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Diritti umani

a cura di Luigi Compagna

I) L’EUROPA IN ITALIA

Il bel libro di Mario Patrono, I diritti dell’uomo nel Paese d’Europa: conquiste e nuove minacce nel passaggio da un millennio all’altro (Cedam, 2000), offre sistemazione meno precaria e meno disordinata di quel "corpo" di principi generali desumibili tanto da "tradizioni costituzionali comuni", quanto da tradizioni specifiche di singoli paesi, che rende l’espressione "diritti umani" sempre più antica e al tempo stesso sempre più moderna, riferimento obbligato e mai evasivo delle connessioni tra sovranità e libertà. Di qui l’intrecciarsi, contrapporsi, sovrapporsi di diritti "espliciti" e diritti "impliciti", diritti "positivi" e diritti "negativi", diritti "orizzontali" e diritti "verticali", diritti di una "prima", una "seconda", di una "terza" e anche di una "quarta" generazione, garantismi individuali e garantismi sociali, solidarietà da costruire e solidarietà da sradicare. Alla fine della sua attenta disamina, la conclusione di Patrono è che la disciplina dei diritti fondamentali da scrivere in una Costituzione europea, o in un Bill of Right per l’Europa, non riguardi il loro catalogo, né la Corte che avrà competenza a tutelarli. Ma la loro applicazione giudiziaria, la quale a sua volta dipenderà essenzialmente dai fini e dai valori con cui il costituzionalismo europeo si farà costituzionalismo costituente. Lo stesso appuntamento, fissato nel giugno scorso dal Consiglio Europeo di Colonia, di una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non prelude affatto al dispiegarsi a breve di un’Europa federale, tuttora ben lungi dal profilarsi dietro l’angolo. L’ultima parte del libro, dedicata alla disputa tra la Corte di Giustizia europea e le Corti costituzionali o supreme, nazionali, disputa inerente chi sia investito della petizione dei diritti fondamentali nei confronti della normativa comunitaria, finisce con l’essere quella più interessante circa il nostro futuro. Invece che dottrinario delle diverse tipologie del federalismo, Patrono si sente soltanto un giurista, un giurista in grado di ragionare non solo de lege lata , ma pure de lege ferenda, e, quindi, su dove, quale, come sia oggi il sentiero della costituzione europea. L’europeismo italiano, soprattutto negli ultimi anni, ha dimostrato un limite invalicabile: quello di anteporre per lo più l’obiettivo nazionale dell’Italia in Europa a quello europeo dell’Europa in Italia. Di qui la sua sostanziale estraneità, o comunque marginalità, rispetto quella che Patrono definisce "la fabbrica dell’Europa". Sembra quasi che il nostro paese abbia deciso di non esserci , o meglio di esserci soltanto a parole, il che è anche peggio. Si pensi , in tema di diritti umani, al tema, mai come quest’anno ineludibile, delle nostre carceri.

II) "I CARE": NON DELLE CARCERI

Le vicende del carcere San Sebastiano di Sassari non sono che il picco emergente di quel gigantesco iceberg costituito dal malessere delle nostre carceri. L’idea secondo la quale i problemi del sistema carcerario possano considerarsi "corpo separato" del nostro sistema di human rights è un’idea sbagliata. Così come è sbagliato l’approccio secondo cui in carcere debbano confrontarsi esclusivamente diritti e doveri di detenuti ed agenti di custodia, in un rapporto "sindacal-corporativo", in una logica privata e privatistica, nell’accezione peggiore dello scambio di favori e accomodamento di privilegi. Tale idea e tale approccio hanno finito con l’appannare quei profili di vita in carcere pubblici e pubblicistici, nell’accezione migliore che riguardano tutti i cittadini e impongono di garantire sempre erga omnes e non di negoziare intra moenia diritti e doveri a custodia di umanità. Stenta in Italia a farsi strada un patriottismo costituzionale, che porti a vedere nella Costituzione prima che una "legge" nel senso tecnico, e sia pur "superiore" alle altri leggi, un valore, o meglio una tavola di valori, che non consenta quei disvalori costituzionali, in alcune circostanze, in alcuni luoghi, in alcuni tempi giustificati da questa o quella emergenza , supplenza, esigenza.

