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I diritti: costanti e variabili

a cura di Giuseppe de Vergottini

 Nel momento in cui sono venute meno le ragioni che per decenni hanno caratterizzato la contrapposizione ideologica fra blocco occidentale e blocco orientale e sono maturate le premesse per una completa legittimazione dei partiti già fondati sulla ideologia comunista è iniziata una fase di assestamento del sistema politico costituzionale generalmente definita di passaggio dalla prima alla seconda repubblica. E’ in questo momento che inizia una generale rincorsa a ricondurre, almeno formalmente, programmi di disparata provenienza alla matrice liberale. Non è difficile constatare come questa attitudine ben poco abbia in comune con quanto poi si sia effettivamente realizzato da parte delle forze politiche e dei governi che si sono succeduti in questi ultimi anni. Un osservatorio che a prima vista appare utile per verificare il tasso di affermazione dei valori liberali raggiunto è dato dalla verifica dello stato dei diritti. Cosa è realmente accaduto in questi anni? Si può dire che il processo di liberalizzazione abbia influito positivamente al fine di ampliare le garanzie individuali e quindi per migliorare lo stato complessivo della società nazionale?

Il filo conduttore di queste riflessioni sarà offerto dalla convinzione che la qualità della cittadinanza risulti da un complesso di fattori assicurati dall’ordinamento dello stato che implichi una necessaria correlazione fra diritti e doveri in modo tale da assicurare che il cittadino operi secondo un principio di responsabilità. Si ritiene pure che nell’attuale fase dei rapporti internazionali il processo di integrazione fra ordinamento italiano e ordinamento della Unione europea non è tale da togliere priorità in ogni valutazione al momento nazionale delle considerazioni riguardanti i diritti, per cui tutto quello che potremo considerare rilevante di provenienza comunitaria finirà per avere un significato integrativo e non sostitutivo rispetto alla disciplina e alla prassi nazionale dei diritti.

 

1. LA DIMENSIONE COMUNITARIA DEI DIRITTI

La convivenza dell’ordinamento comunitario con quello nazionale ha ampliato in una duplice direzione le garanzie: infatti da un lato ha portato a individuare nuove figure di diritti, dall’altro ha indirettamente spinto l’ordinamento nazionale ha liberalizzare numerosi settori economici estendendo quindi i contenuti dei diritti o introducendone di nuovi.

La previsione di nuove figure di diritti comunitari riguarda in modo immediato l’ordinamento dell’attuale Unione Europea e quindi interessa tutti quei soggetti che a vario titolo sono coinvolti nell’operatività di tale ordinamento. Si tratta in primo luogo degli imprenditori, ma anche dei lavoratori, degli utenti, dei consumatori. Per comprendere meglio il significato della normativa comunitaria in tema di diritti dobbiamo ricordare che fino ai trattati di Maastricht e di Amsterdam la Comunità si poneva essenzialmente obiettivi legati alla integrazione dei mercati: l’individuo non assumeva un suo ruolo primario, né esisteva un catalogo dei diritti. Venivano fissati unicamente alcuni caposaldi strumentali alla integrazione: libertà economica, libera circolazione delle persone, dei servizi , delle merci e dei capitali. Lo stesso principio di non discriminazione, destinato ad aver un importante sviluppo, era visto come corollario della libertà economica. I più recenti trattati, pur non offuscando l’essenzialità della integrazione economica, hanno spostato l’accento sull’ambizioso e contrastato obiettivo della integrazione politica fra gli stati membri. Di conseguenza è aumentata la incidenza delle possibili azioni dell’Unione sui soggetti degli ordinamenti nazionali ormai definiti come "cittadini comunitari" oltre che come cittadini degli stati membri. Da qui l’assorbimento da parte dell’Unione dei diritti che derivano dalle tradizioni costituzionali proprie degli stati membri e il significativo riconoscimento dei diritti contenuti della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo del 1950. In pratica, l’Unione in base ai trattati e alla giurisprudenza estensiva della Corte di giustizia assicura agli operatori che sono interessati alla applicazione delle molteplici normative comunitarie (che oggi coinvolgono le politiche sociali, l’ambiente, l’educazione, la cultura, la ricerca e sviluppo tecnologico, la protezione del consumatore, la sanità) una sua tutela. Ma deve notarsi che ormai la logica della protezione dei diritti offerta dalla Corte comunitaria tende ad andare oltre alla esigenza di proteggere situazioni in qualche modo finalizzate alla garanzia dello spazio economico comune per orientarsi a forme di intervento che garantiscono l’individuo in quanto tale. Così, la estensione ai componenti della famiglia del lavoratore dei diritti di cui questo beneficia ("la libera circolazione costituisce per i lavoratori e per le loro famiglie un diritto fondamentale" ai sensi del regolamento CEE/1612/68) riguarda un diritto che ha ben poco a vedere in via immediata con esigenze dell’economia e che appare invece legato a una materia (il diritto di famiglia) che inizialmente era del tutto estranea alla sfera di intervento comunitario. Analoghe considerazioni si potrebbero fare quanto al diritto di soggiorno degli studenti, dei pensionati e di altre categorie di persone economicamente parlando non attive, nonché ai relativi parenti, subordinando unicamente i diritti alla disponibilità finanziaria dello stato ospitante.

