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WELFARE E LAVORO

di Giuliano Cazzola

 

 

 

1. Il dibattito sull’extradeficit, la scelta di non procedere ad una manovra correttiva, la Finanziaria per il 2002.

Questa parte del Rapporto inizia dal punto in cui era terminato quello dell’anno scorso. Allora, l’analisi si fermava al momento del “cambio della guardia” tra la maggioranza di centro-sinistra che aveva governato nella passata legislatura e la Casa delle libertà che aveva vinto le elezioni. Le considerazioni svolte si fermano al primo anno di attività del Governo Berlusconi: in pratica, arrivano fino alla presentazione del Dpef, prima, e del disegno di legge finanziaria, poi. La scelta è dettata non solo da motivi operativi, ma si fonda piuttosto su di una convinzione: il Governo ha perduto nel primo anno di attività troppe occasioni, al punto che quella “renitenza alle riforme” viene pagata adesso in termini difficilmente recuperabili.

 

Appena ottenuta la fiducia, il Governo Berlusconi si è trovato a gestire il “buco” nei conti pubblici ereditato dall’Esecutivo presieduto da Giuliano Amato. L’effettiva sussistenza e le reali dimensioni del maggiore deficit sono rimaste a lungo imprecisate: anzi vi è stato un balletto di cifre tra il titolare del superdicastero dell’Economia, la Rgs e la Banca d’Italia che suscitato parecchi problemi. Poi, a consuntivo, è venuto il responso: l’indebitamento all’1,4% del Pil rispetto all’0,8% indicato. 

La situazione dei conti pubblici poteva essere assunta, nella tarda primavera del 2001, dalla nuova compagine governativa per impostare una politica di rigore, dal momento che era stato riconfermato (anche in sede di Dpef) l’obiettivo di un disavanzo nella misura dello 0,8% del Pil. Invece, il Governo (mentre si annunciava un rallentamento dell’economia internazionale)  ha preferito perseguire una sorta di “via italiana” allo sviluppo, affidata alle politiche del c.d. pacchetto Tremonti.

I propositi del Governo sono stati enunciati subito con chiarezza: pur riconfermando che  l’Italia avrebbe pareggiato il bilancio nel 2003, il Governo ha ribadito che  in nessun caso vi sarebbero state manovre correttive; il riassetto dei conti pubblici sarebbe derivato da un più sostenuto sviluppo economico e dal concreto avvio delle riforme strutturali. A nulla  valse osservare che un migliore andamento economico non sarebbe potuto sbocciare in un solo fortunato paese, in base a scelte che i suoi governanti erano stati in grado di immaginare, in perfetta solitudine. Sarebbe stata, ancora una volta, la congiuntura internazionale e soprattutto quella americana (come del resto si incaricarono di dimostrare al contrario, i tragici avvenimenti dell’11 settembre), a scandire i trend della crescita economica.

Alla luce di queste scelte, anche la manovra di bilancio per il 2002 è stata fortemente condizionata dalla strategia dei piccoli passi.             Basta vedere il quadro macroeconomico preso a riferimento per la legge finanziaria. Nel 2002 venne prevista una crescita del 2,3%  con un tasso di inflazione dell’1,7%. Poi, stime più recenti ridimensionarono quelle aspettative (crescita + 1,4%, inflazione + 2,1%). Per riportare il deficit alle indicazioni del patto di stabilità e realizzare il pareggio nel 2003 si ritenne necessario, per il 2002, un aggiustamento di 17 miliardi di euro. La manovra venne centellinata: le spese correnti indicate in discesa dello 0,3% sul Pil; quelle in conto capitale date in aumento dello 0,1; la pressione fiscale in calo dello 0,3% mentre le entrate in ascesa dello 0,3%, in larga misura per effetto della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico. Anzi l’anticipazione su queste vendite è diventata, nei fatti e con un provvedimento separato, il pezzo forte della manovra di finanza pubblica.

E con queste risorse il Governo ha potuto fare fronte ai miglioramenti del trattamento fiscale per le famiglie e all’incremento delle pensioni minime, con oneri previsti, rispettivamente di 1,1 e 2,18 miliardi di euro.

Intanto, il pacchetto Tremonti, approvato in tempi abbastanza rapidi da una maggioranza solidale finiva per impattarsi su di una situazione economica depressa, per giunta ben presto frastornata dalla tragedia dell’11 settembre. E per scivolare via senza aver dispiegato (la considerazione  è ancora valida ed attuale) gli effetti attesi.        Del resto, che in mancanza di riforme capaci di incidere sulla spesa, l’economia restasse ingessata dovette riconoscerlo lo stesso Governo, come risulta dai dati ufficiali (di cui alla tavola n. 1) desunti dalla relazione previsionale e programmatica presentata nell’ottobre  2001.

