WELFARE E LAVORO
di Giuliano Cazzola
1. Il dibattito sull’extradeficit, la scelta di non
procedere ad una manovra correttiva, la Finanziaria per il 2002.
Questa parte del Rapporto inizia dal punto in cui era
terminato quello dell’anno scorso. Allora, l’analisi si fermava al momento del
“cambio della guardia” tra la maggioranza di centro-sinistra che aveva
governato nella passata legislatura e la Casa delle libertà che aveva vinto le
elezioni. Le considerazioni svolte si fermano al primo anno di attività del
Governo Berlusconi: in pratica, arrivano fino alla presentazione del Dpef,
prima, e del disegno di legge finanziaria, poi. La scelta è dettata non solo da
motivi operativi, ma si fonda piuttosto su di una convinzione: il Governo ha
perduto nel primo anno di attività troppe occasioni, al punto che quella
“renitenza alle riforme” viene pagata adesso in termini difficilmente
recuperabili.
Appena
ottenuta la fiducia, il Governo Berlusconi si è trovato a gestire il “buco” nei
conti pubblici ereditato dall’Esecutivo presieduto da Giuliano Amato.
L’effettiva sussistenza e le reali dimensioni del maggiore deficit sono rimaste
a lungo imprecisate: anzi vi è stato un balletto di cifre tra il titolare del
superdicastero dell’Economia, la Rgs e la Banca d’Italia che suscitato parecchi
problemi. Poi, a consuntivo, è venuto il responso: l’indebitamento all’1,4% del
Pil rispetto all’0,8% indicato.
La
situazione dei conti pubblici poteva essere assunta, nella tarda primavera del
2001, dalla nuova compagine governativa per impostare una politica di rigore,
dal momento che era stato riconfermato (anche in sede di Dpef) l’obiettivo di
un disavanzo nella misura dello 0,8% del Pil. Invece, il Governo (mentre si
annunciava un rallentamento dell’economia internazionale) ha preferito perseguire una sorta di “via
italiana” allo sviluppo, affidata alle politiche del c.d. pacchetto Tremonti.
I
propositi del Governo sono stati enunciati subito con chiarezza: pur
riconfermando che l’Italia avrebbe
pareggiato il bilancio nel 2003, il Governo ha ribadito che in nessun caso vi sarebbero state manovre
correttive; il riassetto dei conti pubblici sarebbe derivato da un più
sostenuto sviluppo economico e dal concreto avvio delle riforme strutturali. A
nulla valse osservare che un migliore
andamento economico non sarebbe potuto sbocciare in un solo fortunato paese, in
base a scelte che i suoi governanti erano stati in grado di immaginare, in
perfetta solitudine. Sarebbe stata, ancora una volta, la congiuntura
internazionale e soprattutto quella americana (come del resto si incaricarono
di dimostrare al contrario, i tragici avvenimenti dell’11 settembre), a
scandire i trend della crescita economica.
Alla
luce di queste scelte, anche la manovra di bilancio per il 2002 è stata
fortemente condizionata dalla strategia dei piccoli passi. Basta vedere il quadro
macroeconomico preso a riferimento per la legge finanziaria. Nel 2002 venne
prevista una crescita del 2,3% con un
tasso di inflazione dell’1,7%. Poi, stime più recenti ridimensionarono quelle
aspettative (crescita + 1,4%, inflazione + 2,1%). Per riportare il deficit alle
indicazioni del patto di stabilità e realizzare il pareggio nel 2003 si ritenne
necessario, per il 2002, un aggiustamento di 17 miliardi di euro. La manovra
venne centellinata: le spese correnti indicate in discesa dello 0,3% sul Pil;
quelle in conto capitale date in aumento dello 0,1; la pressione fiscale in
calo dello 0,3% mentre le entrate in ascesa dello 0,3%, in larga misura per
effetto della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico. Anzi
l’anticipazione su queste vendite è diventata, nei fatti e con un provvedimento
separato, il pezzo forte della manovra di finanza pubblica.
E
con queste risorse il Governo ha potuto fare fronte ai miglioramenti del
trattamento fiscale per le famiglie e all’incremento delle pensioni minime, con
oneri previsti, rispettivamente di 1,1 e 2,18 miliardi di euro.
Intanto,
il pacchetto Tremonti, approvato in tempi abbastanza rapidi da una maggioranza
solidale finiva per impattarsi su di una situazione economica depressa, per
giunta ben presto frastornata dalla tragedia dell’11 settembre. E per scivolare
via senza aver dispiegato (la considerazione
è ancora valida ed attuale) gli effetti attesi. Del resto, che in mancanza di riforme capaci di incidere sulla
spesa, l’economia restasse ingessata dovette riconoscerlo lo stesso Governo,
come risulta dai dati ufficiali (di cui alla tavola n. 1) desunti dalla
relazione previsionale e programmatica presentata nell’ottobre 2001.
