità
competenti (Stato o Municipalità), ad eccezione di pochi altri in cui tali
funzioni sono di competenza dei singoli istituti scolastici (Comunità fiamminga
del Belgio, relativamente alle scuole primarie; Paesi Bassi e Regno Unito).
Analogamente, la nomina dei capi d’Istituto spetta, in genere, a un’autorità
superiore rispetto a quella dell’istituto scolastico (con le eccezioni sopra
dette); un caso particolare è il Portogallo che prevede la nomina del capo
d’istituto da parte del Consiglio della scuola (Conselho de Escola) o
dall’insieme del personale docente.
La Commissione per il codice deontologico degli insegnanti
Questa
Commissione, istituita lo scorso anno, sta per concludere i lavori; l’impatto
che essi avranno sull’opinione pubblica e, soprattutto, la rilevanza che essi
avranno nei confronti del corpo insegnante, possono aprire ampi spazi al
cambiamento e ai processi di liberalizzazione del sistema educativo di
istruzione e di formazione. Il compito della Commissione è quello di fornire al
Ministro materiali e ipotesi per l’elaborazione di quello che, con una
espressione generica, viene chiamato “codice deontologico degli insegnanti”. Il
Rapporto della Commissione, sarà consegnata al Ministro per la valutazione e la
selezione dei materiali. Ci sembra utile accennare alla filosofia sottesa ai
lavori della Commissione.
La
Commissione aveva il compito istruttorio, in quanto non spettava ad essa (e
neppure al MIUR) elaborare il codice deontologico dei docenti che solo le
categorie interessate hanno la legittimità di proporre e di approvare. Il
Ministro, cui spetta l’iniziativa di animazione culturale per tutti quei temi
che possono migliorare la qualità della scuola, decide quale documentazione fornire
ai docenti, alle famiglie e all’opinione pubblica. Tutto ciò per quanto
concerne la metodologia dei lavori; rimane da chiarire l’esigenza che ha
motivato il Ministro a istituire la Commissione, esigenza condivisa anche da
molte associazioni professionali di docenti.
L’ultima
riforma radicale del sistema scolastico risale a Gentile. Successivamente, sono
stati riformati alcuni segmenti (scuole elementari - scuole medie) e sono state
introdotte innovazioni in determinati settori anche attraverso sperimentazioni
durate decine di anni senza essere mai entrate a regime. Per quasi 30 anni sono
state avanzate proposte di riforma per la scuola secondaria superiore senza
esito alcuno. In questo contesto, la formazione iniziale degli insegnanti, la
loro selezione e il loro reclutamento sono, nel tempo, diventate appannaggio
quasi esclusivo dei sindacati, con esiti da molti giudicati negativi.
Con
la progressiva perdita di identità del sistema scolastico, tanto in relazione a
finalità specifiche quanto a ruolo da svolgere in un contesto di continuo
cambiamento, la doppia forbice della logica sindacale e della centralità
ministeriale si è rivelata sempre più inadeguata. Le nuove responsabilità
professionali, culturali ed educative degli insegnanti in regime di autonomia
hanno creato negli stessi l’esigenza di essere soggetti attivi e decisionali,
almeno per gli aspetti qualitativi del loro ruolo culturale e della loro
professionalità. Si è, così, guardato all’Europa per studiare le iniziative
prese al riguardo dal corpo docente. Gli organismi che si sono costituiti nei
vari paesi sono differenti per composizione e definizione degli ambiti di
intervento.
Ci
sembra di poter affermare che legittimare la presenza di docenti che abbiano un
potere decisionale (e non solo consultivo, come quello del Consiglio Nazionale
della Pubblica Istruzione) in settori cruciali dei processi educativi, nelle
modalità di prima formazione, selezione e reclutamento degli insegnanti, apra
ampie prospettive di cambiamento e avvii un reale processo di liberalizzazione.
(2)
L’Università alla verifica: tra consolidamento e reindirizzo
L’Università
italiana, nel corso dell’anno accademico 2001-2002, ha avviato la
sperimentazione della Riforma Berlinguer, tesa a inquadrare la realtà
universitaria italiana nel contesto delle riforme europee a seguito degli
impegni presi da 29 paesi alla Sorbona prima, a Bologna poi. Com’è noto, il
punto più visibile di accordo fu quello relativo all’articolazione dei
curricula, il cosiddetto 3+2.
Con
atteggiamento da tutti approvato, il Ministro Moratti ha lasciato che,
diversamente dagli ordinamenti scolastici, le riforme approvate dessero inizio
ad una sperimentazione che, già nel marzo 2002, è stata posta sotto
osservazione da un gruppo di lavoro ministeriale coordinata dal Rettore Di Maio
“con funzioni di supporto tecnico al Ministro per le problematiche di politica
e legislazione universitaria”. Membri del comitato sono i rettori Girone,
Latorre, Secchi e Settis, gli ex rettori Alberoni, Rizzarelli, Roversi Monaco,
il consigliere del Ministro, prof. Furlan e i professori Cataudella (Roma, La
Sapienza), Cesena (Milano, Bicocca), Mantella (Torino), Rumi (Milano). Non sono
noti i risultati del lavoro di tale commissione, se non che si stanno “mettendo
a punto concrete proposte” derivanti dalle esperienze in corso.