 

Tav. 1  Conto della Pubblica Amministrazione (in % del Pil)

 

 

2000

2001

2002

Entrate

 

 

 

- correnti

45,4

45,4

45,1

- in conto capitale

0,4

0,7

1,4

Uscite

 

 

 

- correnti al netto di interessi

37,1

37,2

37,3

- interessi

6,5

6,2

5,8

- in conto capitale

3,7

3,8

3,9

Indebitamento netto

1,5

1,1

0,5

Fonte: Relazione previsionale e programmatica

 

In verità,  in seguito, queste previsioni si sono rivelate assai ottimistiche. In tale contesto, fin dai primi atti di politica economica del Governo era possibile trarre alcune valutazioni: non vi erano le condizioni per realizzare, a breve, una riduzione della pressione fiscale né una riduzione sostanziale della spesa corrente, mentre per quella in conto interessi il paese sembrava condannato a trovare compensazioni in consistenti avanzi primari sottratti allo sviluppo (le spesa per investimenti rimaneva, infatti, stazionaria). Se queste erano le condizioni del 2002 risultò ben presto evidente che non sarebbe stato facile poter  conseguire, a partire dal 2003, gli obiettivi indicati nel disegno di legge delega in materia fiscale. Non si dimentichi, poi, che la questione della ripartizione del gettito fiscale tra Centro e periferia (ovvero tra Stato e Regioni) è lo snodo fondamentale del processo di federalismo, nel senso che deve esservi corrispondenza tra la funzioni attribuite alle Regioni e le risorse ad esse riconosciute. Va riconosciuto al Governo di aver immaginato alcune operazioni finanziarie audaci, tra le quali vanno certamente annoverate le misure per il rientro dei capitali (il c.d scudo fiscale), la cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (un provvedimento comunque di grande complessità), la riforma delle fondazioni bancarie, i risultati delle quali hanno avuto andamenti non sempre lineari, tali da consentire giudizi definitivi e compiuti. In sintesi, la tabella che segue riassume la manovra per il 2002.

 

Tav. 2 - La manovra per il 2002 (in milioni di euro)

 

 

SPESE

2.380

ENTRATE

11.480

Minori spese

3.870

Minori entrate

3.260

Pubblico impiego

810

Aumento detraz. figli a carico

1.130

Consumi intermedi

590

Altre entrate

2.130

Altre spese

2.470

Maggiori entrate

14.740

Maggiori spese

6.250

Dismissioni immobili

7.740

Contratti

1.850

Entrate dal sommerso

1.030

Pensioni minime

2.180

Rientro capitali

980

Occupazione

1.290

Rivalutazione cespiti

2.550

Altre spese

930

Altre entrate

2.440

RIDUZIONE NETTA INDEBIT. 
PUBBLICA AMMINITR.

9.100

 

 

Fonte: Monitor n. 3 2001

           

Una segnalazione particolare merita la questione della cartolarizzazione. Il 3 luglio di quest’anno l’Eurostat ha disposto che i proventi della cartolarizzazione di Lotto ed Enalotto (3 miliardi di euro) non potessero essere contabilizzati nel 2001 e quindi non potessero ridurre l’indebitamento di quell’anno, ma dovessero essere spalmati nei prossimi tre anni  in ragione di un miliardo l’anno. Con i medesimi criteri per quanto riguarda le dismissioni immobiliari il valore totale della transazione del 2001 (3,7 miliardi di euro al netto degli sconti agli inquilini) è stato distribuito rispettivamente in quota 2 miliardi nel 2002 e 1,7 miliardi di euro nel 2003. Tutto ciò ha comportato una revisione al rialzo al 2,2% dell’indebitamento del 2001. 

 

2. La Finanziaria 2002: una manovra attendista.

Sulla finanziaria 2002, il commento più azzeccato lo hanno fatto – a microfoni spenti e in confidenza – gli stessi esponenti del Governo: quella del 2002 è stata una Finanziaria provvisoria. Le riforme sono state affidate ai disegni di legge collegati.  Il Governo, avendo a disposizioni un’intera legislatura,  ha ritenuto di prendere tempo, soprattutto in un momento in cui la situazione internazionale appariva critica, dopo i tragici fatti delle Twin Towers. Fin dall’inizio è apparso dubbio, però, che la manovra fosse in grado di raddrizzare i conti del Paese e di dispiegare le vele della finanza pubblica al vento del patto di stabilità. A fronte di incrementi di spesa certi (solo a posteriori si è scoperto che gli oneri di alcuni provvedimenti di carattere sociale –  è il caso delle pensioni integrate fino a 516,5 euro – erano  sovrastimati) veniva indicata una griglia di entrate assai poco sicure. Sembravano troppo generose, infatti, le previsioni di entrata derivanti dalla lotta al sommerso (l’esperienza ha confermato questa valutazione) e i risparmi connessi alla c.d. riduzione della spesa primaria (i tagli alla pubblica amministrazione). A quest’ultimo proposito va ricordato che la Finanziaria conteneva (in sede di disegno di legge) un ampio e interessante programma di outsourcing – verso il privato – di funzioni svolte dalla pubblica amministrazione ed indicava i criteri di una vasta modifica degli ordinamenti allo scopo di “privatizzare”, sia a livello istituzionale sia a quello gestionale, gli enti e le amministrazioni (su questa materia, poi, è prevalsa la solita prudenza in sede di applicazione). Del resto, già in sede di approvazione della legge, l’operazione era stata caricata di cautele e garanzie. Un piano tanto ambizioso, poi, non poteva prescindere da un intervento radicale sui rapporti di lavoro. A scorrere le norme in materia di personale, invece, ben pochi sono stati i cambiamenti. Non si è parlato di miglioramenti economici sulla base del merito; al massimo si è bloccato il turn over (da tale misura deriva infatti la prevista riduzione del  2% degli occupati in un paio di anni: in realtà sono soltanto l’effetto del pensionamento) e si sono stabiliti criteri per meglio controllare in maniera più seria la prassi degli accordi integrativi, che ha consentito in tutti questi anni alle amministrazioni di eludere, a favore del proprio personale, i vincoli (in verità molto laschi) posti nella contrattazione nazionale. Poi, anche quanto restava dei buoni propositi in materia del pubblico impiego è stato travolto dalla esigenza politica di disinnescare il conflitto coi sindacati per quanto riguarda il rinnovo dei contratti pubblici: l’accordo-quadro raggiunto a febbraio 2002  era oneroso, privo di copertura finanziaria e non ha consentito, per altro, il superamento di una condizione di conflittualità che è continuata.