Tav. 1
Conto della Pubblica Amministrazione (in % del Pil)
|
2000
|
2001
|
2002
|
Entrate
|
|
|
|
-
correnti
|
45,4
|
45,4
|
45,1
|
-
in conto capitale
|
0,4
|
0,7
|
1,4
|
Uscite
|
|
|
|
-
correnti al netto di interessi
|
37,1
|
37,2
|
37,3
|
-
interessi
|
6,5
|
6,2
|
5,8
|
-
in conto capitale
|
3,7
|
3,8
|
3,9
|
Indebitamento netto
|
1,5
|
1,1
|
0,5
|
Fonte: Relazione previsionale e programmatica
In
verità, in seguito, queste previsioni
si sono rivelate assai ottimistiche. In tale contesto, fin dai primi atti di
politica economica del Governo era possibile trarre alcune valutazioni: non vi
erano le condizioni per realizzare, a breve, una riduzione della pressione
fiscale né una riduzione sostanziale della spesa corrente, mentre per quella in
conto interessi il paese sembrava condannato a trovare compensazioni in consistenti
avanzi primari sottratti allo sviluppo (le spesa per investimenti rimaneva,
infatti, stazionaria). Se queste erano le condizioni del 2002 risultò ben
presto evidente che non sarebbe stato facile poter conseguire, a partire dal 2003, gli obiettivi indicati nel
disegno di legge delega in materia fiscale. Non si dimentichi, poi, che la
questione della ripartizione del gettito fiscale tra Centro e periferia (ovvero
tra Stato e Regioni) è lo snodo fondamentale del processo di federalismo, nel
senso che deve esservi corrispondenza tra la funzioni attribuite alle Regioni e
le risorse ad esse riconosciute. Va riconosciuto al Governo di aver immaginato
alcune operazioni finanziarie audaci, tra le quali vanno certamente annoverate
le misure per il rientro dei capitali (il c.d scudo fiscale), la
cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (un provvedimento
comunque di grande complessità), la riforma delle fondazioni bancarie, i
risultati delle quali hanno avuto andamenti non sempre lineari, tali da consentire
giudizi definitivi e compiuti. In sintesi, la tabella che segue riassume la
manovra per il 2002.
Tav. 2 - La manovra per il 2002 (in milioni
di euro)
SPESE
|
2.380
|
ENTRATE
|
11.480
|
Minori
spese
|
3.870
|
Minori
entrate
|
3.260
|
Pubblico impiego
|
810
|
Aumento detraz. figli a carico
|
1.130
|
Consumi intermedi
|
590
|
Altre entrate
|
2.130
|
Altre spese
|
2.470
|
Maggiori
entrate
|
14.740
|
Maggiori
spese
|
6.250
|
Dismissioni immobili
|
7.740
|
Contratti
|
1.850
|
Entrate dal sommerso
|
1.030
|
Pensioni minime
|
2.180
|
Rientro capitali
|
980
|
Occupazione
|
1.290
|
Rivalutazione cespiti
|
2.550
|
Altre spese
|
930
|
Altre entrate
|
2.440
|
RIDUZIONE NETTA INDEBIT.
PUBBLICA AMMINITR.
|
9.100
|
|
|
Fonte: Monitor n. 3 2001
Una
segnalazione particolare merita la questione della cartolarizzazione. Il 3
luglio di quest’anno l’Eurostat ha disposto che i proventi della
cartolarizzazione di Lotto ed Enalotto (3 miliardi di euro) non potessero
essere contabilizzati nel 2001 e quindi non potessero ridurre l’indebitamento
di quell’anno, ma dovessero essere spalmati nei prossimi tre anni in ragione di un miliardo l’anno. Con i
medesimi criteri per quanto riguarda le dismissioni immobiliari il valore
totale della transazione del 2001 (3,7 miliardi di euro al netto degli sconti
agli inquilini) è stato distribuito rispettivamente in quota 2 miliardi nel
2002 e 1,7 miliardi di euro nel 2003. Tutto ciò ha comportato una revisione al
rialzo al 2,2% dell’indebitamento del 2001.
2. La Finanziaria 2002: una manovra attendista.
Sulla
finanziaria 2002, il commento più azzeccato lo hanno fatto – a microfoni spenti
e in confidenza – gli stessi esponenti del Governo: quella del 2002 è stata una
Finanziaria provvisoria. Le riforme sono state affidate ai disegni di legge
collegati. Il Governo, avendo a
disposizioni un’intera legislatura, ha
ritenuto di prendere tempo, soprattutto in un momento in cui la situazione
internazionale appariva critica, dopo i tragici fatti delle Twin Towers. Fin
dall’inizio è apparso dubbio, però, che la manovra fosse in grado di
raddrizzare i conti del Paese e di dispiegare le vele della finanza pubblica al
vento del patto di stabilità. A fronte di incrementi di spesa certi (solo a
posteriori si è scoperto che gli oneri di alcuni provvedimenti di carattere
sociale – è il caso delle pensioni
integrate fino a 516,5 euro – erano
sovrastimati) veniva indicata una griglia di entrate assai poco sicure.
Sembravano troppo generose, infatti, le previsioni di entrata derivanti dalla
lotta al sommerso (l’esperienza ha confermato questa valutazione) e i risparmi
connessi alla c.d. riduzione della spesa primaria (i tagli alla pubblica
amministrazione). A quest’ultimo proposito va ricordato che la Finanziaria
conteneva (in sede di disegno di legge) un ampio e interessante programma di outsourcing
– verso il privato – di funzioni svolte dalla pubblica amministrazione ed
indicava i criteri di una vasta modifica degli ordinamenti allo scopo di
“privatizzare”, sia a livello istituzionale sia a quello gestionale, gli enti e
le amministrazioni (su questa materia, poi, è prevalsa la solita prudenza in
sede di applicazione). Del resto, già in sede di approvazione della legge,
l’operazione era stata caricata di cautele e garanzie. Un piano tanto
ambizioso, poi, non poteva prescindere da un intervento radicale sui rapporti
di lavoro. A scorrere le norme in materia di personale, invece, ben pochi sono
stati i cambiamenti. Non si è parlato di miglioramenti economici sulla base del
merito; al massimo si è bloccato il turn over (da tale misura deriva infatti la
prevista riduzione del 2% degli occupati
in un paio di anni: in realtà sono soltanto l’effetto del pensionamento) e si
sono stabiliti criteri per meglio controllare in maniera più seria la prassi
degli accordi integrativi, che ha consentito in tutti questi anni alle
amministrazioni di eludere, a favore del proprio personale, i vincoli (in
verità molto laschi) posti nella contrattazione nazionale. Poi, anche quanto
restava dei buoni propositi in materia del pubblico impiego è stato travolto
dalla esigenza politica di disinnescare il conflitto coi sindacati per quanto
riguarda il rinnovo dei contratti pubblici: l’accordo-quadro raggiunto a
febbraio 2002 era oneroso, privo di
copertura finanziaria e non ha consentito, per altro, il superamento di una condizione
di conflittualità che è continuata.