Si pensi ad un personaggio come Giancarlo Caselli, da più di un anno alla guida del dipartimento degli affari penitenziari del ministero della giustizia, e forse troppo personalisticamente invitato a dimettersi dopo il pestaggio di Sassari. Di lui si dice, e soprattutto si proclamava, quando era alla guida della Procura di Palermo, che fosse espressione della cosiddetta "cultura della legalità". E sinceramente lo era; così come altrettanto sinceramente tale "cultura della legalità" non era, né voleva essere, anche una "cultura dei diritti": cioè capace di considerare i dettati della Costituzione come qualcosa che vincola della stessa forza obbligante la legislazione, l’amministrazione, la giurisdizione, il senso comune. Un costituzionalista non meno profondo ed elegante di Patrono, decisamente insospettabile di spirito polemico nei confronti di Caselli, aveva rilevato tanti anni fa come il troppo ristretto ed asfittico dispiegarsi dei diritti riconosciuti della Costituzione risentisse di quanto i magistrati in Italia fossero giudici delle leggi e non giudici dei diritti (G. Lombardi, Premessa al Corso di diritto pubblico comparato, Problemi di metodo, 1986, pp. 45-50). Ci sarebbero, quindi, radici antiche, a loro modo culturali, di quella stagione che vide così poco tutelati gli human rights di Andreotti, Mannino, Contrada, Musotto. Una stagione della quale lo stesso Caselli sembrò distanziarsi quando, senza attendere la sentenza del processo Andreotti , volle andare a dirigere il dipartimento. Ma una stagione che in qualche modo torna ad incalzarlo, quando Filippo Mancuso parla oggi di detenuti "sassarizzati" nelle carceri di un noto "bel crine". Il sarcasmo di Mancuso, più che legittimo e forse più che appropriato in un parlamentare d’opposizione, non può però pretendere di esaurire le condizioni delle nostre carceri nell’inidoneità di Caselli al suo ruolo. A suo modo, con ancor più malizia di Mancuso, l’Osservatore Romano del 9 maggio ricordava "la vicenda Baraldini, per cui il rientro in Italia si impegnò il governo e il suo stridente contrasto con gli episodi di violenza che consumavano a Sassari". Ed in effetti la Baraldini e Caselli sono stati riferimento irrinunciabile della maggioranza e dei governi di sinistra, entrambi oggetto di un culto e di una passione civile ad personam , riconducibili a quella propensione allo Stato etico ed antipatia allo Stato di diritto che è stata tipica della sinistra italiana, e che ha circoscritto alle vicende individuali della Baraldini, dal punto di vista della fruizione, e di Caselli, dal punto di vista della gestione, ogni considerazione del fenomeno carcerario negli ultimi anni.

Non si spiega altrimenti come stanziamento ed avanzamento dei lavori di edilizia penitenziaria siano regrediti rispetto cinque anni fa, quando era ministro Mancuso col governo Dini. Dopo Sassari, il governo Amato ha varato un provvedimento del ministro Fassino che ha destinato centosessanta miliardi per costruire quattro carceri a San Vito al Tagliamento, Pordenone, Rieti, Marsala. Ma è chiaro come non basti costruire nuovi edifici. Del resto, nei giorni di Sassari, molti giornali hanno scritto, senza incorrere in smentite e confutazioni ministeriali, di quattro strutture carcerarie completate ma ancora inutilizzate a Milano Bollate, Caltagirone, Rossano Calabro, Sant’Angelo dei Lombardi. E c’è pure chi ha ricordato il caso del carcere mandamentale di Castelnuovo della Daunia, ultimato da quasi dieci anni ma evidentemente ritenuto troppo simile ad un albergo di lusso, dal momento che la sua gestione è stata ritenuta dal ministero troppo onerosa. Ancor più sconcertanti delle cronache giornalistiche sono le informazioni che si ricavano dalla lettura degli atti parlamentari. Alla Camera, presso l’undicesima commissione, sarebbe stata avviata già da qualche mese, cioè prima di Sassari, su iniziativa del presidente diessino on. Renzo Innocenti, una indagine sulla "situazione delle strutture carcerarie in tutta Italia", che evidentemente né Caselli né il suo dipartimento hanno mai preso sul serio. Al Senato, giace ancora dal 3 novembre 1999, senza che né il governo, né l’interessato abbiano sentito l’esigenza di un immediato chiarimento, una interpellanza (la numero 2-00941) dell’ex capo dello Stato senatore Francesco Cossiga, nella quale si chiede di "sollevare il Dottor Giancarlo Caselli dall’incarico di direttore generale del Dipartimento degli affari penitenziari , per rientrare nella competenza di tale direzione il controllo del sistema carcerario, nonché l’esercizio di poteri di polizia sui cosiddetti pentiti, ciò al fine di assicurare sufficienti garanzie di non strumentalizzazione politica dei suoi poteri, anche al fine di rendere non ipotecabile da dubbi la gestione dei cosiddetti pentiti da parte dell’autorità giudiziaria".

