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La libertà nel welfare e nel lavoro

a cura di Giuliano Cazzola

E’ ormai patrimonio della democrazia occidentale avere uno spettro ampio dell’idea della libertà, tanto da ritenere indissolubili e tra loro coerenti i diritti politici e di cittadinanza e le libertà economiche. Per decenni si è teorizzata (fino costruire su tale principio Stati ed ordinamenti) l’inconciliabilità tra libertà e proprietà: ora si arriva a riconoscere che si tratta di elementi indissolubili, che senza la vitalità di quella miriade di interessi sottesi alle libertà economiche anche le libertà politiche divengono sterili e incomplete. L’economia di mercato è allora il compagno di strada della società aperta di Karl Popper. Essa richiede flessibilità, adattabilità, capacità di correzione, ma anche (e soprattutto) regole e concorrenza. La competizione non è affatto aliena da comportamenti correttivi e giusti, non è insensibile al temperamento che può derivare dalla solidarietà. Anche la cultura della solidarietà, però, non può respingere la modernizzazione, ma deve metterla alla prova, sfidarla dall’interno, sulla base del presupposto che mai l’umanità è stata in possesso di risorse materiali ed intellettuali tanto ingenti, come nei sistemi capitalistici, i quali hanno prodotto beni materiali, servizi, scoperte scientifiche più di quanto sia stato fatto nella lunga storia dell’umanità.

Oggi dobbiamo riconsiderare l’organizzazione politica e sociale alla luce dei cambiamenti che si annunciano con la globalizzazione e l’internazionalizzazione dell’economia e con l’adozione di adeguate tecnologie di supporto (questo è il senso vero della new economy). Nell’epoca della circolazione dei capitali, degli investimenti e delle merci le nazioni in via di sviluppo (non bisogna attraversare gli oceani, ma è sufficiente viaggiare nell’Europa dell’Est) possono mettere a disposizione convenienze importanti: non solo risorse umane giovani e dotate di un buon livello di istruzione, ma anche ordinamenti sostanzialmente privi di regole e vincoli. Il rischio di dumping sociale è dunque un’amara realtà con la quale sarà sempre più necessario fare i conti. Va da sé che è impensabile proporre radicali mutamenti negli standard di vita delle popolazioni dei paesi ricchi e, in particolare, delle nazioni europee che coltivano con cura i loro sistemi di welfare state. Ma nessuno riuscirà mai ad imporre a tutto il mondo gli standard dei paesi che sono abituati a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Il problema, allora, è quello di trovare un equilibrio tra una capacità di competere, nel quadro di una nuova divisione del lavoro, sul piano della qualità produttiva e di promuovere, nel contempo, uno zoccolo di regole minime a cui tutti devono quanto meno tendere. Questo disegno richiede, però, il coraggio di mettere in discussione i propri assetti. I paesi che lo hanno fatto per tempo, che hanno liberalizzato i propri ordinamenti (si pensi agli Usa e al Regno Unito) sono oggi in grado di realizzare crescita economica e sviluppo dell’occupazione, mentre la vecchia Europa continentale somiglia sempre più a "un museo" come ha scritto il Washington Post "che spende tutto per custodire il proprio passato".

Sono le grandi coordinate dell’economia a dettare le regole del lavoro, che è pur sempre un elemento, una componente - ancorché importante - dell’attività produttiva. Ogni innovazione destabilizza, per sua natura, l’assetto precedente ed impone una profonda revisione degli equilibri consolidati. Fino ad oggi si era pensato che lo sviluppo fosse un processo continuo ed ininterrotto, trainato dalla capacità di offerta; e che il principale problema fosse quello della spartizione del lavoro e della distribuzione del reddito. Adesso ci si è accorti che nessuno è in grado di garantire la quantità totale del lavoro, la quale è assolutamente dipendente dal grado di competitività. D’altra parte, dagli organismi internazionali giunge un grido d’allarme che non consente equivoci. I presìdi di sicurezza sociale, che hanno caratterizzato il XX secolo, sono ormai agli sgoccioli, non potranno affrontare le sfide del terzo millennio. In caso contrario, non solo aumenteranno gli squilibri dei bilanci pubblici, ma saranno messi a rischio di declino gli assetti economici di quei Paesi. Il virus di una disoccupazione endemica, nella vecchia Europa, si spiega solo per effetto di uno Stato sociale "pesante" che impone forti livelli di qualificazione tecnologica (a risparmio di lavoro) per mantenere standard adeguati di competitività sui mercati internazionali. Le sfide del futuro, allora, saranno vinte da quelle nazioni in grado di stare alle regole di un confronto globale e di riconvertire e mettere in campo, nella grande partita della internazionalizzazione dei mercati, risorse ora requisite dalla pubblica amministrazione per adempiere ai suoi compiti istituzionali. Nel misurarsi con questi obiettivi, i governi non possono muoversi, soltanto, secondo logiche di contenimento e di aggiustamento, ma devono trovare il coraggio politico e la fantasia per ridisegnare (unitamente agli aspetti connessi alla redistribuzione del reddito) la mappa dei diritti di cittadinanza. Nella società multietnica e multirazziale di domani, caratterizzata da grande mobilità, sottoposta allo stress del cambiamento repentino, i vecchi principi del welfare state, organizzati nelle tradizionali strutture dei grandi apparati previdenziali e sanitari, diverrebbero sempre più uno status fruibile da una parte della popolazione, sostanzialmente privilegiata. Le prerogative di tale status non potrebbero essere generalizzate per mancanza di risorse; così si creerebbero (basta guardarsi attorno per vederne gli annunci) due comunità distinte e separate, discriminate dallo standard dei diritti di cui possono godere. Dalla "cittadella dei garantiti" sarebbero emarginati non solo i nuovi poveri, gli immigrati, ma anche i giovani disoccupati e respinti da un mercato del lavoro regolare, loro precluso.

