INFORMAZIONE:
PRIGIONIERI DEL PASSATO
di Franco Cangini
1.
La commedia della libertà
Libertà
e correttezza dell’informazione sono cose troppo serie per lasciarle in mano
alla politica e ai giornalisti. Era il senso del Rapporto 2001 di Società
Libera ed è anche quello del rapporto 2002. Quest’anno, il diritto dei
cittadini a formarsi opinioni sulla base di un’informazione affidabile, ha
innescato molte discussioni e nessuna decisione coerente. La politica se n’è
occupata in rapporto al cambiamento della maggioranza parlamentare, che ha
portato con sé quello del Cda della Rai e la relativa spartizione delle
poltrone aziendali.
Il
principio spartitorio, inseparabile dalla competizione per il governo, non è di
per sé scandaloso. Come disse William
Mercy, senatore dello Stato di New York, già nel 1831: “Le spoglie appartengono
al vincitore”. Ma il palio delle poltrone è stato inasprito dalla circostanza
che il presidente del Consiglio si trova a disporre di quasi tutte le reti
televisive: le tre della Tv commerciale, in quanto gli appartengono, e le tre
del servizio pubblico in forza dell’ufficio ricoperto.
Quanto
basta per evocare il fantasma orwelliano di un “regime” fondato sul controllo
dei grandi mezzi d’informazione da parte del Potere. Donde, raccapriccio
dell’opposizione per la democrazia in pericolo, solenni moniti calati dal
Quirinale, ricorso della maggioranza all’erba trastulla di “riforme” pensate
per lasciare le cose come stanno.
Se
il pubblico non si è fatto granché coinvolgere nella disputa, è probabilmente perché gli argomenti usati
per sostenere la questione di principio
avevano scarsa rispondenza nella realtà verificabile. Le realtà è che le
ragioni dell’opposizione trovano il giusto risalto su tutti i teleschermi,
pubblici e privati, come sulle piazze.
Mediaset
non ha commesso l’errore di schierarsi in ordine di battaglia dietro al suo
proprietario “disceso in campo”. Forse perché schierarsi politicamente
nuocerebbe alla ricca raccolta pubblicitaria.
O
forse perché Berlusconi ritiene l’abuso politico delle sue televisioni più dannoso che conveniente. Fatto sta che il
TG5 di Mentana si guarda dal fare informazione politicamente targata. Il TG4 di
Emilio Fede non ha di questi scrupoli, ma si conviene di considerarlo
l’eccezione esibita per confermare la regola del distacco. Un po’ come per
l’ilota ubriaco, messo in piazza a Sparta per propagandare la virtù della
temperanza.
Invece,
sull’altro piatto della bilancia ha pesato il ricordo dei colpi bassi messi a
segno dalla Rai “ulivista”, nella scorsa campagna elettorale, con l’uso
contundente di trasmissioni di Santoro, Biagi, Luttazzi. Il guaio dei colpi
bassi è che, se mancano di stendere l’avversario, si ritorcono contro chi se ne
serve. Alla prova delle urne, il linciaggio mediatico del leader
dell’opposizione ha mancato lo scopo di appena 600.000 voti. Dunque, c’è andato
vicino. Ciò che, se da una parte gratifica la razionalità del colpo portato
sotto la cintola (valga l’intenzione…), dall’altra spiega le reazioni eccessive
di Berlusconi per lo spavento provato.
La
gaffe dell’editto di proscrizione dei tre reprobi dai teleschermi Rai, emanato
dal presidente del Consiglio dalla Bulgaria, dove era in visita ufficiale, è un
caso esemplare della capacità di mettere dalla parte del torto le proprie buone
ragioni. Alla gaffe ha fatto seguito l’errore, con l’aggravante del ricorso ad
arti subdole, dell’applicazione
aziendale dell’edito presidenziale, con la scomparsa dei condannati dai
palinsesti. Errore che diventerebbe imperdonabile se ai tre animosi oppositori
non fosse offerto asilo politico nella rete di pertinenza dell’opposizione. Fin
qui il problema del controllo dell’informazione, nei termini in cui si è
tempestosamente riproposto col nuovo corso politico. Il peggio è venuto con i
tentativi di affrontarne la soluzione.