 

2. L’INFLUENZA DEI PRINCIPI COMUNITARI SULL’ORDINE GIURIDICO ED ECONOMICO NAZIONALE.

Ma l’ambito in cui la normativa comunitaria ha finito per svolgere una influenza veramente significativa è dato dall’ordinamento nazionale in quanto influenzato in modo vincolato dall’obbligo di dare attuazione ai trattati e ai regolamenti e direttive comunitari. È quindi il nuovo panorama del diritto italiano modificato vistosamente dal diritto comunitario che viene in rilevanza. Per renderci conto di quanto è avvenuto in questi ultimi anni ricordiamo quanto l’ordinamento italiano ha dovuto recepire in tema di liberalizzazioni dell’esercizio delle professioni e soprattutto in tema di liberalizzazione dell’accesso al mercato nel settore dei servizi di trasporto, dei servizi audiovisivi, in particolare televisivi, dei servizi di telecomunicazione, di comunicazione via satellite, cui tra gli altri e senza pretesa di completezza si aggiungono i servizi di assicurazione, i servizi bancari, i servizi di fornitura di energia. Un cenno particolare meritano gli interventi in tema di appalti di lavori pubblici tesi ad assicurare la concorrenza fra imprenditori di tutti gli stati membri in un quadro di trasparenza delle procedure.

L’intervento dei principi comunitari su quelli nazionali ha finito per provocare conseguenze di rilevante portata di cui forse non si è ancora del tutto accettato lo spessore. Ad esempio, nell’ambito delle libertà economiche il consolidato principio dell’economia mista, basato su un equilibrio precario fra spazio riservato al privato e spazio riservato al pubblico, nonché sulla cedevolezza della proprietà ed iniziativa di impresa del privato di fronte alle decisioni del parlamento nazionale tramite atti legislativi, è stato intaccato dalla giurisprudenza della Corte comunitaria. Essa infatti ha elevato la libertà di impresa e il diritto di proprietà al rango di "diritti fondamentali" dell’ordinamento comunitario, pur se passibili di limitazioni per causa di pubblica utilità. In base a tale giurisprudenza proprietà privata e libertà di impresa privata devono essere considerati principi fondamentali anche nell’ordine giuridico nazionale. Il che provoca un evidente salto di qualità nel modo di concepire le libertà economiche individuali. Infatti nella impostazione tradizionale offerta dall’indirizzo della legislazione italiana post-costituzione e dalla giurisprudenza la libertà economica era stata tendenzialmente considerata come estranea alla sfera dei diritti intangibili della persona e quindi sicuramente aggredibile da decisioni del potere politico. In pratica, nella concezione della economia mista che ha dominato per mezzo secolo, il problema che si ponevaera quello dei limiti formali alla discrezionalità politica, che coincideva con una sorta di onnipotenza del legislatore nei confronti del privato, non quello della non prevaricabilità della sfera della disponibilità dei mezzi economici e della libertà di disposizione del privato da parte delle decisioni politiche. Nella situazione creatasi in seguito all’intervento dell’ordinamento comunitario la posizione del privato dovrebbe divenire prioritaria, assumendo quindi una rilevanza particolare l’esigenza di assicurare garanzie effettive nei confronti dell’azione delle autorità pubbliche, azione che dovrebbe essere sindacabile anche sotto il profilo dei contenuti delle scelte effettuate. Si aggiunga che nuovi impulsi allo sviluppo delle libertà economiche potrebbero derivare dalla approvazione della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei di cui si sta discutendo. La Carta, sia che rimanga come documento a sé stante seguendo il modello delle dichiarazioni, sia che finisca per costituire parte integrante dei trattati, avvalorando la tendenza a trasformarli in una costituzione della Unione e avvicinando sempre più la stessa a un esempio di costituzione federale, non dovrebbe provocare un incremento delle ipotesi di diritti riconosciuti quanto, piuttosto, un rafforzamento di situazioni di tutela già previste in modo abbastanza omogeneo dalle diverse costituzioni europee.

In realtà, non è tanto di nuovi diritti di cui sentiamo il bisogno, quanto del fatto di dare spessore concreto ed efficace a quelli che già vengono proclamati dalle normative esistenti. E del resto gli esperti ci dicono che più diritti vengono riconosciuti sulla carta, più complesso diviene il contesto dei rapporti sociali ed anche più probabili le occasioni di violazione, voluta o accidentale, dei diritti del cittadino o di interi gruppi sociali, più gravosa per la collettività la assicurazione delle prestazioni dei servizi sociali, più faticosa la macchina della pubblica amministrazione e più inceppata quella della giustizia. La riluttanza degli inglesi a adottare lo Human Rights Act poi effettivamente varato con la legge del parlamento britannico del 1998, era giustificata proprio da tale ordine di motivazioni.