Lo scenario sommariamente delineato non dà scampo: l’entropia da benessere è il "male oscuro" delle società sviluppate, il nodo scorsoio che ne strangola le prospettive. Ambedue i modelli di welfare (quello universalistico, caratteristico dei paesi nordeuropei, che assicura una base uniforme di tutela per tutti i cittadini e quello occupazionale-lavoristico, proprio dell’Europa continentale, che ha come destinatari i lavoratori) sono in difficoltà. Il primo, pressato dall’esigenza di dare di più a tutti, soffre contemporaneamente per la rigidità delle prestazioni (necessaria mente connessa al requisito dell’eguaglianza) e per la crescita dei costi; il secondo, come abbiamo già fatto notare, finisce per rinchiudersi nell’area declinante del lavoro protetto e regolare, ignorando le nuove esigenze e caricando il mondo della produzione di oneri eccessivi, inversamente proporzionali alla qualità dei risultati. Paradossalmente, col suo modello misto, occupazionale in tema di previdenza ed universalistico in materia di sanità, l’Italia soffre dei vizi, palesi e occulti, di ambedue i modelli di solidarietà sociale.

La previdenza resta un settore estremamente critico, nonostante gli interventi realizzati negli ultimi anni. Il settore assorbe più di due terzi dell’intera spesa sociale. Non consente, quindi, alcun margine apprezzabile per una diversificazione delle politiche sociali in grado di cogliere nuove esigenze e di rispondere ad altre istanze sociali. Ha al proprio interno squilibri ed iniquità, se è vero che i trattamenti migliori sono goduti dai pensionati più recenti e con una età anagrafica che negli altri paesi non consentirebbe affatto di ritirarsi dal lavoro. Il deficit strutturale dei regimi pensionistici (inclusi gli interventi definiti assistenziali) sfiora il 4% del Pil e si pone pertanto come fattore permanente di rischio sugli obiettivi del patto di stabilità e come ostacolo alla riduzione della pressione fiscale, da cui verrebbero benefici alla crescita dell’economia e dell’occupazione. Per giunta, le riforme realizzate pongono i costi del risanamento a carico delle future generazioni, le quali già devono sopportare e smaltire quel debito che le classi precedenti hanno contratto per darsi e mantenere un sistema pensionistico insostenibile. E, per almeno trent’anni, gli occupati di domani dovranno destinare quasi la metà del proprio reddito, nell’ambito della ripartizione del sistema obbligatorio, per finanziare le pensioni vigenti e trovare risorse ulteriori per preparare, con metodo della capitalizzazione, trattamenti integrativi del magro assegno che sarà loro riservato dal regime pubblico. Per giunta, i percorsi sono rigidamente segnati e non consentono "uscite di sicurezza". Nessuno è libero di provvedere alla propria vecchiaia avvalendosi degli strumenti che ritenga più congrui. Il legislatore, nel tempo, ha voluto istituire modelli di assicurazione obbligatoria a copertura di qualunque tipo di posizione professionale: modelli che, movendosi nell’ambito del principio della ripartizione, realizzano una solidarietà forzata tra le generazioni, per altro divenuto oltremodo onerosa. Anche, nel campo della previdenza privata a capitalizzazione (i cosiddetti fondi pensione) sono previsti dei vincoli, in quanto si tende a privilegiare le forme di natura collettiva, promosse a cura delle parti sociali, nell’ambito della contrattazione collettiva. Clamoroso è il caso dei cosiddetti parasubordinati (un rapporto di lavoro in cui si raccoglie gran parte della nuova occupazione): il loro fondo presso l’Inps metterà insieme, a fine 2000, un avanzo patrimoniale di quasi 15 mila miliardi. Ciò accade nel momento in cui il presidente dell’Inps, Massimo Paci, continua ad avvertire sul rischio pensioni di questa categoria di lavoratori, la quale paga, peraltro, il 13 per cento di aliquota contributiva e pagherà a regime il 19 per cento, senza poter sperare di conseguire, a suo tempo, un trattamento adeguato.