2.
Lottizzazione for ever?
Se
prendiamo il messaggio alle Camera del presidente della Repubblica sul valore
della libertà d’informazione, e il disegno di legge di riforma del sistema
radiotelevisivo partorito, di conseguenza, dal ministro delle Telecomunicazioni
Gasparri, salta agli occhi il carattere speculare dei due documenti. Entrambi
preoccupati di incidere sull’esistente solo nei limiti consentiti dagli
interessi politici ed economici consolidati, e di aprire non più di uno
spiraglio alla costruzione del futuro.
Un futuro né molto vicino, né troppo diverso dal presente. Due arche di Noé,
cariche di passato, fatte per riprodurre il più a lungo possibile l’ormai
insostenibile pretesa delle posizioni dominanti, partitiche e no, di imporre al
cambiamento il passo del proprio tornaconto.
Benché
il barometro della politica di partito segni tempesta, nell’occhio del tifone
regna la calma piatta su cui vigilano, pappa e ciccia tra loro, i due
superpartiti Rai e Mediaset. E’ quel che dice il “duopolio” televisivo. Un
tempo elemento di progresso, quando l’irruzione della Tv commerciale travolse
la sonnacchiosa gestione dell’etere da parte della Rai, e una concorrenza
aggressiva svecchiò i palinsesti,
affermando idee nuove e promuovendo la modernizzazione del sistema.
Ma
da diversi anni la pax televisiva ha preso il posto della concorrenza. La
guerra è finita e i due colossi si godono i benefici della pace. Tra cui la
fraterna spartizione della torta pubblicitaria, i risparmi di gestione
realizzabili con programmazioni di mutuo sostegno e, soprattutto, il fronte comune contro l’arrivo di un terzo
incomodo.
Questa
tv bicefala sarà pure la “deficiente” che dice la signora Ciampi, ma arroccata
in difesa e protetta dai suoi molti paladini è imbattibile. Come hanno appreso
a proprie spese, i Colaninno, i Pelliccioli e gli altri che, nonostante le
alleanze stipulate per fare della “7 “ il terzo polo, hanno fatto solo buchi
nell’acqua.
In
questo contesto, il messaggio presidenziale è stato ascoltato come si ascoltano
le sirene: coi tappi alle orecchie. Ciampi è stato complimentato per
l’esaltazione del pluralismo e imparzialità dell’informazione, nutrimento della
democrazia; si è convenuto con lui (e con la sentenza n.826 del 1988 della
Consulta) che, effettivamente, il valore del pluralismo non può identificarsi
con l’esistenza di un polo tv pubblico e di uno privato; naturalmente nessuno
ha osato negare l’importanza del confronto delle opinioni, correttamente
rappresentato, ai fini della formazione di un’opinione pubblica consapevole; si
è poi assentito al richiamo alle direttive dell’Unione europea, nonché alle
garanzie d’imparzialità dell’Autorità
incaricata di vegliare sul sistema dei mass media; ci si è uniti nell’auspicio
di una “legge di sistema” aperta ai futuribili dell’evoluzione tecnologica.
Infine
si è convenuto di affidare questo catalogo di buone intenzioni al Parlamento,
perché estenda la sua “vigilanza” all’intero “circuito mediatico, pubblico e
privato, allo scopo di rendere uniforme e omogeneo il principio della par
condicio”. Purtroppo, l’esperienza insegna che la causa della libertà
d’informazione, affidata a un’assemblea politica, si risolve in lottizzazione.
Per l’intero ventaglio dei partiti, il pluralismo dell’informazione è
nient’altro che l’articolazione giornalistica delle posizioni politiche
esistenti.