A parte queste ultime riflessioni, appare comunque molto probabile che anche in Paese economicamente e socialmente evoluti e caratterizzati da una cultura omogenea come quella europea il varo di un documento organico che definisca i diritti del cittadino europeo avrebbe una ricaduta positiva sulle libertà economiche già assi curate nei diversi stati, garantendo una estensione più ampia agli ambiti di tutela previsti oggi dalle legislazioni nazionali.

 

3. L’EVOLUZIONE DEL CONTESTO SOCIALE E POLITICO

Il panorama nazionale complessivo in cui si situa oggi il regime dei diritti è caratterizzato da una serie di dati che possiamo considerare pacifici. La democrazia rappresentativa ha generato insoddisfazione, come dimostra la tendenza al calo della partecipazione e la insofferenza a troppo frequenti coinvolgimenti elettorali. Il rapporto fra cittadini, partiti e istituzioni cambia. Alcuni partiti di massa si sono decomposti o indeboliti. Alla organizzazione "pesante" di partiti legati a una ideologia si sostituisce la relazione fiduciaria fra elettori e leaders. Cresce la personalizzazione della politica legata alla attività dei media e ai sondaggi, diminuendo la intermediazione partitica. La rappresentanza degli interessi attraverso pratiche di concertazione soppianta la tradizionale rappresentanza politica. Parte del bisogno di partecipazione si canalizza attraverso l’associazionismo volontario.

In generale, appare messo in discussione il modello dell’insieme organico e autosufficiente dei diritti e doveri che qualificano lo status di cittadino (tradizionale sì, ma non dimentichiamolo, ancora previsto dalla nostra Costituzione), modello che tende ad aprirsi verso l’esterno assorbendo gli impulsi che provengono dalla attuale Unione Europea e che all’interno subisce i contraccolpi e le tensioni provocate dalle richieste di spazi di decisione delle realtà autonome locali e, ad un tempo, la concorrenza di nuove comunità di immigrati che sono portatori di valori a volte inconciliabili con quelli solennemente proclamati dalla Costituzione e propri della tradizione

culturale nazionale.

 

4. IMMUTABILITA’ DEL COSTUME POLITICO E SFIDUCIA DEL CITTADINO.

Il cambiamento dello scenario internazionale, la parziale modifica del sistema dei partiti con l’introduzione incerta di una alternanza fra i due poli, non hanno mutato il costume politico che caratterizza la vita della Repubblica. Questa convinzione è giustificata da quella che è la pratica corrente dei diritti, che continua ad essere improntata a un clima di casualità e incertezze. E questo nonostante i sicuri progressi almeno formali fatti in alcuni settori. Si pensi alla legislazione sulla tutela dei dati personali e alla introduzione di numerose Autorità indipendenti incaricate di offrire nuovi spazi di garanzia per alcune esigenze irrinunciabili nel campo della concorrenza, della informazione, dei servizi energetici, assicurativi, finanziari e del credito.

È un dato incontrovertibile che il cittadino si senta, come si sentiva durante la cosiddetta Prima Repubblica, estraniato e disorientato e che a questo disagio risponda allontanandosi sempre più dalla attività politica, come dimostrano le esperienze di molte consultazioni elettorali e referendarie, o con una critica qualunquistica del sistema politico istituzionale o cercando forme di protezione rivolgendosi a politici, sindacalisti, esponenti di diversi ambienti ritenuti influenti nel variegato panorama del mondo dei possibili protettori, mondo che presenta margini di distinzione assai labili rispetto alla sfera di influenza dell’illecito o addirittura del criminale. In realtà, il profilo forse più preoccupante delle incertezza che avvolge il regime dei diritti e della affidabilità del sistema delle garanzie è dato proprio dal permanere e rafforzarsi di un costume che è una delle facce di una prassi assolutamente insoddisfacente del modo in cui lo stato è in grado di dare una disciplina dei diritti e dei doveri e ad un tempo di garantirne la pratica attuazione.

Fra le tante cause che abitualmente sono richiamate a giustificazione dello stato di insoddisfazione per il rispetto delle esigenze di garanzia della posizione del cittadino possiamo menzionare la precarietà delle regole, la assenza di sufficiente imparzialità di amministratori e giudici, le insufficienze del sistema giudiziario.

