Scienza, tecnologia e tradizione liberale
Se la tradizione liberale individua nel "libero scambio" di merci il principale motore di crescita della società, non diversamente la scienza moderna appare fondata sul libero commercio delle idee. E ancora, se il mercato vede nella concorrenza uno dei suoi meccanismi fondamentali, la spregiudicata discussione tra sostenitori di teorie rivali costituisce il cuore dell'impresa scientifica: da questo punto di vista, come nell'economia, anche nella scienza tanto la crescita individuale quanto quella collettiva sono strettamente legate al conflitto di opinioni e interessi.
Non a caso la storia delle scienze è segnata da profonde controversie tra sostenitori dell'una o dell'altra teoria, fautori di questo o di quel programma di ricerca, che si sono spesso combattuti in lotte senza esclusione di colpi. Un continuo e spesso aspro conflitto, del resto, garantisce la crescita della conoscenza, dal momento che prospettive alternative mostrano "fatti", fanno previsioni e danno applicazioni differenti. Essenziale diventa allora il rimando della scienza alle procedure di controllo: il sapere scientifico si configura come un sapere pubblico e controllabile da chiunque, in cui il confronto con l'esperienza appare irrinunciabile.
Parti integranti di tale dimensione pubblica della conoscenza sono sia la ricaduta tecnica dell'impresa scientifica, sia la ricaduta della tecnica sull'impresa scientifica. Se già Galilei, nell'ultima sua opera, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), invitava scienziati e filosofi a frequentare assiduamente "l'Arsenal dei Signori Veneziani" (per apprendere dagli artigiani, ma anche per criticarli), la scienza stessa, secondo una tendenza che col passare del tempo si è fatta sempre più decisa, promuove la tecnologia: ovvero pianificazione della tecnica sulla base delle migliori teorie disponibili.
Ciò ha anche condotto l'impresa scientifica, in misura sempre maggiore, a conquistare il ruolo di fattore di sviluppo economico e a porla al centro degli interessi della società. Così, il problema della ricerca è anche il problema del suo finanziamento, nonché dei suoi limiti. Ma la valutazione di rischi e benefici prevede di nuovo una discussione aperta e un confronto a cui chiunque, in linea di principio, possa partecipare - in altre parole, parafrasando una battuta del filosofo Paul Feyerabend, non si tratta solo di aumentare il numero delle conoscenze, ma di forgiare "la scienza in una società libera".
Pasteur contro tutti
"L'unico vero cacciatore di microbi" - così Paul de Kruif, batteriologo e grande divulgatore scientifico, definì Louis Pasteur (1822-1895) in un piccolo classico della storia della medicina intitolato appunto Microbe Hunters. Furono infatti la microbiologia e le scoperte mediche a questa legate a conferire a Pasteur celebrità e successo.
Di origine era un chimico, ed entrò nel mondo medico da straniero, inizialmente male accetto; la corporazione si opponeva fieramente all'idea base delle sue ricerche: ovvero che le malattie più comuni fossero dovute a "germi" microscopici in grado di causare infezioni e portare eventualmente gli organismi alla morte. Mentre la chimica sembrava poter ridurre i processi biologici all'inorganico, le ricerche di Pasteur promettevano al contrario di trovare la cifra della morte in una "piccola vita" (tale alla lettera il significato della parola microbo), minuscola ma prepotente, capace di invadere subdolamente i macroorganismi, logorarli e infine strapparli alla loro vita, preservando però intatta la propria.
Tra medicina, chimica e biologia, l'intero percorso scientifico di Pasteur si snodò fra una serie di controversie. L'ultima, in ordine di tempo, fu quella - celeberrima - con un altro famoso ricercatore e medico, il tedesco Robert Koch. Sebbene non fosse esente da un certo livore nazionalistico (capitava solo pochi anni dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871), la disputa ebbe non pochi aspetti positivi. Koch, lo scopritore del bacillo dell'antrace, rimproverava a Pasteur di condurre con troppa fretta i suoi tentativi di vaccinazione, a causa del suo scarsissimo rigore per le questioni tassonomiche riguardanti i microorganismi; da parte sua, Pasteur (che nel 1880 fu in grado di confermare le ipotesi di Koch) era più interessato agli aspetti applicativi e alla preparazione degli strumenti di lotta contro la malattia. Tuttavia, le stesse ricerche di Koch chiarivano come a ogni malattia corrispondesse una particolare forma di batterio, la quale rimane immutata nella trasmissione ad altri animali. Lungi dall'essere una questione puramente catalografica, la teoria svolgeva dunque un ruolo centrale nel riconoscimento delle malattie e nella profilassi.