Va ricordato, a onor del vero, che (al pari di altre autorità internazionali) l’Unione europea, in sede di consuntivo, non ha sollevato particolari critiche ai nostri conti pubblici e che ha preso per buone le nostre valutazioni circa il rientro nel 2003.

 

3. L’andamento dell’occupazione.

Discreti i trend sul piano dell’occupazione, al punto che i dati relativi meritano un minimo di approfondimento.

A parte il dato del tasso di disoccupazione sceso al di sotto del 10%, le principali novità del mercato del lavoro riguardano una tendenza all’accelerazione del ritmo di crescita annuale dell’occupazione (+ 2,1% nel 2001 contro l’1,9% del 2000). Il numero degli occupati ha così raggiunto un nuovo massimo storico (21,514 milioni) dal 1993. Dei 434.000 nuovi posti di lavoro creati durante l’anno, oltre due terzi riguardano donne, le quali contraddistinguono ormai l’incremento dei livelli di occupazione totale ininterrottamente dal 1995 (3,8% di variazione nella media del 2001 contro l’1% dei maschi). Per quanto riguarda il profilo settoriale, sono i servizi e le costruzioni a dare il maggiore contributo all’espansione degli occupati, mentre nell’industria in senso stretto è proseguito il processo di espulsione di manodopera. In agricoltura, invece, dopo anni di declino, è in atto un’inversione di tendenza. Un altro segnale positivo proviene dal Sud, che si sta rivelando come l’area più dinamica (+ 2,7% il tasso di crescita annuale), anche se  nelle regioni meridionali si trovano i 2/3 del totale delle persone in cerca di lavoro. Uno sguardo alla sottostante tabella (tav. 3) consente di cogliere gli andamenti descritti nel loro insieme e in sequenza storica.

 

Tav. 3 - Variazione annuale dell’occupazione e % degli apporti delle diverse tipologie di lavoro.

 

 

1998

1999

2000

2001

Occupati totali, di cui:

1,1

1,3

1,9

2,1

Autonomi

0,2

-0,1

0,4

0,3

- a tempo pieno

0,2

-0,2

0,3

0,3

- a tempo parziale

 

0,1

0,1

 

Dipendenti

0,9

1,4

1,5

1,8

- tipici

 

0,2

0,5

1,6

- atipici, di cui

0,9

1,2

1,0

0,2

--- permanenti a tempo parziale

0,3

0,4

0,4

0,3

--- a termine a tempo pieno

0,3

0,6

0,4

 

--- a termine a tempo parziale

0,3

0,2

0,2

-0,1

Fonte – elaborazione Isae su dati Istat

 

Balza subito in evidenza, nel 2001, la buona performance del lavoro dipendente “tipico” (ovvero caratterizzato da contratti a tempo pieno e a durata indeterminata), una tendenza confermata anche nei primi mesi del 2002. Tale fenomeno sembrerebbe non confermare quanto si ritiene comunemente: e cioè che la nuova occupazione sarebbe connotata da rapporti flessibili e precari. Tra l’altro, l’incremento di 392mila assunzioni “tipiche” registrato nell’ottobre scorso ha abbondantemente compensato la perdita di 100mila posti di lavoro a tempo determinato, in confronto all’anno precedente. Del caso sono state date differenti spiegazioni (sullo sfondo, peraltro, del dibattito aperto a seguito del disegno di legge delega sul mercato del lavoro, con inclusa la revisione dell’articolo 18 dello Statuto del 1970, poi stralciata ed accantonata in seguito alla stipula del Patto per l’Italia nel luglio scorso). Da parte sindacale, per esempio, si è sostenuto che quando l’economia marcia a trend sostenuti le imprese non hanno problemi ad assumere stabilmente la manodopera. Un’analisi questa non pienamente convincente dal momento che il 2001 non è stato un anno particolarmente favorevole. E’ vero, comunque, che sono in atto processi tendenti ad abbassare la c.d. soglia di occupazione: vale a dire il valore del tasso di crescita del Pil necessario affinché ad esso si accompagni una variazione positiva dell’input di lavoro. Così,  la crescita del Pil nell’ultimo trimestre del 2001 è stato pari ad 1,9% e si è associata ad un tasso di incremento delle unità di lavoro standard dell’1,8%. Solo a metà degli anni ’90 ad un incremento del prodotto di analoga entità si univa una dinamica di crescita dell’occupazione dell’1% circa (ovvero quasi della metà).

