Premio internazionale alla Libertà - IV edizione
Scienza, tecnologia e tradizione liberale
Sosteneva Albert Einstein che alla base della formazione dei concetti scientifici vi fosse un forte elemento di creatività, ciò che chiamava la “libera volontà costruttiva” degli scienziati, deontologicamente “obbligati” a fare ipotesi ardite, a metterle alla prova di continuo, e ad accettare di buon grado eventuali smentite da parte dell'esperienza. La pratica scientifica è insieme immaginazione creativa e incessante attività critica e autocritica. In ciò si riflette più di un aspetto della tradizione liberale. Anzi, la comunità scientifica è stata la prima a darsi un fondamento sull'esercizio della libertà dai limiti costituiti dai propri pregiudizi e dalle opinioni tradizionali, anche le più condivise.
C'è tuttavia un terreno estremamente concreto dove la libertà è non tanto caratteristica di un'impresa conoscitiva che si propone come modello della società liberale, quanto è un compito della società nei confronti della scienza stessa. Perché la conoscenza cresca, infatti, la difesa della libera iniziativa dei singoli ricercatori e dell'autonomia della comunità scientifica rispetto al potere politico è irrinunciabile. Né mancano esempi negativi di come questa doppia esigenza di una scienza libera in una società libera possa venir disattesa: dal caso Lysenko nell'Unione Sovietica di Stalin, al ridicolo boicottaggio della teoria della relatività, bollata e dequalificata come “fisica ebraica”, nella Germania hitleriana, sino all'edificazione di una fasulla “scienza della razza”, promossa dai totalitarismi nazisti e fascisti.
Solo se è garantita la libertà della ricerca, gli scienziati possono essere posti nelle condizioni di esercitare quelle virtù critiche che garantiscono la fecondità della scienza. Come osservava a suo tempo John Stuart Mill, di cui peraltro ricorre il secondo centenario della nascita, con questo non si vuol dire che non possano svilupparsi grandi menti scientifiche in contesti autoritari o totalitari, ma solo che viene meno quel clima di apertura intellettuale che permette a tutti di avvantaggiarsi delle conquiste della scienza, sì che da una parte le acquisizioni del patrimonio tecnico-scientifico si rivelano bene comune, e dall'altra l'atteggiamento degli scienziati diventa un punto di riferimento nelle “più sublimi e controverse questioni”.
William Harvey
Talvolta le rivoluzioni, in particolare quelle scientifiche, sanno sfruttare in modo inedito frammenti di antiche credenze, concezioni, tradizioni. È il caso della scoperta, avvenuta nel Seicento, della circolazione del sangue, con cui molti storici della scienza fanno coincidere la nascita della biologia moderna. È vero, la circolazione del sangue fu probabilmente intuita per la prima volta dal medico italiano Andrea Cisalpino (1519-1603), e altri medici e anatomisti avevano posto quei problemi che spinsero all'elaborazione di una teoria circolatoria; ma fu un medico inglese, William Harvey (1578-1657), a portarla a compimento, con un'opera in latino dal titolo eloquente, De motu cordis (1628).
Nato in un piccolo centro costiero del sud dell'Inghilterra, a Folkestone, Harvey si trasferì a Cambridge per svolgervi gli studi, e di qui migrò sul Continente, all'Università di Padova, sede all'epoca di una delle più prestigiose scuole anatomiche erede della grande tradizione aristotelica. Tuttavia, il medico inglese (che tornò in patria nel 1604, diventando in seguito medico di re Giacomo I) assorbì non il rispetto verso le autorità, ma - come per altro si insegnava nello studio di Padova - il rispetto per l'esperienza, che lo portò a liberarsi della vecchia impostazione galenica, e lo condusse infine alla scoperta della circolazione del sangue. Di fronte a quella dell'esperienza passava in secondo piano la stessa autorità degli Antichi: l'anatomia si doveva fare sporcandosi le mani, con osservazioni ed esperimenti che possono controllare il sapere acquisito, confermandolo ma anche smentendolo, portando così a nuove scoperte. Se per esempio la maggior parte degli anatomisti sosteneva concorde l'esistenza (postulata sin dal II secolo d.C. dal medico greco-romano Galeno) di pori invisibili nella parete intermedia del cuore, pori che avrebbero causato il passaggio del sangue da un ventricolo all'altro, Harvey ribatteva con divertito stupore che non si vede “perché mai rifugiarsi in porosità incerte, oscure, cieche e invisibili, quando si ha un passaggio così aperto” per vene e arterie.
Ammettere tale passaggio, e con esso altre stringenti esperienze portate da Harvey, avrebbe però significato ammettere la circolazione del sangue. Quella grande rivoluzione concettuale rappresentata dalla teoria circolatoria era ormai sotto gli occhi di tutti, ma, tra i contemporanei del medico di Folkestone, non furono molti quelli che la vollero vedere.
