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Comunicazione e libertà

a cura di Franco Cangini

INCONTROLLATI E IRRESPONSABILI?

Saul Bellow, il grande scrittore, mise il dito nella piaga una ventina di anni fa, quando osservò che, in una democrazia, "il massimo potere appartiene a quelli che formano l’opinione pubblica, ed è anche il potere più incontrollato, più irresponsabile". Rimproverava al giornalismo americano di fare cattivo uso della libertà di cui gode. Cioè di non fare fino in fondo il suo dovere: assicurare al pubblico un’informazione corretta. Per quanto riguarda l’Italia, sarebbe difficile attribuire ai giornalisti il potere di "formare" l’opinione pubblica. Salvo eccezioni, le nostre aziende editoriali fanno tradizionalmente capo a interessi imprenditoriali non identificabili col mercato dell’informazione, ciò che sottrae la "manipolazione" dell’opinione pubblica alla disponibilità della corporazione dei giornalisti per consegnarne la responsabilità primaria a una pluralità di soggetti, economici o politici. Inoltre, la figura retorica d’un pubblico di lettori che si abbevera all’informazione per poter giudicare le cose di casa e del mondo, è assai poco italiana. La realtà è piuttosto quella rappresentata da Sergio Romano in un recente saggio sulla libertà d’informazione:

"Il giornalista italiano è il naturale prodotto della situazione ed è molto spesso ‘schierato’... Gli stessi lettori sembrano preferire la condizione del militante a quella del cittadino... L’Italia che legge è in buona parte un’Italia faziosa, biliosa, ansiosa di trovare nel suo quotidiano le proprie idee e idiosincrasie. Non chiede di essere informata. Chiede di essere rassicurata. Non chiede di essere convinta: chiede la conferma delle sue convinzioni. E ha, tutto sommato, l’informazione che desidera".

La tesi di Romano trova un riscontro nello strano caso di Indro Montanelli. Nel vederlo così amato dai suoi lettori, quando dirigeva il "Giornale", si era portati a crederlo titolare del potere d’influenzare un settore di opinione. Quando fondò un altro quotidiano, i suoi lettori lo seguirono in massa. Ma per abbandonarlo di colpo già al secondo numero della sua nuova iniziativa editoriale, non appena fu evidente il salto di linea politica. Quei lettori amavano, in Montanelli, il giornalista capace di esprimere con efficacia le loro stesse opinioni. Erano interessati al suo pensiero solo nella misura in cui potessero vedervi riflesso il proprio, in un rapporto non troppo dissimile da quello della regina cattiva di Biancaneve con lo specchio delle sue brame. Nel rapporto tra giornalista e lettore si ritrova un fenomeno analogo a quello osservato tra politico e elettore. Insomma, il più autentico soggetto pensante, nelle due coppie, non è né il politico né il giornalista.

Ciò che conduce a notare un’altra differenza tra la condizione del giornalista in America e in Italia. In America l’alto grado d’indipendenza delle aziende editoriali richiede giornalisti altrettanto indipendenti. Ne discende un atteggiamento di relativa fiducia dell’opinione pubblica, che la dispone a essere influenzabile dai mezzi d’informazione. Dunque si comprende che Saul Bellow esprima una diffidente richiesta di garanzie sull’effettivo senso di responsabilità dei giornalisti (si comprende meno che senta la mancanza di controlli sull’informazione, evidentemente incompatibili con il ruolo del "quarto potere"). Ma dove, come in Italia, il pluralismo dell’informazione è piuttosto un’espressione del tribalismo sociale, la lealtà del giornalista non va tanto al pubblico, considerato in astratto, quanto, più concretamente, al "suo" pubblico. Cioè ai settori d’opinione a cui tradizionalmente si rivolge la sua testata, nonché, ben s’intende, agli interessi di chi paga lo stipendio. Il che, se non altro, rende il giornalismo italiano inattaccabile da sospetti di irresponsabilità e di incontrollabilità. Nel senso che chiunque fa stecca nel coro in cui s’inquadra è facilmente identificato e sanzionato.

