Evoluzione del sistema politico
a cura di Raimondo Cubeddu e Alberto Vannucci
1. UNA PREMESSA: IL RAPPORTO ANNUALE DELLA HERITAGE FOUNDATION
In questo contributo, che ha per oggetto la direzione che il processo
di liberalizzazione ha assunto nell’evoluzione del sistema politico
italiano negli ultimi tre anni (1), si è privilegiato l’impiego di
alcuni tra i parametri indicati dal 2000 Index of Economic Freedom (2).
Questa scelta metodologica non dipende da un’acritica ricezione di un
modello già elaborato in quel contesto, quanto piuttosto dalla necessità
di rifarsi ad uno standard internazionale che possa rendere più chiari i
cambiamenti rispetto ai valori di riferimento. Non per questo viene
esclusa una precisazione di tali criteri, né la motivata possibilità di
discostarsi dai medesimi, né ancora l’utilizzo di ulteriori variabili
indipendenti.
A partire dal 1995 la Heritage Foundation predispone un indice annuale
che misura in modo sintetico il grado di libertà economica esistente in
un numero via via crescente di paesi (nell’edizione del 2000 sono
inclusi 161 stati). Sebbene abbia per oggetto una misurazione della libertà
economica, nella costruzione dell’indice vengono alla luce diversi
elementi di grande rilievo per la comprensione della natura e delle
dinamiche del sistema politico. La metodologia di analisi si basa infatti
su una lista di 50 variabili indipendenti, che si possono suddividere in
10 ampi fattori: politiche commerciali, pressione fiscale, intervento
pubblico nell’economia, politiche monetarie, flussi di capitali e
investimenti stranieri, attività bancaria, salari e prezzi, diritti di
proprietà, regolazione, mercati neri. Ognuno di questi fattori riceve in
ogni paese un punteggio compreso tra 1,00 (massimo grado di libertà
economica) e 5,00 (minimo grado di libertà economica), mentre la loro
media ponderata fornisce il punteggio finale complessivo (indicatore del
grado di libertà economica) per ciascuno stato. Punteggi tra 1,00 e 1,95
connotano paesi come "liberi", tra 2,00 e 2,95
"prevalentemente liberi", tra 3,00 e 3,95 "prevalentemente
non liberi", tra 4,00 e 5,00 "repressi".
Il punteggio dell’Italia per il 2000, pari a 2.30, la colloca, come
è noto, al 28° posto della graduatoria, tra i paesi
"prevalentemente liberi". La linea di tendenza degli ultimi 6
anni (vedi fig.1) mostra un lieve ma costante (a partire dal 1996)
progresso del grado di libertà economica, stazionario nell’ultimo anno.
A puro titolo di esempio, si sono confrontati i valori dell’Italia con
quelli di altri quattro grandi paesi democratici occidentali (Stati Uniti,
Germania, Gran Bretagna, Francia). Guardando ai dati relativi all’Italia
in modo più analitico, emerge tuttavia un dato piuttosto interessante: il
punteggio complessivo rappresenta la media dei valori bassi di alcuni
fattori (alto livello di libertà economica nella politica commerciale e
monetaria, nel controllo di salari e prezzi, nella protezione dei diritti
di proprietà) e di altri valori molto elevati (il "costo del
governo", espressione dell’onere fiscale e del livello di spesa
pubblica, è "molto elevato", raggiungendo il livello massimo).
Anche il grado di regolazione è piuttosto alto. Secondo il Dipartimento
Usa per il commercio "in Italia procedure burocratiche difficili
spesso impediscono nuovi investimenti ad imprese italiane e straniere
[...]. Le imprese di solito identificano la corruzione come disincentivo
all’investimento, o anche al condurre i loro affari, in certe aree
d’Italia" (3). In relazione ad altri parametri, come il livello di
attività nei "mercati sommersi", il dato relativo all’Italia
("basso livello di attività") sembra invece contraddetto da
altre ricerche relative all’estensione del lavoro sommerso, che saranno
presentate più avanti. Si tratta, in ogni caso, di fattori rilevanti in
quanto indicatori del tipo di "output" dei processi decisionali
pubblici che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema politico
italiano negli ultimi anni.
2. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA TUTELA DEI DIRITTI DI PROPRIETA’.
Un altro fattore da considerare attentamente è il livello di
protezione dei cosiddetti diritti di proprietà. Anche in questo caso il
Rapporto Annuale della Heritage Foundation sembra peccare di eccessivo
ottimismo. Da un lato si riconosce infatti un "alto livello di
protezione", visto che "la proprietà è al sicuro da arbitrarie
espropriazioni governative" e sono presenti sia un "sistema
legale avanzato per proteggere la proprietà" che un potere
giudiziario indipendente, garantito dalla Costituzione, in grado di
assicurare l’equità dei processi (4). Dall’altro, però, si ammette
che - secondo lo stesso Dipartimento Usa per il commercio - le lentezze
del sistema giudiziario (3-5 anni per una causa civile, con in più due
appelli automatici) rendono di regola conveniente il ricorso
all’arbitrato privato. Non migliore appare la situazione della giustizia
amministrativa. Le statistiche sulla domanda di giustizia amministrativa
confermano una costante tendenza alla crescita delle occasioni di attrito
e delle controversie tra cittadini ed organi dello stato: nel 1992 vi sono
state oltre 85.000 ricorsi ai tribunali amministrativi regionali (Tar),
con una crescita del 169% rispetto al 1977. I ricorsi riguardano in primo
luogo il pubblico impiego (41,5%), ma anche edilizia ed urbanistica (31%),
lavori pubblici, industria e commercio (5,2%), cioè settori con rilevanti
interessi economici in gioco. Questo sovraccarico di domande grava su
organi non attrezzati a sostenerne il peso: la differenza tra ricorsi e
decisioni è più che triplicata negli ultimi quindici anni, con
un’imponente crescita del numero di pendenze. A metà degli anni ‘90,
la durata media dei giudizi, in termini di probabilità, era di 3.077
giorni presso il Tar e di 1.105 giorni presso il Consiglio di Stato, a
conferma delle previsioni più pessimistiche sull’efficienza del sistema
(5).
Ciò che questi dati mettono in evidenza è che, nonostante il grado
elevato di tutela formale e di protezione dei diritti di proprietà, se si
tiene conto del tempo richiesto affinché tale tutela sia effettiva, il
sistema istituzionale italiano presenta un grado di efficienza non certo
elevato. In una prospettiva teorica neo-istituzionalista, i "diritti
di proprietà" rilevanti nel determinare le opportunità di guadagno
nello scambio non sono tanto quelli legali, ma piuttosto quelli economici,
che si riferiscono alla capacità di godere e disporre in via esclusiva di
certi beni scarsi, siano essi materiali o immateriali, vincolando altri
individui a norme di comportamento che prevedono sanzioni in caso
d’inosservanza (6). Dato che il tempo a disposizione di ciascun
individuo è ovviamente una risorsa scarsa, ne consegue che il grado
effettivo di protezione dei suoi diritti dipende non soltanto dal disegno
costituzionale e dal grado di imparzialità delle procedure e dei soggetti
istituzionalmente chiamati ad amministrare il sistema sanzionatorio, ma
anche, e forse soprattutto, dall’efficienza dell’azione giudiziaria
(in termini di tempi di attesa e di congruità delle risposte alle pretese
soggettive). Là dove (come nel caso italiano) quest’ultima presenti
evidenti condizioni di debolezza, allungando spesso in modo indefinito i
tempi attesi di risoluzione di eventuali controversie tra privati oppure
tra privati e stato, si determinerà un parallelo affievolirsi degli
stessi diritti di proprietà, accentuando l’incertezza e accrescendo i
costi delle transazioni di qualsiasi relazione contrattuale che abbia per
oggetto profili di azioni soggetti alla protezione dello stato.