Per quanto riguarda la situazione della sanità , va detto che il sistema pubblico ha in sé anche aspetti di qualità che sarebbe ingiusto negare, soprattutto quando il settore privato, per tante ragioni, è in generale, meno qualificato. Non possiamo fare a meno, però, di paragonare il Servizio Sanitario Nazionale al Muro di Berlino: un’opra mastodontica che aveva la pretesa di difendere quelli che invece teneva prigionieri. La caratteristica più negativa del SSN sta proprio nel disegno di onnicomprensività che lo contraddistingue: al cittadino non sono consentite alternative né vie d’uscita se non di tasca propria. Lo Stato, in un raptus pianificatorio, intende prevedere e programmare tutto, anche al di fuori delle strutture e dei servizi pubblici. Così, si è creato un settore privato parassitario (salvi i casi di eccellenza) e si sono allevate vere e proprie burocrazie mediche assolutamente dipendenti dal sistema pubblico, anche quando non hanno un rapporto di lavoro dipendente. Questa situazione è la causa principale della più grave peculiarità negativa delle nostre politiche sanitarie. A fianco di un’ingente spesa pubblica (nell’ordine di 117 mila miliardi nel 2000, ritenuti tuttavia insufficienti) è cresciuta una "bolla" di spesa privata, quasi totalmente a carico delle famiglie (per un ammontare stimato in 40 mila miliardi, di cui almeno 30 mila ripetitivi, in quanto rivolti ad acquistare prestazioni e servizi già erogati dal servizio pubblico). Si tratta di risorse che non vengono neppure mediate da momenti di organizzazione collettiva come le casse mutue, i fondi integrativi o le stesse polizze malattia (attività queste che, nel complesso, non arrivano a raccogliere 5 mila miliardi l’anno). Eppure, la Fortezza Bastiani sembra inattaccabile, al riparo delle iniziative referendarie, strenuamente difesa da potenti corporazioni (nella sanità lavora un milione di persone) che identificano gli interessi generali con quelli del loro gruppo e che sono sempre disposte a sostenere, pro domo sua, tutte le battaglie ideologiche portate avanti dagli statalisti di turno. Addirittura, siamo arrivati al punto - nell’era di Rosi Bindi - di ricondurre, nell’ambito del pubblico, anche l’attività libero professionale dei medici e di promuovere una rete di fondi sanitari doc, in quanto chiamati ad erogare solamente le prestazioni non fornite dal servizio nazionale, ricevendo in questo modo, maggiori agevolazioni fiscali. In fondo, a pensarci bene, è la medesima logica che ha ispirato il disegno di legge sulla parità scolastica: anche in questo caso, ci saranno gli istituti privati doc, quelli col bollino blu dello Stato, a godere dei benefici riconosciuti.

Nel campo delle politiche sociali, il comparto dell’assistenza vive un singolare destino. Ha certamente un passato glorioso, nel senso che rappresenta l’originario embrione di welfare state, quale complesso di provvedimenti rivolti a combattere l’emarginazione e l’esclusione, che lo Stato ha gradualmente sottratto all’esclusiva delle istituzioni ecclesiastiche, attribuendosi funzioni in proprio. L’evoluzione concreta delle politiche di welfare ha imboccato, poi, altre strade. I diritti sociali hanno acquistato un’impronta professionale occupazionale, sono diventati un corollario di una condizione lavorativa. Certamente, l’assistenza ha un futuro, dal momento che è il comparto che può avere la migliore predisposizione ad affrontare le nuove emergenze dettate da una più complessa articolazione sociale. Paradossalmente, però, il comparto rimane sospeso tra passato e futuro, nel senso che non ha ancora un presente e svolge, nella tipologia dei trasferimenti monetari, un ruolo residuale, mentre sul piano dei servizi, non esiste un quadro uniforme dei diritti riconosciuti ai cittadini: ogni istituzione locale (sono queste che si sono ritagliate gli spazi operativi) fa quello che può, sulla base delle sue disponibilità.

