V Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana
IL GRAN RIENTRO IN SCENA DELLE PARTECIPAZIONI STATALI
Giuseppe Pennisi*
1. Premessa
Questa è la quarta puntata di una riflessione iniziata circa cinque anni
fa, nell’ambito del “Rapporto” annuale di Società Libera sulle
liberalizzazioni, in merito al processo di privatizzazioni in corso in
Italia. La prima puntata riguardava gli Anni Novanta e copriva tre
legislature (di cui una molto breve); in essa, si sottolineavano sia il
difficile avvio delle privatizzazioni (a ragione, principalmente, delle
difficoltà di trovare un’adeguata impalcatura giuridico-istituzionale)
sia i notevoli successi in termini di esiti finanziari ottenuti da
cessioni e da collocamenti (Pennisi, Zecchini, 2001). Tali successi, in
gran misura attribuibili alla fase di “esuberanza irrazionale” che ha
caratterizzato i mercati finanziari negli Anni Novanta (soprattutto
nella seconda metà del decennio, Schiller 2005), non sono stati, però,
accompagnati da risultati paragonabili in materia di liberalizzazioni
effettive; sovente i monopoli pubblici sono stati sostituiti da
conglomerati privati in posizione dominante, in una fase in cui pure le
stesse Autorità di regolazione, peraltro di recente istituzione, erano
in condizioni di non facile decollo. In molti casi, il management alla
guida delle società privatizzate è stato reclutato da quella parte delle
partecipazioni statali dove più dominava la cultura della “teoria della
cattura” in base alla quale, per ottenere utili, lo strumento essenziale
è la “cattura” di potere politico-amministrativo e la conseguente
protezione, diretta od indiretta, dal mercato (Stigler, 1971). Alla fine
del 20simo secolo, il sistema produttivo italiano appariva in gran
misura privatizzato, specialmente nel settore finanziario ed anche in
quello delle imprese di pubblica utilità controllate dallo Stato
centrale, ma anche ingessato; questa si è rivelata una determinante
della perdita di competitività progressivamente avvertitasi nei primi
anni del 21simo secolo (Istituto del Commercio per l’Estero, 2005;
Ministero delle Attività Produttive, 2003,Visco, Toniolo 2004).
Nella seconda puntata (Pennisi, Zecchini 2002) si è, in sostanza,
esaminato il ruolo delle privatizzazioni nel primo anno della
legislatura iniziata nel giugno 2001. Da un lato, le privatizzazioni non
solo mantenevano centralità nei programmi di governo, anzi la
accentuavano (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2001). Da un
altro, però, dalla primavera del 2000 i mercati finanziari erano entrati
in un periodo di difficoltà che si sarebbe esacerbato dopo l’attentato
dell’11 settembre 2001; le Borse segnavano marcate perdite di
valorizzazione che rendevano difficili o poco appetibili collocamenti
sul mercato. Il quadro generale non incoraggiava neanche le cessioni
dirette.
Le prime due puntate della riflessione ponevano, poi, l’accento su una
caratteristica che è rimasta a lungo costante nel processo di
privatizzazioni: la mancanza di chiarezza sugli obiettivi e sul loro
peso relativo. Questi obiettivi, in parte complementari ed in parte
contraddittori, sono: a) le esigenze di “fare cassa” per ridurre il
fardello dello stock del debito pubblico, a cui sono destinati i
proventi delle privatizzazioni; b) la riduzione dell’intervento pubblico
per favorire il mercato, c) la necessità di migliorare l’efficienza
delle imprese sia private, sia di recente privatizzazione, sia ancora
controllate dalla mano pubblica; d) la liberalizzazione dell’economia
italiana nell’ambito di più vaste riforme, di cui le privatizzazioni
sono unicamente una delle componenti (Pennisi, 2004, 2005 a), 20005 b)).
Un chiarimento degli obiettivi si è avuto nel dicembre 2002, quando il
Consiglio dei Ministri ha varato quello che è stato chiamato, da
osservatori distinti e distanti da contrapposizioni ideologiche
(Barocci, Pierobon, 2007), “il primo (e l’unico) progetto organico in
materia di liberalizzazioni”1.
Come si è sottolineato nel “Rapporto” dello scorso anno (Pennisi, 2006),
tale scarsa chiarezza, ove non vera e propria opacità, di obiettivi non
è tipica del processo di privatizzazione in Italia: uno studio recente
convalida la conclusione raggiunta l’anno scorso ed enfatizza come tale
ambiguità di obiettivi e di strumenti sia comune ai principali Paesi
dell’Unione Europea (Belke, Baugmärtner, Schneider, Setzer, 2005) e come
l’obiettivo a) sia prevalso, e prevalga, nel concreto, spesso sugli
altri. Pure le classifiche pubblicate periodicamente da parte dell’Ocse,
del Fondo Monetario e da istituti privati (quali quelli che curano il
sito web www.privatization.org, sempre molto aggiornato ) pongono
l’accento sui proventi da cessioni di imprese ed anche di infrastrutture
per l’erario e contribuiscono, dunque, a dare l’importanza della
priorità attribuita comunque implicitamente a questo obiettivo, in
termini di “preferenze rivelate” sugli altri – in particolari su quelli
attinenti l’effettiva liberalizzazione del sistema economico. Ancora più
apertamente, un lavoro, ancora a circolazione limitata della Fondazione
Enrico Mattei (Bortolotti, Micella, 2006), specifica che le
privatizzazioni sono state uno dei fenomeni economici più importanti a
cavallo tra il 20simo ed il 21simo secolo – tra il 1997 ed i 2004 ci
sono state più di 4000 operazioni di denazionalizzazioni, per un valore
totale di 1350 miliardi di dollari, in gran misura in Europa Occidentale
– ma che i proventi all’erario, non il miglioramento della gestione
aziendale o la liberalizzazione dell’economia od ancora la maggiore
concorrenza e trasparenza imprenditoriale, sono state il loro motore
principale. Ciò nonostante, il processo di privatizzazione sta mutando
drasticamente anche il diritto internazione e non solo nel ramo
societario (Dickinson 2005, 2006).
* Professore di Finanza Pubblica, Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione
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