Va
ricordato, a onor del vero, che (al pari di altre autorità internazionali)
l’Unione europea, in sede di consuntivo, non ha sollevato particolari critiche
ai nostri conti pubblici e che ha preso per buone le nostre valutazioni circa
il rientro nel 2003.
3. L’andamento dell’occupazione.
Discreti
i trend sul piano dell’occupazione, al punto che i dati relativi meritano un
minimo di approfondimento.
A
parte il dato del tasso di disoccupazione sceso al di sotto del 10%, le
principali novità del mercato del lavoro riguardano una tendenza
all’accelerazione del ritmo di crescita annuale dell’occupazione (+ 2,1% nel
2001 contro l’1,9% del 2000). Il numero degli occupati ha così raggiunto un
nuovo massimo storico (21,514 milioni) dal 1993. Dei 434.000 nuovi posti di
lavoro creati durante l’anno, oltre due terzi riguardano donne, le quali
contraddistinguono ormai l’incremento dei livelli di occupazione totale
ininterrottamente dal 1995 (3,8% di variazione nella media del 2001 contro l’1%
dei maschi). Per quanto riguarda il profilo settoriale, sono i servizi e le
costruzioni a dare il maggiore contributo all’espansione degli occupati, mentre
nell’industria in senso stretto è proseguito il processo di espulsione di
manodopera. In agricoltura, invece, dopo anni di declino, è in atto
un’inversione di tendenza. Un altro segnale positivo proviene dal Sud, che si
sta rivelando come l’area più dinamica (+ 2,7% il tasso di crescita annuale),
anche se nelle regioni meridionali si trovano
i 2/3 del totale delle persone in cerca di lavoro. Uno sguardo alla sottostante
tabella (tav. 3) consente di cogliere gli andamenti descritti nel loro insieme
e in sequenza storica.
Tav. 3 - Variazione annuale dell’occupazione e % degli apporti delle diverse tipologie di
lavoro.
|
1998
|
1999
|
2000
|
2001
|
Occupati totali, di cui:
|
1,1
|
1,3
|
1,9
|
2,1
|
Autonomi
|
0,2
|
-0,1
|
0,4
|
0,3
|
-
a tempo pieno
|
0,2
|
-0,2
|
0,3
|
0,3
|
-
a tempo parziale
|
|
0,1
|
0,1
|
|
Dipendenti
|
0,9
|
1,4
|
1,5
|
1,8
|
-
tipici
|
|
0,2
|
0,5
|
1,6
|
-
atipici, di cui
|
0,9
|
1,2
|
1,0
|
0,2
|
--- permanenti a tempo parziale
|
0,3
|
0,4
|
0,4
|
0,3
|
--- a termine a tempo pieno
|
0,3
|
0,6
|
0,4
|
|
--- a termine a tempo parziale
|
0,3
|
0,2
|
0,2
|
-0,1
|
Fonte – elaborazione Isae su dati Istat
Balza
subito in evidenza, nel 2001, la buona performance del lavoro dipendente
“tipico” (ovvero caratterizzato da contratti a tempo pieno e a durata
indeterminata), una tendenza confermata anche nei primi mesi del 2002. Tale
fenomeno sembrerebbe non confermare quanto si ritiene comunemente: e cioè che
la nuova occupazione sarebbe connotata da rapporti flessibili e precari. Tra
l’altro, l’incremento di 392mila assunzioni “tipiche” registrato nell’ottobre
scorso ha abbondantemente compensato la perdita di 100mila posti di lavoro a
tempo determinato, in confronto all’anno precedente. Del caso sono state date
differenti spiegazioni (sullo sfondo, peraltro, del dibattito aperto a seguito
del disegno di legge delega sul mercato del lavoro, con inclusa la revisione
dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, poi stralciata ed accantonata in
seguito alla stipula del Patto per l’Italia nel luglio scorso). Da parte
sindacale, per esempio, si è sostenuto che quando l’economia marcia a trend
sostenuti le imprese non hanno problemi ad assumere stabilmente la manodopera.
Un’analisi questa non pienamente convincente dal momento che il 2001 non è
stato un anno particolarmente favorevole. E’ vero, comunque, che sono in atto
processi tendenti ad abbassare la c.d. soglia di occupazione: vale a dire il
valore del tasso di crescita del Pil necessario affinché ad esso si accompagni
una variazione positiva dell’input di lavoro. Così, la crescita del Pil nell’ultimo trimestre del 2001 è stato pari
ad 1,9% e si è associata ad un tasso di incremento delle unità di lavoro
standard dell’1,8%. Solo a metà degli anni ’90 ad un incremento del prodotto di
analoga entità si univa una dinamica di crescita dell’occupazione dell’1% circa
(ovvero quasi della metà).