GIORNALISTI NELLA TRANSIZIONE

Il modo di fare il giornalista varia con i tempi e con le tecnologie. Alla fine degli anni Sessanta, il moto di contestazione del vecchio ordine sociale cambiò lo stato delle cose anche nelle redazioni. In meglio? Un vecchio del mestiere esiterebbe ad affermarlo. C’era un modo artigianale di essere giornalisti, fatto anche di dedizione incondizionata e di accettazione di un ordinamento gerarchico che, se non ammetteva sgarri, imponeva a chi stava su un gradino superiore il controllo del lavoro dei giovani e la cura del loro miglioramento professionale. La facilità con cui questo sistema è stato spazzato via dimostra che non stava più in piedi.

Prima di allora poteva accadere, in un giornale della sera legato ad ambienti economici, che un cronista fosse licenziato per aver nominato la marca di un certo autobus che per la rottura dei freni aveva provocato un incidente. E che un altro cronista subisse la stessa sorte per aver riferito, in un’inchiesta sul portierato, l’aspirazione della categoria al riconoscimento dell’orario di lavoro. La cosa non era piaciuta alla proprietà edilizia. O anche che un redattore degli esteri perdesse il posto per aver riservato al neopresidente cubano Fidel Castro il medesimo trattamento sprezzante usato fin lì al ribelle Fidel Castro. E addirittura che un redattore capo fosse costretto a dimettersi per aver pubblicato con risalto, il giorno della morte di papa Pacelli, la foto di suor Pasqualina in uscita dai sacri palazzi con la gabbia dei canarini in pugno. Non aver tenuto conto degli assurdi pettegolezzi in circolazione sul conto della suora addetta alla persona del pontefice, era considerato un’imperdonabile mancanza anche in un quotidiano laico e liberale.

Questi eccessi repressivi non suscitavano reazioni apprezzabili: un po’ a scanso di rappresaglie, ma soprattutto per ché le regole del gioco erano chiare e si sapeva bene il costo delle infrazioni. Finito il potere di licenziare, è venuto giù tutto. Lo strapotere aziendale di condizionamento dei redattori, e quindi della stessa qualità e completezza dell’informazione, ma anche le cose buone. Da allora, nessuno è tenuto a farsi carico del lavoro dei giovani (il possesso della qualifica professionale mette tutti su un piano di parità virtuale). Soprattutto, nessuno è tenuto a considerarsi in servizio oltre i limiti fissati dal contratto di lavoro. La mattina che un commando di terroristi palestinesi assaltò a Fiumicino un aereo di linea americano provocando una strage, in quel tale giornale della sera già preso a esempio era in corso un’assemblea di redazione. Nessuno si mosse. La notizia era di quelle poche che giustifica vano la sopravvivenza, allora agli sgoccioli, di un giornale della sera, ma il vecchio modo, generoso e anche picaresco, di essere giornalista non c’era già più.

Con quali effetti sulla qualità dell’informazione? Non negativi, sotto un certo profilo della libertà di espressione. Certo, il nuovo potere nato nelle redazioni dalla sindacalizzazione della categoria e dalle guarentigie contrattuali acquisite, metteva l’informazione, per calcolo politico, a rischio di deragliamento dai binari della correttezza. In compenso, sintonizzava il giornalismo sulla nuova, confusa realtà di una società che aveva rotto l’ingessatura delle forme e delle convenienze tradizionali. Anche il giornalismo politico si adeguava al nuovo corso, ma meno prontamente. Il criterio dell’assemblaggio di notizie diverse in un unico "pastone" era un bastione della conservazione, con la sua etichetta rigida nella gerarchia delle precedenze (prima il governo, poi i partiti della maggioranza, quindi quelli di opposizione in ordine d’importanza), e col suo linguaggio allusivo, così che fosse comprensibile solo dagli iniziati poiché si credeva che il notiziario politico fosse pascolo esclusivo degli addetti ai lavori, come il calcio per i tifosi. Fu l’ultimo a cadere. Successivamente si passò all’eccesso opposto, decidendo che la politica dovesse essere trattata come argomento d’intrattenimento popolare. Quindi romanzata, personalizzata, farcita di pettegolezzi fantasiosi nonché dilatata su un gran numero di pagine. In un paese dove l’attività politica ricalca spesso la performance del criceto nella sua gabbia rotante - movimento senza avanzamento - e la gente non se ne aspetta nulla di buono, l’ipertrofia delle sue cronache non può essere portata a esempio di buon giornalismo. Probabilmente finirà quando finirà anche la transizione dalla Repubblica dei partiti a un qualche assetto istituzionale di democrazia diretta. Una politica più fattuale e meno chiacchierona dovrebbe produrre un giornalismo politico più sobrio. O comunque cronache meno dilatate a copertura degli innumerevoli centri e centrini di potere partitico.