In termini generali, in Italia le norme restrittive della proprietà
privata sono espressione dei principi esposti nel l’art. 42 della
Carta Costituzionale (7). Corrispondentemente, una volta definito il
contenuto del diritto di proprietà nell’art. 832 del codice civile, il
legislatore si preoccupa negli articoli 833-839 di fissarne vincoli,
obblighi, possibilità di espropriazione e di requisizione, naturalmente
regolate da leggi e soggette alla corresponsione (in caso
d’espropriazione o di requisizione) di una "giusta indennità".
In quest’ultimo cinquantennio l’Italia è stato uno tra i paesi
occidentali con una più estesa proprietà pubblica dei mezzi di
produzione. Nel 1997 l’8,56% del Pil (pari a 167.026 miliardi) proviene
infatti da imprese pubbliche (statali, nazionalizzate, municipalizzate,
etc.), a fronte del 25,3% di società private, del 36,06% di imprese
individuali e del 13,05% di amministrazioni pubbliche. E’ interessante
notare (si veda la fig.2) come nell’arco degli anni ‘90 (fino al 1997,
ultimo anno per il quale vi sono dati disponibili) la percentuale del Pil
prodotta da società pubbliche non abbia subito variazioni significative
in termini percentuali, passando dal l’8,72% del 1991 all’8,56% del
1997 (e addirittura, dopo un picco nel 1994, tra il 1996 e il 1997 vi sia
stata una lieve inversione di tendenza, con una moderata crescita).
Nonostante le privatizzazioni, poi, il settore industriale pubblico conta
ancora quasi un milione di addetti. È molto difficile e controverso
stabilire l’esatta natura giuridica di tali imprese, ed il discorso
diventa ancor più complesso se si pensa alle molte attività economiche
che possono svolgere la loro funzione esclusivamente sulla base di
normative giuridiche di carattere pubblicistico. In questi casi i confini
tra interessi privati e interessi pubblici si fanno sfumati, e le
richieste di conseguire posizioni privilegiate da parte di categorie,
gruppi, enti va di parti passo con l’esigenza della classe di governo di
distribuire selettivamente tali posizioni di rendita, in modo da
massimizzare il sostegno anche attraverso l’occupazione politica di
ruoli amministrativi e di sottogoverno, la cosiddetta
"lottizzazione". Gli esiti di questo processo sono da un lato
l’emergere di "una grande varietà di organizzazioni semipubbliche
e semiprivate, linee di distinzione evanescenti, responsabilità miste,
frequenti conflitti di interesse" (8); dall’altro l’introduzione
coattiva di vincoli e barriere contro altri interessi privati,
potenzialmente attivi in quei mercati, che ne restano però esclusi.
Ciò porta ad affrontare il problema relativo alla libertà
d’impresa. Tale libertà, non è stata mai negata in maniera assoluta.
Sono tuttavia esistiti, ed in parte esistono tuttora, settori nei quali la
libertà di impresa viene vincolata da norme di carattere pubblicistico
che ne definiscono le finalità e le modalità d’esercizio. La stessa
tassazione si configura poi come un vincolo tendente ad incoraggiare o a
scoraggiare particolari tipologie di attività a seconda che si svolgano o
si distacchino da obiettivi economico sociali fissati dalla politica
o dagli organi governativi, e dunque come una reale limitazione
all’esercizio dei diritti di proprietà. Una questione da affrontare è
quindi quella relativa alla problematica distinzione tra proprietà
pubblica dei mezzi di produzione e norme che vincolano, sia pure in un
regime di proprietà privata dei medesimi, la libertà d’impresa (9).
A partire dal 1990 si è assistito a un proliferare di Authorities, che
in diversi casi hanno acquisito anche il compito di regolare attività
economiche dalle quali lo stato si era ritratto come produttore diretto.
Appare evidente che la rinuncia alla proprietà statale delle imprese
non significa che lo stato abbia abdicato al compito di fissare le finalità
sociali o gli obiettivi economici delle medesime in relazione ai servizi
che esse forniscono nel mercato. In questi ultimi mesi, tuttavia, i
presidenti di alcune Authorities, stanno mostrando una maggiore
indipendenza rispetto al potere politico. Il fatto che lo stato abbia
trasformato le imprese nazionalizzate in società per azioni detenute dal
Tesoro, immettendo successivamente nel mercato la totalità o parti
consistenti delle medesime, non significa quindi, di per se stesso, che si
sia avviato un reale processo di liberalizzazione. Certamente, con le
privatizzazioni sono stati fatti passi consistenti nella direzione di una
liberalizzazione del mercato interno, ma anche per le imprese privatizzate
permangono vincoli di carattere normativo spesso assai restrittivi che ne
limitano l’autonomia (come accade in modo particolare nel sistema
bancario). Tutto ciò porta a ritenere, come è stato osservato da più
parti, che il processo di privatizzazione e di liberalizzazione sia
avvenuto più per rispondere a richieste che venivano dagli organismi
comunitari, per l’impossibilità, data l’entità del debito pubblico,
di ripianare i fondi di dotazione delle imprese statali, e per la necessità
di adeguarsi alle tendenze dei mercati internazionali, piuttosto che da
una chiara convinzione politica che fosse giunto il momento di abbandonare
un certo tipo di interventismo statale. Cessato nella forma di proprietà
diretta, quest’ultimo, ha in parte continuato a sopravvivere nella forma
meno evidente della regolamentazione politica.
3. LIBERALIZZAZIONE, SISTEMA POLITICO E "TEMPO" DELLA
LEGISLAZIONE
In termini generali, per liberalizzazione si può intendere il processo
che permette di liberare l’uomo da vincoli derivanti dalla presenza e
dall’azione dello stato, ovvero di ridurre il tempo individuale e
sociale necessario al mantenimento della struttura pubblica e delle sue
funzioni. In questa prospettiva, se si adotta come criterio teorico di
riferimento per la valutazione della performance delle istituzioni per
quanto esse riescano a produrre tempestivamente risposte ai nuovi problemi
sociali senza aumentare il tasso di coercizione (comprese le tasse) e
ripartendo senza favoritismi le conseguenze, si può affermare che in
questi anni il sistema politico italiano non è certamente andato nella
direzione di una reale liberalizzazione.