Non
avendo ritenuto il Ministro di fare anticipazione alcuna sui risultati fin qui
maturati all’interno del gruppo di lavoro e non essendo stati rilevati
indicatori leggibili tramite stampa (anticipazioni generiche sono state portate
in un unico intervento sul Sole 24 ore di agosto), vengono di seguito indicate
alcune considerazioni generali, ancorché provvisorie, sulla scorta di punti sui
quali si ritiene che il gruppo di lavoro si sia soffermato.
§
Aldilà di
alcune posizioni di netto rigetto della Riforma dell’Autonomia didattica (3+2),
nel mondo universitario è maturato un “consenso critico” che si è tradotto in
un grande dibattito in tutte le facoltà e in un ampliamento molto consistente
dell’offerta didattica. Tale ampliamento, anche se con evidenti distorsioni
messe in evidenza dal Ministro (cfr. bollino rosso sui corsi non dotati dei
requisiti minimi di avviamento), ha provocato un consistente incremento degli
immatricolati. Un risultato positivo di per sé, nell’ottica di potenziare ed
estendere la formazione universitaria, come richiede la società della
conoscenza. Tale arricchimento si rivela positivo per lo sviluppo del Paese e
non reversibile. Risulta evidente che l’ampliamento dell’offerta didattica ha
corrisposto ad un’attesa. È il momento di rispondere qualitativamente a tale
tendenza.
§
Sembra imporsi
l’opportunità della revisione dei meccanismi concorsuali per il reclutamento
dei docenti e la necessità di riaccorpare sia i settori disciplinari, al fine
di limitare i comportamenti corporativi dei docenti (la modifica o meglio
l’eliminazione del Consiglio Universitario Nazionale abbisogna di uno specifico
provvedimento legislativo), sia le classi di Corsi di laurea (per esempio, si
va stabilizzando l’ipotesi che le classi di Lettere da cinque siano ridotte ad
una).
§
Se appare non
opportuno toccare il cosiddetto 3+2 per motivi di comparazione europea, avanza
l’idea di riorientare il 3+2 in tre e due, intendendo, con questo, allentare i
vincoli di sequenzialità tra la formazione di base e quella specialistica,
attraverso la revisione delle modalità di accesso ai due segmenti formativi e
l’irrobustimento della modalità di reclutamento del personale attraverso
contratti a temine. Tutto ciò nel rispetto di quanto stabilito nella
Dichiarazione congiunta dei Ministri Europei dell’Istruzione Superiore
(Bologna, 19 giugno 1999), e confermando l’impegno di collaborare alla
costruzione di uno spazio europeo per questo ambito educativo e alla promozione
internazionale del sistema europeo dell’istruzione superiore. (3)
§
Se tali
indirizzi troveranno conferma e attuazione in deliberazioni si otterranno, dal
punto di vista del “livello di liberalizzazione”, alcuni rilevanti risultati:
rispetto alla autonomia, le Università potrebbero passare da 1/3 ad un 50% di
autonomia, ciò aumenterà la diversità tra Università e farà salire il loro
livello di concorrenza. Ciò rispecchierebbe anche la generale tendenza della maggior
parte dei paesi europei verso un incremento dell’autonomia istituzionale. (Cfr.
Allegato 6).
§
Rimane sullo
sfondo il “manto nero” del riconoscimento del titolo legale per la cui
rimozione non pare esistano le condizioni; ciò si deve a pregiudiziali ideologiche
diffuse e una cera resistenza e timore da parte della dirigenza ministeriale
che sottolinea il nesso tra riconoscimento legale del titolo di studio e
possibilità di verifica e controllo da parte del Ministero. La spinta alla
creazione di nuove università (si pensi all’iniziativa Tremonti ed altre)
tuttavia sta, di fatto, aggirando l’ostacolo innescando elementi di valutazione
della qualità dell’offerta sul campo.
Si
ritiene che, passata al vaglio del Parlamento la Riforma degli Ordinamenti
Scolastici (ottobre 2002), il Ministro Moratti procederà al varo dei
provvedimenti derivati dalle indicazioni del gruppo di lavoro coordinato dal
rettore Di Maio.
Note.
1.
Fonte: INDIRE - Unità italiana di Eurydice, MIUR - Direzione Generale per le
Relazioni Internazionali, 2001, Sistemi scolastici europei - Livelli
decisionali e saperi nei curricoli, Firenze, F.&F. Parretti Grafiche, pp.
13-14.
2.
I codici deontologici di alcuni paesi europei sono presentati nella
pubblicazione di Cenerini - Drago, 2001, Professionalità e codice deontologico
degli insegnanti, Trento, Erickson; altre informazioni in merito sono
reperibili sul sito http:www.indire.it/adi. L'Unità italiana di Eurydice -
INDIRE, in collaborazione con il MIUR, ha pubblicato, inoltre, il Quaderno di Eurydice
n. 21, 2002: Standard professionali per l'insegnamento - Inghilterra e Stati
Uniti di America, Firenze, F.&F. Parretti Grafiche. Infine, è in via di
ultimazione il numero monografico del Bollettino di Informazione Internazionale
sui codici deontologici e gli standard della professione insegnante in alcuni
paesi europei.
3.
Nel settembre 2003 i Ministri Europei dell'Istruzione si riuniranno a Berlino
per parlare del follow-up della Dichiarazione di Bologna. Le Università si
stanno preparando all'incontro. È appena uscito, a cura dell'European
University Association - EUA, il documento Survey on Master Degrees and Joint
Degrees in Europe, settembre 2002, Christian Tauch and Andrejs Rauhvargers,
European Commission, Directorate General for Education and Culture.