LE COSE CAMBIANO

C’è una novità: i conti delle aziende editoriali non sono mai andati così bene, anche se la tendenza all’emorragia delle copie non si è arrestata. Cinquantacinque milioni d’italiani acquistano meno di sei milioni di copie di quotidiani. Il confronto con i 5,5 milioni di copie venduti ogni giorno agli otto milioni di svedesi, rende l’idea della situazione. In compenso, il fatturato della pubblicità continua a crescere, e nel ‘99 ha scavalcato il ricavo per le copie vendute. Anche la televisione comincia a perdere quote di pubblico, ma continua ad aumentare il gettito degli spot. Da ciò una cascata di conseguenze. Accentuate dal fatto che la riscossa dei profitti nel mercato dell’informazione s’è incontrata con l’effervescenza e le grandiose aspettative prodotte dalla rivoluzione digitale.

Una conseguenza è la dislocazione del potere all’interno delle aziende editoriali. Intendiamoci: nessun dubbio che la bilancia dei rapporti di forza ha sempre piegato dalla parte della proprietà. Ma la trasformazione della forza in potere di decisione ha subito a lungo forti condizionamenti. Per un imprenditore, la proprietà di un mezzo d’informazione era un fiore all’occhiello, simbolo di distinzione sociale, e, soprattutto, una moneta da spendere con il potere politico per ottenerne favori. Di conseguenza, era prassi consolidata che la proprietà concordasse con il potentato politico di riferimento la nomina del direttore del giornale. Questo era male, ma ne veniva qual che bene. Il direttore di fiducia di un qualche politico era, generalmente, persona non priva di qualità, in grado di usare la forza contrattuale che gli derivava dall’avere le spalle coperte per rappresentare, dinanzi alla proprietà, una visione professionale dell’interesse del giornale, sia pure nell’ambito di una determinata linea politica. Paradossalmente, proprio nell’inquinamento politico c’era una garanzia per la professionalità dei giornalisti, dietro allo scudo della direzione. E quindi anche una garanzia di qualità dell’informazione. Nei limiti del possibile.

Lo sfarinamento della Repubblica dei partiti ha avviato, in anni recenti, il processo di liberazione delle proprietà editoriali dai calcoli di tornaconto fatti sul favore di potentati politici, con i relativi condizionamenti. Inoltre, il boom del mercato pubblicitario, unito ai risparmi di gestione consentiti dall’introduzione delle nuove tecnologie, sta facendo dell’editoria italiana quello che non era mai stata: un affare. Ciò che promette l’avvio di un secondo processo di liberazione dell’editoria, stavolta dal peso di interessi proprietari che con l’editoria avevano pochissimo a che fare. Cominciano a vedersene gli effetti sul modo di fare i giornali, che ha certo guadagnato in spigliatezza nella gerarchia degli argomenti e nel modo di presentarli, ma che chiaramente non ha più il suo centro di gravità nella professionalità dei giornalisti, bensì in una visione manageriale a misura della cultura e degli obiettivi della proprietà. I settimanali cercano nella diffusione di videocassette, corsi di lingua eccetera una ragione di sopravvivenza che raramente trovano nei mercati esteri. I quotidiani si sforzano di tener su le copie e i pro venti pubblicitari con una serie ininterrotta di costose campagne promozionali, dai concorsi a premi ai compact musicali. Il sentiero aperto or sono tre lustri dal lancio del bingo, con un incremento di copie vendute mai ottenuto attraverso due guerre mondiali, è diventato un’autostrada. Vediamo dove sta portando.