Il dibattito in cui tanto Koch quanto Pasteur dovettero confrontarsi metteva così in luce due approcci differenti, che presto si rivelarono utili e complementari. Nella misura in cui fece sorgere una dissonanza tra le opinioni dei contendenti, la loro controversia stimolò la libera circolazione delle idee, rivelandosi come il vero motore della ricerca.
Sabin e Salk
Mentre Pasteur riconosceva e dava battaglia alle malattie infettive, sporadiche epidemie di un nuovo morbo prendevano piede, in forma sempre più virulenta, tra Europa e Stati Uniti. La "nuova" malattia (sebbene sia possibile riscontrarne tracce anche in precedenza) non mieteva così tante vittime come altre patologie epidemiche; lasciava però alle proprie spalle pesanti menomazioni, sino alla paralisi completa del corpo. Per questo, nel XX secolo, gli statunitensi ribattezzarono the Crippler, "la storpiatrice", quella che era ormai universalmente nota come "poliomielite".
Si dovette aspettare il 1908 per scoprirne l'origine virale; ma i primi studi che portarono a un vaccino efficace giunsero solo negli anni Trenta. Di fatto, essi si divisero da subito in due indirizzi ben distinti: parte dei ricercatori, tra cui spiccava la figura di Albert Sabin (1906-1993), applicò un metodo simile a quello impiegato a suo tempo da Pasteur con successo, l'inoculazione di un virus attenuato; un altro consistente numero di scienziati, la cui personalità di riferimento fu Jonas Salk (1914-1995), inoculò invece ai pazienti un virus "ucciso" (la cui attività patogena, cioè, risultava neutralizzata, anche se ancora in grado di stimolare una risposta immunitaria).
Se tra gli anni Trenta e Cinquanta l'approccio di Salk sembrò più rapido e affidabile, i maggiori risultati li ottenne però il metodo di Sabin, le cui prime campagne di vaccinazione in Congo Belga e in URSS, a partire dal 1956, sembrarono sortire gli effetti sperati. Tuttavia, come Salk non tardò a rilevare, anche il vaccino Sabin non era esente da problemi: sussisteva infatti il rischio che l'organismo subisse uno schock tanto grave da ammalarsi, rischio invece scongiurato dal metodo Salk, oggi tornato in auge, in una versione più avanzata e potente, in molti paesi occidentali.
Alla fine, la controversia tra Salk e Sabin non ebbe né vincitori né vinti: tutti e due i programmi di ricerca ricevettero sostanziosi finanziamenti pubblici; entrambi i metodi furono adottati (talvolta in successione, così da scongiurare i difetti di ciascuno); entrambi possono vantare numerosi successi, ma anche qualche inconveniente. È vero che Sabin, Salk e le équipe da loro guidate si confrontarono in una competizione dai toni duri e accesi, spesso senza riconoscersi reciprocamente credibilità alcuna; ma se non vi fosse stata tra loro questa concorrenza, se uno dei due avesse remissivamente accettato le tesi del rivale anziché sostenere testardamente le proprie, oggi avremmo probabilmente qualche malato in più e molte conoscenze in meno.
Il caso Gallo-Montagnier
Nel 1983 Luc Montagnier, virologo francese dell'Institut Pasteur, riuscì a isolare un nuovo retrovirus, che chiamò Lynphoadenopathy-Associated Virus (LAV). Per promuovere e sottoporre a ulteriori controlli la propria scoperta, inviò dati e campioni del virus ad alcuni laboratori USA, tra cui quello di Robert Gallo, direttore del Laboratorio di biologia cellulare presso i National Institutes of Health di Bethesda e già scopritore (1979-1980) di due retrovirus in grado di provocare due particolari forme di leucemia (HTLV-1 e HTLV-2).
Ma Gallo si era spinto ben oltre nelle proprie ricerche: aveva infatti ipotizzato che ci potesse essere un nesso tra i retrovirus da lui scoperti e una nuova patologia emersa tra 1980 e 1981. Le indagini su quest'ultima avevano portato scarsi frutti, sebbene si sapesse che, in analogia con la "leucemia della cellula T" scoperta da Gallo (capace di abbassare notevolmente le difese bersagliando i linfociti T), essa agiva colpendo le cellule del sistema immunitario. Proprio per queste ragioni, nel 1982, tale patologia fu chiamata Sindrome da immunodeficienza acquisita, divenendo ben presto famosa con il suo acronimo ingelse, AIDS.
