L'Economia della Libertà
Lo speculatore avveduto, che agisce in maniera razionale, in conformità a una completa analisi costi-benefici di una data situazione, sa stabilire relazioni logiche precise tra i mezzi da impiegare e il fine che si propone (di solito, l'aumento del proprio capitale). Determina, in altre parole, tutta una "tecnica della razionalità" in nome della quale prende le decisioni e conduce l'azione.
In un'economia di mercato, tuttavia, le analisi e le previsioni sono diventate un compito sempre più complesso e difficile da svolgere. Si può comprendere dunque come nell'ambito della tradizione economica liberale, che nella salvaguardia del mercato e della libera iniziativa degli individui - primo fattore di complessità - ha i suoi capisaldi, dovesse nascere l'esigenza di trovare strumenti analitici adeguati. Pluralità degli interessi in gioco, molteplicità dei mezzi per perseguirli, impossibilità di un'informazione completa, tanto sulle strategie dei concorrenti quanto sulle condizioni globali, e ancora: resistenza alle "minacce monopolistiche" dei partecipanti più "forti" e ambiziosi, così come alle tentazioni protezionistiche che impediscono l'entrata in scena di nuovi agenti. Queste le sfide di un'economia della libertà.
Varie sono state, nel corso degli anni, le risposte: dalla definizione, dovuta alla teoria classica, di un equilibrio economico generale e dell'ottimo sociale, ai più raffinati strumenti matematici messi a punto nell'ambito della teoria dei giochi - strumenti che permettono di far fronte alla congenita incompletezza dell'informazione, attribuendo a strategie e condizioni ignote una certa probabilità di verificarsi, probabilità scelta con ragionevolezza dall'attore economico stesso e la cui responsabilità risiede tutta nelle sue mani. Un atteggiamento di grande disincanto che, se da una parte indica l'eredità della prospettiva fallibilistica in cui la tradizione liberale si muove, dall'altra lascia nelle mani degli individui il potere di decidere i propri fini e i propri mezzi, ricordando loro tuttavia che il risultato finale dei "giochi economici" è determinato dall'azione congiunta di tutti i giocatori, e non dal dispotismo di uno solo.
Vilfredo Pareto
"La logica assoluta, nelle cose umane, ha poca parte", scriveva Vilfredo Pareto (1848-1923) in una lettera indirizzata (1897) all'amico Maffeo Pantaleoni. La vita di Vilfredo, al contrario, sembra seguire una ferrea logica della libertà! Il padre, ligure e antipiemontese, era rampollo di un'antica famiglia del patriziato genovese; mazziniano, era stato esiliato per le sue idee repubblicane trovando rifugio a Parigi, dove aveva conosciuto la moglie e dove Vilfredo era nato.
Molti anni dopo, conseguita la laurea in ingegneria e stabilitosi a Firenze, Vilfredo stesso si sarebbe impegnato in prima persona in una serie di azioni politiche: dapprima prese parte con la società Adam Smith a campagne contro il socialismo di Stato, il protezionismo e la politica militarista italiana; poi, da democratico liberale, si presentò senza successo alle elezioni per il Parlamento, partecipando inoltre attivamente alla battaglia liberista per la libertà di commercio e le unioni doganali. Amareggiato dalla politica e annoiato dall'ingegneria, ritiratosi a Fiesole si dedicò all'economia pura ed entrò in contatto con Léon Walras, al quale succedette (1893) nella cattedra di economia politica all'Università di Losanna. Di orientamento liberale, alla fine della sua vita, nel 1922, accetterà tuttavia di rappresentare il governo italiano di Benito Mussolini presso la Società delle Nazioni; l'anno successivo Vilfredo chiederà al capo del Fascismo, in due articoli pubblicati sulla rivista Gerarchia, un fermo impegno sul fronte del liberalismo. E da uomo libero, nel 1923 rifiuterà la carica di senatore del Regno.
Mentre il piano della società, della politica e della vita sembravano a Pareto non iscrivibili in una serie di condotte logiche, mentre l'analisi sociale doveva fare i conti con un'onnipresente discrepanza tra il succedersi oggettivo degli eventi e i fini soggettivi che vorrebbero guidarli, ma che ne risultano sopraffatti, è nell'economia che egli riconosce il dominio delle "azioni logiche". Qui una ragione capace di perfetta previsione e completa conoscenza delle situazioni avrebbe offerto un solido fondamento alla "condotta logica", in un'analisi costi-benefici chiusa su se stessa in modo da essere sempre risolvibile. La ragione sarebbe bastata, allora, a definire il massimo del benessere sociale raggiungibile, una posizione di equilibrio da cui è impossibile spostare un qualsiasi individuo verso un maggior benessere, senza compromettere quello degli altri - ciò che sarebbe poi passato alla storia con il nome di ottimo paretiano.