Una poltrona per due: Golgi contro Ramòn y Cajal
Per prassi comunemente accettata, il Nobel per le discipline scientifiche viene sempre più spesso assegnato contemporaneamente a più ricercatori che, in uno stesso ambito, abbiano raggiunto, anche indipendentemente ciascuno dagli altri, risultati di straordinaria rilevanza. Ciò consente di eliminare eventuali questioni di priorità; ma tale pratica è anche il riflesso della constatazione, ormai ampiamente diffusa, che le ricerche sono frutto di una complessa dinamica di competizione-collaborazione fra i ricercatori, sì che la paternità delle scoperte non è mai del tutto univoca.
La storia dei Nobel, tuttavia, può riservare qualche sorpresa. Nel 1906 il Premio per la medicina fu assegnato - per la prima volta ex aequo - a due grandissime personalità della fisiologia, l'italiano Camillo Golgi (1843-1926) e lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal (1852-1934), per i loro studi sulla struttura del sistema nervoso. Ma - ed è questa la cosa notevole - lungi dall'essere giunti a un qualche risultato comune (seppure in maniera indipendente), le loro indagini li avevano condotti a conclusioni diametralmente opposte, da cui i due avevano sviluppato una forte antipatia personale: l'unica cosa che condividevano!
La distanza sul piano teorico era enorme. Mentre Golgi sosteneva che l'intero sistema nervoso umano e di altri vertebrati consistesse di un'unica rete di fibre le cui cellule (quelle poi dette neuroni) hanno perso la loro individualità per entrare a far parte di un “reticolo” nervoso uniforme e fisicamente ininterrotto, Ramón y Cajal aveva compreso come la struttura del sistema nervoso sia composta da singole cellule individuali separate da uno spazio ben visibile (in seguito chiamato sinapsi). Se dal punto di vista di Golgi la trasmissione dell'impulso nervoso era sostanzialmente automatica (si trattava di un segnale che “correva” su un supporto fisico), la spiegazione che offriva invece Cajal, sebbene più complessa, applicava la teoria cellulare allo studio del sistema nervoso, ed era quindi dotata di maggiore generalità; inoltre, l'approccio di Cajal doveva rivelarsi capace di resistere bene ai controlli sperimentali.
E nei fatti, Cajal ebbe la meglio! La cosiddetta teoria reticolare di Golgi venne dimenticata a favore della teoria neurale dello spagnolo, cui si devono le basi dall'attuale interpretazione del sistema nervoso (anche se le scoperte dell'italiano, e i metodi di indagine da lui messi a punto, rimasero di fondamentale importanza). Con la loro decisione salomonica i giudici del Nobel colsero, anche se forse inconsapevolmente, un aspetto dell'impresa scientifica, che vale la pena di considerare attentamente: in momenti di incertezza (e nel 1906 non era affatto scontato che la teoria neurale avrebbe trionfato) può essere utile uno sforzo per finanziare programmi di ricerca rivali, e concedere persino a quelli considerati “regressivi” l'opportunità di riscattarsi.
Insomma, la rivalità tra teorie non è un freno, ma un motore della ricerca. E se è vero che il contenuto di una teoria vincente è modellato anche dal conflitto con quelle rivali, cosa sarebbe mai stata la teoria di Cajal senza lo stimolo incessante di quella di
Golgi?
Bruno de Finetti
“La probabilità non esiste”. Ecco il parere di uno dei più grandi probabilisti del Novecento, Bruno de Finetti (1906-1985), di cui ricorre quest'anno il centenario della nascita. Immediatamente, però, alla voce Probabilità stesa per la Enciclopedia edita da Einaudi (1981), de Finetti aggiungeva: “Potrei anche dire, viceversa e senza contraddizione, che la probabilità regna ovunque, che è, o almeno dovrebbe essere, la nostra guida nel pensare e nell'agire, e che perciò mi interessa”. La probabilità, spiegava, dipende dalle aspettative dell'individuo, è il grado di credenza che questi, soggettivamente, assegna a qualcosa che non è ancora accaduto e che, per i motivi più diversi, immagina potrebbe o dovrebbe accadere. Non è qualcosa di assoluto, non è il nome di un oggetto sotto gli occhi di tutti, ma “l'aggettivo” che ogni individuo applica a cose che lo riguardano in prima persona, lo preoccupano, ne destano l'interesse.