Il modello di welfare state, come abbiamo visto, è incentrato sulla concezione tolemaica del posto fisso. Nei fatti a lavoro, sindacato, stato sociale, si applica la proprietà transitiva (se A=B e B=C anche A=C). L’anima è la stessa: il sindacato non è in grado di riconoscere pari dignità ad un lavoro flessibile, mutevole, misto, ora dipendente, ora autonomo o quant’altro. Non può farlo perché non saprebbe riconvertire se stesso - ammesso che fosse possibile al sindacato sopravvivere oltre il declino della società industriale - alle nuove forme di tutela richieste. Così il sindacato confederale difende, attraverso l’uso di un potere politico improprio, un modo di lavorare e un sistema di protezione sociale condannati dall’economia, perché non saprebbe vivere in un altro contesto. Anche senza addentrarsi nel futuribile (non troppo, visto che questi lavoratori saranno circa 700 mila in Italia nei prossimi tre anni) del tele-lavoro, basta considerare una realtà viva e palpitante sotto i nostri occhi: il lavoro parasubordinato, i contratti atipici. E’ noto che la quasi totalità delle nuove assunzioni avviene con queste tipologie di rapporti, riunificate (come abbiamo visto) nell’obbligo dell’iscrizione ad una gestione previdenziale obbligatoria presso l’Inps. L’Istituto annovera ormai 1,7 milioni di posizioni previdenziali a tale titolo. Di questi, la grande maggioranza è composta da giovani. I sindacati confederali hanno messo gli occhi sulla nuova "torta", promovendo proprie forme organizzative, anche in vista della elezione del comitato amministratore delle gestione pensionistica. Ma non sono riuscite ad avere che poche migliaia di aderenti. Anche in questo caso, l’approccio è sempre quello tradizionale: come già in campo previdenziale, il Parlamento ha all’esame un disegno di legge, in materia, tendente a delineare una tutela normativa ricavata pedissequamente sul modello del lavoratore subordinato. Si ripropone ancora una volta un’idea del lavoro, a cui tutte le altre figure dovrebbero ambire e tendere, che ha perso la centralità sociale di cui disponeva.

Veniamo così all’assetto della contrattazione collettiva, che è sempre lo specchio delle relazioni industriali e rappresenta la costituzione materiale del mondo della produzione e del lavoro.

1.         I Patti triangolari (governo e parti sociali) sulla politica dei redditi (del 1993 e del 1998) hanno fornito un contributo importante al contenimento dell’inflazione e, ancor più, alla stabilità sociale che è in ogni caso un elemento essenziale del risanamento economico e finanziario di qualunque paese. Va detto che, alla prova dei fatti, le organizzazioni sindacali hanno tutelato meglio che in passato, gli interessi dei lavoratori rappresentati, difendendo il potere d’acquisto delle loro retribuzioni, senza condannarle ad inseguire un costo della vita irriducibile. A conti fatti, le attuali dinamiche salariali reali sono tendenzialmente superiori agli andamenti del costo della vita. In sostanza, allora, non esisteva una alternativa vera (e migliore) rispetto alla politica dei redditi. Il sistema delle imprese deve misurarsi con i vincoli della competitività in un contesto di economia globalizzata; da tali vincoli dipendono le possibilità di stare (o meno) sui mercati. Ne deriva che i margini di disponibilità delle imprese sono fortemente limitati da tali vincoli esterni. L’alternativa alla politica dei redditi è dunque quella di una conflittualità sociale più aspra, ma incerta nei risultati, se non per quanto riguarda i guasti che essa può provocare.

2.         Del resto, lo scambio sotteso al Patto sembrò conveniente alle organizzazioni sindacali e alle associazioni imprenditoriali: ad esse venne riconosciuto un ruolo di compartecipazione nel governo della politica economica del paese. Tale "rendita di posizione" è stata ulteriormente potenziata dalla sintonia politica esistente tra i sindacati confederali e la maggioranza di centro sinistra, in conseguenza della quale si è instaurato un rapporto privilegiato tra governo e Cgil, Cisl e Uil. Di un rapporto di tale natura sono tanti gli episodi che ne rendono testimonianza. Questa circostanza, però, è una delle principali cause della crisi della concertazione. Invero, non "tiene" un metodo che impone, nei fatti, un ruolo di seconda categoria alle altre parti sociali, le quali hanno voce in capitolo soltanto nella misura in cui concordano con le soluzioni individuate nei confronti separati tra governo e sindacati confederali. D’altra parte, non sembra nemmeno praticabile la via di un negoziato che sia in grado di coinvolgere, in termini effettivamente paritari, più di trenta organizzazioni (quante sono quelle maggiormente rappresentative del mondo del lavoro e dell’impresa). Un altro delicato problema si pone relativamente al ruolo del Parlamento, il quale si è trovato spesso a dovere sostanzialmente ratificare i risultati di una concertazione squilibrata

3.         Va da sé che qualsiasi governo, in un paese democratico, ha una precisa convenienza a ricercare e a costruire un ambito di consenso intorno alle proprie decisioni; ad associare, dunque, le parti sociali rappresentative alla individuazione delle soluzioni più adeguate. Tuttavia, l’unico modo per creare una effettiva par condicio sembra essere quello di "fare un passo indietro" dal tavolo della concertazione da parte di tutti i soggetti protagonisti. Il governo dovrebbe attenersi ad una prassi di consultazioni bilaterali e preventive con le organizzazioni interessate, assumendosi poi effettivamente la responsabilità delle decisioni assunte, nei confronti del Parlamento e dell’opinione pubblica.