La
valutazione più corretta (e ricavabile dall’esperienza) del fenomeno sembra
essere un’altra. In pratica, le imprese si sono avvalse, il più possibile,
degli strumenti di flessibilità per assicurarsi la manodopera di cui hanno
bisogno. Ormai il ricorso al lavoro interinale (si stipulano almeno 400mila
contratti all’anno) sostituisce un collocamento che non funziona, nonostante le
riforme. In seguito – magari in una seconda fase – le imprese si avvalgono dei
contratti a termine. Prima o poi, però, specie nelle aree dove il mercato del
lavoro è squilibrato (per difetto) dal lato della offerta, si pone il problema
di “fidelizzare” i propri dipendenti. Così, in larga misura, le assunzioni a
tempo indeterminato (riscontrate nel 2001) si collocano a conclusione di un
iter lavorativo iniziato, anni prima, grazie alle forme di flessibilità o alle
agevolazioni fiscali. Importante è stato lo strumento del credito di imposta
accordato dalla legge n. 388/2000, che ha reso più convenienti per i datori
l’assunzione di manodopera “tipica” a tempo indeterminato. Anzi, c’è da
ritenere che i crediti di imposta più che determinare nuovo lavoro abbiano consentito
di far emergere lavoro sommerso. In sostanza, in assenza di queste forme,
probabilmente, le imprese non avrebbero mai assunto nuova manodopera o
sarebbero state comunque più restie ad emergere. Pertanto, l’impiego stabile –
seppure a scadenza differita – non vi sarebbe mai stato. Il quadro generale del
mercato del lavoro è notevolmente migliorato negli ultimi tempi (con un tasso
di crescita dell’occupazione del 2,1% nel 2001). Il saggio dell’occupazione si
è attestato nel 2001 al 54,6% (era al 50,6% nel 1995). Il tasso di
disoccupazione è tornato, dopo dieci anni, sotto il 10%. Discreti pure gli
andamenti della componente femminile, il cui peso è aumentato e si è collocata,
nel 2001, al 37,5% (contro una media del 42% della Ue). Quella maschile si è attestata a livello del
56,9%. Nonostante questi progressi, il nostro Paese resta lontano dagli
obiettivi della Unione (concordati a Stoccolma nel marzo 2001), laddove vengono
indicati alcuni traguardi ambiziosi: il raggiungimento, nel 2005, di un saggio
di occupazione del 57% e del 67%, rispettivamente per le lavoratrici e per i
lavoratori. Ancor più singolare è l’obiettivo proposto per la popolazione
compresa nella fascia di età tra 55 e 64 anni. Nel 2010, l’Italia – che ora ha
il record negativo del 28% – dovrebbe arrivare al 50% (anche il Governo
italiano si è dato nel Nap sull’occupazione questo stesso obiettivo) o più
prudentemente dovrebbe concorrere almeno a far sì che l’Unione raggiunga
mediamente tale risultato.
Scheda:
Obiettivi della Unione europea da
raggiungere entro il 2010 (Consiglio di
Lisbona 2000)
(Tra parentesi i rispettivi tassi “di
partenza” relativi all’Italia)
Tasso di occupazione:
70%
(54,6%: + 5 punti rispetto al 1995)
Tasso di occupazione femminile:
60%
(41%: +6 punti rispetto al 1995)
Tasso di occupazione degli anziani (55-64
anni):
50% (28%)
Scheda:
Obiettivi del Piano nazionale d’azione per
l’occupazione del Governo italiano (giugno 2002)
(target quantitativi per il 2005)
Tasso di occupazione generale:
58,5% (+ 4 punti)
Tasso di occupazione delle donne:
46%
(+5 punti)
Tasso di occupazione degli anziani:
40%
(+12 punti)
4.
Le riforme mancate: la previdenza
L’obiettivo dell’innalzamento del tasso d’occupazione
(specie nel segmento strategico dei lavoratori più anziani) si collega
coerentemente al posticipo dell’età effettiva di pensionamento, secondo le
indicazioni del Consiglio di Barcellona (raggiungere nella media europea un’età
effettiva di quiescenza più alta di 5 anni: da 58 a 63). E qui il discorso
porta alla riforma delle pensioni (e al nodo critico dei trattamenti di
anzianità): un’esigenza che si pone ormai non solo sul piano della finanza
pubblica e dell’equità intergenerazione, ma anche sul versante del mercato del
lavoro. In tale contesto, nella
politica economica del Governo rimangono troppi nodi non sciolti, appuntamenti
mancati, obiettivi non centrati o di problematica realizzazione. In sostanza,
non si capisce come potranno “quadrare” tra loro i pezzi di un mosaico di
finanza pubblica chiamato a raggiungere, l’anno prossimo, un pareggio di
bilancio ancora lontano (il deficit del 2001 – lo abbiamo già ricordato – è
stato pari all’1,4% del Pil), in un contesto generale in cui sono previsti,
insieme, un incremento delle risorse rivolte agli investimenti e alle
infrastrutture e una riduzione della pressione fiscale: il tutto in assenza di
adeguate misure di riduzione della spesa pubblica corrente. Il Governo avrebbe
dovuto varare, appena insediato, una manovra correttiva. Ve ne era la
convenienza sul piano politico (lo scostamento – qualunque fosse l’entità – era
attribuibile ai Governi precedenti) e, soprattutto, si avvertiva fin
dall’inizio che l’obiettivo del - 0,8% sul Pil non era più raggiungibile. Il
Governo escluse fin dall’inizio interventi correttivi (si pensi anche al
colpevole ritardo con cui si è affrontato il problema della spesa farmaceutica
messa fuori controllo da provvedimenti sbagliati – l’abolizione dei ticket –
assunti dal Governo Amato). La prospettiva delle riforme e stata affidata a tre
disegni di legge delega: in materia fiscale, del lavoro e previdenziale. Le
vicende successive sono purtroppo note: il dialogo sociale si è infranto sullo
scoglio della revisione dell’articolo 18 dello statuto del 1970, da cui è nata una conflittualità che ha inciso
negativamente sulla ripresa economica.