La confusione della legislazione è una delle pecche abitualmente denunciate. Abbiamo troppe leggi e di solito fatte male. Il risultato di tutto ciò comporta ritardi, disfunzioni, incertezza. A nulla sono valsi gli interventi miranti a spiegare come si costruisce un testo legislativo e a istituire organismi parlamentari responsabili della qualità della legislazione. Il modo di lavorare delle commissioni e dell’aula è inconciliabile con l’esigenza di chiarezza dei testi. Le esigenze proprie di singole componenti parlamentari intese a soddisfare domande di lobbies settoriali continuano a provocare la moltiplicazione degli interventi di livello legislativo. Dunque è giocoforza riconoscere che i propositi di delegificazione e semplificazione sono stati spesso disattesi. Un profilo specifico del fallimento della legge è offerto dalla frequenza della sua elusione e violazione. Molte leggi sono fatte in modo tale da non poter essere rispettate. Altre non lo sono perché si stabilisce una tacita convenzione quanto alla tolleranza della sua violazione. La stessa polizia sembra dare per scontato che le regole del codice della strada sono, in genere, rispettate nella circolazione al di fuori dei centri urbani mentre possono essere tranquillamente violate in città. Anzi, in molteplici situazioni è chiaro che solo il mancato rispetto delle regole può consentire la praticabilità del traffico urbano, mentre una scrupolosa osservanza del codice della strada porterebbe alla paralisi. La questione appena richiamata assume in certi casi un rilievo particolarmente pericoloso. Infatti il mancato rispetto delle regole non solo consente di far perpetrare forme di illegalità che possono produrre in fatto vantaggi a certe categorie di persone, ma indirettamente può provocare danni incalcolabili. Si pensi al fatto che la consapevolezza di una sicura impunità per le forme di criminalità imputabili agli immigrati clandestini può agevolare l’economia sommersa ma ad un tempo scoraggia gli investimenti esteri nel nostro Paese, creando quindi una vera barriera protezionistica che isola lo spazio economico nazionale. Questo richiamo indica che le leggi dovrebbero essere pensate esclusivamente in modo da poter essere osservate e non nella consapevolezza della loro inosservanza.

L’interferenza della politica nella amministrazione è un altro dei fattori di disturbo per la garanzia del cittadino. Non si dimentiche che per la nostra Costituzione anche la amministrazione pubblica deve essere imparziale. Una amministrazione che si occupi degli interessi dei cittadini in modo equo non deve essere strumentalizzabile dalla politica. E in effetti la più recente legislazione avrebbe previsto una netta separazione fra ruolo dei ministri, cui competono le scelte sugli indirizzi, e ruolo dei dirigenti, che dovrebbero provvedere alla attuazione dei primi in via amministrativa. Purtroppo la istituzione del ruolo unico della dirigenza con la previsione degli incarichi a termine e della possibilità di azzerare i precedenti incarichi entro novanta giorni dalla formazione di un nuovo governo ha comportato una decisa accelerazione della trasformazione dei dirigenti in fiduciari dei ministri di un preciso gabinetto governativo. Si è quindi formalizzata la esigenza di allineamento del personale amministrativo dei più alti livelli alla parte politica al governo con un evidente aumento del rischio di ingigantire il tasso di faziosità della amministrazione. Sono particolarmente preoccupanti i dati diffusi dalla stampa circa il numero dei dirigenti allontanati dall’incarico dal Ministro delle Finanze (una trentina di dirigenti a disposizione sul centinaio complessivo nelle varie amministrazioni, numero che aumenta a circa trecento ove si consideri anche la amministrazione periferica delle Finanze).

Considerazioni sconfortanti vengono di solito fatte con riferimento all’interferenza della politica sulla magistratura, e di riflesso sulla funzione giudiziaria. Ciò sia con riferimento al fenomeno tutto italiano della parziale afferenza o della vicinanza dell’associazionismo dei magistrati ad alcuni partiti, sia riguardo ad alcuni clamorosi eventi giudiziari in cui è stata vista da larghissimi strati dell’opinione pubblica una strumentalizzazione del potere di alcuni giudici intesa a delegittimare esponenti politici della parte avversa. Le vicende che hanno interessato l’attuale leader dell’opposizione sono arcinote e non vale la pena spendere parole al riguardo. Altro esempio eclatante è offerto dalla lunga omissione di attenzione per l’attività delle cooperative rosse, argomento su cui solo recentemente pare muoversi qualche timido intervento.

L’insufficienza complessiva della macchina della giustizia italiana è anch’essa un dato acquisito. Gli interventi repressivi della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha ripetutamente condannato l’Italia per la eccessiva ingiustificabile lentezza dei processi, non sono altro che un marchio di infamia pubblicizzato a livello europeo su un meccanismo obsoleto e incivile. Le critiche, le diagnosi dei possibili rimedi, le polemiche sono antiche e ormai ripetitive. Prendiamo atto che la corporazione dei magistrati non può o non vuole fare passi in avanti per uno snellimento del modo di fare i processi, che il ministero è incapace o impotente, che la litigiosità è e rimarrà una delle più virulente nell’ambito dei paesi europei e probabilmente di quelli extraeuropei. Quindi a parità di disciplina organizzativa la situazione che ci attende non potrà che peggiorare ancora. Sullo sfondo, quindi, e per limitarci alla giustizia penale, rimangono insoluti i problemi della lunghezza dei processi, del sistema carcerario, della riparazione degli errori giudiziari, della difesa dei non abbienti, della effettività delle pene. Si potrebbe anche insistere su quanto la inefficienza del sistema sanzionatorio e della sua applicazione a livello giudiziario incida negativamente sullo stato d’animo dei cittadini alimentando uno sgradevole senso di insicurezza.