La valutazione più corretta (e ricavabile dall’esperienza) del fenomeno sembra essere un’altra. In pratica, le imprese si sono avvalse, il più possibile, degli strumenti di flessibilità per assicurarsi la manodopera di cui hanno bisogno. Ormai il ricorso al lavoro interinale (si stipulano almeno 400mila contratti all’anno) sostituisce un collocamento che non funziona, nonostante le riforme. In seguito – magari in una seconda fase – le imprese si avvalgono dei contratti a termine. Prima o poi, però, specie nelle aree dove il mercato del lavoro è squilibrato (per difetto) dal lato della offerta, si pone il problema di “fidelizzare” i propri dipendenti. Così, in larga misura, le assunzioni a tempo indeterminato (riscontrate nel 2001) si collocano a conclusione di un iter lavorativo iniziato, anni prima, grazie alle forme di flessibilità o alle agevolazioni fiscali. Importante è stato lo strumento del credito di imposta accordato dalla legge n. 388/2000, che ha reso più convenienti per i datori l’assunzione di manodopera “tipica” a tempo indeterminato. Anzi, c’è da ritenere che i crediti di imposta più che determinare nuovo lavoro abbiano consentito di far emergere lavoro sommerso. In sostanza, in assenza di queste forme, probabilmente, le imprese non avrebbero mai assunto nuova manodopera o sarebbero state comunque più restie ad emergere. Pertanto, l’impiego stabile – seppure a scadenza differita – non vi sarebbe mai stato. Il quadro generale del mercato del lavoro è notevolmente migliorato negli ultimi tempi (con un tasso di crescita dell’occupazione del 2,1% nel 2001). Il saggio dell’occupazione si è attestato nel 2001 al 54,6% (era al 50,6% nel 1995). Il tasso di disoccupazione è tornato, dopo dieci anni, sotto il 10%. Discreti pure gli andamenti della componente femminile, il cui peso è aumentato e si è collocata, nel 2001, al 37,5% (contro una media del 42% della Ue).  Quella maschile si è attestata a livello del 56,9%. Nonostante questi progressi, il nostro Paese resta lontano dagli obiettivi della Unione (concordati a Stoccolma nel marzo 2001), laddove vengono indicati alcuni traguardi ambiziosi: il raggiungimento, nel 2005, di un saggio di occupazione del 57% e del 67%, rispettivamente per le lavoratrici e per i lavoratori. Ancor più singolare è l’obiettivo proposto per la popolazione compresa nella fascia di età tra 55 e 64 anni. Nel 2010, l’Italia – che ora ha il record negativo del 28% – dovrebbe arrivare al 50% (anche il Governo italiano si è dato nel Nap sull’occupazione questo stesso obiettivo) o più prudentemente dovrebbe concorrere almeno a far sì che l’Unione raggiunga mediamente tale risultato.

 

Scheda:

Obiettivi della Unione europea da raggiungere  entro il 2010 (Consiglio di Lisbona 2000)

(Tra parentesi i rispettivi tassi “di partenza” relativi all’Italia)

 

Tasso di occupazione:

70% (54,6%: + 5 punti rispetto al 1995)

Tasso di occupazione femminile:

60% (41%:  +6 punti rispetto al 1995)

Tasso di occupazione degli anziani (55-64 anni):

50%  (28%)

 

 

Scheda:

Obiettivi del Piano nazionale d’azione per l’occupazione del Governo italiano (giugno 2002)

(target quantitativi per il 2005)

 

Tasso di occupazione generale:

58,5% (+ 4 punti)

Tasso di occupazione delle donne:

46% (+5 punti)

Tasso di occupazione degli anziani:

40% (+12 punti)

 

 

4. Le riforme mancate: la previdenza

L’obiettivo dell’innalzamento del tasso d’occupazione (specie nel segmento strategico dei lavoratori più anziani) si collega coerentemente al posticipo dell’età effettiva di pensionamento, secondo le indicazioni del Consiglio di Barcellona (raggiungere nella media europea un’età effettiva di quiescenza più alta di 5 anni: da 58 a 63). E qui il discorso porta alla riforma delle pensioni (e al nodo critico dei trattamenti di anzianità): un’esigenza che si pone ormai non solo sul piano della finanza pubblica e dell’equità intergenerazione, ma anche sul versante del mercato del lavoro.  In tale contesto, nella politica economica del Governo rimangono troppi nodi non sciolti, appuntamenti mancati, obiettivi non centrati o di problematica realizzazione. In sostanza, non si capisce come potranno “quadrare” tra loro i pezzi di un mosaico di finanza pubblica chiamato a raggiungere, l’anno prossimo, un pareggio di bilancio ancora lontano (il deficit del 2001 – lo abbiamo già ricordato – è stato pari all’1,4% del Pil), in un contesto generale in cui sono previsti, insieme, un incremento delle risorse rivolte agli investimenti e alle infrastrutture e una riduzione della pressione fiscale: il tutto in assenza di adeguate misure di riduzione della spesa pubblica corrente. Il Governo avrebbe dovuto varare, appena insediato, una manovra correttiva. Ve ne era la convenienza sul piano politico (lo scostamento – qualunque fosse l’entità – era attribuibile ai Governi precedenti) e, soprattutto, si avvertiva fin dall’inizio che l’obiettivo del - 0,8% sul Pil non era più raggiungibile. Il Governo escluse fin dall’inizio interventi correttivi (si pensi anche al colpevole ritardo con cui si è affrontato il problema della spesa farmaceutica messa fuori controllo da provvedimenti sbagliati – l’abolizione dei ticket – assunti dal Governo Amato). La prospettiva delle riforme e stata affidata a tre disegni di legge delega: in materia fiscale, del lavoro e previdenziale. Le vicende successive sono purtroppo note: il dialogo sociale si è infranto sullo scoglio della revisione dell’articolo 18 dello statuto del 1970, da cui è nata  una conflittualità che ha inciso negativamente sulla ripresa economica.