4.         La costituzione materiale della "concertazione storicamente realizzata" è in crisi anche sul piano dell’assetto contrattuale prefigurato nel protocollo del 1993 (e pedissequamente ribadita nel 1998) che, con poche innovazioni, riproduce e perpetua la medesima articolazione contrattuale (bipolare: nazionale e decentrata) ereditata dagli anni Sessanta: ovvero, giunta fino a noi, al pari della luce di una stella spenta, da un altro paese, da una diversa economia, da un assetto produttivo ormai scomparso, addirittura da un’altra vita. Ormai, sia il contratto collettivo nazionale (ccnl) sia la contrattazione aziendale sono come coperte che non avvolgono più né i piedi né la testa. Il contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) non si applica, nei fatti, nelle zone più svantaggiate del paese e nell’economia sommersa (che non emerge anche perché non potrebbe sopportare gli oneri contrattuali, sociali e fiscali). La negoziazione decentrata (limitata all’impresa medio-grande, perché quella a livello territoriale è una chimera) si effettua in un numero ridotto di posti di lavoro e copre quindi un’area limitata di lavoratori. Per di più è venuto meno il fine per cui fu pensata, ai tempi della società industriale: quello di erodere ulteriori margini di profitto (allora si parlava in questo modo) ritenuti a disposizione delle imprese più grandi. Oggi, le imprese esportatrici vivono ed operano nei mercati internazionali e sono costrette a tener conto di quelle compatibilità, diversamente dalle aziende che operano sui mercati interni (spesso in regime di monopolio) o dalla pubblica amministrazione. Questa è la vera discriminante che la struttura contrattuale non coglie, agganciata, come è, a parametri (il costo della vita, a livello nazionale; la produttività, sul piano aziendale) che non sono in grado di valere per le imprese che hanno intrapreso il viaggio della mondializzazione, mentre vengono facilmente elusi da quelle che ancora "giocano in casa" e non sentono sul collo l’alito del mercato. Succede così che i contratti nazionali prolunghino la loro durata per un tempo infinito (ormai si è arrivati ad un periodo di quattro cinque anni) allo scopo di diluire gli oneri di una contrattazione doppia: ciò accade in una fase in cui le cose si svolgono in pochi mesi e cambiano bruscamente di segno, nello spazio di una stagione.

5.         Come possono due livelli contrattuali contendersi i margini di due punti di inflazione e quelli di una produttività aziendale da destinare in gran parte all’ulteriore recupero di competitività, per reggere la concorrenza di imprese che hanno alle spalle (nei paesi ricchi) un sistema complessivo ordinato ed efficiente e che fruiscono (nei paesi in via di sviluppo o di altre aree del mondo) di un costo del lavoro che è un ventesimo (forse anche meno) di quello italiano? La sola contrattazione nazionale sarebbe inadatta a convivere con i tanti dualismi da cui è affetto il paese. Se permanesse unicamente quella aziendale si avrebbe una drastica caduta dei livelli di copertura. La ricerca del nuovo deve partire dalle esigenze a cui bisogna rispondere. Prima di tutto, se gli ordinamenti vanno verso il federalismo, è indispensabile corredare la vita istituzionale di una dialettica sana del mondo produttivo e del lavoro, senza la quale non sorgerebbero mai quegli spiriti comunitari, quelle energie positive che possono arricchire e giustificare una differente articolazione dello Stato. In secondo luogo, occorre uscire dalla dicotomia in conseguenza della quale i lavoratori italiani in certe aree del paese e in certi posti di lavoro (anche del Sud) sono trattati con standard europei; altrove con paghe e condizioni da Terzo Mondo. Per raggiungere tali obiettivi non basta fare giuramenti quotidiani sull’unicità del contratto di lavoro, ben sapendo che non sarà applicato e per il quale si preparano già deroghe e patti di riallineamento. Si può allora avanzare una proposta: avendo come scenario una legislazione credibile (al di sotto degli attuali standard) sui minimi salariali e normativi, si tratta di istituire un duplice livello, non paritario, di contrattazione: a) uno primario di contrattazione regionale o territoriale, in grado di cogliere la produttività reale; b) uno sostanzialmente applicativo e legato ai temi dell’organizzazione del lavoro, sul piano aziendale. Va da sé che la legislazione sui minimi può essere sostituita da equipollenti soluzioni negoziali.