 

5. LA MANCATA VOLONTA’ DI CAMBIAMENTO.

Dalla inconsistenza della prevenzione e della repressione della criminalità nasce sfiducia. Dalla non chiarezza della legislazione e dalla inefficienza della macchina amministrativa nasce sfiducia. Ma, a ben riflettere la sfiducia si produce addirittura più a monte del verificarsi di puntuali episodi quando si radica nel cittadino la consapevolezza della non volontà delle istituzioni di affrontare i problemi che generano i disagi, le preoccupazioni e le paure della gente. Così, le grandi scelte di politica criminale sono percepite dal cittadino come inspiegabilmente condizionate dalla determinazione di non adottare misure veramente repressive nei confronti della criminalità. Il cittadino ha capito che non si vuole adottare una scelta veramente severa nei confronti di sequestratori e estortori. Ha capito che nei confronti di questi criminali non ci saranno pene certe e irrevocabili. Ha capito che nei confronti della immigrazione clandestina, dello sfruttamento della prostituzione e dei minori egualmente lo stato non sarà duro come sarebbe auspicabile. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, coinvolgendo in particolare il richiamato problema degli incontrollabili ritardi dell’apparato della giustizia non solo penale e in particolare di quella civile. Tutto ciò continua a mantenere vivo quel clima di insoddisfazione, sfiducia e rassegnazione che ha poco a che fare con i dati formali che si desumono dalla innovazione legislativa riguardante i diritti ma che tuttavia appare come un dato di fatto micidiale quando si rivolge l’attenzione alla loro prassi. Vi è un quid di sfiducia aggiuntivo che pare uscire dalle vicende politiche più recenti, dato dal diffondersi della persuasione che soltanto chi vanta diritti senza curarsi delle connesse responsabilità sia nel giusto.

E’ quindi continuata la tendenza alla affermazione arrogante delle proprie pretese senza curarsi delle compatibilità fra proprie esigenze ed esigenze altrui. Da molti la libertà è considerata sinonimo di licenza sconfinante nell’arbitrio e nell’abuso. Sindacalisti, magistrati, componenti di corporazioni professionali si rivelano particolarmente attenti nel porre in chiaro le loro pretese e ad un tempo sono insofferenti di critiche e limiti alle loro aspettative. Il fenomeno di questi atteggiamenti di arroganza si è aggravato nel momento in cui si è diffuso il messaggio che indica il successo economico come massimo valore da perseguire, equivocando l’affermarsi di una società liberale con il successo della società del denaro e dando l’impressione che il metro valutativo del successo di un nuovo modello di convivenza consista soltanto nella ostentazione vistosa di tutto ciò che il denaro consenta. Quindi, successo dell’imprenditore che individua intelligentemente un nuovo segmento di mercato in cui affermarsi, ma ad un tempo emarginazione di chi non sia in grado di raggiungere la soglia del successo.

 

6. DIVERSITA’ NELLA CONCEZIONE DEI VALORI E NUOVA CITTADINANZA.

In prospettiva i problemi che si pongono per una efficace politica dei diritti sembrerebbe corrispondere alla esigenza di rimozione di quelli che sono i principali fattori di insoddisfazione cui si é fatto cenno. Diamo quindi per scontato che, tendenzialmente, l’insoddisfazione riguarda il modo di attuare le scelte costituzionali relative ai diritti e non le scelte di fondo in sé stesse, in quanto vi é concordanza sui valori di fondo che sono stati a suo tempo posti a base della Costituzione e che sono compatibili e agevolmente integrabili con quelli propri degli altri Paesi europei e che a loro volta stanno sullo sfondo dei Trattati comunitari e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Potremmo aggiungere che con questa osservazione si riconosce anche che il fenomeno, spesso ricordato a torto o a ragione, della globalizzazione, porta a degli aggiustamenti nelle modalità di utilizzazione di alcuni diritti riguardanti la sfera economica e finanziaria e la disciplina dei mezzi di comunicazione e informazione ma non dovrebbe alterare le scelte di fondo relative ai valori, in quanto le regole che tendono ad omogenizzare i comportamenti degli operatori a livello mondiale sono regole che nel fondo sono già condivise da tutti i Paesi di civiltà liberale, e quindi anche dai membri della Unione europea. Ma la globalizzazione non comporta oggi, e non comporterà in termini prevedibili domani, una generalizzazione di tutti i valori liberali. In molti ed estesi ambiti non abbiamo e non avremo omogenizzazione dei valori e il modo di concepire l’uomo, la sua dignità, la sua coscienza, continuerà ad essere sensibilmente diversificato in diverse aree del globo. Questa diversificazione non ha incidenza sul regime dei diritti del cittadino finché rimanga confinata ad aree geografiche distinte. Ma provocherà problemi gravi e seri nel momento in cui comunità portatrici di valori diversi da quelli nazionali si presenteranno stabilmente sul territorio italiano.