L’incremento della pressione fiscale, passata dal 39% del PIL del
1989 al 43,3% del 1999 (con un picco del 44,6% nel 1996, in corrispondenza
del massimo sforzo di risanamento dei conti pubblici per il raggiungimento
dei parametri di Maastricht), è un chiaro sintomo di come nell’arco
dell’ultimo decennio non sia aumentata il grado di libertà dei
cittadini di utilizzare liberamente, o nel modo ritenuto migliore, le
proprie risorse e il proprio tempo. A tale crescita in termini
quantitativi assoluti bisogna inoltre aggiungere il tempo e le spese
necessarie per avere un’informazione adeguata sulle leggi fiscali e,
come sempre più spesso avviene, il costo del pagamento delle tasse. In
una recente ricerca dell’Istat è emerso che nella compilazione della
modulistica fiscale il ricorso a intermediazioni a pagamento è rimasto
sostanzialmente stabile su livelli molto elevati, con un picco nel 1993
(45,7% delle famiglie), ma attestandosi ancora nel 1997 al 44,6%. Le punte
più alte di ricorso all’intermediazione fiscale a pagamento riguardano
dirigenti, imprenditori e liberi professionisti, che nel 1997 hanno
sostenuto tali costi nel 67,3% dei casi (10). Si tratta comunque di un
problema generale che attiene la scarsa trasparenza delle strutture
pubbliche: in un’ampia ricerca del Dipartimento della funzione pubblica
risulta che negli enti locali e nei Ministeri vi è una "scarsa
disponibilità ad informare" secondo, rispettivamente, il 50,4% e il
54,3% delle imprese (11). Tutti questi fattori determinano una drastica
riduzione del tempo libero disponibile per i cittadini, ovvero una
crescita dei costi delle transazioni implicite nei loro rapporti con lo
stato. In effetti, nel suo complesso il rapporto tra cittadino e stato non
sembra migliorato in modo significativo negli ultimi anni, in termini di
qualità e quantità dei servizi erogati. Così, a titolo di esempio, nel
1996 il 37,4% delle imprese riteneva "abbastanza o troppo
lunghi" i tempi di attesa imposti dagli uffici pubblici per
adempimenti amministrativi, il 21,8% "scarse" la professionalità
e le competenze del personale (dei quali solo il 10.5% degli utenti era
pienamente soddisfatto), e il 19,4% "complesse" le relative
modalità di accesso (12). L’ammontare complessivo dei costi sopportati
nel 1996 dalle imprese tra i 3 e i 500 addetti per l’espletamento dei
soli obblighi amministrativi oggetto della ricerca (uffici Iva, Asl,
Comuni, Inps, Inail, Camera di Commercio) è stato stimato, nella stessa
ricerca, in 22.500 miliardi di lire, per un ammontare pari all’1% dei
costi aziendali totali (corrispondente al 3,4% del costo interno del
lavoro e il 26% dei costi esterni complessivi per consulenze), con un
utilizzo di personale interno per un numero di giornate pari a 71,4
milioni (13). Sempre nel 1996, il costo annuo che ciascuna impresa in
media ha dovuto sostenere per adempimenti fiscali è stato pari a
15.712.000 lire, di 16.692.000 lire per attività amministrative legate ad
import export, di 7.481.000 lire per attività amministrative legate
alle risorse umane, di 7.095.000 lire per attività amministrative legate
all’innovazione (14). In sintesi, in Italia il rapporto tra cittadino e
stato, nonostante i recenti tentativi di semplificazione amministrativa e
di attenuazione dei relativi oneri, mantiene costi elevati in termini
monetari, assorbendo grandi quantità di tempo.
Con la nuova legge elettorale approvata nell’agosto 1993 (il
cosiddetto "Mattarellum") anche il sistema politico, come
conseguenza del referendum che ha abolito il voto di preferenza plurimo,
è cambiato. Per quanto si può pensare che il complicato meccanismo della
ripartizione dei seggi (il famigerato "scorporo") fosse stato
pensato per garantire comunque al "centro" politico un numero di
seggi tale da assicurargli un potere di condizionamento della coalizione
maggioritaria (o forse per impedire che se ne formasse una), tale legge
ha, forse involontariamente, prodotto l’effetto di incanalare il sistema
parlamentare nella direzione di un maggioritario, che comunque restava
imperfetto, perché mancava un riconoscimento legislativo del capo della
coalizione. Al momento della prima crisi di governo della XII legislatura,
che ha portato alla caduta del governo Berlusconi, la tensione tra il
dettato costituzionale e la logica del sistema elettorale maggioritario è
apparsa in tutta la sua evidenza. Il mancato riconoscimento al capo della
coalizione del potere di indurre uno scioglimento delle camere nel momento
in cui la maggioranza originaria fosse venuta meno ha reso più incerte (e
forse anche arbitrarie) le dinamiche del sistema politico, poiché si
configuravano eventi e attribuzioni di poteri non chiaramente previsti
nella carta costituzionale. Il sistema politico parlamentare ha così
subito una sorta di involuzione e l’obiettivo primario del
maggioritario, consentire una maggiore celerità delle decisioni
politiche, si può dire sia stato conseguito solo parzialmente.
Le considerazioni precedenti portano alla conclusione che sarebbe
restrittivo limitarsi soltanto all’aspetto puramente economico del
rapporto tra cittadini e stato. Occorre invece mettere in evidenza come
l’estensione di regolamentazioni normative ad ambiti precedentemente
esclusi, o aventi un grado di regolazione più limitato, sia anch’esso
un indice dei limiti e dei regressi dei processi di liberalizzazione del
sistema. Per quanto l’esistenza di norme giuridiche abbia il fine di
ridurre l’incertezza individuale e sociale, non è affatto detto che
l’eccedenza delle medesime sia di per se stessa in grado di ridurla. Al
contrario, nella maggior parte dei casi l’inflazione normativa accentua
il grado di incertezza esistente e tende a produrne di qualitativamente
nuova, dato che la necessità di conoscere le nuove disposizioni normative
(la cui formulazione, in Italia, generalmente non brilla per chiarezza e
comprensibilità) semplicemente diminuisce il tempo libero a disposizione
dei cittadini. Un indice reale ed attendibile per valutare se il sistema
politico si evolva verso una reale liberalizzazione è dunque la
misurazione della quantità di tempo lasciato libero, come conseguenza
degli esiti dei processi decisionali politico amministrativi, affinché
i cittadini possano perseguire finalità da essi liberamente scelte.
4. LO "STOCK" DI LEGGI ESISTENTI E IL "FLUSSO" DI
NUOVA LEGISLAZIONE
Le leggi costituiscono una risorsa pubblica con caratteristiche uniche,
in quanto strumenti di regolazione della vita sociale e di definizione
dello stesso campo di azione dell’apparato pubblico, del quale
determinano limiti e modalità di azione (15). Attraverso le leggi,
infatti, lo stato crea aspettative di condotta più o meno chiaramente
definite e condivise, modificando il grado di incertezza individuale e
sociale. In Italia la gestione pubblica di un’ingente quantità di
risorse si è sviluppata passando attraverso le maglie sempre più fitte
di un reticolo di norme che disciplinano le procedure interne degli
apparati pubblici, i rapporti tra individui e amministrazione dello stato,
le relazioni tra individui ed istituzioni in campo economico e sociale. Si
sono così moltiplicate le occasioni in cui cittadini e imprenditori hanno
interesse a rivendicare diritti su prestazioni e risorse pubbliche:
soggetti e gruppi organizzati possono acquisire vantaggi rilevanti
influenzando sia la distribuzione dei benefici dell’azione pubblica che
la definizione delle regole d’interazione sociale (16).
Al tempo stesso, diventano più complesse ed ingarbugliate le modalità
di esercizio di quelle prerogative, di cui talvolta è dubbia
l’esistenza o la reale estensione. La proliferazione normativa produce
così una espansione dell’area di incertezza individuale e sociale
relativa: a) al possesso dei requisiti per il godimento di certi diritti;
b) al rischio di mettere in atto comportamenti illeciti.