Il
ministro Gasparri ha prontamente agganciato alla locomotiva del messaggio
presidenziale i vagoni della sua legge di riforma. La quale contiene qualcosa
di nuovo (per es. la fine dell’assurdo divieto degli incroci di proprietà tra
tv e carta stampata), qualcosa d’indefinibile (per es. il limite del 20% del
“settore integrato delle comunicazioni” messo ai singoli editori), qualcosa di vecchio (per es. la nomina per via
politica del Cda della nuova Rai) e qualcosa d’insopportabile: la pretesa di
spacciare per privatizzazione la blindatura del controllo pubblico sulla Rai,
attraverso la formazione di una public company ricalcata sui modelli Enel e
Eni. Con la differenza che, se la prospettiva degli utili può attrarre
investitori all’Enel, non si vede perché qualcuno dovrebbe comprare azioni Rai.
La
presentazione del ddl, è stata messa in relazione con l’imminenza della
decisione della Consulta sulla dubbia costituzionalità delle norme della legge
Maccanico, che prorogarono il trasferimento di Rete 4 sul satellite e
l’abolizione della pubblicità su Rai 3. Poiché la Corte ha la buona abitudine
di sentenziare a bocce ferme, cioè a processo di formazione della legge in
esame ultimato, l’iniziativa riformista del ministro coincide con l’interesse
del superpartito Rai-Mediaset di presidiare tutte le frequenze in concessione,
e perpetuare il bipolarismo televisivo senza il fastidio della concorrenza di
un terzo incomodo.
Un
giorno, quando il digitale terrestre avrà reso disponibili centinaia di canali,
il problema si risolverà da sé, ma intanto si guadagna tempo per la
conservazione dell’esistente. Come dicono gli avvocati: “Finché la pende la
rende”.
3.
L’Ombudsman, miraggio nordico
Necessaria
sempre alla vita delle società democratiche, la correttezza dell’informazione
diventa indispensabile via via che la diffusione delle nuove tecnologie della
comunicazione accorcia il processo di formazione delle decisioni collettive. Il
modo di formare l’opinione pubblica non è più quello che fu per millenni, prima dell’irruzione del mezzo televisivo,
con il celebre duello Nixon-Kennedy del 1960. Prima di allora vigeva lo stesso
modo circolare, cioè partecipativo, dell’Agorà ateniese. La gente s’incontrava
e attraverso il confronto delle opinioni si formava un giudizio personale. Dal
’60, il modo è sempre più verticale: da una parte il medium, dall’altra chi
ascolta, o legge. E’ una democrazia sempre meno partecipata, in cui la piazza è
l’eccezione, mentre la regola è la formazione di decisioni individuali fondate
su un convincimento che prescinde dalla comunicazione col prossimo.
Ci
avviamo a forme di “democrazia deliberativa”, fondate sulla capacità degli
individui di assimilare i flussi di notizie e di opinioni che percorrono la
“società dell’informazione”, e di tradurli in contributo consapevole alla
decisione politica. L’immissione nel circuito informativo di notizie
incomplete, o deformate, stravolge la formazione dell’opinione e, di
conseguenza, non produce deliberazioni rispondenti all’autentica volontà del
cittadino. Il buon funzionamento della “democrazia deliberativa” richiede
dunque una cornice istituzionale di regole a garanzia della libertà, pluralismo
e correttezza dell’informazione. E su questo si è tutti d’accordo.
Il
punto è la scelta di un garante
affidabile. Non può esserlo il Parlamento dei partiti, perché la buona
informazione non scaturisce da una rappresentazione lottizzata della realtà.
Non può esserlo neppure il Giurì per la correttezza dell’informazione espresso
dalla corporazione dei giornalisti. Nel malfunzionamento dell’autogoverno della
magistratura si trova la conferma che nessuna categoria può essere buon giudice
di se stessa.