L’incespicare dei conti pubblici  non è un segno particolarmente grave, ma tutto il sistema è destinato a soffrire in conseguenza di performance di finanza pubblica che finiscono per “ingessare” in tutti i sensi la situazione. Quello delle pensioni è il settore più a rischio e bisognoso di ulteriori interventi. Per farsi un’opinione non pregiudiziale basta leggere la relazione tecnica recentemente predisposta per il disegno di legge delega (l’Atto Camera 2145 che riprende il “cammino del gambero” in Commissione Lavoro). Il provvedimento è privo di adeguata copertura, tanto che toccherà alla Finanziaria reperire le risorse necessarie a fronteggiare il solo elemento di carattere strutturale contenuto nelle delega e cioè la decontribuzione a favore dei nuovi assunti quale corrispettivo dello smobilizzo generalizzato e “obbligatorio” del tfr. In sostanza, il Governo conferma che l’elevazione graduale dell’aliquota della gestione dei parasubordinati – la sola maggior entrata certa – non è sufficiente a compensare, nel tempo, il venir meno del gettito relativo al taglio del prelievo sui nuovi assunti. Del resto, la stessa relazione pone sotto tiro – con esiti non proprio lusinghieri – anche le misure riguardanti i trattamenti obbligatori. Così, si stima che la c.d. certificazione dei diritti (pensata per scoraggiare gli esodi dettati dal timore di imminenti “giri di vite” sui requisiti e le regole) dovrebbe convincere solo il 4% degli aventi diritto a posticipare il pensionamento (per un periodo medio di un anno), mentre il “pacchetto” degli incentivi al proseguimento volontario in regime di novazione del rapporto (a termine) viene giudicato “neutrale” ai fini della finanza pubblica (la relazione dà esplicita testimonianza dei risultati scadenti – 300 aderenti a tutto febbraio 2002 – realizzati con la vigente normativa introdotta dalla legge n. 388/2000). Per quanto riguarda, invece, la totale abolizione del divieto di cumulo tra pensione di anzianità e reddito, viene suggerito un marchingegno volto ad evitare che la misura si traduca in un’ulteriore perdita: il beneficio sarebbe riconosciuto soltanto a coloro che accettano di pensionarsi con requisiti di età e anzianità maggiori di quelli di volta in volta stabiliti. Ma l’aspetto più problematico è un altro. E’ noto che i sindacati hanno criticato (promuovendo scioperi e manifestazioni) la delega su di un punto specifico. A loro avviso, la riduzione di alcuni punti di aliquota per i nuovi assunti provocherebbe, nell’ambito del modello contributivo, un abbattimento del montante; da ciò deriverebbe, per le giovani generazioni, una prestazione ancora più modesta di quella già mortificata dalle riforme. All’obiezione veniva naturale rispondere che la minore protezione pubblica sarebbe stata surrogata da una più consistente copertura privata, mediante una solida quota di previdenza complementare, finanziata dal tfr. In tal senso sembrava logico interpretare l’inciso (contenuto nella delega), in forza del quale la riduzione da 3 a 5 punti degli oneri contributivi, a carico del datore, dovesse avvenire “senza effetti negativi sulla determinazione dell’importo pensionistico del lavoratore”. La relazione tecnica ha invece saltato il fosso, affermando esplicitamente che l’assenza di “effetti negativi” riguarderà il trattamento pensionistico obbligatorio e che alla riduzione dell’aliquota di finanziamento  non  corrisponderà, pertanto, la riduzione di quella di computo. In soldoni: sui nuovi assunti il prelievo sarà del 28% ma l’accredito resterà pari al 33% della retribuzione.

La scelta ha suscitato le preoccupazioni della Ragioneria dello Stato, la quale si è affrettata a ricordare che non devono esserci oneri aggiuntivi per la fiscalità generale. Sarebbe il caso, dunque, che si adottassero misure rigorose, idonee a garantire sicuri contenimenti di spesa. Solo così si potrà salvaguardare il solo profilo riformatore della delega: decontribuzione versus smobilizzo del tfr. Le tabelle seguenti (tav. 4.1 e tav. 4.2) mettono a confronto, la prima, la perdita di gettito che si stima derivare dalla decontribuzione con le maggiori entrate provenienti dall’incremento dell’aliquota della gestione dei parasubordinati; la seconda stima quale sviluppo dell’occupazione sarebbe necessario per assicurare la copertura del minor gettito contributivo.

 

Tav. 4. 1 Confronto tra il minor gettito per il Flpd e le maggiori entrate per la gestione dei parasubordinati

(in milioni di euro).

 

Anno

Fpld

Minor gettito (1)

 

Gestione 
parasubord.

 

 

Riduzione 
aliquota 3 punti

Riduzione 
aliquota 4 punti

Riduzione 
aliquota 5 punti

Misura 
aliquota %

(2)

Maggiori 
entrate

2002

74

99

124

13,5

123

2003

231

308

385

14,5

134

2004

397

529

661

15,6

265

2005

562

750

937

16,6

275

2006

716

954

1.193

17,7

308

2007

858

1.144

1.431

17,9

202

2008

992

1.322

1.653

18,1

234

2009

1.137

1.516

1.895

18,3

128

2010

1.289

1.719

2.148

18,5

159

2011

1.461

1.948

2.435

18,7

52

2012

1.650

2.200

2.750

18,9

67

2013

1.850

2.467

3.083

19,0

 

2014

2.067

2.756

3.445

19,0

 

2015

2.298

3.064

3.830

19,0

 

(1) Numero stimato di lavoratori nuovi assunti indipendentemente dalla tipologia di assunzione: mediamente 400mila unità/anno, in coerenza con le ipotesi del modello previsionale INPS 2002.