Riguardo al primo punto, bisogna considerare che un’estesa varietà
di interessi privati possono essere soddisfatti da provvedimenti pubblici,
fissati in corrispondenza di diritti, ovvero determinati da relazioni di
tipo politico-contrattuale. Si pensi, tra gli innumerevoli esempi
possibili, alla richiesta di un certificato, alla partecipazione a un
concorso, all’adempimento di un contratto di appalto pubblico. In questi
campi, poiché i tempi sono fissati da politici e dai burocrati, questi
acquistano anche il potere di influenzare discrezionalmente la
destinazione e le modalità di godimento di risorse economicamente
rilevanti in numerosi settori. Specie per le categorie di individui che
hanno con loro contatti più assidui, come i fornitori e gli appaltatori
pubblici, si presenta un serio problema di salvaguardia dei propri
evanescenti diritti. Questa condizione è aggravata dall’inefficienza
amministrativa, che dilata i margini d’incertezza. Il secondo punto
interessa più da vicino i soggetti appartenenti alle élites economico finanziarie,
la cui attività è sottoposta a un vasto insieme di regolamentazioni e
vincoli normativi. In un contesto in cui l’intervento dello stato è
pervasivo e capillare, questi soggetti vedono crescere le probabilità di
affrontare scelte che comportano responsabilità penali. Anche per questi
gruppi sociali si presenta un incentivo ad allacciare rapporti di scambio
col potere politico per ottenere condizioni che attenuino il relativo
rischio penale, giacché l’illiceità dei loro comportamenti dipende
sempre più dal rispetto di norme tecniche, che rendono in una certa
misura aleatoria la stessa entità e natura del l’infrazione.
La questione di quante leggi siano in vigore in Italia è diventata
negli ultimi anni tema di dibattito pubblico e, in alcuni casi, di
polemica politica. La forza inerziale delle leggi, valide per un tempo
indefinito dopo la loro emanazione, accresce con ritmi inflazionistici la
quantità di disposizioni vincolanti cui i cittadini devono attenersi
(17). È stata così sempre più spesso lamentata la presenza di un numero
di leggi assolutamente abnorme rispetto a quello delle altri paesi
democratici. Si è parlato dell’esistenza di circa 100.000, secondo
altri di 150.000, o addirittura di 300.000 leggi (18). Altri studi della
Camera dei Deputati (e l’incertezza conferma la grande confusione in
materia) attesterebbero invece l’esistenza di "sole" 12.725
leggi in vigore (dato aggiornato al 31 maggio 1996), cui vanno però
aggiunti 15.279 atti con valore regolamentare, 5.160 decreti del
Presidente della Repubblica e 17.800 leggi regionali, contro le 7.325
leggi della Francia e le 5.587 della Germania (19).
Altri studi, anziché sullo "stock" di leggi esistente, si
sono concentrati invece sul flusso "medio" di nuova
legislazione. Se si considera l’ampiezza della produzione legislativa in
diversi paesi (in un periodo che va dal 1969 al 1976), la media annuale di
leggi approvate in Italia è di 588, contro le 53 del Canada, le 93 della
Francia, le 111 della Germania, le 148 della Gran Bretagna, le 452 degli
Stati Uniti (20). Dall’analisi delle leggi promulgate nel corso della
XIII legislatura, aggiornato al giugno 2000, emerge una produzione
complessiva di 998 leggi. Escludendo le leggi di ratifica e quelle di
conversione di D.L., la tendenza relativa alla quantità di approvate dal
Parlamento negli ultimi tre anni viene mostrato nella figura 3. A causa
della meno frequente realizzazione di un accordo tra maggioranza e
opposizione, è sensibilmente diminuita, nel corso del 1999, la
percentuale di leggi approvate in sede di Commissione rispetto a quelle
approvate dall’Assemblea (si veda la figura 4). La conseguente crescita
dei tempi medi di approvazione si combina però, grazie all’introduzione
del nuovo regolamento, con una riduzione del tempo medio di esame dei
provvedimenti in Assemblea, passato dalle 5 ore e 47 minuti del 1997 a 3
ore e 32 minuti del 1998.
Diversi elementi sembrano inoltre confermare una crescita della capacità
del governo di intervenire nel processo legislativo. Una posizione di
maggiore preminenza del governo rispetto al Parlamento era del resto una
delle conseguenze attese della riforma elettorale in senso maggioritario
del 1993. Tra il 1998 e il 1999 è così aumentata la percentuale di leggi
di delega e di autorizzazione alla delegificazione (dal 21% al 25% del
totale), a conferma del fatto che una parte crescente della produzione
legislativa (soprattutto quella di riforma) contiene norme di principio,
introducendo procedure volte a distribuire ad altre autorità (governo,
autorità indipendenti, enti locali, ecc.) la definizione della disciplina
sostanziale (21). Nel 1999 è cresciuto anche il numero di decreti legge
presentati (35, rispetto ai 29 del 1998), ma soprattutto, per la prima
volta, il numero dei decreti legislativi emanati, 94, ha superato quello
delle leggi approvate, 72 (vedi figura 5). Il Parlamento ha così
ulteriormente accentuato la tendenza, già registrata negli anni
precedenti, a trasferire numerose funzioni normative al Governo,
ricorrendo agli strumenti della delega e della delegificazione, con le
prevedibili ripercussioni in termini di abbreviamento dei tempi della
produzione legislativa.
Oltre a risultare assai difficile (presumibilmente impossibile) da
calcolare con esattezza, la "quantità" di leggi esistenti,
espressa in termini numerici, rappresenta comunque un indice estremamente
grezzo ed impreciso del "costo" che l’inflazione normativa
impone alla collettività. Esistono infatti leggi brevi e leggi
estremamente lunghe, leggi chiare e leggi astruse, leggi che si
inseriscono in un quadro normativo armonioso e leggi che viceversa
contribuiscono ad alimentare la confusione in settori già regolati da un
viluppo inestricabile di norme. A puro titolo esemplificativo, in questo
contributo abbiamo cercato di fornire una diversa dimensione quantitativa
al costo, espresso in termini di tempo necessario alla conoscenza, che la
legislazione italiana impone ai cittadini interessati a conoscerla. Esiste
in Italia una raccolta del testo vigente di tutte le leggi, continuamente
aggiornato ed integrato con eventuali modifiche, abrogazioni,
integrazioni, sostituzioni (22). La sua funzione dichiarata, nelle
intenzioni del curatore, è quella di "offrire al privato cittadino
la possibilità di ritrovare immediatamente e facilmente, attraverso la
consultazione dei testi di legge, la soluzione di tutti i suoi piccoli e
grandi problemi, di avere orientamenti sicuri sui limiti dei suoi diritti
e dei suoi doveri, su ciò che la legge prescrive nelle più disparate
situazioni, nei confronti di tutti gli altri cittadini, siano essi singoli
o associati, imprese di qualunque tipo, enti o uffici pubblici" (23).