Gallo era convinto che i risultati conseguiti dall'équipe dell'Institut Pasteur guidata da Montagnier confermassero la sua teoria. In realtà, i francesi erano giunti a una conclusione parecchio diversa: sottoponendo agli anticorpi anti-HTLV le cellule virali di un campione prelevato da un malato di AIDS, Montagnier non aveva riscontrato alcuna reazione. Ciò significava che il virus da lui analizzato, che interessava circa il 20% dei malati di AIDS, era un retrovirus non ancora conosciuto, che non aveva a che fare con l'HTLV-1 e -2 degli americani. Fu a questo nuovo retrovirus che egli diede il nome di LAV: Virus associato alle linfoadenopatie ed era questo il virus che i francesi avevano spedito al laboratorio di Gallo.
Nel 1984, Gallo riuscì a dimostrare che il campione conteneva, incontaminato, un virus che poteva essere considerato l'agente scatenante dell'AIDS; inoltre, l'équipe americana riuscì autonomamente a isolare il virus ma, fedele alle proprie convinzioni, lo chiamò HTLV-3. Infine, dopo pochi mesi, lo stesso gruppo mostrò che i due virus, HTLV-3 americano e LAV francese, erano sotto molti aspetti indistinguibili.
Qualche sospetto cominciò a serpeggiare: un'inchiesta giornalistica rivelò che le foto pubblicate dell'HTLV-3 erano in realtà foto del LAV francese. Ciò aprì la strada a una serie di accuse poi rivelatesi infondate, che però costarono a Gallo numerose denunce. Ulteriori ricerche provarono che uno dei campioni di HTLV-3 di Gallo era del tutto identico al LAV: ma non si chiarì mai se gli americani contaminarono maldestramente e inavvertitamente i due campioni, oppure se svolsero, deliberatamente e senza comunicarlo, le proprie ricerche sul LAV, appropriandosi di fatto di una scoperta. Iniziò così una battaglia legale tra l'Institut Pasteur e il laboratorio di Gallo che si concluse con un accordo nel 1987, con l'attribuzione della scoperta del virus ex aequo a Gallo e Montagnier, sebbene la comunità scientifica internazionale avesse per lo più riconosciuto allo scienziato francese il merito della scoperta. Poco prima, un comitato internazionale di virologi aveva ribattezzato il virus con un nuovo nome, più neutrale: Human Immunodeficiensy Virus (HIV).
Parecchio tempo e denaro furono così spesi alla ricerca di una soluzione vantaggiosa per entrambe le parti, un campanello di allarme contro quelle controversie che rischiano di degenerare, diventando vere e proprie "patologie", entro la comunità scientifica, capaci di compromettere importanti programmi di ricerca.
La Royal Society e la nascita della moderna pratica sperimentale
Anche se quasi tutti gli scienziati del Seicento e del Settecento studiarono in università, ben pochi costruirono la loro carriera all'interno degli atenei. Le università, almeno sino a metà Ottocento, non furono al centro della ricerca scientifica, ma all'apice del sistema di istruzione. Un'istruzione orientata alla diffusione del sapere acquisito più che al suo rinnovamento. Questo fu invece il compito, decisivo per la formazione della scienza moderna, delle accademie scientifiche.
Con il termine Accademia, scriveva alla fine del Settecento l'erudito Girolamo Tiraboschi, "intendo quelle società di uomini eruditi, stretti fra loro con certe leggi a cui essi medesimi si soggettano, che ritrovandosi insieme si fanno a disputare su qualche erudita questione, o producono e sottomettono alla censura dei loro colleghi qualche saggio del loro ingegno e dei loro studi". I caratteri della scienza moderna stanno in queste poche righe: sapere pubblico e controllabile, elaborato da una comunità di persone che si riconoscono reciprocamente diritto di critica e di replica e che si assoggettano a un codice di leggi scritte e non scritte, riconoscono uno statuto e un'etica della loro professione.
Le accademie rappresentano delle delle microsocietà che possono valicare i confini nazionali, dando vita a quella "Repubblica delle Lettere" sovrastatale, translinguistica, senza differenze di nazionalità né di religione, di cui l'inglese Royal Society (nata verso il 1660) fu forse l'espressione più vivace.
Il suo statuto ammetteva uomini di tutte le religioni, di tutti i Paesi, di tutte le professioni. Richiedeva che si tenessero incontri una volta la settimana, nei limiti del possibile, il cui principale scopo avrebbe dovuto essere quello di "disporre, prendere in considerazione, meditare e discutere" le osservazioni e gli esperimenti liberamente proposti dai membri. Così scriveva il vescovo Thomas Sprat, che della Royal Society fu uno dei primi componenti, oltre che autore della sua prima storia (1667).
Proprio agli esperimenti egli dedicava una parte importante delle sue riflessioni, considerandoli "l'essenziale" degli incontri settimanali. Così essenziali che essi erano sì proposti, ma non condotti da un qualunque membro: al contrario, lo statuto introduceva una figura che vi si dedicasse in maniera esclusiva, il curator of experiments.