L’incespicare
dei conti pubblici non è un segno
particolarmente grave, ma tutto il sistema è destinato a soffrire in
conseguenza di performance di finanza pubblica che finiscono per “ingessare” in
tutti i sensi la situazione. Quello delle pensioni è il settore più a rischio e
bisognoso di ulteriori interventi. Per farsi un’opinione non pregiudiziale
basta leggere la relazione tecnica recentemente predisposta per il disegno di
legge delega (l’Atto Camera 2145 che riprende il “cammino del gambero” in
Commissione Lavoro). Il provvedimento è privo di adeguata copertura, tanto che
toccherà alla Finanziaria reperire le risorse necessarie a fronteggiare il solo
elemento di carattere strutturale contenuto nelle delega e cioè la
decontribuzione a favore dei nuovi assunti quale corrispettivo dello smobilizzo
generalizzato e “obbligatorio” del tfr. In sostanza, il Governo conferma che
l’elevazione graduale dell’aliquota della gestione dei parasubordinati – la
sola maggior entrata certa – non è sufficiente a compensare, nel tempo, il
venir meno del gettito relativo al taglio del prelievo sui nuovi assunti. Del
resto, la stessa relazione pone sotto tiro – con esiti non proprio lusinghieri
– anche le misure riguardanti i trattamenti obbligatori. Così, si stima che la
c.d. certificazione dei diritti (pensata per scoraggiare gli esodi dettati dal
timore di imminenti “giri di vite” sui requisiti e le regole) dovrebbe
convincere solo il 4% degli aventi diritto a posticipare il pensionamento (per
un periodo medio di un anno), mentre il “pacchetto” degli incentivi al
proseguimento volontario in regime di novazione del rapporto (a termine) viene
giudicato “neutrale” ai fini della finanza pubblica (la relazione dà esplicita
testimonianza dei risultati scadenti – 300 aderenti a tutto febbraio 2002 –
realizzati con la vigente normativa introdotta dalla legge n. 388/2000). Per
quanto riguarda, invece, la totale abolizione del divieto di cumulo tra
pensione di anzianità e reddito, viene suggerito un marchingegno volto ad
evitare che la misura si traduca in un’ulteriore perdita: il beneficio sarebbe
riconosciuto soltanto a coloro che accettano di pensionarsi con requisiti di
età e anzianità maggiori di quelli di volta in volta stabiliti. Ma l’aspetto
più problematico è un altro. E’ noto che i sindacati hanno criticato
(promuovendo scioperi e manifestazioni) la delega su di un punto specifico. A
loro avviso, la riduzione di alcuni punti di aliquota per i nuovi assunti
provocherebbe, nell’ambito del modello contributivo, un abbattimento del
montante; da ciò deriverebbe, per le giovani generazioni, una prestazione
ancora più modesta di quella già mortificata dalle riforme. All’obiezione
veniva naturale rispondere che la minore protezione pubblica sarebbe stata
surrogata da una più consistente copertura privata, mediante una solida quota
di previdenza complementare, finanziata dal tfr. In tal senso sembrava logico
interpretare l’inciso (contenuto nella delega), in forza del quale la riduzione
da 3 a 5 punti degli oneri contributivi, a carico del datore, dovesse avvenire
“senza effetti negativi sulla determinazione dell’importo pensionistico del
lavoratore”. La relazione tecnica ha invece saltato il fosso, affermando
esplicitamente che l’assenza di “effetti negativi” riguarderà il trattamento
pensionistico obbligatorio e che alla riduzione dell’aliquota di
finanziamento non corrisponderà, pertanto, la riduzione di
quella di computo. In soldoni: sui nuovi assunti il prelievo sarà del 28% ma
l’accredito resterà pari al 33% della retribuzione.
La
scelta ha suscitato le preoccupazioni della Ragioneria dello Stato, la quale si
è affrettata a ricordare che non devono esserci oneri aggiuntivi per la
fiscalità generale. Sarebbe il caso, dunque, che si adottassero misure
rigorose, idonee a garantire sicuri contenimenti di spesa. Solo così si potrà
salvaguardare il solo profilo riformatore della delega: decontribuzione versus
smobilizzo del tfr. Le tabelle seguenti (tav. 4.1 e tav. 4.2) mettono a
confronto, la prima, la perdita di gettito che si stima derivare dalla
decontribuzione con le maggiori entrate provenienti dall’incremento
dell’aliquota della gestione dei parasubordinati; la seconda stima quale
sviluppo dell’occupazione sarebbe necessario per assicurare la copertura del
minor gettito contributivo.
Tav. 4. 1 Confronto tra il minor gettito per il Flpd
e le maggiori entrate per la gestione dei
parasubordinati
(in milioni di euro).
Anno
|
Fpld
|
Minor gettito (1)
|
|
Gestione
parasubord.
|
|
|
Riduzione
aliquota 3 punti
|
Riduzione
aliquota 4 punti
|
Riduzione
aliquota 5 punti
|
Misura
aliquota %
(2)
|
Maggiori
entrate
|
2002
|
74
|
99
|
124
|
13,5
|
123
|
2003
|
231
|
308
|
385
|
14,5
|
134
|
2004
|
397
|
529
|
661
|
15,6
|
265
|
2005
|
562
|
750
|
937
|
16,6
|
275
|
2006
|
716
|
954
|
1.193
|
17,7
|
308
|
2007
|
858
|
1.144
|
1.431
|
17,9
|
202
|
2008
|
992
|
1.322
|
1.653
|
18,1
|
234
|
2009
|
1.137
|
1.516
|
1.895
|
18,3
|
128
|
2010
|
1.289
|
1.719
|
2.148
|
18,5
|
159
|
2011
|
1.461
|
1.948
|
2.435
|
18,7
|
52
|
2012
|
1.650
|
2.200
|
2.750
|
18,9
|
67
|
2013
|
1.850
|
2.467
|
3.083
|
19,0
|
|
2014
|
2.067
|
2.756
|
3.445
|
19,0
|
|
2015
|
2.298
|
3.064
|
3.830
|
19,0
|
|
(1)
Numero stimato di lavoratori nuovi assunti indipendentemente dalla tipologia di
assunzione: mediamente 400mila unità/anno, in coerenza con le ipotesi del
modello previsionale INPS 2002.