L’involontaria ironia di queste affermazioni è evidente non appena ci
si accorge che tale raccolta di leggi è composta da 66 volumi di testo,
ciascuno in media formato da circa 1.550 pagine, per un totale di 102.300
pagine. Calcolando (ottimisticamente, date le dimensioni delle pagine e la
complessità del testo) un tempo medio di lettura di 8 minuti, il
cittadino che voglia conoscere la sola legislazione statale vigente in
Italia avrà bisogno di 568,3 giorni, ovvero di un anno, 203 giorni e 8
ore di ininterrotta lettura. In altri termini, iniziando la lettura il
primo gennaio di un certo anno, porrà termine alle sue fatiche il 21
luglio dell’anno successivo, alle 8 di mattina. Naturalmente, nel
frattempo il "flusso" di legislazione non sarebbe interrotto. A
questo proposito, abbiamo effettuato un calcolo leggermente diverso,
includendo nella normativa di cui il cittadino diligente dovrebbe avere
conoscenza non soltanto le leggi statali, ma tutti i provvedimenti
legislativi della repubblica italiana, ossia includendo non solo le fonti
legislative,ma anche quelle regolamentari. Nel solo 1999, tale raccolta ha
riempito 4.594 pagine di medie dimensioni (24). Calcolando 6 minuti di
lettura (non molto approfondita), il tempo necessario per aggiornarsi
nella produzione normativa statale dell’ultimo anno è pari a 19 giorni
e 3 ore d’ininterrotta lettura, più altri 4 giorni e 12 ore per le
leggi regionali. Nel computo, naturalmente, non sono incluse le altre
fonti normative, tra cui un particolare rilievo (in termini sia
quantitativi che qualitativi) hanno assunto negli ultimi anni le norme
dell’Unione Europea. È evidente che, se una simile disponibilità di
tempo non è alla portata di un comune cittadino, di un imprenditore o di
un fornitore di servizi, sempre più spesso non rientra neppure nelle
possibilità degli operatori professionali del diritto, seppure in settori
circoscritti. Nasce così l’esigenza di sostenere un costo di
informazione sulle diverse fonti normative, che si traduce automaticamente
in un incremento dei costi di produzione e di transazione, che si
trasferisce sui cittadini consumatori. Inoltre, nessuno può essere
più sicuro della liceità di determinati comportamenti, e cresce così
anche l’incertezza relativa alla possibilità, per l’autorità
pubblica, di sanzionare o tollerare secondo il proprio arbitrio certi tipi
di azioni, o certi soggetti.
Da ultimo, si può rilevare come l’inflazione legislativa costituisca
un fenomeno che tende ad avvitarsi su se stesso: "leggi superflue
producono la necessità di altre leggi e l’iperregolazione trasforma
l’azione amministrativa in mera esecuzione, paradossalmente trasformando
la necessaria discrezionalità amministrativa in arbitraria discrezione
nella scelte delle regole e dei tempi da applicare in ciascun caso, o
addirittura nella scelta dei casi in cui non applicare alcuna regola ...
Troppe garanzie, per gli impiegati e i cittadini, finiscono per
l’imprigionare gli uni e gli altri in una fitta maglia di regole utili
per i furbi che riescono ad evitarle, nocive a chi vuole osservarle"
(25). L’eccesso di leggi e norme giuridiche ha effetti deleteri sui
rapporti tra stato e cittadino: "L’inflazione normativa produce un
primo effetto: costringe le amministrazioni pubbliche a moltiplicare il
ricorso al legislatore: più alto è lo ‘stock’ di norme in vigore, più
frequente sarà la richiesta amministrativa di altre norme, per potere
derogare alle prime, o correggerle, o adattarle, o semplicemente
aggiornarle. Ciò produce duplicazione e sovrapposizione di norme sulle
stesse materie. (...) Ma l’inflazione normativa produce anche
un’altissima conflittualità: i giudici della legittimità dell’azione
amministrativa vedono arrivare ogni anno circa 100mila ricorsi e hanno
poco meno di 800mila ricorsi pendenti, in attesa di decisione (...).
Ultimo e paradossale effetto: l’amministrazione, per sopravvivere, non
attua le norme che essa stessa produce. In tutti i campi si sono formate
consuetudini disapplicative, più forti delle norme vigenti" (26).
Queste dinamiche del sistema politico amministrativo italiano si
riflettono in una più incerta definizione dei diritti di proprietà su
risorse regolamentate od oggetto di relazioni contrattuali con lo stato,
dilatando in modo imprevedibile i tempi di risposta delle sue procedure
decisionali e rendendone aleatori gli stessi risultati. Di qui la
lievitazione dei costi delle transazioni aventi ad oggetto scambio di
diritti su tali risorse, il cui ammontare complessivo è assai elevato,
parallelamente all’estensione della sfera pubblica (lo stato italiano ha
spese complessive pari al 51% del Pil) e delle aree regolamentate di
attività privata (27).
5. LA "QUALITÀ" DEL PRODOTTO LEGISLATIVO E I TENTATIVI DI
SEMPLIFICAZIONE
In De l’esprit des lois, Montesquieu osserva che "le leggi
inutili indeboliscono quelle necessarie". Si potrebbe aggiungere che
l’inflazione normativa erode la prevedibilità del diritto. Come la
sovrabbondanza di moneta circolante ne riduce inevitabilmente il potere
d’acquisto, così l’inflazione normativa attenua il valore delle norme
giuridiche come modello di comportamento e quadro di riferimento per le
scelte private dei cittadini. Non solo genera incertezza, ma abitua allo
scarso rispetto della legge.
Così, ad esempio, la rigida regolamentazione di troppi settori di
attività economica, come si rileva nel rapporto del 1996 dell’Autorità
antitrust, "non sempre si riflette nella concreta realtà di
applicazione delle norme. Infatti la rigidità e la complessità delle
regole si accompagnano in molti casi a una loro disapplicazione diffusa,
che consente una certa flessibilità (...). Ciò tuttavia non avviene in
maniera trasparente e quindi viene favorito il mantenimento di un ambiente
nel quale prevale l’incertezza regolamentativa e la conseguente
discrezionalità amministrativa, con vantaggi non indifferenti soprattutto
per alcuni operatori (...). Inoltre la diffusione di regole
ingiustificatamente invadenti corrompe i rapporti tra Stato e cittadini e
genera un clima di generale sfiducia nella capacità dello Stato di
applicare la legge senza favoritismi e senza interventi di natura
clientelare" (28). Lo stesso cattivo funzionamento
dell’amministrazione pubblica italiana dipende, almeno in parte,
dall’uso indiscriminato delle leggi per cercare caoticamente di
disciplinare l’azione dello stato in campo economico e sociale. Anche in
questo caso, si dimostra come la sovrabbondanza di norme renda possibile
una scelta discrezionale del diritto da applicare al singolo caso.
Le leggi italiane sono certamente troppe, ma in compenso sono anche
oscure. La struttura formale di molte leggi è estremamente complessa (con
articoli di legge che contengono diverse centinaia di commi), il loro
contenuto è spesso molto confuso, espresso in un linguaggio astruso,
tramite la sovrapposizione all’interno del medesimo testo delle
tematiche più diverse. In molti casi la legge italiana non opera altro
riferimento che quello numerico ad altre fonti normative, così da
occultarne il reale significato (29).
In conseguenza dell’ipertrofia normativa la durata media delle leggi
tende ad abbreviarsi, determinando condizioni d’instabilità
istituzionale e di sfiducia. Non a caso, la sentenza 364/1988 della Corte
Costituzionale ha fissato il diritto del cittadino di non rispettare leggi
di difficile interpretazione o incomprensibili (30).