Finissimo matematico, de Finetti era disposto a estendere la sua impostazione “soggettivista” della probabilità - per la quale divenne notissimo in tutto il mondo - alla matematica nel suo insieme, sottolineandone gli aspetti più creativi. Tra dimostrazioni e congetture, le sue preferenze andavano senz'altro a queste ultime, poiché “il rigido e impeccabile ragionamento deduttivo non può condurre a nessuna conclusione nuova, cioè non già implicitamente contenuta nelle premesse”; mentre le congetture prefigurano le conclusioni stesse, sono affermazioni che gli individui credono vere in conseguenza delle premesse accettate, sforzandosi poi di “dimostrarle”, di trasformare cioè le proprie convinzioni soggettive in conclusioni oggettive, o meglio, in “verità di tutti” (con il che Bruno de Finetti, cogliendo uno dei principali aspetti dell'impresa scientifica in generale, sottolineava il carattere di intersoggettività, più che di “oggettività sradicata dai soggetti”, della ricerca matematica). Si trattava, in altre parole, di “rivalutare gli aspetti più attivi, più creativi (ma anche, e proprio per ciò, più avventurosi, fantasiosi, soggettivi) del nostro modo di pensare” - rivalutazione che, evidentemente, non riguarda unicamente la matematica, ma il sapere nel suo insieme.
Per Bruno de Finetti il “soggettivismo” era anche impegno sociale. Lo constatiamo nel leggere non solo i saggi che dedicò alla didattica della matematica, ma quei testi in cui emergono le sue prese di posizione per le libertà individuali e la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Si tratta di scelte che de Finetti pagò in prima persona: per avere pubblicamente sostenuto il diritto degli obiettori di coscienza, nel novembre 1977 fu condotto in carcere per qualche ora, con l'accusa di “associazione a delinquere, attività sediziosa, istigazione verso i militari a disobbedire alle leggi”. Non si può fare a meno di notare che il provvedimento di cattura fu vergognoso non per lui (Bruno annunciò divertito che avrebbe atteso l'arresto a Roma, presso la sede dell'Accademia Nazionale dei Lincei, di cui era membro, alle ore 11, alla fine della seduta inaugurale del nuovo anno accademico), ma per chi l'aveva diramato, dando prova di quella consueta scarsa sensibilità delle istituzioni nei confronti della libertà di pensiero, che è da tempo un discutibile vanto della vita politica nostrana.
L’equivoco della razza
In un ampio studio su Le origini culturali del Terzo Reich, pubblicato una quarantina di anni fa, lo storico George Mosse ricordava come l'antropologia (fisica e culturale) avesse contribuito, sin dall'inizio del XIX secolo, a una “classificazione razziale di tribù e nazioni che postulava una scala di valori contingenti di superiorità e inferiorità”, fondata sull'istituzione di correlazioni sistematiche tra caratteristiche fisiche esteriori e disposizioni intellettuali e morali. A metà Ottocento il diplomatico francese Arthur de Gobineau (1816-1882) si preoccupò di elaborare una teoria coerente e completa della razza, in cui purezza razziale era sinonimo di capacità di sopravvivenza e dominio sulle razze inferiori, mentre l'ibridazione tra razze diverse avrebbe di necessità portato alla decadenza e infine all'estinzione. Cos'altro sarebbe una apartheid, se non la misura difensiva che legittimamente un qualsiasi Stato prende nella lotta contro l'estinzione, contraendo in un rigido sistema di coercizioni le libertà degli individui “diversi”?
Il ragionamento sembra filare alla perfezione, ma la premessa è sbagliata! Sul piano strettamen-te biologico, non è affatto vero che gli ibridi indeboliscano le razze pure (sempre che esista qualcosa come una “razza pura”). Al contrario, come hanno spiegato Luca e Francesco Cavalli-Sforza in un loro volume (Geni, popoli e lingue), gli ibridi interrazziali presentano vantaggi biologici non indifferenti rispetto ai cosiddetti purosangue: in altri termini, è come se gli ibridi riuscissero a prendere, dalle “razze” da cui discendono, tante virtù e pochi difetti.
C'è di più: perché abbia senso parlare di “razze”, bisogna che esistano suddivisioni chiaramente riconoscibili entro una stessa specie (l'insieme di tutti gli individui potenzialmente interfecondi). Almeno per quanto riguarda Homo sapiens, da un punto di vista genetico, ovvero dal punto di vista delle differenze che permangono fra gli individui col passare delle generazioni, tali discontinuità sono ben poche. Certo, basta un'occhiata per distinguere un bianco da un nero; ma dal punto di vista genetico si tratta di caratteristiche irrilevanti, come le altre differenze che si notano osservando la superficie corporea (ossatura e forma del cranio, statura, ecc.) Sono differenze dovute principalmente ad adattamenti climatici. Il mantenimento della temperatura interna del corpo, essenziale per tutti i mammiferi, richiede la modificazione della superficie corporea; “sotto la pelle”, però, l'insieme delle differenze genetiche che contraddistinguono popolazioni diverse varia pochissimo, al confronto soprattutto con le differenze che si trovano tra individui della stessa popolazione. Le diversità che notiamo a occhio nudo sono probabilmente dovute a una manciata di geni, mentre numerosissimi sono i geni responsabili delle differenze tra singoli individui anche all'interno di un gruppo a prima vista omogeneo.
