Premio internazionale alla Libertà - IV edizione
La cultura della libertà
La riflessione sulla libertà dai poteri dispotici - riflessione mai disgiunta dalla sua pericolosa pratica - ha costituito il nucleo della tradizione liberale. Per Thomas Hobbes, nel Leviatano (1651), la libertà si può definire come “assenza di opposizione”. In altre parole, la libertà sarebbe contraddistinta dall'assenza di quegli elementi di costrizione che impediscono a un individuo di perseguire i propri propositi o di scegliere fra alternative. È proprio di un sistema dispotico (anche della cosiddetta “tirannia della maggioranza”) negare tale diritto di scelta all'individuo, giungendo non soltanto a imporre le opzioni, ma anche a definire quali siano i fini legittimamente perseguibili. La negazione della libertà politica, talvolta mascherata entro i più rassicuranti confini di una morale unica per definizione perché tipica di una qualche pretesa natura umana, può assurgere così a soppressione della libertà di coscienza e della libertà intellettuale; parallelamente, una morale dispotica, che si preoccupi di definire fini validi per tutti, una volta per tutte, contribuisce, in maniera più o meno sottile, a legittimare la cancellazione della libertà politica in una spirale che si autoalimenta.
Vari sono stati gli antidoti contro il dispotismo proposti dalla tradizione liberale. Se il più efficace e irrevocabile si è dimostrato il diritto allo spodestamento del tiranno e, se necessario, al tirannicidio, il più ricco di conseguenze è forse l'invito di John Locke a render ragione delle regole morali, sottoponendole a una costante discussione critica: ecco un valido aiuto non solo contro il dispotismo politico, ma anche contro il dispotismo di ogni ragione che, per così dire, non voglia sentir altre ragioni all'infuori di sé. Da questo punto di vista, la tradizione liberale coniuga libertà e razionalità, purché la seconda non schiacci la prima sotto il giogo dei suoi principi e sappia accettare la propria fallibilità. Se sarà così, non saranno in gioco principi generali, ma regole locali rivedibili alla luce dell'esperienza, giudizi provvisori con cui osservare - evitando di smarrirsi e di guardarli smarriti - pratiche e comportamenti che appaiono al limite del razionale.
In caso contrario, come sapeva bene il gigante Gargantua (che non a caso aveva imposto al proprio chiostro un'unica regola, Fa' quel che vuoi), “quando per vile soggezione o prepotenza si trovano repressi e asserviti, gli uomini rivolgono il nobile affetto, in virtù del quale francamente tendevano al bene, ad abbattere e infrangere tal giogo di servitù”.
Niccolò Macchiavelli
“Non si può non rimanere sbalorditi di fronte a un pensatore che appare tanto libero da quelli che siamo abituati a considerare i presupposti intellettuali tipici del suo tempo”. Così si esprimeva uno dei maggiori storici delle idee del Novecento, Isaiah Berlin, in un ampio saggio dedicato a Niccolò Machiavelli (1469-1527). Dal momento che è “più conveniente andar drieto alla realtà effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”, Machiavelli si dichiara sempre attento “a come si vive” e non “a come si dovrebbe vivere”. Il segretario fiorentino non fa gran conto, per esempio, della “legge naturale”, cioè dell'idea (comune a gran parte dei suoi contemporanei) che tutti gli esseri razionali condividano una serie di criteri che permettono loro di stabilire ciò che è buono e giusto - e che dunque tutti agiscano in nome degli stessi interessi e in vista dei medesimi fini. Al contrario, afferma Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (una delle opere più importanti del pensiero politico occidentale, scritta tra il 1513 e il 1521), gli esseri umani hanno inclinazioni differenti, ed è per soddisfare le loro aspirazioni, qualunque esse siano, che desiderano la libertà. Questa non è un fine in sé, quanto un mezzo: la condizione minima di una vita associata degna di essere vissuta. Essere liberi equivale a non essere ostacolati nel perseguimento dei propri fini, dei quali non può venir data alcuna specificazione ulteriore senza violare la legittima varietà degli scopi umani.