Abbiamo visto come l’assetto del mercato del lavoro, la configurazione del sindacato, la struttura della contrattazione collettiva, i modelli di welfare state, si tengano insieme. In Italia, questo impianto, in larga misura, non rappresenta un disegno egualitario di cittadinanza sociale, ma finisce per essere un’appendice degli inclusi nella cittadella dei diritti. In sostanza, solo una parte del mondo del lavoro gode di una pienezza di diritti. Eppure, tutti i cittadini dovrebbero essere eguali davanti alla legge ed avere pari dignità sociale. Per giunta, la Costituzione italiana affida alla Repubblica il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Queste sono parole pesanti, impegnative, al pari di quelle che impongono alla Repubblica di riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro e di promuovere le condizioni che ne rendano effettivo il diritto. E’ un fatto, invece, che i principi fondamentali appena ricordati, troppo spesso, rimangono sostanzialmente negati e negletti a causa delle troppe differenze e dei radicati divari di cui soffre il nostro paese. Fino ad ora, nella lotta contro le diseguaglianze e l’ingiustizia gli esseri umani hanno dovuto misurarsi con pregiudizi di razza e di sesso, con discriminazioni politiche e religiose, con l’intolleranza e il fanatismo, con la prevaricazione e il settarismo. Mai, però, nella storia recente, è capitato di assistere ad una singolare forma di oppressione, imposta e sofferta in ragione non del colore della pelle o della fede religiosa o del credo politico, ma della età anagrafica. Eppure, nella concreta realtà del nostro paese, i giovani sono "meno uguali" degli altri cittadini; la situazione dei "figli" (volendo usare la terminologia di Nicola Rossi) è in generale peggiore di quella dei padri.

Partiamo dal lavoro. Dopo tante parole al vento, sparse a piene mani e con molte esagerazioni, in questi ultimi mesi, insieme ad un incremento dell’occupazione dovuta in larga misura a rapporti temporanei e precari, è piovuta sulla politica del lavoro, condotta fino ad ora, persino la solenne bocciatura della Unione europea che ha accusato il nostro paese di non intervenire sugli effettivi punti di crisi (l’inoccupazione di lunga durata) con misure di carattere preventivo, incentrate sulla formazione e sulla riconversione professionale. Il tasso di disoccupazione italiano (di poco inferiore al 12%) si concentra su alcune fasce "deboli" della popolazione, in particolare sulle classi dei giovani: il 18,8% dei maschi e il 26,8 % delle femmine compresi tra i 20 e i 29 anni sono disoccupati contro una media europea rispettivamente del 15,1% e del 18,2%. Nelle regioni del Sud queste percentuali raggiungono il 56,8% delle giovani donne tra i 15 e i 29 anni e il 40% dei coetanei maschi. Una recente inchiesta del Cnel, condotta sui lavoratori a bassa remunerazione (i cosiddetti working poors), ha dimostrato che tale rischio viene corso da una donna su 4 e da un uomo su dieci. Forte è anche l’incidenza della età, nel senso che le classi di età inferiore a 30 anni sono maggiormente soggette a lunghe fasi di bassi salari, associando o alternando occasioni di lavoro mal retribuito ed episodi di disoccupazione. Sui giovani grava (e si è trattato di una scelta consapevole compiuta dai grandi soggetti collettivi) tutta la flessibilità occorrente al sistema produttivo e che non è possibile trovare, in modo adeguato, nei segmenti di forza lavoro sindacalizzati e garantiti. In sostanza, i settori tutelati non potrebbero conservare le loro prerogative se il sistema produttivo non avesse a disposizione un "esercito di riserva" (dagli occupati nelle piccole imprese alle varie forme di precariato) figlio di un dio minore, dal punto di vista della tutela dei diritti e dei livelli di protezione sociale. Ormai si assiste ad una distribuzione del lavoro e dei diversi rapporti di lavoro, secondo criteri di appartenenza ragguagliati all’età anagrafica. Se nel pubblico impiego, nella grande impresa manifatturiera, nelle mega-strutture dei servizi pubblici è prevalente una occupazione non più giovane, nei servizi destinati alla vendita, nel terziario, nelle nuove professioni (i comparti più scoperti rispetto ad un modello tradizionale di garanzie) ha trovato rifugio l’occupazione giovanile. Alcuni istituti giuridici (apprendistato, contratti di formazione e lavoro, contratti di collaborazione, a termine, a part-time e quant’altro) sono ormai una prerogativa dei giovani. Se volessimo tracciare la linea di confine che separa il lavoro meglio tutelato da quello sostanzialmente non protetto potremmo agevolmente constatare, in linea di massima, che quanti si trovano all’interno della Cittadella sono più grandi di coloro che gironzolano al di fuori delle mura.