(2)
Ipotesi di aumento dell’aliquota Ivs dei lavoratori subordinati equiparata dal 2006 a quella dei
commercianti.
Fonte:
Inps 2002.
Tav. 4. 2 Decontribuzione ( 5 punti), perdita di
gettito, canali di compensazione
Anni
|
Perdita di gettito
|
Perdita di gettito
|
Tasso di
occupazione totale
15-64 anni %
|
Tasso di occupazione
|
|
Miliardi di lire 2001
(e in miliardi di
euro)
|
In % su Pil
|
Scenario di base
Rgsper
|
Tasso necessario a
compensare la
perdita
di gettito
|
2001
|
|
|
53,8
|
53,8
|
2002
|
241,1 (0,12)
|
|
54,0
|
54,2
|
2003
|
725,1 (0,37)
|
|
54,3
|
54,5
|
2004
|
1.263,4 (0,65)
|
0,1
|
54,5
|
54,9
|
2005
|
1.782,4 (0,92)
|
0,1
|
54,7
|
55,2
|
2010
|
4.691,0 (2,42)
|
0,2
|
55,9
|
57,1
|
2015
|
8.172,2 (4,22)
|
0,3
|
57,1
|
59,0
|
2020
|
12.677,1 (6,55)
|
0,4
|
58,2
|
61,0
|
2025
|
18.284,7 (9,44)
|
0,5
|
59,3
|
63,0
|
2030
|
24.474,9 (12,74)
|
0,6
|
60,4
|
65,1
|
2035
|
28.803,5 (14,88)
|
0,7
|
61,5
|
66,9
|
Fonte : elaborazione CsC su dati Rgs, Inps e Istat
Almeno
per quanto riguarda il futuro, l’impianto culturale su cui poggia la proposta
del Governo è abbastanza solido proprio perché tenta di dar vita, con un
adeguato flusso di risorse, ad un sistema misto, chiamato necessariamente,
nella fase di transizione a mettere in conto un incremento del disavanzo,
soprattutto quando, come è necessario, vengono previste misure di
decontribuzione atte a consentire un allargamento delle disponibilità economiche
in direzione dei fondi. Tra i tanti motivi che inducono a costruire, in futuro,
una prospettiva pensionistica fondata su due o tre pilastri (uno obbligatorio a
ripartizione, gli altri privati e/o negoziali a capitalizzazione, collettivi
e/o individuali) vi è anche la convinzione di un possibile maggior rendimento
(la valutazione si basa sull’analisi di performance di lungo periodo dei
mercati finanziari) proveniente dalle risorse investite nell’economia reale. La
finanza di natura previdenziale, poi, è per sua natura portata a garantire
standard di rendimento stabili e duraturi, nell’arco di alcuni decenni;
pertanto, non è adatta a cimentarsi su
investimenti di carattere speculativo. Certo, i fondi pensione non faranno mai
miracoli: è noto infatti che, negli ultimi anni critici, i rendimenti dei fondi
pensione, sia chiusi che aperti, sono
stati – nel 2000 – appena competitivi con i rendimenti che la legge assicura, a
tavolino, al tfr. Nel 2001, invece, le cose sono andate ancora peggio: i
maggiori fondi hanno avuto performance assai modeste o addirittura negative.
Nel 2000, infatti, per effetto del meccanismo di rivalutazione previsto (tasso
annuo dell’1,5% più il 75% dell’inflazione) il tfr ha spuntato un rendimento
del 3,5% contro il 3,6% medio dei fondi chiusi
e il 2,9% di quelli aperti.
Nel
2001, gli otto fondi chiusi operativi hanno ottenuto un rendimento medio
negativo dello 0,5% rispetto al + 3,2% del tfr.
Ancora
più deludente il paragone se si osserva al biennio 2000-2001: la performance è
ragguagliata al 3,1% contro il 6,7% offerto dal tfr. Ancor più significativo,
nel 2001, l’andamento dei singoli fondi chiusi. I dati Covip (la Commissione di
vigilanza) collocano al primo posto il rendimento di Cooperlavoro (cooperative
di produzione e lavoro) con un tasso del 6,03%. In verità, tale risultato è
dovuto al fatto che gli investimenti sono partiti solo nel settembre 2001,
mentre prima il patrimonio era investito in liquidità e quindi in investimenti
a basso rischio ma redditizi (la vicenda, comunque, è assai indicativa di un
certo andazzo). Scadenti le performance di Cometa, l’ammiraglia dei
metalmeccanici (0,23%) e del Fondo quadri e capi Fiat (0,20%). Buono il
risultato del Fondodentisti che è il
solo multicomparto (ovvero ha più linee di investimento). La linea più prudente
ha realizzato il 4,86%, mentre le altre due, più aggressive, hanno registrato
perdite rispettivamente dell’1,3% e dell’8,47%. Negativo anche il trend del
Fonchim, il fondo dei chimici (-1,46%). Il discorso cambia, però, se si guarda
all’esperienza dei fondi pensione in una prospettiva più lunga. Il Fonchim, ad
esempio, dal 1998 alla fine del 2000, ha spuntato un rendimento complessivo del
18,3% (superiore di almeno 5 punti rispetto a quello del tfr).
