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Premio internazionale alla Libertà - IV edizione

L’Economia della Libertà

Se la difesa della proprietà privata è uno dei motivi dominanti della tradizione liberale, come traduzione “in negativo”, sul piano sociale ed economico, di un più generale diritto di ogni individuo a coltivare la propria diversità, “in positivo” questo stesso diritto si traduce nella libertà d'iniziativa, volta alla ricerca e all'impiego dei mezzi che, nel rispetto dell'altrui libertà e salute, sono ritenuti idonei al miglioramento delle condizioni di chi se ne appropria, li adopera e li sviluppa.
Di qui l'accento sulla ricerca scientifica e tecnologica, vero e proprio serbatoio d'idee nuove e originali che permettono di fronteggiare situazioni problematiche, imprevisti, crisi a lungo e breve termine, degenerazioni strutturali. Il tutto contempla, naturalmente, piena autonomia e autodeterminazione da parte degli attori economici nella gestione delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, nonché nella possibilità di contribuirvi e di accedervi. Ma apre una serie di interrogativi politico-economici di non facile risoluzione. Chi finanzia la ricerca? Se sono gli Stati nazionali a finanziarla, come garantire la libertà dei ricercatori? E se invece sono i privati, come garantire la libertà di accesso alle singole ricerche? Infine, chi decide quali criteri adottare per valutare - e dunque per finanziare in modo adeguato - l'attività scientifica?
Il nodo per venire a capo di tali questioni sta forse nel risalto che è necessario dare alla dimensione concorrenziale, tanto della ricerca scientifica in sé quanto delle promesse di sviluppo economico che il suo sfruttamento alimenta. Il che non è privo di rischi, come testimoniano innumerevoli tracolli finanziari ed economici che il mancato adeguamento a nuove tecnologie può comportare.
Del resto, avvertiva in tal senso lo statunitense Nathaniel Hawthorne (1804-1864) che “nel mare in tempesta della nostra vita sociale c'è sempre qualcuno sul punto di annegare”. Gioco pericoloso, quello della concorrenza, ma irrinunciabile: perché nel processo economico non si può non tener conto del “vincolo di libertà” che lega insieme tutti gli attori economici; i quali, legittimamente, ognuno per sé, tentano di migliorare le proprie condizioni.

Alexis de Tocqueville

Se lo scrittore americano Henry James, in polemica con le scelte isolazioniste del Paese, non esitò a chiedere la cittadinanza della nazione europea che da anni lo ospitava, l'Inghilterra, quasi per compensazione alcune tra le più belle pagine sugli Stati Uniti vengono dalla penna di un europeo, Alexis de Tocqueville (1805-1859). Era di professione giudice uditore, ma non fu mai giurista; non fu economista in senso stretto, eppure le sue osservazioni sulla democrazia sono in buona parte effetto di una riflessione sul ruolo dell'economia; sebbene con riluttanza, dovette prestare giuramento alla monarchia restaurata nel 1830, ma ciò non gli impedì - pur appartenendo alla nobiltà francese - di essere annoverato tra i maggiori teorici della democrazia; eletto membro dell'Académie des Sciences Morales et Politiques, non si limitò al ruolo di accademico, ma predilesse l'azione; deputato al Parlamento per più di un decennio, si fece promotore della legge di abolizione della schiavitù dalle colonie e di un progetto di riforma delle prigioni - dopo essersi adeguatamente informato, grazie a un viaggio in America, sul sistema carcerario in vigore negli Stati Uniti, e averne teorizzato l'applicazione in Francia. Ma il più significativo frutto di questa trasferta fu la grande opera, in due volumi, La democrazia in America (1835, 1840).
Mentre l'Europa si cullava nella nostalgia di un ancien régime in perenne agonia, Tocqueville individuava nell'attività commerciale e nella libera iniziativa imprenditoriale, che già sancivano la superiorità industriale degli Stati Uniti, gli elementi chiave della democrazia. Quest'ultima non è tanto intesa come forma di governo, quanto come ordinamento della società. Comunque, la democrazia agli occhi di Tocqueville coincide con la scomparsa dell'aristocrazia dalla scena sociale e si presenta come una società composta interamente da pari, in cui nessuno è più nobile di qualsiasi altro.
Motore di questo livellamento sono per Tocqueville l'attività commerciale e industriale, in cui egli scorge il miglior antidoto contro l'immobilismo della vecchia aristocrazia, che suole affidare la propria sorte a possesso ed ereditarietà di terre e titoli. Le fortune, per loro natura alterne, dei commerci e delle industrie sono mobili e reversibili, e non si cristallizzano - se non per quei vizi oligarchici che i governi dovrebbero sanare con mezzi anch'essi democratici - in generazioni che mantengono posizioni di privilegio. La mobilità dei beni non contraddice l'uguaglianza fondamentale delle condizioni; salvaguardia invece l'altra caratteristica determinante delle democrazie, l'uguale diritto di ogni individuo a distinguersi da tutti gli altri.