Certamente non all’incremento della diffusione. Il miraggio del giornale popolare da un milione di copie, perseguito attraverso riforme grafiche e dei contenuti, si è rivelato, fin qui, illusorio. Un po’ perché la pre-condizione del successo di un giornale popolare (Sun, Mirror, Bild) è l’esistenza del popolo, cioè di ceti meno abbienti orgogliosi della propria diversità rispetto alla buona borghesia e disposti a riconoscersi in un giornale adeguato al loro livello culturale e ai loro interessi. Altrove (Gran Bretagna, Germania) un tale popolo esiste. In Italiano. Da noi chi compra il giornale quotidiano s’iscrive automaticamente alla classe dirigente. La regola del P.E.N.C. ("Politica e Esteri Nessun Clic") vale per l’accesso ai portali telematici, non per l’acquisto di quotidiani in edicola. Qui il lettore si aspetta che la sua scelta di crescita sociale sia riconosciuta con articoli di fondo che non leggerà, con un’attenzione alla parte "nobile" del notiziario di cui si limiterà a scorrere i titoli. Probabilmente, sente addirittura la mancanza della Terza pagina tradizionale, blasone del giornalismo d’antan e prima vittima della decisione di andare verso il popolo.

Forse è anche per questo che la scelta editoriale di confezionare giornali più accattivanti per un maggiore baci no di utenza si è risolta in un compromesso. Per esempio, si crede fermamente che la politica infastidisca il lettore, ma non si ha il coraggio di ridurne la presenza alle poche notizie con valore informativo. Al contrario, la si riduce a occasione di bello e spiritoso stile di scrittura dilatato su un numero di pagine eccessivo anche per un lettore appassionato del genere e nullafacente. Il risultato è che il giornale "serio" della tradizione è morto e il giornale "popolare" non è ancora nato. Del resto, i passati tentativi di metterlo al mondo sono sempre rapida mente abortiti. Tutto lascia credere che la metamorfosi della carta stampata sia ancora all’inizio, poiché nella sua forma attuale non soddisfa gli editori, che l’hanno voluta, ed è più subita che apprezzata da un pubblico decrescente. Il vento di cambiamenti che si leva da un’editoria euforizzata dalla scoperta di poter essere un’attività economica altamente remunerativa, e sollecitata dalle nuove prospettive aperte all’intreccio multimediale dalla rivoluzione digitale, è sentito dai giornalisti come una minaccia molto più che come una promessa.

UN MESTIERE IN CRISI

Nell’aprile scorso, Pier Luigi Celli, direttore generale della Rai, si fece prendere la mano dall’estro in un intervento al convegno bolognese sulla new economy: "Pensate come andrà in crisi il mestiere del giornalista. Grazie a Dio. E’ una soddisfazione per tutti noi. E’ uno dei mestieri che, se tutto va bene, è destinato se non a scomparire certamente a trasformarsi. Se poi questo porterà all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, credo che noi tutti eleveremo un peana al dio Internet". Gli esponenti della categoria non la presero bene e dinanzi alle loro proteste, Celli spiegò di aver inteso ironizzare sul rischio che "Internet permetta a tutti di fare comunicazione senza regole e senza tutele". Questo rischio è reale per i giornalisti, ma è sentito come una speranza da chi investe nel l’evoluzione dei mass media. La domanda generalizzata di flessibilità nei rapporti di lavoro si traduce, nell’industria della comunicazione, in un’aspettativa di liberalizzazione della professione giornalistica, non a caso coincidente con le iniziative tendenti all’abrogazione dell’Ordine. Inoltre, gli operatori dell’informazione sono consapevoli di essere più deboli che in passato, e quindi più vulnerabili dagli attacchi. Che effettivamente non mancano, e che andrebbero valutati anche sotto il profilo dell’interesse pubblico.