"Eccesso di norme" e "livello troppo elevato delle
fonti" producono non solo un eccesso di vincoli alle attività
private e di adempimenti, ma anche incertezza: "Il risultato è uno
stato di confusione, in cui gli amministratori possono scegliere quali
norme applicare, possono interpretarle in modo da favorire l’una o
l’altra parte, possono aggirare i vincoli imposti dalla legge"
(31). Ha osservato l’Autorità antitrust che in particolare gli
operatori economici "devono avere chiaro quello che è loro permesso
rispetto a quello che è loro vietato. La zona grigia dell’incertezza
deve essere la più ridotta possibile; la tempestività
nell’assolvimento dei compiti amministrativi semplifica il processo
decisionale delle imprese, eliminando inoltre gli ingiustificati vantaggi
che alcuni operatori riescono a conseguire artificialmente accelerando il
decorso procedurale" (32).
L’esigenza di semplificare, ridurre e riordinare il sistema normativo
è stata avvertita in misura crescente nel corso degli ultimi anni, anche
se i risultati non sembrano sinora particolarmente incisivi. Alcune leggi
degli anni novanta sembrano andare in questa direzione. Una
delegificazione è prevista dalla legge 537/1993, sulla cui base il solo
governo Ciampi ha approvato 70 regolamenti di semplificazione delle norme.
Il Testo Unico Bancario del 1993 (che ha previsto l’abrogazione di una
serie di atti legislativi precedenti) potrebbe costituire, secondo il
comitato dei tre saggi, il modello per un’azione di riordino
amministrativo. In attuazione della legge 29/1993, sono stati emanati i
"Principi sull’erogazione dei servizi pubblici", e
semplificati circa 100 procedimenti e gruppi di procedimenti. La legge
59/1997 ha previsto la presentazione, nel gennaio di ogni anno, di un
disegno di legge per la delegificazione di norme collegate a precedenti
provvedimenti amministrativi e di una relazione annuale di semplificazione
(da parte del governo). Uno sforzo di semplificazione, in termini di
delegificazione e contrazione di tempi e fasi delle procedure pubbliche,
emerge anche dalle leggi n. 127/1997 e 191/1998. In particolare, la legge
50/1999 (corrispondente alla legge di semplificazione per il 1998) ha
disposto la costituzione di un Nucleo per la semplificazione delle norme e
delle procedure, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, col
compito di fornire "il supporto occorrente a dare attuazione ai
processi di delegificazione, semplificazione e riordino" (art. 3) e,
a titolo sperimentale, l’introduzione di un’analisi dell’impatto
della regolamentazione (di cui dovrebbero avvalersi le commissioni
parlamentari nello svolgimento dell’istruttoria legislativa), che
permetterebbe di accrescere le basi informative di cui dispone il
Parlamento (art. 5). È stato altresì definito un programma di riordino
di norme legislative e regolamentari, con l’emanazione di testi unici
riguardanti materie e settori omogenei (da attuare entro il dicembre
2001). In termini generali, la prima "legge di semplificazione"
approvata dal Parlamento italiano prevede il coinvolgimento delle parti
sociali nel processo di regolazione, l’individuazione di forme stabili
di consultazione (anche tramite il Nucleo per la semplificazione), il
riordino di settori organici della normativa vigente, la redazione di
testi unici (prioritariamente nei settori della documentazione
amministrativa, del rapporto di impiego pubblico, della finanza e tributi,
della previdenza, degli incentivi all’occupazione, dell’urbanistica ed
espropriazione, dell’università e ricerca).
La riforma del regolamento della Camera dei deputati, entrata in vigore
il 1° gennaio 1998, ha visto l’introduzione di nuovi strumenti rivolti
al miglioramento della qualità del prodotto legislativo. Oltre al già
ricordato sistema di valutazione governativa di coerenza, efficacia e
necessità dei progetti di legge, è stato previsto l’obbligo di
coordinamento legislativo per le Commissioni (che devono raccordare la
nuova disciplina con quella vigente), e l’istituzione di un Comitato per
legislazione. Quest’ultimo è uno speciale organismo che fornisce pareri
sulla qualità di ciascun progetto di legge, in termini di contributo alla
semplificazione della legislazione. La sua attività non sembra tuttavia
particolarmente incisiva: nel 1998 esso ha formulato 43 condizioni (di cui
solo 23 recepite, pari al 53,5%) e 140 osservazioni, di cui appena 36 sono
state accolte (pari al 25,7%) (33).
Nella relazione sullo stato di attuazione della semplificazione (34) si
ricorda come i provvedimenti degli ultimi 3 anni abbiano previsto la
semplificazione di 184 procedure pubbliche, avviando un processo che ha
"ad oggetto procedimenti di interesse delle imprese e mira a ridurre
i costi a carico del sistema produttivo". Al tempo stesso, però, si
riconosce che "l’attuazione del processo di semplificazione ha
subito dei rallentamenti, le cui cause sono da ravvisarsi sostanzialmente
nella complessità dell’iter di approvazione dei regolamenti di cui
trattasi". Così, ad esempio, su 164 procedimenti previsti nelle
leggi 59/1997 e 50/1999, ben 126 sono tuttora da semplificare (35).
Il percorso di semplificazione previsto dalla legge configura infatti
una procedura piuttosto complessa, con l’acquisizione di pareri da parte
di molteplici organi (non coordinati tra loro), cui ha fatto seguito una
corrispondente dilatazione dei tempi.
Emerge così un curioso dilemma: come semplificare il processo di
semplificazione? In un contesto come quello descritto, lo sforzo di
liberalizzazione stenta a produrre risultati apprezzabili, visto che anche
i soggetti ed organismi (istituiti ad hoc) che dovrebbero guidarlo e
indirizzarlo nei termini auspicati si trovano avviluppati negli stessi
laccioli normativi da cui dovrebbero liberare la società, e il tempo che
si vorrebbe far risparmiare ai cittadini (36) si tra duce in
un’ulteriore spreco di risorse in studi, tentativi, ritardi,
ripensamenti. Sebbene avviato, con scadenze temporali di medio periodo, ed
enfatizzato simbolicamente come rilevante punto programmatico
dell’attuale maggioranza, il processo di semplificazione (quantitativa e
qualitativa) del sistema normativo italiano ha conosciuto finora
un’attuazione ancora limitata, ambigua e frammentaria. Se lo scopo delle
istituzioni politiche era quello di ridurre la complessità delle
relazioni sociali, così da diminuire l’incertezza individuale sugli
esiti dell’interazione sociale, non si può certo dire che l’impianto
di tali norme avvicini al risultato atteso.
6. ALCUNI EFFETTI DEI RITARDI NELLA LIBERALIZZAZIONE: ECONOMIA
SOMMERSA, CORRUZIONE, SFIDUCIA.
Quali sono le conseguenze dei ritardi e dei limiti del processo di
liberalizzazione del sistema politico? Abbiamo individuato tre diversi
fattori che possono rappresentare indicatori indiretti del grado di libertà
che l’apparato politico istituzionale garantisce ai propri
cittadini (e che sarà tanto più elevato quanto minore è la quantità di
tempo necessaria per poter disporre di un certo profilo di diritti di
proprietà), con la relativa attenuazione dell’incertezza individuale e
dei costi delle transazioni: l’estensione dell’economia sommersa, i
livelli di corruzione, il grado di fiducia dei cittadini nello stato. Non
si tratta di semplici variabili dipendenti, poiché tra di esse e i
livelli di liberalizzazione del sistema politico esiste presumibilmente
una relazione di reciproca causazione, che rende più complessa
l’analisi delle dinamiche che ne caratterizzano l’evoluzione nel
tempo. Sembra tutta via significativo che, a conferma del rapporto
che sussiste tra queste variabili, operando una semplice comparazione tra
alcuni paesi occidentali, l’Italia si collochi ai vertici nella
diffusione dei tre fenomeni.