A questo punto già si prospettano con chiarezza due modi di affrontare i rapporti tra cittadini italiani e nuovi venuti ove aspiranti alla acquisizione della cittadinanza: da un lato l’accettazione dei valori condivisi e consolidati nella nostra Costituzione, dall’altra la difesa ad oltranza della diversità. La prima via dovrebbe portare alla omologazione dei nuovi venuti tramite processi di integrazione, l’altra assicurerebbe il rispetto della diversità ma porrebbe ostacoli insormontabili alla integrazione lasciando prevedere forme di separatezza anche conflittuali di problematica soluzione. Ma non é di questo che si può qui discutere. Piuttosto va sottolineato come il preteso rispetto dei diritti dei "diversi" fondati su valori non conciliabili con quelli costituzionali condurrebbe a una penalizzazione dei diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini da cui potrebbero derivare forme di discriminazione legate, paradossalmente, al fatto che la propria identità sarebbe messa in discussione dalla debordante presenza di nuovi arrivati. Questo scenario, ovviamente, sembrerebbe plausibile a livello di comunità locali, soprattutto negli asili e nelle scuole dove i frequentatori italiani si troverebbero fianco a fianco ai nuovi venuti che devono ottenere un servizio di formazione culturale compatibile con i valori di cui sono portatori. Ma l’ambito in cui già oggi si fa sentire con forza la pressione degli immigrati é dato dall’esercizio della libertà religiosa.

 

7. LA NUOVA FRONTIERA DELLO STATO LAICO: UN PLURALISMO RELIGIOSO NON CONFLITTUALE.

L’ambito in cui inaspettatamente, alle soglie del terzo millennio ha ripreso quota in Italia il tema dell’esercizio libero della religione é offerto dalle domande di garanzia di libertà di culto da parte di comunità portatrici di valori diversi e a volte non conciliabili con quelli tradizionali del Paese ospitante. A prima vista il principio supremo di laicità, valutato dalla Corte Costituzionale in alcune importanti sentenze, non solo come garanzia di separatezza tra stato e religione ma anche come garanzia di pluralismo religioso, dovrebbe chiudere ogni discorso sul punto. Ma, in realtà, il problema si apre quando constatiamo che la libertà religiosa da garantire non è una libertà religiosa in astratto ma, in concreto, quella di soggetti estranei al panorama culturale italiano. Questi nuovi arrivati pongono delicatissimi problemi di compatibilità con quello che è l’orientamento dominante della società che li accoglie. Problemi che vanno affrontati in modo responsabile e senza facili ottimismi, considerate le oggettive difficoltà che si presentano. Dobbiamo infatti prendere atto che non sempre ci troviamo di fronte a etnie dotate di spirito di adattamento a quelle che sono le caratteristiche della nazione italiana, che, per usare termini invalsi, è l’etnia maggioritaria. Al contrario, queste ultime mancano spesso di spirito di adattamento, tolleranza, capacità di integrazione generando situazioni di grave conflittualità.

Possiamo quindi chiederci se rientri nella natura della tolleranza caratteristica della nostra civiltà un tasso di accettabilità di diverse e lontane culture religiose tale da comportare il rischio di subire una forma di sopraffazione dei diritti dei cittadini che potrebbe, alla lunga, diventare irreversibile. In proposito limitiamoci a partire dalla considerazione che la nostra società é basata sui valori della cultura giudaico-cristiana ma ad un tempo ha recepito quelli liberali. La Rivoluzione Francese e la Dichiarazione dei diritti che la stessa ha prodotto hanno fatto emergere un insieme organico di principi sui diritti dell’uomo e del cittadino di cui, piaccia o meno, non cattolici e cattolici sono tributari. La Rivoluzione dunque, non ostante le sue tragedie ha dato al mondo un apporto positivo sul piano dei valori di civiltà, apporto che ancora oggi è da considerare irrinunciabile e che ha finito per influenzare ogni ulteriore progresso nella tutela dei diritti. La Dichiarazione universale dei diritti del 1948 delle Nazioni Unite non è altro che una trasposizione a livello mondiale e un aggiornamento di principi che erano stati definiti e consolidati già un secolo e mezzo prima. Praticamente esiste tutto un filone di documenti solenni internazionali, tra cui la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e i Patti sui diritti civili e politici formati in seno alle Nazioni Unite che sanciscono la libertà religiosa. Più recentemente la Dichiarazione di Amsterdam del 1997 ha aggiornato i trattati europei e in tema di status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali ha previsto il rispetto delle legislazioni nazionali in tema di libertà religiosa.