Von Neumann, Morgenstern e la teoria dei giochi
Fu un economista dallo sguardo severo della scuola austriaca, Oskar Morgenstern (1902-1976), studioso di rilievo e direttore dell'Institut für Konjunkturforschung dell'Università di Vienna, a mettere in crisi alcune idee base della teoria classica dell'equilibrio economico. Fervido liberale, dopo essere stato destituito dagli incarichi accademici come persona politicamente sospetta, nel 1938 Morgenstern fu chiamato a insegnare economia negli USA, a Princeton, dove uno dei suoi interlocutori privilegiati era un brillante matematico di origine ungherese, il cui nome, americanizzato, suonava John von Neumann (1903-1957). Se quest'ultimo si era occupato, alla fine degli anni Venti, di teoria economica, l'aveva però fatto da un punto di vista puramente matematico, inserendo il "comportamento economico" nel contesto di una più generale "teoria dei giochi di società", come analisi del processo di formazione delle decisioni.
Mentre la teoria classica, da Walras a Pareto, riconosceva nei processi economici, anziché giochi complessi di interazioni multiple, null'altro che la risultante delle azioni indipendenti di agenti capaci di previsione perfetta, von Neumann e Morgenstern cercavano una strada per tener conto dell'influsso che le interazioni reciproche hanno sulle decisioni di ciascuno. Tali influenze, inoltre, non sono del tutto prevedibili in anticipo, dal momento che non sono prevedibili le strategie che ogni giocatore al "gioco dell'economia" adotterà. In altri termini, l'idea semplice ma dirompente che von Neumann e Morgenstern stavano proponendo era l'esatto capovolgimento della teoria classica: gli attori economici usufruiscono di un'informazione solo parziale sul gioco in cui sono coinvolti, per dominare la quale è necessario servirsi di soluzioni matematiche basate sul calcolo combinatorio e probabilistico, così da determinare in anticipo le mosse degli avversari e scegliere una strategia razionale, pur con un margine variabile di errore.
Non si tratta di una ragione infallibile, ma di una razionalità che procede paziente e accorta. Non un sole abbagliante ed estraneo, che da sempre guarda dall'alto e divertito le azioni poco sensate degli esseri umani, ma una lanterna dalla luce fioca, che solo a fatica evita inciampi e passi falsi. Essa è però l'unico strumento in una ricerca che, come von Neumann stesso ebbe a sottolineare, non richiede irragionevoli soluzioni frettolose né "ricette complete" fin dall'inizio, ma al contrario "le necessarie qualità umane: pazienza, flessibilità, intelligenza".
Nash, Harsanyi, Selten
Se la teoria "classica" dei giochi aveva riconosciuto un ruolo centrale al concetto di "cooperazione", facendone una condizione necessaria per un'analisi razionale, nel 1994 il premio Nobel per l'economia andò invece a tre studiosi che avevano saputo sviluppare pionieristiche ricerche nella "teoria dei giochi non cooperativi": lo statunitense John Nash (nato nel 1928), l'ungherese John Harsanyi (1920-2000) e il tedesco Reinhard Selten (nato nel 1930).
Come ha avuto modo di osservare Selten, la teoria non cooperativa non ha un oggetto diverso da quella classica, ma permette di comprendere la cooperazione come un esito (possibile) a partire da una situazione non cooperativa, dal momento che la razionalità individuale ed egoistica precede nella realtà quella collettiva. In altre parole, il comportamento economico, di cui la teoria dei giochi offre un modello (proponendolo contemporaneamente ad altre scienze, dalla biologia alle scienze sociali), dipende da utilità che spesso si trovano in conflitto tra loro: se è vero che l'esito dei "giochi economici" è nelle mani di almeno due giocatori, che determinano solo in maniera congiunta le "partite" condizionandosi a vicenda, essi valutano però individualmente le proprie strategie, in base a "funzioni di utilità" discordi. Così, dato un gioco, il giocatore ha il diritto irrinunciabile di scegliere la strategia che preferisce. Supponiamo, però, che uno dei partecipanti proponga una certa soluzione, lasciando poi liberi gli altri di decidere, autonomamente e in isolamento, se seguire o no il consiglio. Certamente un giocatore razionale non vi si atterrebbe, se pensasse di ottenere un risultato migliore sfruttando un'altra strategia; dunque, condizione necessaria perché la soluzione proposta sia rispettata da ciascun giocatore è che essa rappresenti l'utilità massima di ognuno quando tutti vi si attengono, di modo che nessuno, preso singolarmente, ricaverebbe un'utilità maggiore dall'uso di un'altra strategia.