È dunque una forma di singolare “strabismo” quella per cui siamo pronti a riconoscere differenze vistose e poco importanti, a costo di trascurare quelle essenziali ma difficili da decifrare. Correg-gendo coraggiosamente questa distorsione, potremmo anche abituarci all'idea che non c'è alcuna maggioranza da tutelare o da privilegiare. E cos'altro è l'apartheid se non la tragica misura della stupidità cui si può giungere basandosi su un rozzo e ridicolo equivoco?
Alimentazione bio-tech, cibi “biologici” e libertà di ricerca
Recita una domanda rivolta spesso ai biologi: Sono sicuri i cibi prodotti con l'uso delle biotecnologie? Si tratta ovviamente di una domanda cui nessuno scienziato saprà mai dare risposta. E non perché manchino i dati (almeno, non finora); ma perché è nella natura dell'impresa scientifica sapersi fallibile, evitando risposte definitive. Tutto questo non basta, dal momento che è una pretesa del tutto ragionevole di ogni società quella che una qualche applicazione del sapere scientifico, prospettata come strumento di progresso, non alimenti invece il regresso della società stessa. È questa la sorgente di quel principio di precauzione sempre più spesso invocato dai politici, sconcertati da una scienza che faticano a comprendere.
Messo in questi termini, l'argomento appare del tutto solido, anche se il prezzo da pagare sarebbe evidentemente più alto del nostro futuro bio(tecno)logico. Con la stessa logica, per esempio, si potrebbe porre la domanda: Quanto sono sicuri i prodotti biologici? Non c'è dubbio che il quesito debba essere rivolto agli specialisti, cioè, di nuovo, a degli scienziati - e non, per esempio, ai venditori di frutta con marchio bio. La risposta, questa volta, per quanto rivedibile alla luce di migliori conoscenze, è eloquente: i cosiddetti prodotti biologici sono tutt'altro che sicuri. E su ciò sembra concordare grandissima parte dei ricercatori. La maggioranza delle piante, infatti, produce veleni, tossine e sostanze cancerogene al solo scopo di difendersi dai parassiti e dagli animali che se ne cibano - non ultimo l'essere umano. Ne viene che le invitanti e costose carni provenienti da ridenti allevamenti bio, ben nutrite con vegetali e mangimi altrettanto bio, sono loro stesse soggette alla trasmissione (in piccole dosi, per carità!) di sostanze non esattamente favorevoli al progresso della specie umana. È facile vedere come ciò non si verificherebbe più, una volta modificate le piante in maniera tale che non producano né veleni, né tossine - fabbricando cioè i famigerati OGM: organismi geneticamente modificati.
Ovviamente, continueremo a non essere sicuri che gli OGM non facciano male; ma intanto sappiamo che anche i cibi biologici possono causare danni alla salute, e che possono far più male di quelli biotecnologici. E non si tratta di pura teoria. Dagli anni Ottanta del Novecento in poi disponiamo di montagne di dati che confermano indicazioni circa gli stessi cibi ricavati dagli OGM (oltre a fornire svariate garanzie su mantenimento di ecosistemi e biodiversità del territorio, inquinamento genetico, produzione di allergie, ecc.). Naturalmente, per ottenere i dati servono ricerche. Ed è certo bizzarro che per legge - accade in Italia, con il sostegno trasversale di governo e opposizione - gli OGM siano stati praticamente banditi, con un effetto pesantissimo sulla ricerca, la quale rappresenta l'unico modo, per quanto imperfetto, di difendersi da quegli stessi mali che si vorrebbero curare.
A questo punto, c'è un'ultima domanda che con ragione i biotecnologi potrebbero porre a tutti i loro critici: vista la sostanziale identificazione del biologico con il naturale, quanto sono biologici i cibi biologici? La risposta non è difficile, come sa ogni buon contadino. Tutte le piante coltivate dall'uomo per produrre cibo, dalla scala industriale a quella familiare, non sono “naturali”, ma costituiscono il risultato di mutazioni e selezioni operate dalle mani di Homo sapiens nel corso degli ultimi millenni.
E se i contadini sono liberi di fare i propri innesti senza far male a nessuno, perché, alla stessa condizione, i ricercatori non dovrebbero essere altrettanto liberi di praticare i loro?
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