Possiamo quindi sinteticamente ritenere che nella concezione liberale può individuarsi un filone unico di sviluppo della libertà religiosa, connessa alla libertà di coscienza, di opinione e pensiero e della loro manifestazione, veramente da considerarsi fondamentale e irrinunciabile, condiviso senza riserve dai sistemi politico giuridici dei paesi europei e da molteplici paesi di diversi continenti influenzati dal pensiero liberale. Ciò ricordato, rileviamo che chiunque segua le questioni attinenti alla immigrazione sa che le comunità islamiche sono quelle che pongono maggiori problemi quanto a possibilità di sperimentare forme di integrazione. E tali problemi sono generalizzati a causa del radicalismo delle posizioni assunte nel modo di concepire il vivere insieme, modo che rende improprio distinguere fra integralisti islamici e "altri", in quanto non esiste l’islamico "liberale" essendo la irrinunciabilità di certi principi basilari un dato comune a tutti i veri islamici. E’ quindi errato lasciare intendere che certe difficoltà sono causate solo dagli estremisti: chiunque abbia pratica di amministrazione locale sa che le difficoltà sono generalizzate. L’attitudine dell’islamico verso la religione, che coincide col modo globale di concepire l’esistenza anche con riferimento all’impegno civile, l’obbligo del proselitismo, il divieto tassativo di conversione ad altra religione, l’obbligo di omogeneità religiosa della famiglia e simili sono dati caratterizzanti generali. Dunque sullo sfondo esiste il conflitto reale fra tendenziale tolleranza propria delle locali comunità territoriali ospitanti gli immigrati e intolleranza degli immigrati islamici.

Per saperne di più occorre leggere gli atti ufficiali in cui sono contenute le dichiarazioni di diritti redatte dagli esperti islamici. La Dichiarazione del Consiglio islamico d’Europa (Londra 1981) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’Islam (redatta dalla Conferenza del Cairo del 1990) prodotta dai rappresentanti dei diversi ordinamenti islamici sono particolarmente indicative per comprendere il distacco dalla nostra concezione. A parte le disposizioni esplicite sulla differenza fra uomo e donna e sulla subordinazione della seconda al primo all’interno della famiglia e altri dettagli, risulta chiaro che qualsiasi diritto è ammesso solo se compatibile con la legge Coranica (sharia). Il fatto che i diritti esistono solo se compatibili con le regole che noi definiamo religiose pone un problema inestricabile, in quanto nella tradizione laica occidentale siamo abituati a tener distinta la sfera della morale da quella del diritto, cosa inammissibile nell’Islam. Ecco quindi nascere il rigetto delle regole morali e giuridiche dello stato ospitante, ecco l’intolleranza che si oppone alla tolleranza, ecco le difficoltà insuperabili di integrazione legate alla impossibilità sia per i cosiddetti integralisti che per tutti gli altri di accettare facilmente la diversità.

Si deve quindi giungere alla conclusione che finché c’è separazione fra cristiani e musulmani è agevole ragionare ma quando una comunità musulmana che rimane legata alle sue regole entra in una diversa società di tradizione cristiana possono sorgere incomprensioni e vere proprie forme di collisione in quanto i valori di fondo sono diversi e inconciliabili. La questione dei rapporti fra comunità diverse diviene un problema di governabilità cui i nostri amministratori non possono sfuggire.

La questione non può essere risolta unicamente insistendo sul diritto alla diversità con specifico riferimento alla garanzia da riconoscersi agli immigrati quanto a pratica della loro religione. In generale nessuno dubita della correttezza del principio di riconoscere allo straniero, soprattutto se destinato a divenire cittadino, la pienezza di alcuni diritti essenziali per esigenze di solidarietà in un quadro caratterizzato da articolazione di situazioni soggettive e quindi di grande pluralismo. Purtroppo la situazione si complica quando ci si rende conto che su alcuni temi essenziali non esistono valori comuni fra straniero e società ospitante. Ma perché lo straniero si possa integrare e finire per divenire anch’esso cittadino, indipendentemente dalla cultura d’origine, deve accettare i valori costituzionali del Paese che ha scelto come sua nuova patria. La pienezza dei diritti per chi entra in un ordinamento cui era estraneo è infatti l’acquisto della cittadinanza e per far il salto da generico individuo cui è assicurata la dignitosa sopravvivenza a individuo nella pienezza dei diritti, non solo civili ma anche politici, occorre acquisire la cittadinanza; è la stessa Dichiarazione francese del 1789, ripresa dalla nostra Costituzione che distingue i diritti dell’ "uomo" da quelli del "cittadino". Dunque l’omogeneizzazione completa del nuovo venuto è l’acquisto della cittadinanza che comporta l’avvenuta accettazione dei valori di base dell’ordinamento ospitante. Ma che avviene se mancano le premesse per questa accettazione? Chi deve cedere, il nuovo venuto o l’insieme della società che lo riceve? Per comprendere che quanto stiamo dicendo non è mera retorica si pensi alla difficoltà per gli italiani di accettare l’idea della inferiorità della donna, l’inflizione di punizioni degradanti, le mutilazioni femminili e simili. Chi ha nel proprio patrimonio genetico simili idee che sono viste come aberranti dalla quasi totalità degli italiani non può certo pretendere che siano questi ultimi ad accettarle rinunciando alle loro convinzioni. Chi non arriva a capire che per poter partecipare a pieno titolo alla vita politica e amministrativa deve condividere i valori di fondo della società ospitante perché divenga anche la sua società deve anche rassegnarsi a vivere ai margini senza potersi inserire nella stessa. E non si dica che la via di uscita potrebbe essere quella di limitarsi a riconoscere la diversità dello straniero, in quanto questa sarebbe una operazione diversa dalla acquisizione della cittadinanza che comporta inevitabilmente l’accettazione di una progressiva assimilazione di chi all’inizio è solo "diverso". Dunque il problema non è tanto riconoscere le festività mutando calendario scolastico ed elettorale, il culto sul luogo di lavoro, il cibo, ma è ben più complesso.