Per quanto concerne i livelli di economia sommersa, un sistema politico amministrativo
inefficiente, che incrementa i costi dell’interazione con lo stato,
induce un elevato numero di imprese a "occultare" la propria
attività, incrementando così la quota di "sommerso" e di
evasione fiscale. Un confronto operato da alcuni economisti della Banca
Mondiale tra i dati relativi a 49 paesi conferma che negli anni ‘90 la
quota di ricchezza prodotta dall’economia sommersa è più alta quanto
maggiore è il grado di regolazione e di discrezionalità degli agenti
pubblici, e quanto più pesante il carico fiscale sulle imprese.
"L’economia di un paese può trovarsi in una delle due possibili
situazioni di equilibrio: "equilibrio virtuoso", con imposte e
onere della regolazione pubblica relativamente bassi, buono stato di
diritto, efficace controllo della corruzione e un’economia sommersa
ridotta; (...) un "equilibrio perverso": le imposte, la
discrezionalità della regolazione e l’onere sulle imprese sono elevati,
lo stato di diritto è debole, vi sono un’alta incidenza della
corruzione e una quota relativamente alta delle attività nell’economia
sommersa" (37). In questo quadro, sulla base dei dati disponibili, la
posizione dell’Italia si approssima più all’equilibrio
"perverso" che a quello "virtuoso". Nel 1998
l’economia "non ufficiale" o sommersa comprenderebbe in Italia
una percentuale del Pil (Prodotto interno lordo) pari in media al 27,8 %,
rispetto a quote del 14,9% in Francia, al 14,7% in Germania, sino a
giungere al 13% della Gran Bretagna e all’8,9% degli Stati Uniti (si
veda la figura 6). Secondo dati del Fondo monetario internazionale,
l’evasione fiscale in Italia genera un mancato gettito di 250 mila
miliardi, pari al 12,6% del Pil (38).
Anche il rapporto tra corruzione e limiti del processo di
liberalizzazione è evidente: il Comitato di studio per la prevenzione
della corruzione ha indicato, tra i fattori che possono indurre il ricorso
alle tangenti, l’inflazione legislativa, l’ampiezza della sfera
pubblica, l’inefficienza amministrativa, l’insoddisfacente disciplina
delle procedure amministrative, alla debolezza dell’amministrazione,
all’inefficienza dei controlli, o in altri termini a tutti quei fattori
che allungano i tempi di risposta delle istituzioni politico amministrative
alle istanze dei cittadini. Il disordine normativo, infatti, "fa sì
che il valore del fattore tempo aumenti, e parallelamente crescano per i
privati gli incentivi a comprarne l’impiego. Inoltre, l’inflazione
normativa genera un’alta conflittualità: per prevenire o dirimere le
controversie, che sono un fattore di costo per i privati, talvolta questi
acquistano, tramite tangenti, una generale protezione politica presso i
centri di potere che sono in grado di condizionare stabilmente l’azione
amministrativa" (39). Vi sono ovvie difficoltà di misurazione della
reale dimensione quantitativa di diffusione della corruzione. Da alcuni
anni tuttavia viene predisposto da un’organizzazione non governativa,
Transparency International, un indice che misura la percezione della
corruzione, attraverso una media ponderata di una serie di rilevazioni
statistiche. L’Italia si colloca nel 1999 al 38° posto su 99 paesi, ma
è di gran lunga la più corrotta tra tutte le democrazie occidentali
(vedi figura 7), ottenendo un punteggio più basso (e dunque dimostrando
la percezione di una più estesa corruzione) anche rispetto a paesi come
Botswana, Namibia, Malesia, Tunisia, Sud Africa.
Quali reazioni possiamo attenderci nei confronti di un sistema politico istituzionale
nel quale il processo di liberalizzazione segna il passo, allungando i
tempi di godimento dei diritti individuali di proprietà, accrescendo i
costi delle transazioni, non soddisfacendo le aspettative suscitate,
costringendo una quota consistente di cittadini ad "occultare"
la propria attività, o inducendoli alla corruzione? Diverse statistiche
convergono nell’indicare una sfiducia generalizzata dei cittadini
italiani nei confronti del proprio sistema politico. Ad esempio, in una
domanda relativa al sentimento di soddisfazione sul funzionamento della
democrazia nel rispettivo paese, effettuata con regolarità dall’Eurobarometro,
l’Italia si colloca costantemente all’ultimo posto in Europa. Dal
1973, data della prima rilevazione, l’area dei "non soddisfatti per
niente" si è sempre mantenuta tra il 20 e il 35 per cento, la più
elevata in assoluto. Anche la percentuale dei "non molto
soddisfatti" è rimasta molto alta, oscillando tra il 38 e il 48 per
cento. Cumulando le due percentuali, l’area complessiva di sfiducia è
sempre rimasta superiore al 60 per cento, di gran lunga la più alta a
livello europeo. Così, nel 1999, l’area di insoddisfazione in Italia
era pari all’70%, contro il 38% della Germania, il 28% della Spagna, il
28% della Gran Bretagna ed il 41% della Francia (si veda la figura 8). Le
aspettative pessimistiche sull’efficienza e sull’imparzialità delle
procedure ufficiali possono dare vita ad una domanda di protezione
politica. Se la protezione pubblica garantita dalle leggi dello stato,
mediante il ricorso a procedure giurisdizionali o amministrative, appare
inefficace o ha esiti incerti, può in definitiva risultare meno
conveniente della garanzia privata e selettiva fornita (in cambio di
risorse private) da alcuni centri di potere politico amministrativo,
come partiti, fazioni, o singoli esponenti. La stessa attività di
corruzione, o di pressione sul potere, ha così per oggetto una
salvaguardia continuata dai potenziali costi attesi derivanti
dall’azione dello stato, ossia una tutela più efficace, come tempi di
soddisfacimento, degli incerti diritti individuali di proprietà.
Di contro alla volontà espressa da più parti politiche di
salvaguardare le caratteristiche del modello italiano di welfare state, i
dati presentati in questo contributo sembrano invece mostrare come il
processo di liberalizzazione, così come si sta realizzando in Italia, ci
allontani (o non riduca significativamente le distanze) rispetto a quei
paesi che hanno impostato politiche di liberalizzazione tendenti a ridurre
i vincoli di carattere politico alle libertà individuali. Questi dati
mostrano anche come tali vincoli normativi si traducano direttamente in
oneri di carattere economico che diminuiscono l’efficienza del sistema
produttivo italiano, rispetto a quello di paesi che hanno invece messo in
atto politiche di liberalizzazione volte a modificarne le caratteristiche
di fondo.
Note
1. Questo intervallo temporale, ovviamente, ha l’unica funzione di
fornire un primo termine di riferimento da impiegare per commisura re
eventuali variazioni, favorendo un’analisi comparata.