Non si è risposto a Cossiga evidentemente per la troppo viva preoccupazione, anche dopo la sentenza su Andreotti, di non "delegittimare" riguardo al passato il Caselli pubblico ministero. Il risultato è stato quello di "delegittimare" riguardo al presente il Caselli direttore generale, già da prima dei fatti di Sassari . Un governo che avesse la cultura e non la retorica degli human rights avrebbe dovuto rispondere immediatamente: magari associando il nome di Caselli a quello di Leonardo Sciascia, quando lo scrittore auspicava che ogni magistrato, prima di prendere servizio, avrebbe dovuto trascorrere almeno un giorno della propria vita nella cella di un carcere... Del resto, proprio a proposito dell’uso del carcere nel Regno Unito al fine di estorcere la "confessione" e la "collaborazione" degli arrestati, le pagine di Mario Patrono rilevano come la Convezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo abbia finito con l’imporre all’ordinamento inglese, in relazione a certi poteri esercitati su vasta scala dalla polizia nella lotta al terrorismo dell’Irlanda del Nord, quella presunzione di innocenza, che consente di evocare Sciascia e Manzoni. Porre le care ombre di Sciascia e di Manzoni sulla testa di Caselli non sarebbe stato per niente paradossale, ma doveroso: perché l’Europa fosse in Italia, anche nelle carceri, anche nel fronteggiare terroristi e mafiosi.

Quando i governi di Prodi e di D’Alema si adoperavano perché fosse concesso a Silvia Baraldini di scontare il resto della pena detentiva, come ella desiderava, in Italia, sembrava singolare che a tale "attivismo" corrispondesse tanta "trascuratezza" per le condizioni spesso disumane di altri nostri connazionali. A guardare le immagini che della signora Baraldini giungevano dagli Stati Uniti, dove era detenuta, quando la si vedeva ben vestita e in stanze pulite, quando si leggeva che poteva usare il computer, accedere alla biblioteca, agli impianti sportivi, veniva da pensare come la sua aspirazione a tornare in Italia si legasse ad affetti tenaci, più forti di ogni privilegio. Si è poi appreso che la suddetta abbia trovato le carceri italiane assai meno accoglienti di quelle statunitensi e se ne sia lamentata a mezzo stampa. Ha ragione, ha perfettamente ragione. Ma proprio per questo non è la detenuta più indicata a svolgere "mediazioni" fra le altre detenute e l’amministrazione penitenziaria, come secondo il Corriere della Sera sarebbe avvenuto nelle "roventi" giornate di Rebibbia del 12 e 13 maggio scorsi. Anche il ricorrente luogo comune secondo cui problema dei problemi sarebbe in Italia quello di diminuire la popolazione carceraria è fuorviante. La legge Gozzini ha permesso nell’arco di quest’ultimo decennio a trentamila persone, anche condannate a pene abbastanza gravi, di evitare la prigione, senza che ciò abbia risolto il problema. Il governo però, stando alle posizione ribadite recentemente, continua a pensare che la popolazione carceraria debba assestarsi poco sopra le 40.000 unità; mentre in Francia la capacità ricettiva è superiore alle 50.000, in Germania è di 71.000 e in Inghilterra di 54.000. Di qui il "tormentone" sull’amnistia seguito, del tutto a sproposito, ai pestaggi di Sassari.