Allora possiamo pensare che la società italiana sia disposta ad addivenire a una rinuncia ai propri valori fondanti riconosciuti dalla tradizione cristiana oltre che dalla sua Costituzione? Da questo punto di vista le esigenze del cristiano e quelle del cittadino sembrano convergere e ai futuri governi rimane il compito arduo di equilibrare esigenze di omologazione e esigenza di mantenimento della identità dei nuovi arrivati senza dimenticare, si spera, l’esigenza di salvaguardare quella degli originali cittadini.

 

8. UNA RIFLESSIONE CONCLUSIVA.

Conclusivamente lo stato in cui si trovano i diritti del cittadino desta preoccupazione non soltanto quanto alla insufficienza delle garanzie formali, ma piuttosto quanto alla prassi instaurata dalla politica, dalle amministrazioni e dall’uso dell’apparato giudiziario. Sulla carta tra strumenti internazionali, normative comunitarie e nazionali l’italiano dovrebbe essere uno dei soggetti più garantiti al mondo. Sappiamo che non é così.

Abbiamo accennato a una ricognizione dei fattori che incidono negativamente sull’effettivo regime delle garanzie. Vorremmo ora sottolineare come un ulteriore importante elemento che non viene solitamente ricordato è offerto dalla mancata percezione della complementarietà fra diritti e doveri e dalla tendenza, incoraggiata dal l’atteggiamento di politici e sindacalisti, di insistere su pretese e aspettative trascurando il dovere di onestà e serietà di comportamento del cittadino verso gli altri. Si potrebbe compendiare questa complementarietà fra diritti e doveri nell’imperativo della solidarietà sociale che é intrinseco in ogni convivenza associata e che quindi non é assolutamente estraneo anche a una visione liberale dei rapporti sociali. Oppure, si potrebbe semplicemente sottolineare l’esigenza di un uso responsabile dei diritti.

Ma queste elementari riflessioni sono generalmente smentite dalla pratica delle irresponsabilità. Così é noto che nelle contrattazioni nazionali del pubblico impiego si fa continuamente riferimento al merito per la definizione della parte variabile della retribuzione. Ma é altrettanto noto che in sede di contrattazione decentrata il merito scompare o viene stemperato secondo altri criteri, col risultato di distribuire i soldi in modo indifferenziato agli appartenenti alla categoria interessata. Questo vale per i vari ministeri, per gli enti pubblici, per le università, per le regioni. Il merito poi é da tempo scomparso come criterio determinante nella valutazione del curriculum scolastico e per l’accesso alla istituzione superiore.

Questi cenni indicano la tendenza evidente ad assicurare un sistema di automatismi che sono destinati a livellare nella valutazione soggetti che hanno capacità differenti, finendo per premiare chi é meno capace e penalizzare chi é capace, incentivando quindi la demotivazione e le deresponsabilizzazione.

Sempre in questa direzione é facile individuare nei dipendenti delle strutture pubbliche una forma di prerogativa al mantenimento delle posizioni acquisite a prescindere dalle capacità dimostrate, per cui é assolutamente inusuale e raro che chi viene sottoposto a censura per comportamenti giudicati insoddisfacenti paghi di persona, non essendovi assunzione di responsabilità che conduca alla rinuncia al proprio incarico quando se ne verificano i presupposti.

Si ritorna quindi a quanto é stato in precedenza notato a proposito dei guasti prodotti da un costume invalso nella pratica dei diritti che richiederebbe una volonterosa riconsiderazione al fine di ristabilire un giusto equilibrio tra diritti e doveri in un quadro di credibilità di un sistema istituzionale che non sia semplicemente accettato o tollerato. È quindi il momento di rispondere a quanto ci eravamo chiesti all’inizio, circa l’influenza del processo di estensione dei valori liberali, che sarebbe iniziato da un decennio, sullo stato dei diritti. La risposta é evidentemente perplessa ma tendenzialmente negativa. Poco o nulla é mutato nella pratica dei diritti, nonostante le innovazioni formali che abbiamo menzionato, mentre permangono i noti fattori di insoddisfazione cui si sono aggiunti quelli originati dalla progressiva presa di coscienza delle difficoltà provocate dall’incidenza del fenomeno della immigrazione sulla società italiana. Quindi la situazione oggi presente denota una notevole cristalizzazione di quelli che sono i connotati tradizionali del regime dei diritti, soprattutto a causa della prassi consolidatasi nel tempo. Il processo di estensione dei valori liberali, del resto in linea con quanto maturato a livello europeo, non sembra mutare le linee di un quadro che ci é familiare. Sarà il richiamato problema della convivenza con valori estranei alla cultura nazionale la variabile non compatibile con l’impostazione seguita dai costituenti; e si tratta di un interrogativo cui non é agevole offrire in tempi brevi una risposta soddisfacente.

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