2. A cura della Heritage Foundation e del The Wall Street Journal (O’Driscoll,
Holmes, e Kirkpatrick, 2000).
3. Cfr. O’Driscoll, Holmes, e Kirkpatrick, 2000, p.278.
4. Ibid.
5. Dati ricavati da Arabbia e Giammusso, 1994, pp. 283 4. Come
osserva Rose, simili contrasti sono destinati inevitabilmente ad
alimentare la sfiducia nello stato: "Quando un cittadino entra in
conflitto con l’amministrazione pubblica (...), qualunque sia l’esito,
è probabile che l’autorità pubblica perda il favore popolare: se il
tribunale si esprime a favore del cittadino, la sentenza costituirà una
conferma indipendente di quanto viene sostenuto dai singoli, e cioè che
l’amministrazione non sa quello che deve fare per ottenere
l’approvazione dei cittadini o non se ne cura; se invece la sentenza del
tribunale non darà ragione al cittadino, quest’ultimo continuerà ad
esserlo [insoddisfatto], essendo stata respinta una richiesta fondata sui
suoi diritti di cittadino" (Rose, 1988, pp. 150 1).
6. Cfr. Furebotn e Pejovich, 1974, p.3. Tali diritti di proprietà
ovviamente sono influenzati dai relativi termini di riconoscimento da
parte dell’ordinamento giuridico, ma non si esauriscono con esso:
"I diritti di proprietà degli individui sulle risorse consistono nel
diritto, o nel potere, di consumare, ottenere redditi da, o alienare
queste risorse (...). I diritti che le persone hanno sopra le risorse
(...) non sono una costante; essi sono una funzione del loro sforzo
diretto di protezione, dei tentativi di altre persone di impossessarsene,
e della protezione governativa" (Barzel 1989, p.2).
7. Secondo l’art. 42 della Costituzione: "La proprietà è
pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a
privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge,
che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assi curarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo
indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. La legge
stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e
testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità". Anche l’art.
43 dispone la possibilità di esproprio di imprese o categorie di imprese,
a vantaggio dello stato, di altri enti pubblici o di comunità di
lavoratori o di utenti, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o
a fonti di energia o a situazioni di monopolio (purché abbiano carattere
di "preminente interesse generale", ove giudice della
"generalità" dell’interesse è naturalmente la stessa classe
politica), mentre l’art. 44 dispone vincoli ed obblighi alla proprietà
terriera privata (anche in termini di estensione) per favorire "il
razionale sfruttamento del suolo" e per "stabilire equi rapporti
sociali".
8. Cfr. Cassese, 1998, p. 68.
9. Secondo Epstein (1995), questa distinzione è irrilevante.
10. Cfr. Zuliani, 1998, p. 13
11. Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1993, p. 145.
12. Cfr. Zuliani, 1998, p. 24
13. Ibidem, pp.29-31.
14. Ibidem, p. 33.
15. Cfr. Rose, 1988, p. 111.
16. Le domande rivolte allo stato non sono date e immutabili, ma
dipendono dai contenuti degli interventi e dei provvedimenti pubblici che
i cittadini ritengono attuabili: "Allargandosi la sfera
dell’intervento pubblico, questo tipo di bisogni si amplia; quindi si
amplia, si intensifica la domanda politica" (Pizzorno, 1980, p.20).
Dunque, l’espansione della sfera pubblica può generare di per sé
speranze ed aspettative che alla lunga, essendo impossibili da soddisfare
nei tempi attesi, alimentano la sfiducia nello stato e inducono nuove
doman de particolaristiche.
17. Le leggi italiane presentano inoltre il più basso livello di
importanza, misurata in base al numero di persone interessate dai provvedi menti,
alle risorse distribuite ed al tipo di redistribuzione, rispetto a quelle
francesi e britanniche (Di Palma, 1978, p.103). Prevalgono iniziative a
carattere sezionale o micro-sezionale, proliferano le cosiddette
"leggine" che attribuiscono vantaggi distributivi a gruppi di
ridotte dimensioni e ne distribuiscono su larga scala i costi.
L’iniziativa legislativa, riguardando decisioni di portata limitata,
acquista però un valore di scambio più consistente. Esiste infatti una
correlazione inversa tra la generalità nella distribuzione di risorse
pubbliche e la convenienza individuale delle attività di lobbying e di
corruzione. Quanto più ampia è la distribuzione attesa dei benefici di
un provvedimento - che si approssima così al perseguimento di un
interesse generale - tanto maggiori sono le difficoltà dei possibili
beneficiari nell’organizzare un’attività di corruzione o di pressione
sul potere.
18. Cfr. Ainis, 1997, p. 19.
19. Cfr. Camera dei deputati, 1996, pp.7-9.
20. Cfr. Rose, 1988, p.120. Il numero di leggi approvato nelle singole
legislature ha oscillato dalle 2.316 della I legislatura, alle 839 della
V, 936 della VIII, 1.066 della X (Arabia e Giammuso 1994, 202).
21. Cfr. Camera dei deputati, 1999, p. 11.
22. Cfr. De Martino, 1980.
23. Ibidem, p. iv.
24. Cfr. Lex legislazione italiana Gazzette Ufficiali, anno
LXXXV, n. 2.
25. Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri, p.10.
26. Ibid., pp. 24 5.
27. Nel rapporto del 1999 sull’attività della Camera dei deputati si
riconosce che la semplificazione del sistema normativo "è un
obiettivo strategico per (...) ridurre i costi amministrativi che gravano
sul sistema delle imprese, in modo da creare condizioni per la loro
competitività" (Camera dei deputati, p.20).
28. Cfr. Agenzia garante delle concorrenza, 1996.
29. Per un’analisi esauriente di queste problematiche, ricca di
esempi inquietanti, si veda Ainis (1997).
30. Il numero e la complessità delle leggi è stato collegato a
diversi elementi. In primo luogo, c’è stata una tendenza a spostare
verso l’alto il livello della normazione, legiferando anche su questioni
per le quali sarebbero state sufficienti decreti amministrativi. La
ricerca di compromessi tra le diverse forze politiche, evidente specie nel
caso di "leggine" votate all’unanimità nelle commissioni
parlamentari, si riflette poi nella emanazione di norme volutamente
confuse per non scontentare nessuno che poi spesso richiedono
altre leggi di interpretazione.
31. Cfr. Comitato di studio, 1996, p. 42.
32. Cfr. Agenzia garante della concorrenza, 1996.
33. Cfr. Camera dei deputati, 1998, p. 28.
34. Contenuto del disegno di legge n. 4.374 del Senato della
repubblica, relativo alla legge di semplificazione per il 1999.
35. Cfr. Camera dei deputati, 1999, p. 20.
36. Significativamente, l’art. 5 del progetto di legge di
semplificazione 1999 rileva che "i tempi di attesa agli sportelli
sono considerati buoni indicatori della qualità dei servizi prestati
dagli operatori pubblici all’utenza, del grado di efficienza e
trasparenza dell’attività svolta. Per queste ragioni, è sembrato
necessario intervenire sul fattore temporale, costituito dall’attesa
presso gli uffici a diretto contatto con il pubblico".
37. Cfr. Johnson, Kaufmann e Zoido Lobatòn 1998, p.1.
38. Cfr. "La Repubblica", 29 dicembre 1998, p.2.
39. Cfr. Comitato di studio, 1996, p. 18.
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