Joseph Alois Schumpeter

In un'economia che voglia creare sviluppo e profitto l'innovazione tecnologica ha un ruolo chiave. Vorremmo che questo fosse ormai luogo comune; disillusi dalle sciagurate politiche economiche degli ultimi anni, vogliamo insistere che varrebbe la pena riaprire quelle pagine - fin troppo dimenticate - della Teoria dello sviluppo economico (1912), in cui Joseph Alois Schumpeter (1883-1950) dimostrava la centralità dell'innovazione nei processi economici.
Per Schumpeter l'attività economica e commerciale non è inscrivibile in semplice routine: non è basata sulla pura ridistribuzione dei beni; all'opposto, ha un carattere fondamentalmente dinamico, fondato sul profitto - e questo deriva, a sua volta, dal continuo mutamento cui i sistemi di produzione sono per loro natura sottoposti. Essi non cambiano cioè per imposizione esterna, ma per richieste ed esigenze dall'interno: innovazioni che mutano - anche radicalmente - le modalità produttive, favorendo guadagni straordinari. Produzione di un nuovo bene, introduzione e sperimentazione di nuovi metodi, apertura di nuovi mercati, conquista di fonti di approvvigionamento di materia prima mai sfruttate, valorizzazione di un nuovo ritrovato scientifico e tecnologico, riorganizzazione di un'industria, ecc.
Cuore di tale attività, in particolare nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico (quando coesistono in concorrenza varie imprese di media grandezza) è la figura dell'imprenditore-innovatore, che, invece di accontentarsi di amministrare l'esistente, è alla ricerca di qualcosa di qualitativamente nuovo con cui realizzare il massimo profitto.
Però, con la burocratizzazione dell'impresa tecnologica, con le procedure di pianificazione aziendale e di meccanizzazione della figura imprenditoriale nel ruolo del manager, la funzione dell'imprenditore sfuma sempre più, sino a distribuirsi su una molteplicità di figure differenti. D'altra parte, lo stesso sfruttamento delle innovazioni mostra andamento periodico, corrispondente all'alternarsi di fasi espansive e recessive nel ciclo economico. Le innovazioni non vengono introdotte in maniera costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo, cui seguono fasi di recessione che portano al collasso del sistema e alla sua inevitabile sostituzione con un altro. Da questo punto di vista, un'economia che non voglia accontentarsi del puro e semplice ristagno non deve esitare a lasciare la strada vecchia per la nuova, né deve aver paura dei periodi di crisi: questi sono momenti non solo necessari, ma positivi per lo sviluppo, poiché la regola del sistema economico è il cambiamento. Ciò che con una mano distrugge, con l'altra il processo produttivo ricostruisce: singolare dinamica di “distruzione creatrice”.