Al tempo che le aziende editoriali arrancavano con le stampelle della politica, e i loro deficit endemici erano ripianati da interessi economici impropri, era considerato di buon gusto, tra i giornalisti, non prendersi troppo sul serio. Lo stato delle cose gli vietava di considerarsi, al pari dei colleghi anglosassoni, i "cani da guardia" del potere con l’incarico di denunciarne le tracimazioni. O anche, per le ragioni dette all’inizio, gli specialisti nella formazione dell’opinione pubblica. Lo stesso giornalismo d’inchiesta, costretto a muoversi tra molti paletti e senza poter fare assegnamento sulle risorse d’indignazione dell’opinione pubblica, era fonte di frustrazioni più che di soddisfazioni. Un famoso giornalista ha recentemente rievocato la palude d’indifferenza in cui si era inabissata una certa sua circostanziata denuncia di scandalose malversazioni alla Sip e nelle Ferrovie. Un altro ha ricordato come la rivelazione della vergognosa speculazione finanziaria prontamente imbastita sui duemila morti del Vajont fosse stata messa a tacere da una manovra a tenaglia di magistrati, politici, alti burocrati. Se non fosse stata preceduta dal crollo del sistema di potere, la breve stagione di Tangentopoli non avrebbe mai visto la luce. Nella democrazia all’italiana, il giornalismo all’anglosassone era (è) un’illusione. Dunque, i vecchi giornalisti faceva no quel che potevano sapendo di potere poco e consapevoli del fondo di verità contenuto in scampoli di arguzia popolare, sul tipo del celebre: "Giornali e cerini li comprano i cretini". Aspettando tempi migliori.

Tempi migliori sono effettivamente in arrivo, ma non è detto che i giornalisti possano rallegrarsene. Ogni novità positiva tende a rovesciarsi nel suo contrario. Così, il risanamento dei bilanci aziendali e l’avvento di un’editoria più sicura della sua forza ha ridotto ai minimi termini il potere dei giornalisti. I giornali vengono pensati e realizzati da cervelli manageriali fatalmente inclini a pensare che il sostegno della diffusione dipende da loro ben più che dai contenuti e che, al limite, i giornalisti sono l’ultima cosa che occorre. La disputa è di pubblico interesse, se non altro perché la deontologia dell’informazione corretta è alla base dell’esistenza dell’Ordine professionale.

In questo senso, c’è qualcosa d’inquietante, nonché di bizzarro, nella gara tra le bozze di Codici etici messe a punto dall’Ordine nazionale dei giornalisti e da singole aziende editoriali sull’esempio di grandi giornali degli Stati Uniti (dove la professione non è soggetta a disciplina pubblicistica). Si tratta di codici di comportamento e carte dei doveri lodevolmente preoccupate di vincolare i giornalisti al rispetto del diritto dei cittadini a un’informazione corretta e imparziale, ma singolarmente ottimistiche nel caricare il direttore responsabile di un ruolo di garanzia, senza preoccuparsi di fornirgli gli strumenti per svolgerlo. Va detto che il direttore, sballottato tra una proprietà che può esonerarlo da un momento all’altro così come lo ha scelto (avendo da qualche tempo cura di farlo tra chi non gode né di coperture politiche, né di feeling con i lettori), e una redazione che ne fa il badalucco delle sue frustrazioni, non avendo nulla da temere né da sperare da lui, non è in grado di garantire alcunché. Può solo fare seppuku e dimettersi, posto che ne abbia la vocazione. La debolezza costituzionale del direttore, nell’attuale congiuntura, lascia senza credibili garanzie il pubblico interesse a un’informazione decente. E’ un problema che ammette solo due soluzioni: o dare forza a chi ha la funzione, o dare la funzione a chi ha la forza. Vale a dire che se non si vuole riconoscere all’editore la responsabilità personale e diretta della qualità dell’informazione, facendone il direttore delle sue testate, occorre mettere il giornalista direttore nelle condizioni di resistere alle pressioni e di poter fare il suo dovere senza doverne temere le conseguenze. E’ un problema reale e risolvibile, ma nessuno se lo pone.