Il concetto di lavoro evoca immediatamente l’idea dell’organizzazione rappresentativa dei lavoratori: il sindacato, appunto. In Italia, nel 1997, su 10,7 milioni di iscritti a Cgil, Cisl e Uil, 5, 2 milioni erano pensionati. Praticamente tra attivi e pensionati vi è ormai un rapporto 1 a 1, quando solo un decennio primo il rapporto era di due a uno (6 milioni di lavoratori attivi e 3 milioni di pensionati). Ora si afferma che c’è una ripresa della sindacalizzazione tra gli attivi, e pure tra i giovani. Rimane, comunque, diverso il peso politico tra le diverse generazioni. Logicamente, gli interessi rappresentati dalle potenti federazioni dei pensionati "fanno blocco" con quelli dei lavoratori attivi più anziani, ormai protesi verso le aspettative di un sistema pensionistico assai generoso, costruito su misura della classe lavoratrice della società industriale, la quale si è trovata a vivere in una particolare fase dell’economia, in cui erano consentite sicurezza e stabilità di impiego, continuità dell’occupazione, un assetto demografico positivo, nonché la possibilità di ricchi "dividendi fiscali" da distribuire o da consumare a debito.

Ora è mutata la natura e la qualità dell’occupazione, si sono invertiti i trend demografici. La società italiana invecchia (ma il fenomeno riguarda più o meno l’intero continente europeo). Negli anni Cinquanta, nonostante che un sanguinoso conflitto mondiale avesse mietuto decine di milioni di vittime, la Vecchia Europa annoverava quasi il 22% della popolazione mondiale. Nel 2025, dovrà accontentarsi dell’8,7%. L’Italia, allora, si trovava al decimo posto nella lista dei paesi con maggiore popolazione. Tra un quarto di secolo non riuscirà nemmeno a comparire tra i primi venti. In quella stessa epoca (assai meno "futura" di quanto non sembri in apparenza), non solo sarà diminuito il numero complessivo degli individui (-2%), ma risulterà capovolta la piramide delle generazioni, nel senso che i giovani con una età inferiore a 19 anni caleranno del 7,6%, mentre gli anziani con oltre 65 anni cresceranno del 4,4%. Già nel 2005, però, i padri e i nonni saranno più numerosi dei figli e dei nipoti. Naturalmente, questo boom delle "pantere grigie" produrrà effetti nefasti sull’occupazione (già oggi vi sono più pensioni che occupati), inciderà sulla struttura della spesa e, in generale, sulla solidità economica del paese. Il già citato studio del Cnel sostiene che la forza lavoro (in ambedue le componenti degli occupati e dei disoccupati) inizierà, intorno al 2000, un declino inesorabile per circa tre lustri, trascorsi i quali la flessione diventerà più sostenuta e tale da portare il livello degli attivi a poco meno di 15 milioni intorno alla metà del prossimo secolo. La quota di popolazione anziana, con oltre 65 anni, passerà dall’attuale 16,8% al 27% nel 2030 (in termini assoluti da 9,6 milioni a 14,5 milioni di persone) e quella con più di 75 anni, nel medesimo arco di tempo, dall’attuale 6,7% al 13,4%. In tale contesto - accanto al fenomeno di progressiva diminuzione dei saggi di crescita dell’economia che inciderà negativamente sui flussi di entrate dei bilanci pubblici - il processo di invecchiamento della popolazione contribuirà ad accelerare i trend delle voci in uscita. Si è calcolato che la spesa sociale (a prezzi costanti) salirà dai 435,5mila miliardi del 1995 ai 708,7mila nel 2050 (+1,8% in termini di Pil). All’interno di questi valori di insieme (26,4% del prodotto) si verificheranno consistenti modifiche: la spesa per l’istruzione si contrarrà; quella pensionistica continuerà a incidere in maniera consistente, mentre subirà un forte incremento la spesa sanitaria (+2,5 punti di Pil).

Come si prepara il Paese a questi scenari, i cui effetti graveranno necessariamente sulle generazioni future? Con la più grande imprevidenza. Con l’ottusa determinazione a difendere i privilegi dei "padri", anche a costo di rubare il futuro dei figli, dopo aver sottratto loro il presente. Si prenda il caso di quella fascia di popolazione che ha oggi una età compresa tra i 40-45 anni e 60-65 anni. Si tratta di alcune classi sociali (con tante differenze al proprio interno) che, tuttavia, possono vantare di aver goduto in varie misura: a) di una stabilità e continuità di impiego; b) di una situazione professionale sicura, coperta da un reticolo di regole contrattuali e legislative e in evoluzione positiva col trascorrere degli anni; c) di un sistema pensionistico generoso (destinato a restare tale anche per quanti devono ancora varcare l’agognata soglia, nonostante che negli ultimi anni vi siano state modifiche peggiorative), assai migliore di quello goduto dalle generazioni precedenti o atteso da coloro che verranno.