Affidabile,
invece, potrebbe essere una “Autorità per le garanzie nelle comunicazioni”, se
diversa da quella istituita con legge n.249 del 1997. Ne è presidente il professor Cheli, costituzionalista
esimio, ma nominato dal governo e affiancato da otto commissari, a loro volta
nominati in parte dalla Camera e in parte dal Senato. Benché l’Autorità abbia
fatto capolino nell’informazione con le
multe “par condicio” inflitte a Santoro e Fede, il suo scopo è la tutela
della libertà di mercato, non quella dei diritti dei cittadini. Nel passaggio
dal monopolio Sip alla liberalizzazione del settore, ha vigilato con solerzia
contro l’avvento di posizioni dominanti, ma la salvaguardia del diritto dei
cittadini a ricevere un’informazione corretta esula dalla sua vocazione, e
anche dai suoi compiti.
Quello che occorre è un Ombudsman deputato al controllo
del rispetto delle regole nel settore dell’informazione, e provvisto di
adeguati poteri sanzionatori. Il suo affrancamento da qualsiasi forma di
ingerenza politica dovrebbe essere garantito tanto dalla precisazione in
Costituzione delle sue competenze, quanto dai criteri di nomina. Chiaro che
deve essere un organo monocratico, perché se collegiale la lottizzazione
partitica ne discenderebbe di conseguenza. Quindi una persona designata per chiara
fama (dal presidente della Repubblica?) ed eletta (dal Senato?) con una
maggioranza così elevata (non meno dei
3\5) da costringere le parti a confluire su un candidato al di sopra della
mischia.
Il
garante per l’informazione esiste in Svezia da almeno mezzo secolo, sulla scia
della preoccupazione di salvaguardare la società dall’invadenza dei partiti
diffusa in molte democrazie. Quella americana compresa (da cui il sistema delle
Authority autonome per la regolazione imparziale di determinati ambiti) e quella italiana non esclusa, come dimostrato
dal famoso saggio di Marco Minghetti sui “Partiti e loro ingerenza nella
giustizia e nell’amministrazione”. Risale al 1876 e da allora è un libro di
culto, riverito e inascoltato.
Purtroppo,
nessun partito è mai stato disposto a privarsi della possibilità d’ingerirsi
dove che sia. Soprattutto nel sistema dell’informazione. Come dimostrato
dall’attaccamento partitico alla Rai pubblica, attraverso la battaglia di
retroguardia ingaggiata contro lo spirito del tempo, che porta alla
privatizzazione. E’ quel che si diceva dei proprietari di diligenze: inutile
aspettarsi che siano loro a promuovere lo sviluppo delle strade ferrate.
Vero
che dall’opposizione si annuncia una proposta di legge, contrapposta a quella
di Gasparri, che prevede l’amputazione di due reti, una a Mediaset e una alla
Rai, per fare spazio all’avvento del terzo polo tv. Vedere per credere. Quando
il centrosinistra disponeva della maggioranza ed era in suo potere dare
attuazione alla sentenza della Corte costituzionale contro il bipolarismo tv, si preferì all’intervento
legislativo la strategia suicida dei tre referendum anti-Mediaset, che
Berlusconi vinse a mani basse.
Il
rapporto tra politica e informazione è ricco d’incongruenze. C’è voluto un politico
un po’ anomalo, l’on. Marco Follini, per ironizzare sull’uso superstizioso che
i partiti fanno del controllo del teleschermo, come fosse un elisir di lunga
vita. Eppure, il formidabile radicamento televisivo non ha impedito la
scomparsa della Dc, né il bando dai teleschermi ha privato Bossi del suo
momento di gloria elettorale. Per Follini, la spiegazione dello strano caso è
desolante: una classe politica in perdita di autorevolezza e di credibilità “ha
cercato riparo nei luoghi non istituzionali, e quindi in tv”. Dunque, il
protagonismo di conduttori che tracimano dal video per prendere partito in
prima persona è figlio della crisi della politica. E’ nella luce radiante del
tramonto che i pigmei fanno l’ombra di un gigante.
4.