Pietro Fornace, presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino dal ‘95 al ‘96, uomo che ha dedicato la propria vita di studioso e di magistrato ai problemi penitenziari, intervistato da Gianni Pintus su Il Giornale del 14 maggio scorso, rilevava: "la sinistra in Italia ha sempre criminalizzato l’istituzione carceraria. Non sono distanti gli anni nei quali durante affollati convegni si parlava di una società senza penitenziari. I risultati di quella cultura demagogica sono sotto gli occhi di tutti. Le carceri sono diventate un inferno". Veltroniana, caselliana, baraldiniana, la sinistra italiana quest’anno ha scelto di darsi come motto "I care". Quel che significhi e quel che implichi è restato oscuro. Ma che non implichi "i diritti presi sul serio", come quindici anni fa in un famoso volume di Ronald Dworking, è pressoché certo. L’ideologia che vuole le carceri manifestazione dell’inferno viene da lontano e riesce a resistere all’opposizione come al governo, nella contestazione come nel sottogoverno. Un poco come l’altro residuo ideologico, tutt’altro che ininfluente rispetto alla condizione delle carceri: l’eliminazione, più o meno teorizzata, più o meno subito, di ogni vincolo all’immigrazione.

III ) LO STATUS CIVITATIS

Al di là di talune buone e altre meno buone intenzioni, l’Italia non sembra ancora dotata di una normativa in materia di immigrazione extracomunitaria, che le consenta di abbandonare le logiche dell’emergenza e che offra un omogeneo quadro di riferimento al legislatore regionale. Lo si ricava dalla lettura del Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, diffuso il 30 novembre del 1999 della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, istituita presso il Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio. Il Rapporto, documentato anche là dove sembra reticente e reticente anche là dove sembra documentato, risente nelle sue luci e nelle sue ombre del peso di ciò che non si è fatto assai più di ciò che si è fatto, per guidare "l’Italia verso una società plurale", come recita una dei suoi capitoli. Ma "una società plurale", o anche come più ricorrentemente si dice, una società multietnica, può voler dire tutto e il contrario di tutto. Nei fatti e nell’esperienza storica finora vissuta la convivenza permanente tra immigrati e indigeni può assumere almeno tre volti.

Il primo è l’assimilazione: gli immigrati imparano a perfezione la lingua, adottano in pieno i costumi di dove vivono e dopo qualche anno nessuno li distingue più dai locali. Ben diverso è il volto dell’integrazione: gli immigrati si impegnano a rispettare nella sfera pubblica un insieme determinato di norme fondamentali del paese dove hanno trovato accoglienza, mentre nelle sfera privata mantengono lingua, costumi, religione d’origine, e sono aiutati dallo Stato a far sopravvivere tali loro diversità culturali. Ma è possibile però un terzo volto, quello profondamente radicato negli Stati Uniti: gruppi etnici distinti si redistribuiscono in aree distinte del paese, nelle città come nelle regioni, ed entro tali enclaves territoriali l’adesione agli obblighi dello Stato nazionale è sentito solo in superficie e talora neanche in superficie.

Fra questi tre volti dell’immigrazione, l’Italia, con molto cautela e qualche ipocrisia, vorrebbe esprimere una qualche preferenza per il secondo. Ma sempre e soltanto a patto di non esser poi indotta a scelte di campo, diciamo così, sulla nozione di cittadinanza, su che cosa derivi, nel secolo XXI, dall’ambizione di essere ancora uno Stato nazione, sul punto al quale si può arrivare nella necessaria e proficua apertura ad altre identità culturali, senza rischiare di perdere o appannare la propria .

Sotto questo profilo , fra "diritti sociali" e "diritti politici" la preminenza compete ai primi: come prima e meglio che nel Rapporto del 1999 emergeva in un saggio del 1998 di Andrea Patroni Griffi, I diritti dello straniero tra Costituzione e politiche regionali, sulla Rivista Amministrativa della Repubblica Italiana ( 1998 , pp. 493  512).