(2) Ipotesi di aumento dell’aliquota Ivs dei lavoratori subordinati  equiparata dal 2006 a quella dei commercianti.

Fonte: Inps 2002.

 

 

Tav. 4. 2 Decontribuzione ( 5 punti), perdita di gettito, canali di compensazione

 

 

Anni

Perdita di gettito

Perdita di gettito

Tasso di 
occupazione totale

15-64 anni %

Tasso di occupazione

 

Miliardi di lire 2001 
(e in miliardi di euro)

In % su Pil

Scenario di base 
Rgsper     

Tasso necessario a 
compensare la 
perdita di gettito

2001

 

 

53,8

53,8

2002

241,1 (0,12)

 

54,0

54,2

2003

725,1 (0,37)

 

54,3

54,5

2004

1.263,4 (0,65)

0,1

54,5

54,9

2005

  1.782,4 (0,92)

0,1

54,7

55,2

2010

4.691,0 (2,42)

0,2

55,9

57,1

2015

8.172,2 (4,22)

0,3

57,1

59,0

2020

12.677,1 (6,55)

0,4

58,2

61,0

2025

18.284,7 (9,44)

0,5

59,3

63,0

2030

24.474,9 (12,74)

0,6

60,4

65,1

2035

28.803,5 (14,88)

0,7

61,5

66,9

Fonte : elaborazione CsC su dati Rgs, Inps e Istat

 

Almeno per quanto riguarda il futuro, l’impianto culturale su cui poggia la proposta del Governo è abbastanza solido proprio perché tenta di dar vita, con un adeguato flusso di risorse, ad un sistema misto, chiamato necessariamente, nella fase di transizione a mettere in conto un incremento del disavanzo, soprattutto quando, come è necessario, vengono previste misure di decontribuzione atte a consentire un allargamento delle disponibilità economiche in direzione dei fondi. Tra i tanti motivi che inducono a costruire, in futuro, una prospettiva pensionistica fondata su due o tre pilastri (uno obbligatorio a ripartizione, gli altri privati e/o negoziali a capitalizzazione, collettivi e/o individuali) vi è anche la convinzione di un possibile maggior rendimento (la valutazione si basa sull’analisi di performance di lungo periodo dei mercati finanziari) proveniente dalle risorse investite nell’economia reale. La finanza di natura previdenziale, poi, è per sua natura portata a garantire standard di rendimento stabili e duraturi, nell’arco di alcuni decenni; pertanto,  non è adatta a cimentarsi su investimenti di carattere speculativo. Certo, i fondi pensione non faranno mai miracoli: è noto infatti che, negli ultimi anni critici, i rendimenti dei fondi pensione, sia chiusi che aperti,  sono stati – nel 2000 – appena competitivi con i rendimenti che la legge assicura, a tavolino, al tfr. Nel 2001, invece, le cose sono andate ancora peggio: i maggiori fondi hanno avuto performance assai modeste o addirittura negative. Nel 2000, infatti, per effetto del meccanismo di rivalutazione previsto (tasso annuo dell’1,5% più il 75% dell’inflazione) il tfr ha spuntato un rendimento del 3,5% contro il 3,6% medio dei fondi chiusi  e il 2,9% di quelli aperti.

Nel 2001, gli otto fondi chiusi operativi hanno ottenuto un rendimento medio negativo dello 0,5% rispetto al + 3,2% del tfr.                 

Ancora più deludente il paragone se si osserva al biennio 2000-2001: la performance è ragguagliata al 3,1% contro il 6,7% offerto dal tfr. Ancor più significativo, nel 2001, l’andamento dei singoli fondi chiusi. I dati Covip (la Commissione di vigilanza) collocano al primo posto il rendimento di Cooperlavoro (cooperative di produzione e lavoro) con un tasso del 6,03%. In verità, tale risultato è dovuto al fatto che gli investimenti sono partiti solo nel settembre 2001, mentre prima il patrimonio era investito in liquidità e quindi in investimenti a basso rischio ma redditizi (la vicenda, comunque, è assai indicativa di un certo andazzo). Scadenti le performance di Cometa, l’ammiraglia dei metalmeccanici (0,23%) e del Fondo quadri e capi Fiat (0,20%). Buono il risultato del Fondodentisti  che è il solo multicomparto (ovvero ha più linee di investimento). La linea più prudente ha realizzato il 4,86%, mentre le altre due, più aggressive, hanno registrato perdite rispettivamente dell’1,3% e dell’8,47%. Negativo anche il trend del Fonchim, il fondo dei chimici (-1,46%). Il discorso cambia, però, se si guarda all’esperienza dei fondi pensione in una prospettiva più lunga. Il Fonchim, ad esempio, dal 1998 alla fine del 2000, ha spuntato un rendimento complessivo del 18,3% (superiore di almeno 5 punti rispetto a quello del tfr).