Per assicurare queste condizioni ad una minoranza (ancorché consistente) del mondo del lavoro e della popolazione, la società ha pagato e paga alti prezzi. La spesa pensionistica è triplicata (in rapporto al Pil) dal 1960 ad oggi. Al netto della maggiore incidenza degli anziani sulla popolazione, tale spesa è raddoppiata. La finanza pubblica è rimasta, di conseguenza, in una situazione di costante disavanzo. Per almeno trent’anni tutta la spesa per interessi e una quota delle rimanenti uscite sono state finanziate con il ricorso al debito. Si è notevolmente ridotto (altro esempio di egoismo) il numero dei figli ben al di sotto del tasso di ricambio. Le generazioni successive, meno numerose, dovranno conseguire rilevanti avanzi primari per rientrare dagli interessi e dall’indebitamento, mentre saranno chiamati a finanziare una elevata spesa pensionistica e sociale.

I guai di un sistema di welfare state, costruito sul modello della società industriale, non si proiettano solo in quel "medio periodo in cui saremo tutti morti". Negli ultimi venti anni, la spesa pubblica ha avuto un incremento (24 punti di prodotto) superiore all’aumento che si era realizzato nel corso dell’intero secolo precedente. Nel medesimo periodo, la pressione fiscale è svettata di oltre 17 punti di Pil. Secondo stime recenti, il trend del prelievo tributario degli ultimi 30 anni avrebbe provocato almeno un terzo dei disoccupati esistenti . Ecco dove, per i giovani, l’incertezza del domani si salda alla precarietà del presente. Il punto critico si concentra nella struttura del costo del lavoro. Ormai è evidente che non sarà possibile promuovere un incremento dell’occupazione, senza ridurre l’ampiezza di un "cuneo" tributario (la differenza tra costo del lavoro e salario netto) tra i più elevati di Europa. E il costo del lavoro è solamente l’altra faccia dello Stato sociale, nel senso che ne rappresenta l’onere necessario al finanziamento. E’ bene che si sappia allora che la quota degli oneri sociali sulle retribuzioni lorde è ora pari al 43-44% , mentre era di poco superiore al 31% negli anni sessanta. Se consideriamo l’aliquota d’equilibrio dell’intero sistema pensionistico (il rapporto tra la spesa per pensioni e il monte retribuzioni) siamo ormai al 43%, mentre per quanto riguarda il fondo lavoratori dipendenti presso l’Inps - l’architrave del sistema pensionistico -  viene sfiorato il 49%. In pratica, i lavoratori italiani finanziano con metà del proprio reddito le pensioni di chi è uscito dal mercato del lavoro. E siamo solo all’inizio di un processo di logoramento demografico che influirà ancor più negativamente sugli equilibri dei conti degli apparati di protezione sociale.

A smantellare questo groviglio di potere non si farebbe del bene solo all’economia, aiutandola a sottrarsi all’ingessatura dello statalismo. Lo stesso sindacato sarebbe costretto a cercare, se ne è capace, nuovi orizzonti di intervento e di rappresentanza. Purtroppo, la sfida referendaria al potere sindacale e per la modernizzazione del lavoro e del l’economia è stata fortemente depotenziata. Ma i problemi rimangono. Si consideri la capacità di aggregazione (anche del lavoro frantumato, "grigio" e disperso nel territorio) che potrebbero avere una mutua sanitaria o un fondo pensione a dimensione territoriale (e non istituito a ridosso della contrattazione collettiva), allorché queste forme non fossero più, come ora, fatti elitari, ma una precisa esigenza di tutela di un bisogno. Si valuti quanto spazio verrebbe dalla promozione, sempre nel territorio, di occasioni di formazione e riconversione professionale e di agenzie per gestire il collocamento e la mobilità, in cui il sindacato potesse svolgere un ruolo primario insieme alle naturali controparti. E che dire di un ruolo attivo dei sindacati nell’integrazione e nella socializzazione degli immigrati? Questo progetto innovativo può diventare possibile attraverso un’ampia liberalizzazione del lavoro e una riforma dello stato sociale nel senso di favorire coerentemente tale processo. Superando, cioè, una concezione risarcitoria e redistributiva impostata sulla difesa di una particolare condizione professionale, al massimo delle sue prerogative, adottando, invece, una cultura dei livelli essenziali di eguaglianza delle opportunità e di lotta costante all’emarginazione e all’esclusione sociale e stimolando, nel contempo, le forme di tutela individuale e collettiva, del lavoro.

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