Nel nostro ordinamento costituzionale, dei diritti fondamentali, cioè dei diritti inviolabili dell’uomo e delle donne come tali, sono titolari e il cittadino e lo straniero. Il che non esclude che, stando al linguaggio della nostra Corte Costituzionale, "nella situazione concreta non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova limite se non nella razionalità del suo apprezzamento". Insomma, secondo la Corte , il legislatore non può incidere sulla titolarità dei diritti fondamentali dell’uomo, ma sulla loro disciplina ed esercizio, stabilendo tra i cittadini e stranieri differenze di trattamento, purché razionali. Di qui la possibilità, rifacendosi di volta in volta a pronunce adottate dalla corte, di pervenire ad un sommario catalogo dei diritti fondamentali.

Diritti così riconosciuti agli stranieri perché fondamentali possono ritenersi: il diritto di difesa (sent. 50/72); libertà di circolazione (sent. 46/77); diritto alla salute (sent. 103/77); diritto alla vita (sent. 54/79); i diritti dei minori (sent. 199/86); libertà personale (sent. 62/94). Da ultimo la Corte Costituzionale, richiamandosi a sue precedenti sentenze, ha riaffermato che il diritto"degli invalidi e dei minorati all’educazione ed all’avviamento professionale" (art. 38c. 3 Cost. ) spetti anche allo straniero avente titolo ad accedere al lavoro subordinato nel territorio dello Stato in condizioni di uguaglianza con i cittadini, non essendovi, sotto questo profilo, ragione di differenziarne il trattamento rispetto al cittadino italiano. Non è, invece, considerato diritto fondamentale, e, dunque, non spetta agli stranieri il diritto di ingresso e soggiorno in Italia.

Non si è capito, perciò, quali siano le ragioni di incostituzionalità, pregiudizialmente riscontrate dall’allora Presidente del Consiglio nella proposta di legge di iniziativa popolare in materia di immigrazione presentata in Cassazione il 18 marzo scorso. A meno di non coglierci un argomentare ideologico del tipo: a) gli immigrati devono venire in Italia, e su vastissima scala; b) per liberare gli italiani dai lavori più faticosi e per contribuire alle loro pensioni; c) perché una massa di immigrati, che si ipotizza disposta a votare per la sinistra "buonista", assicurerebbe così un "bottino elettorale" sul quale mai potrebbe mettere le mani la destra "becera". Si tratta di un argomentare tutto e soltanto ideologico, niente affatto costituzionale. Anzi, su questo secondo terreno verrebbe da prospettare a quello stesso ex-Presidente del Consiglio una considerazione inerente Ocalan. L’unico diritto fondamentale che appartiene esclusivamente allo straniero è quello d’asilo, in base all’articolo 10 comma 3 della Costituzione; ne consegue che lo straniero che vuole esercitare tale diritto ha anche un diritto all’entrata e al soggiorno provvisorio, se ne deduce che il diritto all’entrata ed al soggiorno provvisorio in Italia di Ocalan senza che il diritto di asilo gli fosse concesso non hanno segnato una bella pagina di orgoglio nazionale e di "diritti presi sul serio".

La verità è che secondo liberalismo quella inviolabile deve essere la libertà d’emigrazione, mentre limiti alla libertà di immigrazione sono sempre concepibili, pensabili, attuabili. Di quella proposta di iniziativa popolare, che mira a passare dalla logica della sanatoria a quella della programmazione degli accessi, si possono sottolineare incongruenze, insufficienze, limiti: ma nessuno ha diritto, meno che mai il governo, a contestarne la piena legittimità sotto l’aspetto dei valori costituzionali.