Sono critiche, invece, le performance dei fondi aperti (quelli istituiti da operatori e  soggetti del mercato: assicurazioni, banche, sim, società di fondi comuni) che offrono diverse linee di investimento (e, conseguentemente, diversi gradi di rischio). Considerando l’insieme dei comparti, il rendimento medio aggregato è risultato negativo in misura del 5,6% (rispetto al -6,7% del benchmark): nel biennio 2000-2001 il calo è del 2,8% contro il -9,4% del parametro di riferimento. La flessione più pesante – per stare ai dati della Commissione di vigilanza (Covip) – è quella delle linee azionarie sulla quali si concentra la parte più consistente di iscritti e contributi: hanno perso il 9,9%, ma il rendimento del benchmark è andato ancora peggio (-11,4). In flessione anche le linee bilanciate: -4,1% in un anno, mentre, nel biennio, il risultato è positivo in misura dello 0,1% (a fronte di un benchmark che ha segnato, invece, rispettivamente -4,8% e -5,4%).  

I dati contenuti nella relazione istituzionale della Commissione di vigilanza (Covip), illustrata a Roma lo scorso 21 maggio, danno l’idea precisa di una situazione in lento ma costante  consolidamento.

 

I fondi pensione in Italia. Dati di sintesi

(dati di fine periodo; importi in milioni di euro)

           

 

Fondi

Iscritti

Risorse d. p.

 

03/2002

2001

2000

2001

Variaz. %

2001-2000

2001

Variaz. %

2001-2000

Autorizzati all’esercizio

33

27

23

913.202

 

2.256

 

Autorizzati alla raccolta

9

14

19

96.964

 

 

 

Fondi negoziali totale

42

41

42

1.010.166

14,1

2.256

89,5

Autorizzati all’esercizio

95

94

85

287.251

 

943

 

Autorizzati alla costituzione

8

8

14

 

 

 

 

Fondi aperti totale

103

102

99

287.251

28,8

943

71,0

Fondi di nuova istituzione

145

143

141

1.297.417

17,0

3.199

83,6

Di competenza COVIP

 

418

418

615.116

 

24.626

 

Interni a banche

 

149

152

70.000

 

4.400

 

Interni ad assicurazioni

 

8

8

4.500

 

569

 

Fondi preesistenti totale

 

575

578

689.616

 

29.595

 

Totale generale

 

718

719

1.987.033

 

32.794

 

Fonte- Covip

           

Emerge allora che due milioni di lavoratori hanno  già aderito ai fondi negoziali e aperti; gli iscritti ai fondi di nuova istituzione sono circa il doppio di quelli aderenti ai fondi preesistenti alla riforma del 1993, benchè il numero di questi ultimi sia maggiore di 5 volte rispetto a quello dei primi. I due capostipiti dell’esperienza italiana – il Fonchim e il Cometa, istituiti nel cuore della società industriale, rispettivamente per i chimici e i metalmeccanici – sono ormai  realtà di grande rilievo e di spessore non solo nazionale. L’attivo netto dei soli fondi di nuova istituzione (nonostante che il loro numero sia cresciuto di poco) ha ottenuto, nel 2001, un incremento impressionante, dovuto in prevalenza all’impennata nella raccolta di contributi.                    

Anche i piani individuali pensionistici –  uno strumento innovativo e flessibile, di recente istituzione, in grado di meglio aderire alle pieghe del mercato – hanno dato buona prova di sé con un numero di contratti valutabili intorno alle 220mila unità per un valore di 380 milioni di euro. Vi sono, poi, altri aspetti qualitativi da sottolineare: è in atto una tendenza all’estensione di tali esperienze in direzione della piccola impresa, laddove è occupata una quota consistente e dinamica della forza lavoro. Eppure, ad essere onesti, bisogna riconoscere che permangono, a fianco dei segnali positivi,  altrettanti limiti – quasi genetici – che non sono ancora stati superati e che sono lontani dall’esserlo.

Emerge, infatti, l’esistenza di un  grande divario tra enormi potenzialità (vi sono 9 milioni di lavoratori subordinati “coperti” da norme istitutive di forme previdenziali integrative a un qualche stadio di sviluppo) ed effettiva partecipazione, nel senso che  la percentuale di aderenti è veramente bassa. Inoltre, non è affatto superato lo scarso appeal tra le lavoratrici in generale e tra i lavoratori più giovani sui quali graverà, invece, il maggiore ridimensionamento della protezione di mano pubblica (basti pensare che l’età media degli iscritti ai fondi negoziali è più elevata di quella degli iscritti ai regimi obbligatori). E’ ancora  stentato il decollo dei fondi dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti. Ma soprattutto vanno stigmatizzati gli imperdonabili ritardi che contraddistinguono – spesso per squallide ragioni di bottega sindacale – un comparto importante e a occupazione stabile come il pubblico impiego.

A fronte dei successi conseguiti e in presenza di handicap non ancora sconfitti, è giunto il momento di chiedersi perché non si riesce a modificare un panorama della previdenza privata a capitalizzazione troppo simile ingessato. Sono i regimi obbligatori (e più in generale i sistemi tributari) a privare di base economica i fondi, danneggiando, così, le giovani generazioni, tenute contemporaneamente a una solidarietà forzata ed onerosa, sul versante delle ripartizione, per onorare gli impegni verso le coloro che sono usciti dal mercato del lavoro e condannate a dover provvedere a se stesse nella costruzione di un secondo pilastro; e magari a compiere  tutto ciò nel contesto di una posizione di lavoro precaria e saltuaria. Tale situazione critica deve essere spezzata. Il punto di svolta può essere nello “smobilizzo” del trattamento di fine rapporto e il suo conferimento  alle forme pensionistiche complementari, unitamente alla riduzione dell’aliquota obbligatoria.