Machiavelli inaugura con ciò una tradizione di incredibile fortuna intellettuale, la cui eco si ritroverà, certo con un non piccolo slittamento verso l'individualismo, in uno dei classici del liberalismo, Il saggio sulla Libertà (1859) di John Stuart Mill (1806-1873), dove la forza vitale della società viene esplicitamente identificata nella libertà di pensare e di agire in direzioni innumerevoli e contrastanti. Non troppo diversamente, la libertà che Machiavelli aveva in mente è libertà politica dall'arbitrio del dominio dispotico, soprattutto da quello che mira ad assoggettare e asservire intere comunità. Difendere la propria libertà significa allora difendere la libertà della comunità di cui si è parte, senza che necessariamente la comunità diventi padrona del singolo. Ciò non richiede solo determinazione nel proteggere la società dalle minacce esterne, ma anche partecipazione alle decisioni politiche: lasciare che queste siano prese da altri significa correre il rischio che il corpo politico venga indirizzato al perseguimento non di fini scelti liberamente al proprio interno, ma solo degli scopi di coloro che se ne sono impadroniti e lo controllano. Si capisce così come l'ideale di Machiavelli riprenda e articoli il classico ideale repubblicano - e si comprende come quell'arte di governare di cui la sua opera più famosa, Il Principe (pubblicata postuma nel 1532), diverrà l'emblema, non sia che l'altra faccia di un'arte ancor più fondamentale: l'arte di non lasciarsi governare.
John Locke
Nessun potere è irrevocabile perché nessun potere proviene dall'alto dei cieli. Questa la risposta di John Locke (1632-1704) all'erudito inglese Robert Filmer (1588-1653), il quale, a partire dalla Scrittura, faceva discendere il potere regale (per diritto ereditario), da Adamo, cui sarebbe stata conferita da Dio l'autorità su tutti i propri discendenti. Il potere - sosteneva invece Locke nei Due trattati sul governo civile (1690) - non proviene da un unico padre, né si tramanda di padre in figlio. Non è nulla di particolarmente elevato; è invece diffuso in parti eguali nel ventre della Terra, che genera gli uomini «tutti uguali e indipendenti», cosicché nessuno «deve danneggiare l'altro nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà». Queste non sono concessione di un Dio generoso, né dono di un benevolo signore. Sono invece elementi costitutivi dell'individuo, quasi parti del suo stesso corpo. Strappare all'individuo la libertà o la proprietà che ha legittimamente ottenuto grazie al lavoro, all'occupazione di beni non posseduti da altri, a donazioni di benefattori equivale a strappargli le membra, e non è crimine minore del togliergli la vita. Si tratta di diritti che non seguono dall'instaurazione di un potere sovrano, ma precedono la costituzione di qualsiasi ordinamento sociale: lungi dal minarne le basi, ne sono la necessaria premessa. Ben si capisce come un potere che provi a scalfirli non dimostri con ciò la propria forza, ma finisca coll'attentare a se stesso.
Su queste basi, le associazioni umane, che quei diritti riconoscono, non hanno lo scopo di limitare la libertà, bensì ne rappresentano il frutto: le istituzioni nascono dal consenso degli individui e non per arginare il dissenso. E se per le decisioni morali Locke raccomandava la discussione critica (di ogni regola morale si è infatti chiamati a render ragione), in politica il dissenso costituisce uno degli ingranaggi fondamentali del vivere civile: se il potere proviene dalle mani degli individui, che sono «nel diritto di procurarsi un re» (in fondo Locke era suddito leale di Sua Maestà), agli individui resta la libera possibilità di revocare o di limitare un potere che loro stessi hanno ceduto ai governanti.
Non erano solo “belle parole”: nel 1683 Locke fu sospettato di complicità con il Lord Cancelliere (di cui era segretario), accusato di alto tradimento. Per difendere la propria vita e la propria libertà, oltre che per mettere al sicuro ciò che gli era rimasto delle sue proprietà, fuggì in Olanda, dove rimase per più di cinque anni. Lì prese parte attiva ai preparativi della spedizione con cui Guglielmo d'Orange e il suo seguito, riuscirono ad allontanare Giacomo II dal trono d'Inghilterra. In questo senso, Locke fu davvero il filosofo, non solo teorico, della Gloriosa Rivoluzione.
William e Henry James
Come rendere le nostre decisioni più razionali? Di primo acchito, un buon metodo parrebbe quello di purificarle da elementi estranei, quali sentimenti e passioni.