Le persone non sono merci. Le merci possono andare da un paese all’altro e la loro libera circolazione aumenta il benessere generale. Una merce, una volta acquistata, diventa a disposizione dell’acquirente, che la utilizza o la consuma a suo piacimento. Quando non serve più, la merce viene gettata, senza che vi siano problemi. Dovrebbe esser evidente che tutto questo non vale per le persone. Non vale per due ragioni, che sono diverse ma complementari. In primo luogo, il fatto che una persona si stabilisca in un certo territorio ha delle conseguenze che non riguardano soltanto il suo datore di lavoro, o gli acquirenti dei beni e servizi che essa produce, ma tutti gli altri abitanti. Le persone non esistono soltanto in quanto lavoratori dentro una campagna, una fabbrica o ad un ufficio. Le persone hanno una cultura e degli stili di vita propri, che vengono a contatto con quelli delle altre persone. Il risultato di questa interazione è decisivo per la vita di tutti. E’ possibile che le conseguenze siano positive, ma non è affatto detto che sia così. Tutto dipende da una quantità di fattori, che vanno valutati specificamente. Questa valutazione non ha nulla a che vedere con quella che può e deve fare esclusivamente il mercato. In secondo luogo, le persone non possono essere accantonate quando non servono più, ovvero quando il loro lavoro non è più richiesto. Non lo possono di fatto, e sarebbe evidentemente contrario ad ogni senso morale condiviso assumere il contrario. Quando le persone si stabiliscono in un Paese esse diventano parte di una comunità sociale e politica e acquisiscono dei diritti il cui soddisfacimento inevitabilmente ricade sugli altri cittadini, che questi lo vogliano o meno. Equiparare la libera circolazione delle persone a quella delle merci significa immaginarsi un mondo nel quale non vi siano costi per la giustizia e l’ordine pubblico, non vi siano "diritti sociali", non esistano comunità sociali e politiche (e quindi non vi siano decisioni collettive vincolanti per tutti), non vi siano conflitti sociali, non vi sia violenza e non vi sia guerra. Il liberismo non è, né può essere, in materia costituzionale.

Ha scritto Angelo Maria Petroni su Il Giornale del 4 aprile scorso: "è una delle tante indecenze del trasformismo mentale della sinistra italiana che essa invochi oggi i principi del libero mercato per giustificare la sua politica di abolizione, di diritto o di fatto, di ogni regola all’immigrazione in Italia. Gli scopi della sinistra non hanno nulla a che vedere con il rispetto dei principi liberisti. La sinistra è mossa infatti da due ragioni: l’atavico odio nei confronti dell’identità delle nazioni europee, e la prospettiva di conquistare i voti degli immigrati". La motivazione niente affatto razzista di una ragionevole regolazione dei flussi in entrata riposa su valori ed argomenti pienamente democratici e nitidamente liberali. Vi si possono dedurre dalla vocazione filosofico-sociologica, non sospettabile di conservatorismo, del francofortese Habermas. Non si tratta della necessità di tutelare sotto il profilo etnico o culturale "una comunità di destino", si leggeva nella relazione presentata negli anni 90 alla CEE da Jurgen Habermas, percorsa da strali più che acuminati contro lo "sciovinismo del benessere"; piuttosto "legittime restrizioni al diritto d’immigrazione" per Habermas vanno spiegate con "l’esigenza di evitare conflitti e problemi che, per la loro entità, sarebbero in grado di rappresentare una seria minaccia all’ordine pubblico o alla riproduzione economica della società". Insomma, anche nel lessico di Habermas, sono l’ordine pubblico e la capacità di assorbimento a rivendicare limitazioni al regime di "porte aperte" a tutti da parte di tutti, di cui a sinistra ci si atteggia a fautori tanto generosi quanto sostanzialmente cinici.

Qualcuno potrebbe rilevare come la sinistra tedesca provenga da Bad Godensberg e quella italiana ne allora né poi sia stata socialdemocratica. Ma la tragedia è che, senza essere stati a Bad Godensberg negli anni ‘50, si è poi pensato di poterne fare a meno mettendosi al passo dei Caselli e delle Baraldini. Ed alla fine "I care" era un bel motto, ma gli human rights proprio non c’erano ...

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I diritti: costanti e variabili

Il sistema scuola: libertà e doveri nel paese dei diritti

Giustizia e integrazione europea

La questione sicurezza