Luigi Einaudi

Nel 1912 un giovane economista dell'Università di Torino proponeva una nuova teoria finanziaria, destinata a rivoluzionare il sistema fiscale italiano. L'idea era semplice, ma non banale: in una nazione le cui entrate fiscali erano fornite, per la maggior parte, dalla gran messe delle imposte indirette, che gravavano in maniera iniqua sulla società civile, si trattava di far prelevare dallo Stato a tutti i cittadini un'imposta comunale diretta, basata sul reddito familiare proveniente da salari, attività, immobili, applicando un'aliquota. È lo stesso concetto che sta alla base dell'attuale sistema delle imposte. L'economista che lo elaborò, ma che lo vide realizzato solo in minima parte, fu senatore del Regno (1919), poi governatore della Banca d'Italia (1945) e infine (dal 1948 al 1955) Presidente della Repubblica: Luigi Einaudi (1874-1961).
Membro dell'Assemblea Costituente, e uomo di Stato; mai però uomo dello Stato. Al contrario, come ebbe a scrivere Norberto Bobbio nel fortunato Profilo ideologico del Novecento, “la libertà individuale, la libertà dallo Stato e contro lo Stato, fu davvero il tema dominante” di Einaudi. Se il suo ruolo lo obbligava alla frequentazione assidua dei politici, le figure che più lo appassionavano erano quelle, contrastanti e complementari, che formavano il tessuto della vita della società civile, dell'attività produttiva: l'imprenditore coraggioso, il contadino che difende la propria terra, l'operaio che lotta per il salario. Fu per una battaglia liberale che Einaudi prese energicamente le difese di quel socialismo “dal basso” che, all'alba del Novecento, aveva spinto gli operai del Biellese e gli scaricatori del porto di Genova “ad alzare la testa” e ad associarsi in difesa dei propri interessi; in nome dello stesso liberalismo attaccò anche - e per tutta la vita - il “socialismo di stato” tipico di chi “vuole imporre il perfezionamento con la forza, lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi”. Einaudi sapeva bene che non c'è armonia prestabilita capace di reggere la società, che si basa invece sulla libera contrattazione tra gli individui, singoli e associati: lo Stato, che dovrebbe governare il meno possibile, governa sempre un po' troppo.
Queste sono anche le radici del suo antifascismo radicale, sebbene non vissuto in prima linea: Einaudi, ormai settantenne, si rifugerà in Svizzera all'indomani dell'armistizio (1943), continuando da lì le proprie battaglie politiche e intellettuali. Rientrato in patria alla vigilia della Liberazione, tuonerà contro il centralismo dello Stato (Via il prefetto! è il titolo di un suo celebre intervento del 1944), battendosi a favore delle autonomie locali e della libera circolazione delle persone e delle merci: principale compito dello Stato dovrebbe essere quello di tutelare le libere scelte di ciascuno, salvaguardando non il dovere alla concordanza universale ma il diritto di tutti alla concorrenza, alla competizione, al dissenso.

Le catastrofi economiche tra disastri e benefici

“Scienza dunque previsione; previsione dunque azione” sosteneva Auguste Comte (1798-1857), fautore di quelle magnifiche sorti e progressive su cui il coetaneo Giacomo Leopardi (1798-1837) aveva i suoi dubbi. Una settantina di anni prima la sagace penna di Voltaire (1694-1778) aveva fatto finire uno dei suoi personaggi più riusciti, il buon Candido, nel bel mezzo del terremoto di Lisbona (1755), ferito e tramortito. “Questo terremoto - commentava Pangloss, suo vecchio maestro - non è cosa nuova: la città di Lima subì l'anno scorso le stesse scosse; stesse cause, stessi effetti”. Peccato però, notava Candido, che la conoscenza di quelle cause, e le previdenti conclusioni che se ne fosse-ro tratte, non avrebbero avuto modo di lenire i suoi dolori… Non è detto che la previsione di un e-vento garantisca il riparo dai suoi dolorosi effetti. Certo, però, rimane la condizione minima per prendere - sia pur inadeguate - contromisure.
Non sempre, inoltre, la conoscenza è capace di fornire buone previsioni, neppure approssimative: piccole variazioni nelle condizioni iniziali possono produrre variazioni enormi nel comportamento a lungo termine di un sistema. È quanto accade di norma nei mercati azionari, dove eventi apparentemente marginali o imprevedibili possono avere esiti di grandi proporzioni sull'andamento dell'economia globale. Le fluttuazioni possono essere dovute a eventi di taglia macroscopica (un attacco terroristico a centri di potere, un devastante terremoto nel cuore di Wall Street, ecc.); ma sovente hanno carattere endogeno, ed emergono quando si prenda in considerazione il comportamento libero degli investitori, che si differenziano gli uni dagli altri, spesso in maniera impercettibile, per gusti, preferenze, aspettative, calcoli di cui nessuno è a priori informato. Oltre ad avere effetti disastrosi sulle tasche degli investitori, le catastrofi economiche, “prevedibili” di regola solo con il senno di poi e comunque difficilmente evitabili (due caratteristiche che il più famigerato di tutti i terremoti finanziari, la Crisi del '29, certo non smentisce), sortiscono almeno un effetto positivo: quello di invitare - o meglio obbligare - l'economia a emanciparsi dagli schemi scritti a tavolino, e dall'idea che la libertà degli attori economici sia un fatto marginale e tutto sommato eliminabile in nome di un macrosistema imperturbabile.
Anziché a poco efficaci pretese di globalità, piuttosto occorrerà dedicarsi alla ricerca paziente, in questo oceano di indeterminazione, di piccole “isole di determinismo” cui aggrapparsi. Era questa la proposta del matematico René Thom (1923-2002), creatore di quella teoria della catastrofi che si applica ai sistemi complessi (per esempio, a non pochi settori dell'economia), consentendo una parziale e approssimata previsione della portata disastrosa che minime fluttuazioni potrebbero avere, e concedendo così almeno qualche chance in più a chi si trovi nella condizione di Candido di non potersi sottrarre alle turbolenze dell'esistenza.