Sono
critiche, invece, le performance dei fondi aperti (quelli istituiti da
operatori e soggetti del mercato:
assicurazioni, banche, sim, società di fondi comuni) che offrono diverse linee
di investimento (e, conseguentemente, diversi gradi di rischio). Considerando
l’insieme dei comparti, il rendimento medio aggregato è risultato negativo in
misura del 5,6% (rispetto al -6,7% del benchmark): nel biennio 2000-2001 il
calo è del 2,8% contro il -9,4% del parametro di riferimento. La flessione più
pesante – per stare ai dati della Commissione di vigilanza (Covip) – è quella
delle linee azionarie sulla quali si concentra la parte più consistente di
iscritti e contributi: hanno perso il 9,9%, ma il rendimento del benchmark è
andato ancora peggio (-11,4). In flessione anche le linee bilanciate: -4,1% in
un anno, mentre, nel biennio, il risultato è positivo in misura dello 0,1% (a
fronte di un benchmark che ha segnato, invece, rispettivamente -4,8% e
-5,4%).
I
dati contenuti nella relazione istituzionale della Commissione di vigilanza (Covip),
illustrata a Roma lo scorso 21 maggio, danno l’idea precisa di una situazione
in lento ma costante consolidamento.
I fondi pensione in Italia. Dati di sintesi
(dati di fine periodo; importi in milioni di
euro)
|
Fondi
|
Iscritti
|
Risorse d. p.
|
|
03/2002
|
2001
|
2000
|
2001
|
Variaz. %
2001-2000
|
2001
|
Variaz. %
2001-2000
|
Autorizzati
all’esercizio
|
33
|
27
|
23
|
913.202
|
|
2.256
|
|
Autorizzati
alla raccolta
|
9
|
14
|
19
|
96.964
|
|
|
|
Fondi negoziali
totale
|
42
|
41
|
42
|
1.010.166
|
14,1
|
2.256
|
89,5
|
Autorizzati
all’esercizio
|
95
|
94
|
85
|
287.251
|
|
943
|
|
Autorizzati
alla costituzione
|
8
|
8
|
14
|
|
|
|
|
Fondi aperti
totale
|
103
|
102
|
99
|
287.251
|
28,8
|
943
|
71,0
|
Fondi di nuova
istituzione
|
145
|
143
|
141
|
1.297.417
|
17,0
|
3.199
|
83,6
|
Di competenza
COVIP
|
|
418
|
418
|
615.116
|
|
24.626
|
|
Interni a
banche
|
|
149
|
152
|
70.000
|
|
4.400
|
|
Interni ad
assicurazioni
|
|
8
|
8
|
4.500
|
|
569
|
|
Fondi
preesistenti totale
|
|
575
|
578
|
689.616
|
|
29.595
|
|
Totale generale
|
|
718
|
719
|
1.987.033
|
|
32.794
|
|
Fonte- Covip
Emerge
allora che due milioni di lavoratori hanno
già aderito ai fondi negoziali e aperti; gli iscritti ai fondi di nuova
istituzione sono circa il doppio di quelli aderenti ai fondi preesistenti alla
riforma del 1993, benchè il numero di questi ultimi sia maggiore di 5 volte
rispetto a quello dei primi. I due capostipiti dell’esperienza italiana – il
Fonchim e il Cometa, istituiti nel cuore della società industriale,
rispettivamente per i chimici e i metalmeccanici – sono ormai realtà di grande rilievo e di spessore non
solo nazionale. L’attivo netto dei soli fondi di nuova istituzione (nonostante
che il loro numero sia cresciuto di poco) ha ottenuto, nel 2001, un incremento
impressionante, dovuto in prevalenza all’impennata nella raccolta di
contributi.
Anche
i piani individuali pensionistici – uno
strumento innovativo e flessibile, di recente istituzione, in grado di meglio
aderire alle pieghe del mercato – hanno dato buona prova di sé con un numero di
contratti valutabili intorno alle 220mila unità per un valore di 380 milioni di
euro. Vi sono, poi, altri aspetti qualitativi da sottolineare: è in atto una
tendenza all’estensione di tali esperienze in direzione della piccola impresa,
laddove è occupata una quota consistente e dinamica della forza lavoro. Eppure,
ad essere onesti, bisogna riconoscere che permangono, a fianco dei segnali positivi, altrettanti limiti – quasi genetici – che
non sono ancora stati superati e che sono lontani dall’esserlo.
Emerge,
infatti, l’esistenza di un grande
divario tra enormi potenzialità (vi sono 9 milioni di lavoratori subordinati
“coperti” da norme istitutive di forme previdenziali integrative a un qualche
stadio di sviluppo) ed effettiva partecipazione, nel senso che la percentuale di aderenti è veramente
bassa. Inoltre, non è affatto superato lo scarso appeal tra le lavoratrici in
generale e tra i lavoratori più giovani sui quali graverà, invece, il maggiore
ridimensionamento della protezione di mano pubblica (basti pensare che l’età
media degli iscritti ai fondi negoziali è più elevata di quella degli iscritti
ai regimi obbligatori). E’ ancora stentato
il decollo dei fondi dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti. Ma
soprattutto vanno stigmatizzati gli imperdonabili ritardi che
contraddistinguono – spesso per squallide ragioni di bottega sindacale – un
comparto importante e a occupazione stabile come il pubblico impiego.