Conclusioni
L’anno
si avvia a concludersi meglio di come era cominciato, per il sistema
dell’informazione. Non che l’onda lunga del crollo delle Due Torri sia stata
riassorbita. Il clima d’incertezza che devasta le Borse e frena l’economia non
può non riverberarsi sulle prospettive dei mezzi d’informazione. La carta
stampata perde copie, nonostante il massiccio ricorso al costoso espediente dei
gadget, la televisione perde spettatori e, soprattutto, la torta pubblicitaria
non è più così farcita come quella dei 3 o 4 anni precedenti.
E’
caduto il vento che aveva gonfiato la raccolta pubblicitaria fino a 7.700
milioni di Euro (di cui quasi 4.000 per la televisione, spartiti tra Mediaset,
che fa la parte del leone e Rai, che pareggia col canone. Per i giornali resta
non molto). Nel 2002 l’industria della comunicazione di massa ha dovuto
avanzare a forza di remi. Non senza risultati, se è vero che il periodo nero
seppia del pessimismo è finito col primo semestre dell’anno, e il secondo ha
fatto registrare segnali di ripresa.
Resta
l’incertezza dovuta alla congiuntura economica internazionale, con gli
interrogativi che ne discendono. Possibile mai che l’alimentazione della
moderna società dell’informazione, dipenda dall’altalena dei cicli economici?
Le risposte chiamano in causa la “rivoluzione” di Internet, che ha un grande
futuro, ma un deludente presente. Ma anche la tendenza al dimensionamento della
carta stampata, che s’identifica non tanto nella diffusione di giornali
gratuiti, strettamente dipendente dall’andamento della pubblicità, quanto dalla
novità di smilzi quotidiani d’opinione sul modello del “Foglio” e dal
radicamento delle gazzette locali.
Il
cambiamento non lascerà fuori l’informazione televisiva. Giusto assoggettare
tutta l’informazione, pubblica e privata, agli stessi obblighi. Il debito di
correttezza dell’informazione è uguale per tutti. Ma è anche più giusto porsi
il problema dell’esistenza di un doppio sistema, pubblico e privato,
doppiamente drogato dalla sua dipendenza dall’appeal pubblicitario. Non può essere
che manchino alternative all’equazione, valida erga omnes: programmi
scadenti = spot abbondanti.
Non è così in America, dove opera la Pbs. Una
televisione non dipendente dalla raccolta pubblicitaria, che offre programmi
straordinari a una ristretta platea di spettatori: l’1% circa di ascolto. Anche
per la Bbc britannica e per la Nhk giapponese, l’eccellenza dei programmi e
delle tecnologie impiegate, si associa
all'esiguità della quota di mercato. Ma non è un buon motivo per escludere
soluzioni diverse dalla televisione spazzatura e dall’informazione drogata di
spettacolarizzazione.
E’
bene, per una moderna società dell’informazione, fregiarsi almeno di un luogo
di culto della buona informazione. Sorprende che famose star del giornalismo
televisivo abbiano irriso al prof. Sartori, che sul “Corriere della Sera” ha
portato la Pbs a esempio della possibilità di fare programmi informativi e
culturali intelligenti. Come se la quantità di spot e lo share fossero la
misura di tutte le cose. Questa mentalità mercantile è la negazione del
servizio pubblico. Non si vede con quale giustificazione sia estorto ai
cittadini un canone, in cambio della moltiplicazione delle televisioni
commerciali. E’ una pretesa irragionevole e illiberale, che non potrà essere
reggersi ancora a lungo sulle baionette delle lobby.
Il
futuro dischiuso dal processo di liberalizzazione della società appartiene alla libera concorrenza tra soggetti privati
in un mercato aperto, con una presenza esemplare del servizio pubblico. Gli uni
e l’altro liberati dall’ingerenza della politica di partito, ma non
dall’obbligo di rendere conto a un’Autorità indipendente, posta a presidio del
diritto del cittadino a essere
correttamente informato.