Se fosse davvero questa la risposta, lo psicologo (di professione: insegnava tale materia a Harvard) e filosofo (per vocazione) William James (1842-1910) avrebbe alquanto da ridire. Poniamo che una decisione razionale non agiti alcuna passione, e che nessuno senta che valga la pena battersi per essa - quale ne sarà allora l'efficacia persuasiva? E che razza di buona argomentazione sarebbe un'argomentazione che non miri a persuadere? Il ruolo del pensiero dipende dai bisogni che lo spingono e dai fini che esso si propone e dai quali è a sua volta mosso. William, senza temere che la razionalità venga travolta in un vortice irrazionalistico, avrebbe detto che non basta sapere o pensare che una cosa sia vera, bisogna anche che la si creda vera, che si sia pronti a lottare per essa (non a caso una sua raccolta di saggi si intitola La volontà di credere, e il saggio d'apertura Il sentimento della razionalità).
Ben lungi da svilire la ragione, sentimenti e passioni divengono allora l'anima del discorso critico e del libero scambio di opinioni. Uno scambio in cui la “battaglia delle idee” unita a un pluralismo universale (che riguarda le idee degli uomini non meno che la realtà delle cose, come William James sottolineava in Un universo pluralistico) sono dimensioni irrinunciabili.
Intimamente plurale, anche se destinata a raccogliersi nel guscio più o meno stabile dell'individuo (e William ebbe modo di sostenerlo nella propria opera psicologica), si rivela anche la personalità umana. D'altra parte, come ebbe a scrivere il fratello minore, Henry (1843-1916), in uno dei suoi romanzi più noti, Ritratto di signora: “Un uomo o una donna isolati non esistono, noi siamo tutti fatti di un insieme di beni immobili. Cos'è che chiamiamo il nostro io? Dove comincia? Dove finisce? Esso si mescola a tutto ciò che ci appartiene e poi torna a uscirne”. Sarà forse per questo che il romanzo di Henry James si presenta come un vastissimo caleidoscopio di immagini, in cui la pura vicenda (ascesa e declino della bella Isabel Archer, ricca ereditiera intrappolata infine nelle mire dello spregiudicato “cacciatore di patrimoni” Gilbert Osmond) passa in secondo piano rispetto alle immagini stesse che i personaggi proiettano di sé. Il filtro delle loro passioni moltiplica la realtà in cui agiscono, il prisma dei loro sentimenti restituisce di ognuno un'immagine diversa. Così, continuava Henry, “il nostro io - per gli altri - è l'espressione che diamo al nostro io; e la nostra casa, il nostro mobilio, le vesti che portiamo, i libri che leggiamo, la compagnia che frequentiamo - tutto questo serve a creare la nostra espressione”. Pare che a William il romanzo non fosse molto piaciuto; ma ormai Henry aveva messo in scena un universo pluralistico fatto di “individui pluralistici” - tanto razionali quanto passionali.
Serendipity, ovvero scommesse e fallibilità
Come narra una celebre fiaba nata in Oriente, un giorno tre fratelli incontrano un uomo che ha perso il proprio cammello. Saputolo, i tre fratelli ne danno l'esatta descrizione: si tratta di un cammello bianco, cieco da un occhio, che trasporta due otri, l'uno colmo di vino, l'altro di olio. La prima reazione del pover'uomo è di stupore: dunque i ragazzi hanno visto il suo cammello! No - rispondono quelli - non l'hanno mai visto. È chiaro che mentono - pensa allora l'uomo - mentono per difendere il loro furto, ma si sono traditi. I ragazzi vengono accusati e sottoposti a giudizio. Il processo si trasforma nel loro trionfo: in poche battute i tre dimostrano come, attraverso una serie di indizi a prima vista insignificanti, siano stati in grado di ricostruire in tutti i dettagli l'aspetto dell'animale senza averlo mai visto.
Il racconto, intitolato Pellegrinaggio dei tre figli del re di Serendippo, ebbe così largo e duraturo successo che nel 1754 il romanziere Horace Walpole coniò il termine serendipity per definire un sapere capace di risalire da dati empirici apparentemente trascurabili a una realtà complessa non direttamente verificabile. La fortuna della novella non si fermò qui: Zadig, protagonista di un celebre conte philosophique di Voltaire, ne incarna una versione più aggiornata; tanti investigatori, dal Dupin di Poe allo Holmes di Conan Doyle fino al Nero Wolfe di Rex Stout, hanno un debito altissimo con i figli del re di Serendippo. Più di ogni altra cosa, i detectives della tradizione occidentale devono ai tre ragazzi orientali la convinzione che, malgrado la fallibilità che è ineliminabile dalla conoscenza umana, in alcune condizioni valga la pena scommettere (pratica del resto consigliata dal matematico e filosofo Blaise Pascal), perché, come sostiene Nero Wolfe, “lo scetticismo è un buon cane da guardia, se sai quando mollare il guinzaglio”.