Altrettanto reale il problema sollevato dalla massiccia intimidazione in atto, per via giudiziaria, nei confronti dei giornalisti e delle aziende editoriali. Nel 1999 erano pendenti oltre 2000 cause nei confronti di giornalisti, con richieste di danni per 3500 miliardi a loro carico. Colpisce che proprio i magistrati siano i più numerosi promotori di azioni giudiziarie e anche i titolari dei risarcimenti più pingui. L’anno scorso sono state pronunciati 31 giudizi di condanna, per cause promosse da magistrati, con il riconoscimento di risarcimenti per 60 milioni in media (seguivano i politici, con 25 condanne e 44 milioni). Il fenomeno ha assunto dimensioni allarmanti, e caratteristiche tali da renderlo letale per la libertà d’informazione. Infatti, la cosiddetta manleva, cioè l’intervento dell’editore che si fa carico delle richieste di risarcimento, non è un obbligo, ma solo una prassi. Ciò che espone i giornalisti (e tanto più i direttori, titolari di una assurda responsabilità per "omesso controllo") al pericolo terroristico di pagare di tasca propria in caso di fallimento o indisponibilità dell’editore. Il ricorso dei querelanti all’azione civile, senza concessione della facoltà di prova, senza possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza del giudice monocratico e praticamente senza limiti di tempo dall’avvenuta pubblicazione della notizia ritenuta diffamatoria, configura una sorta di inedita via giudiziaria all’arricchimento personale. In un recente convegno su "Diritto di cronaca, diritto all’immagine, libertà di opinione" è stata proposta l’istituzione di un giurì per la correttezza dell’informazione composto da personalità indipendenti, per favorire la composizione delle controversie in sede extragiudiziaria e consentire la exceptio veritatis, ossia la possibilità di provare la verità di quanto scritto o detto. Il ricorso al giurì, quale condizione di procedibilità della querela o dell’azione civile, servirebbe a dimensionare lo strano caso di magistrati chiamati a giudicare il ricorso di colleghi magistrati. Nonché a riconoscere il diritto, costituzionalmente garantito, a un’informazione corretta e non soggetta a intimidazione.

Un ulteriore causa di disagio per i giornalisti e di interrogativi per l’informazione è costituita dall’avvento dell’era di Internet. Non a torto il direttore generale della Rai, nell’intervento citato in precedenza, ha osservato che della mediazione giornalistica tra le fonti e i destinatari delle notizie si potrà anche fare a meno. E’ un po’ quel che succede in politica, con il passaggio da una forma di democrazia mediata dai partiti a forme di democrazia immediata, in cui impallidisce la funzione pedagogica e di stimolo alla partecipazione svolta dalle associazioni politiche nei confronti delle masse popolari. La democrazia diretta esalta il potere dei cittadini di prendere decisioni individuali sulla base delle informazioni e suggestioni che accompagnano l’offerta politica. Nel caso di Internet, il flusso di informazioni messo a disposizioni di tutti dall’espansione tumultuosa della Rete è pratica mente illimitato. Soprattutto, l’informazione digitale stabilisce un rapporto diretto col pubblico che riduce, o elimina, la mediazione giornalistica. Il punto è se il pubblico possa districarsi nella selva delle informazioni senza altra guida che i "motori di ricerca". Tanto più che la Rete consente a chiunque di mettere in circolo informazioni, magari inventate di sana pianta.

INFOPOLLUTION

Molti anni fa, il grande scrittore russo Solgenitzin, esule negli Stati Uniti, fu colpito nel primo impatto con la società americana dal fenomeno che chiamò infopollution. Ossia inquinamento da eccesso d’informazione, che genera frustrazione per l’evidente discrepanza tra fonti della conoscenza e possibilità d’intervento. Per esempio, bombardare i cittadini di immagini televisive della tragedia della fame in Somalia provoca la decisione, a furore di popolo, di un intervento militare in chiave umanitaria di cui tutti si pentiranno constatandone l’inutilità. E’ un esempio che conferma l’inganno contenuto nel potere dell’immagine, denunciato dal professor Giovanni Sartori in un saggio sulla "videopolitica" che risale a dieci anni fa. L’immagine inganna due volte: perché "decontestualizza" il fatto che mostra, falsificandolo, e perché non tutto ciò che d’importante accade è visivamente documentato, o efficacemente rappresentabile. Quando lo è, suscita emozioni di massa, che spingono il potere politico a prendere decisioni sbagliate: "L’uomo oculare, video formato, è sempre meno un animale mentale, capace di capire quel che vede". Se questo capita adesso, con l’informazione televisiva in mano ai giornalisti, sia pure influenzati dal gusto del sensazionalismo e dalla vena di conformismo politically correct che è nello spirito del tempo, figurarsi la reazione del cittadino comune alle prese con l’alluvione digitale di informazioni indecifrabili miste a invenzioni mascherate. Probabilmente, la soluzione più saggia è quella di affidare a nuovi profili professionali di giornalisti il compito di dare all’informazione una forma riconoscibile fin dall’avvio tumultuoso della rivoluzione digitale. A condizione, naturalmente, di dare efficacia ai controlli sulla correttezza dell’informazione giornalistica e al relativo sistema sanzionatorio.