I curators erano dei veri professionisti della sperimentazione, e in tale veste ricevevano dalla Società Reale - vale a dire dagli stessi membri, suoi unici finanziatori, almeno nella fase iniziale - uno stipendio variabile con la rendita della Società medesima. I loro compiti specifici erano quelli di "prendersi cura della direzione di tutti gli esperimenti e delle osservazioni stabilite dalla Società o dal Consiglio" e inoltre di esaminare, su richiesta della Società stessa, nuove scienze, tecniche, invenzioni.
La loro preparazione culturale doveva essere adeguata alla carica che ricoprivano: non bastavano solide nozioni di matematica e filosofia, pure necessarie; la più importante qualità di un curator era invece, indubbiamente, l'infinita pazienza con cui sapeva variare i propri esperimenti per esaminare in modo preciso un'intera messe di casi particolari (perché in fondo lo sperimentatore sa benissimo che tutto quel che c'è non è nulla più che un caso particolare). Gli si richiedeva insomma una buona dose di fantasia, in nome di quella libertà con cui ricercatori diversi fanno legittimamente e provvisoriamente uso, mettendole continuamente alla prova e sottomettendole all'altrui giudizio (o "censura", per dirla con Tiraboschi), delle più svariate metodologie, ipotesi, teorie.
Questioni di priorità: scoperte, invenzioni e brevetti
Non è raro, nelle scienze, trovarsi di fronte a casi in cui diversi ricercatori giungono contempo-raneamente (e in maniera indipendente) a risultati analoghi e di grandissima portata. Forse ciò av-viene perché, come diceva Goethe, "le scoperte migliori son fatte non tanto dagli uomini quanto dai tempi". È vero però che solitamente i meriti e soprattutto i guadagni economici che a quelle scoperte sono legati, vengono incassati dagli uomini, e non dai tempi! A ogni scoperta, quindi, il suo scopritore - primo e possibilmente unico. Su questioni di priorità, del resto, nella storia della scienza ricorrono controversie aspre e famose: dalla disputa matematica del Cinquecento tra Tartaglia e Cardano, su chi tra loro avesse trovato per primo la formula per la risoluzione delle equazioni di terzo grado, alla vicenda che, alla fine del XIX secolo, contrappose Meucci a Bell per la priorità dell'invenzione del telefono.
Certo, una scoperta non è un'invenzione; se lo strumento che, per la maggior parte, le società organizzate si sono date al fine di garantire l'originalità delle invenzioni e di proteggerle da imitazioni e contraffazioni posticce è rappresentato dal brevetto, non sembra possibile tutelare (o brevettare) una scoperta. Così anche i tempi, portatori delle migliori scoperte, si prendono la rivincita che si meritano sugli uomini.
Il sistema dei brevetti dovrebbe incoraggiare l'innovazione e gli investimenti in ricerca e sviluppo, tutelando i ricercatori senza bisogno che essi proteggano le proprie indagini con il segreto (la qual cosa danneggerebbe la ricerca stessa); tuttavia, nell'ultimo ventennio, soprattutto con l'introduzione e il forte sviluppo delle biotecnologie, il quadro si è fatto notevolmente più complesso. Nel 1988, per esempio, un topo bianco è entrato nella storia come il primo animale brevettato: due ricercatori di Harvard hanno infatti ottenuto un organismo geneticamente modificato inserendo un oncogène umano nelle cellule uovo del topo. Hanno prodotto così un organismo del tutto nuovo e utile per la ricerca sul cancro, che lo US Patent and Trademark Office ha protetto secondo la legge brevettuale corrente.
Da allora, se negli USA è possibile ottenere la brevettazione di microorganismi, piante e animali, le questioni che si affrontano sono diventate in breve tempo di natura particolarmente delicata: in molti casi i confini tra invenzione (brevettabile) e scoperta di nuove specie, pur artificialmente modificate (su cui dunque non si possono avanzare pretese di proprietà intellettuale), sembrano farsi così sottili da svanire; inoltre, gli organismi "inventati" come il "topo di Harvard" posseggono la curiosa proprietà, condivisa peraltro da tutti gli organismi viventi ma da nessun'altra invenzione, di riprodursi autonomamente "copiando" l'originale, il che è ovviamente vietato da tutte le legislazioni brevettuali. Solo che sembrerebbe poco sensato sostenere che la prole del topo di Harvard sia un'associazione di plagiari.
In conclusione, si va sempre più configurando una trama particolarmente intricata tra scienza, tecnologia, economia e scelte politiche e legislative, che certo rappresenta una delle sfide più cruciali per la società contemporanea.
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