Tutti gli analisti e gli osservatori, però, sono pronti a giurare – del resto il ragionamento è facilmente intuibile – che risorse impiegate sui mercati, alla lunga, sono più redditizie. Ne deriva che un sistema previdenziale misto (in parte obbligatorio, a ripartizione, con logiche di solidarietà; in parte privato/contrattuale, a capitalizzazione) è in grado di sopportare meglio l’impatto violento degli andamenti demografici e della “crisi fiscale” sulle strutture tradizionali del welfare state, mediante una più accorta distribuzione del rischio. E se, nel pacchetto, cresce la componente a capitalizzazione (per definizione maggiormente produttiva), significa che il medesimo risultato (in termini di prestazione pensionistica) potrà essere raggiunto con l’impiego (più efficace) di un minor numero di risorse. Del resto, è altresì noto che le misure di risanamento dei regimi obbligatori (attuato mediante le riforme del decennio novanta), come hanno risparmiato i lavoratori più anziani, i quali continueranno ad avvalersi di regole generose,  così graveranno sulle future generazioni, i cui trattamenti risulteranno fortemente decurtati.

In proposito, vi è la possibilità di avvalersi, conclusivamente,  di fonti ufficiali. Negli ultimi mesi del 2001, in preparazione di quella verifica da tanto attesa e sempre rinviata, ha lavorato – con serietà – una Commissione tecnica presieduta dal sottosegretario Alberto Brambilla.

Le analisi della Commissione hanno diligentemente riordinato quanto si conosceva già e da sempre: che la fase di transizione della riforma Dini è troppo lunga e che i deficit previdenziali si intrecciano con il vincoli di bilancio ai fini del patto di stabilità; che le coorti più anziane sono state troppo protette da riforme che pure hanno avuto dei meriti indiscutibili; che il presentarsi all’appuntamento con regole pensionistiche  troppo generose delle generazioni del baby boom provocherà un’impennata della spesa (la famosa “gobba”) fino al 2030-2035 e che, durante questo periodo, l’aliquota d’equilibrio (l’indicatore del rapporto tra spesa pensionistica e retribuzioni degli attivi e quindi dello scambio tra generazioni in un modello a ripartizione) schizzerà fin verso il 50%, penalizzando le generazioni e future e drenando ogni  risorsa disponibile, al punto da rendere vana, per loro, ogni concreta possibilità di costruire un’alternativa privata a capitalizzazione, attraverso la previdenza complementare.

La Commissione Brambilla, inoltre, ha rimesso a punto, tra le tante cose, i calcoli del Nucleo di valutazione sull’andamento della spesa, articolandoli più diffusamente e li ha raccolti nella tabella che segue.

 

La spesa pensionistica complessiva e al netto della inflazione

(media delle variazioni % annue)

 

 

1990-2000

1990-1992

1993-1997

1998-2000

2001-2005

2006-2010

Totale

7,6 (3.9)

12,2 (6,1)

7,3 (3,8)

3,6 (1,9)

3,8  (2,3)

3,8 (2,3)

Dipendenti privati

6,7 (3,0)

11,0 (5,0)

6,3  (2,8)

3,1 (1,4)

4,1  (2,5)

3,8 (2,2)

Dipendenti pubblici

9,6 (5,9)

15,9 (9,8)

8,8  (5,3)

4,5  (2,9)

3,1  (1,6)

4,1  (2,6)

Lavoratori autonomi

8,2 (4,5)

11,1 (5,0)

9,1  (5,6)

3,8  (2,1)

4,2   (2,7)

3,8  (2,3)

Di cui Artigiani e 
commercianti

11,3 (7,6)

14,0 (7,9)

12,7 (9,2)

6,4 (4,7)

7,0  (5,4)

5,7  (4,2)

Fonte: ministero del welfare

N.B.

a) le percentuali fra parentesi riguardano la spesa al netto dell’inflazione;

b) le previsioni dal 2001 al 2010 non includono gli eventuali effetti della Finanziaria.

 

Come si può notare, nel corso del decennio ’90 – quello delle riforme – i trend di spesa hanno avuto un netto decremento, non dipendente soltanto dalla minore inflazione. Anche i provvedimenti di riordino hanno prodotto un effetto virtuoso. Si osservino, altresì, le conseguenze della “svolta” derivante dall’intervento sui requisiti del pensionamento di anzianità (specie nel pubblico impiego dove il trend quasi si dimezza) contenuto nella legge n. 449/1997. Tuttavia, la spesa, nel primo decennio del nuovo secolo, tende a ripartire, anche al netto dell’indicizzazione.

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Introduzione

Informazione: prigionieri del passato

Welfare e lavoro

Il “dinamismo immobile”politiche di liberalizzazione e cambiamento istituzionale agli inizi della xiv legislatura

Regolazione e liberalizzazione dell’economia

I) la scuola fra tradizione e innovazione: luci ed ombre dei processi riformatori

II) l'università alla verifica: tra consolidamento e reindirizzo

Amministrazione e gestione del territorio

L’erta via delle privatizzazioni

La sicurezza tra controllo formale e controllo informale

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