Ribelli in carne e ossa e ribelli di carta e china

Come si costruisce un impero? Alle origini del sistema capitalistico e coloniale della Modernità c'è un fondamentale spostamento di potere, verificatosi in Europa tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, quando gli Stati che si affacciavano sull'Atlantico (Francia, Olanda, Inghilterra) presero il posto delle potenze mediterranee. Le piccole, veloci, meglio armate e meno costose navi del Nord eclissarono le galee del Sud: un impero si costruisce con delle buoni navi! Ma per soddisfare mire espansionistiche, ci vuole ovviamente di che espandersi: nuove terre, e popolazioni disposte a occuparle. Le moltitudini, però, raramente accettano di buon grado di essere prese e spostate di peso. Come accadde nell'Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, non restava che far valere il diritto nobiliare, appropriarsi di conseguenza delle terre di uso comune, innalzarvi muri di cinta e impedire l'accesso alle migliaia di persone che le occupavano e le lavoravano: un esproprio su larga scala, ma di sicuro effetto. La macchina del colonialismo era ormai innescata: i proprietari terrieri espropriarono i lavoratori europei, e i mercanti europei, attraverso quei lavoratori, espropriarono a loro volta le popolazioni delle Americhe. Per dirla con il giurista olandese Grozio (1583-1645), “è possibile che ogni nazione scopra qualcosa che già apparteneva ad altri?”.
In queste condizioni un naufragio poteva rivelarsi provvidenziale: capitò, nel 1609, a equipaggio e passeggeri del Sea-Venture, catapultati dalla forza degli elementi sulla spiaggia di un'isola americana allora di pessima reputazione: l'isola di Bermuda. I naufraghi non tardarono a scoprire quanto la fama differisse dalla realtà: l'isola si rivelò una sorta di paradiso terrestre, con cibo in abbondanza e clima eccellente. Non c'è da sorprendersi se nessuno volle più ripartire, e allora si cercò di costringerli con la forza. Per difendere la propria libertà, alcuni dei naufraghi promisero solennemente di non occuparsi in alcun lavoro che li potesse portar via dall'isola; basandosi su questo patto, molti si ritirarono nella foresta, formandovi un insediamento. Alla fine, benché la resistenza continuasse implacabile con scioperi ante litteram e veri e propri ammutinamenti, le autorità prevalsero, e il sogno di un'utopia libertaria (un mondo senza lavoro obbligato, senza legge dall'alto né magistrato che giudichi inesistenti tradimenti e fellonie) finì.
Ma doveva rinascere, e vive ancora, nei tanti pirati della letteratura, dagli uomini solitari e misteriosi come Il Corsaro di Byron, fino al “simpatico pirata” di carta e china creato da Hugo Pratt, Corto Maltese, “sovversivo, individualista e indisciplinato” (così suona il rimprovero delle stesse autorità piratesche) - e certo per questo sempre pronto a battersi, come I ribelli dell'Atlantico del celebre saggio di P. Linebaugh e M. Rediker, la cui vicenda non riguarda solo Bermuda, ma ben tre continenti: l'Europa dei colonizzatori, l'America degli indigeni e l'Africa degli schiavi.

 

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