La scommessa, anzi, è ciò che esalta il fallibilismo: non sbagliare mai è un lusso che non ci si può permettere. All'opposto, sbagliare è un rischio che è inevitabile correre. Persino nei romanzi, dove tutto è preordinato dall'autore, l'errore si affaccia a ogni angolo di quel labirinto di trabocchetti che il bravo giallista costruisce per il proprio eroe, un labirinto in cui indizi poco visibili sono pazientemente riannodati come un filo di Arianna. Ogni detective story che si rispetti è da una parte una sfida che mette alla prova la razionalità del lettore, dall'altra una storia della fallibilità umana - come minimo, della fallibilità dell'assassino, destinato solitamente al fallimento delle proprie speranze di impunità. E al fallimento del detective non si assiste mai? Nella realtà più spesso che nei romanzi. A ogni modo, l'investigatore ha dalla sua la libertà di scommettere, che è anche libertà di sbagliare e di andare a cercare una soluzione diversa, pur senza avere garanzia di trovarla.
Il pennello e il paravento.
Donne e cultura nel mondo del principe Splendente
“I fantasmi e le donne è meglio che rimangano invisibili”. Così diceva ai propri genitori la “principessa che amava gli insetti”, protagonista di un racconto giapponese del XII secolo. Eppure, le sue parole ci offrono il negativo della vita frenetica di Heian Kyõ, l'antica Kyõto, capitale di un Giappone raffinato ed elegante che, tra il X e lo XI secolo, si meritò l'appellativo di “mondo del Principe Splendente”. Le ampie vie della capitale erano di continuo attraversate dalle ingarbugliate vicende dei suoi abitanti di sesso maschile, impegnati in fastosi banchetti, feste interminabili, importanti affari di stato e ancor più fondamentali intrighi di palazzo. Non ultima fra le loro preoccupazioni c'era quella di una complessa vita coniugale, che, nei casi più clamorosi, vedeva accese rivalità tra una “moglie principale” e qualche non meno legittima “moglie secondaria”, per non dire della nutrita schiera di concubine ufficialmente riconosciute, nonché delle amanti segrete.
A tale vita pubblica le donne non avevano accesso diretto. Vittime di un tedio infinito tra le mura domestiche (esse stesse ce lo confessano nelle memorabili pagine dei loro diari), disponevano di un unico posto nella casa del marito o del padre, al di là di un ampio paravento, che le segregava in un'eterna penombra. Alle fortunate che riuscivano a evadere, ma solo per qualche rapido spostamento, le spesse pareti di legno di un'elegante portantina impedivano di essere osservate - la loro vista doveva rimanere prerogativa dell'uomo cui di diritto appartenevano.
Nonostante tale stato di segregazione, buona parte delle cose che di quel mondo ci sono note sono dovute a mani femminili: quasi tutti gli autori rilevanti del mondo del Principe Splendente sono, appunto, autrici. I maschi scrivevano - per la verità, scrivevano molto e più delle femmine, ma peggio. Scrivevano in una lingua straniera, il cinese: lingua di studiosi e di funzionari, di sacerdoti e di burocrazia - la lingua della vita pubblica. Le donne, invece, escluse da questa, usavano una scrittura che, a differenza del cinese, non era ideografica, ma consisteva in un alfabeto sillabico, di più facile e immediato utilizzo, potendo tradurre in scrittura la lingua nazionale giapponese. Fu grazie a tale nuova scrittura (il suo nome era non a caso “onnade”, mano di donna) che la letteratura giapponese giunse al culmine: nel momento in cui i diversi generi letterari cominciarono a essere scritti in giapponese, furono le donne a trovarsi in netto vantaggio. I generi prediletti erano diario e romanzo - come nel caso della lunga storia delle imprese di un principe imperiale narrate dalla dama di corte Murasaki Shikibu. Amante della semplicità, la principessa Shikibu diede alla vicenda il sobrio titolo Storia di Genji, ma al suo protagonista la tradizione legò l'appellativo di Principe Splendente.
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