Tutto considerato non meraviglia che il rapporto annuale di Freedom House, l’associazione americana specializzata in analisi sul rispetto dei diritti civili, abbia collocato l’Italia al dodicesimo posto nella graduatoria mondiale della libertà di informazione. Dopo Germania, Canada, Stati Uniti, Portogallo, Spagna, Repubblica Ceca, Giappone, Gran Bretagna, Polonia, Taiwan, Francia e a pari merito con Cile, Sud Africa, Sud Corea. L’anno considerato per la rilevazione è il 1997. Non è probabile che la situazione sia migliorata nell’ultimo triennio. Non risulta che i mass media, in Italia, abbiano fatto progressi significativi nella marcia di avvicinamento alla condizione ideale di "quarto potere", indipendente tanto dalle pressioni politiche quanto dagli interessi economici. Certamente non è in procinto di farne la Rai, avviata a una finta privatizzazione che non cambierà la nomina politica del suo Consiglio d’Amministrazione, con l’inevitabile corollario della lottizzazione partitica degli organi grammi giornalistici. Né, specularmente, ci si può aspettare che ne faccia la televisione commerciale, consegnata a un ruolo complesso di bilanciamento politico che si realizza in una sostanziale lottizzazione dell’etere tra pubblico e privato.

Segno di un’inversione di tendenza, in un panorama non esaltante, può essere considerato la chiusura dell’Unità, ovvero l’interruzione delle pubblicazioni in vista della ristrutturazione. Non era ragionevole l’accanimento terapeutico per la sopravvivenza di un organo d’informazione che aveva cumulato un passivo di 70 miliardi, crescente al ritmo di 28 miliardi l’anno, in gran parte a carico del contribuente. Quando si arriva a vendere 50.000 copie è insensato conservare una struttura di 123 redattori e 75 poligrafici. Più in generale, non è ragionevole che i partiti dispongano di un proprio organo quotidiano d’informazione, facendosene coprire il costo dalle finanze di un paese che ha votato contro il finanziamento pubblico della politica.

IN CONCLUSIONE

  1. Stanno determinandosi le condizioni per l’esistenza di un sistema editoriale autonomo rispetto ai centri di potere politico ed economico. Tuttavia, un congruo rafforzamento dei poteri del direttore è necessario perché possa considerarsi garantito l’interesse pubblico alla correttezza dell’informazione;
  2. Non si vede come sia possibile, oggi, surrogare la garanzia di qualità dell’informazione digitale rappresentata dalla professionalità giornalistica;
  3. Urge una regolamentazione del contenzioso per reati a mezzo stampa, tale da scongiurare l’intimidazione per via giudiziaria dell’informazione;
  4. Un’informazione "quarto potere" alla maniera anglosassone è un traguardo desiderabile, ma inseparabile dall’evoluzione dell’intero sistema politico istituzionale ed economico sul modello anglosassone. Con relativa emersione di un’opinione pubblica influente;
  5. La reale privatizzazione della Rai e la cessazione dei finanziamenti pubblici dell’editoria partitica fanno parte del processo di liberalizzazione del mercato dell’informazione.

archivio rapporti

Introduzione

Comunicazione e libertà

Libertà nel welfare e nel lavoro

Diritti umani

Evoluzione del sistema politico

I diritti: costanti e variabili

Il sistema scuola: libertà e doveri nel paese dei diritti

Giustizia e integrazione europea

La questione sicurezza