A
fronte dei successi conseguiti e in presenza di handicap non ancora sconfitti,
è giunto il momento di chiedersi perché non si riesce a modificare un panorama
della previdenza privata a capitalizzazione troppo simile ingessato. Sono i
regimi obbligatori (e più in generale i sistemi tributari) a privare di base
economica i fondi, danneggiando, così, le giovani generazioni, tenute
contemporaneamente a una solidarietà forzata ed onerosa, sul versante delle
ripartizione, per onorare gli impegni verso le coloro che sono usciti dal
mercato del lavoro e condannate a dover provvedere a se stesse nella
costruzione di un secondo pilastro; e magari a compiere tutto ciò nel contesto di una posizione di
lavoro precaria e saltuaria. Tale situazione critica deve essere spezzata. Il
punto di svolta può essere nello “smobilizzo” del trattamento di fine rapporto
e il suo conferimento alle forme
pensionistiche complementari, unitamente alla riduzione dell’aliquota
obbligatoria.
Tutti
gli analisti e gli osservatori, però, sono pronti a giurare – del resto il
ragionamento è facilmente intuibile – che risorse impiegate sui mercati, alla
lunga, sono più redditizie. Ne deriva che un sistema previdenziale misto (in
parte obbligatorio, a ripartizione, con logiche di solidarietà; in parte
privato/contrattuale, a capitalizzazione) è in grado di sopportare meglio
l’impatto violento degli andamenti demografici e della “crisi fiscale” sulle
strutture tradizionali del welfare state, mediante una più accorta
distribuzione del rischio. E se, nel pacchetto, cresce la componente a
capitalizzazione (per definizione maggiormente produttiva), significa che il
medesimo risultato (in termini di prestazione pensionistica) potrà essere
raggiunto con l’impiego (più efficace) di un minor numero di risorse. Del
resto, è altresì noto che le misure di risanamento dei regimi obbligatori
(attuato mediante le riforme del decennio novanta), come hanno risparmiato i
lavoratori più anziani, i quali continueranno ad avvalersi di regole
generose, così graveranno sulle future
generazioni, i cui trattamenti risulteranno fortemente decurtati.
In
proposito, vi è la possibilità di avvalersi, conclusivamente, di fonti ufficiali. Negli ultimi mesi del
2001, in preparazione di quella verifica da tanto attesa e sempre rinviata, ha
lavorato – con serietà – una Commissione tecnica presieduta dal sottosegretario
Alberto Brambilla.
Le
analisi della Commissione hanno diligentemente riordinato quanto si conosceva
già e da sempre: che la fase di transizione della riforma Dini è troppo lunga e
che i deficit previdenziali si intrecciano con il vincoli di bilancio ai fini
del patto di stabilità; che le coorti più anziane sono state troppo protette da
riforme che pure hanno avuto dei meriti indiscutibili; che il presentarsi
all’appuntamento con regole pensionistiche
troppo generose delle generazioni del baby boom provocherà un’impennata
della spesa (la famosa “gobba”) fino al 2030-2035 e che, durante questo periodo,
l’aliquota d’equilibrio (l’indicatore del rapporto tra spesa pensionistica e
retribuzioni degli attivi e quindi dello scambio tra generazioni in un modello
a ripartizione) schizzerà fin verso il 50%, penalizzando le generazioni e
future e drenando ogni risorsa
disponibile, al punto da rendere vana, per loro, ogni concreta possibilità di
costruire un’alternativa privata a capitalizzazione, attraverso la previdenza
complementare.
La
Commissione Brambilla, inoltre, ha rimesso a punto, tra le tante cose, i
calcoli del Nucleo di valutazione sull’andamento della spesa, articolandoli più
diffusamente e li ha raccolti nella tabella che segue.
La spesa pensionistica complessiva e al
netto della inflazione
(media delle variazioni % annue)
|
1990-2000
|
1990-1992
|
1993-1997
|
1998-2000
|
2001-2005
|
2006-2010
|
Totale
|
7,6 (3.9)
|
12,2 (6,1)
|
7,3 (3,8)
|
3,6 (1,9)
|
3,8
(2,3)
|
3,8 (2,3)
|
Dipendenti
privati
|
6,7 (3,0)
|
11,0 (5,0)
|
6,3
(2,8)
|
3,1 (1,4)
|
4,1
(2,5)
|
3,8 (2,2)
|
Dipendenti
pubblici
|
9,6 (5,9)
|
15,9 (9,8)
|
8,8
(5,3)
|
4,5
(2,9)
|
3,1
(1,6)
|
4,1
(2,6)
|
Lavoratori autonomi
|
8,2 (4,5)
|
11,1 (5,0)
|
9,1
(5,6)
|
3,8
(2,1)
|
4,2
(2,7)
|
3,8
(2,3)
|
Di cui
Artigiani e
commercianti
|
11,3 (7,6)
|
14,0 (7,9)
|
12,7 (9,2)
|
6,4 (4,7)
|
7,0
(5,4)
|
5,7
(4,2)
|
Fonte: ministero del welfare
N.B.
a)
le percentuali fra parentesi riguardano la spesa al netto dell’inflazione;
b)
le previsioni dal 2001 al 2010 non includono gli eventuali effetti della
Finanziaria.
Come
si può notare, nel corso del decennio ’90 – quello delle riforme – i trend di
spesa hanno avuto un netto decremento, non dipendente soltanto dalla minore
inflazione. Anche i provvedimenti di riordino hanno prodotto un effetto
virtuoso. Si osservino, altresì, le conseguenze della “svolta” derivante
dall’intervento sui requisiti del pensionamento di anzianità (specie nel
pubblico impiego dove il trend quasi si dimezza) contenuto nella legge n.
449/1997. Tuttavia, la spesa, nel primo decennio del nuovo secolo, tende a
ripartire, anche al netto dell’indicizzazione.