Una situazione che è stata ribattezzata "equilibrio di Nash", dal nome del leggendario matematico che è l'eroe del film A Beautiful Mind (2001). La cooperazione non è dunque tra i presupposti del gioco e nemmeno ne costituisce un esito obbligato, ma uno tra i suoi risultati possibili. E neppure l'unico: all'interno dello stesso gioco possono infatti darsi diversi "equilibri di Nash", cosicché toccherà ancora una volta al libero comportamento degli individui e alla loro razionalità creativa scegliere le proprie mosse e scoprire quelle degli altri.
Lo "Sherman Act" e la nascita delle norme antitrust
Stati Uniti, anni Ottanta del XIX secolo. Epoca di brulicante movimento: se le enormi praterie erano attraversate da imponenti strade ferrate, che si moltiplicavano a vista d'occhio, i mari e i lunghi fiumi navigabili apparivano solcati da grandi navi a vapore per il trasporto di merci e passeggeri. E, oltre agli affari promessi dai traffici ferroviari e navali, oltre ai ricavi ottenuti dal commercio di tabacco, anche il petrolio si stava rivelando un settore tra i più remunerativi. Ogni eventuale guadagno rischiava però di essere spazzato via dalla lotta tra le diverse società concorrenti, che dunque promossero accordi e si consolidarono in entità più grandi. Nacque così, per esempio, lo "Standard Oil Trust" (1882), in cui confluirono le azioni di nove società petrolifere fino ad allora in concorrenza tra loro, gestite da un fedecommesso. Il consiglio dei fiduciari prendeva le decisioni per tutte le società riunite, dando origine a un monopolio tale da mettere a rischio il libero mercato in un intero settore economico, con conseguente squilibrio nell'intero sistema.
Sebbene numerosi Stati dell'Unione avessero già emanato norme per limitare le tendenze monopolistiche, solo otto anni più tardi (1890) con l'approvazione dello "Sherman Act" venne varata la prima legge federale a tutela del mercato. Per quanto uno dei fattori all'origine della legge fosse una lotta di potere tra il governo centrale e le grandi concentrazioni di capitale da cui il primo si sentiva in qualche modo minacciato, di fatto il dispositivo favorì la libera iniziativa imprenditoriale, evitando la concentrazione di potere economico in poche mani.
D'altra parte, molti termini chiave dello "Sherman Act" non vennero immediatamente definiti dal legislatore in maniera adeguata, complici le pressioni esercitate dai trust interessati. Per questo motivo, oltre che per il fisiologico sviluppo dei mercati, la legislazione è andata evolvendosi notevolmente nel corso degli anni, portando a interventi che, in caso di violazione delle leggi antitrust, sono severi ed efficaci, e sono finalizzati non solo alla difesa del mercato, ma anche a quella degli individui. Infatti, se l'azione amministrativa, civile o penale è oggi affidata all'iniziativa della Commissione Federale per il Commercio, del Dipartimento di Giustizia e dei Procuratori Generali dei vari Stati USA, anche il comune cittadino, in grado di provare di aver subìto dei danni a diretto motivo della violazione dei dispositivi antitrust, ha il diritto di intraprendere azioni legali per far rispettare le leggi e per ottenere il risarcimento del danno subìto. La necessità di un intervento dello Stato nell'economia non è dunque dettata dallo scopo di sottrarre campi commerciali o industriali alla libera iniziativa individuale, ma è finalizzata a difenderla mantenendo condizioni essenzialmente competitive in un mercato aperto. Si tratta, come ognuno vede, di un'importante lezione per la stessa Europa (ma questa è un'altra storia).
La via della seta: dal pericolo giallo alle guerre tariffarie
Nei decenni finali dell'Ottocento un evento di grande portata interessò la politica e l'economia mondiali: l'ingresso nel sistema internazionale di Giappone e Cina (benché quest'ultima fosse stata sopraffatta molto più che il primo dalle Grandi Potenze). L'Italia ne risentì particolarmente: in un periodo già critico per l'economia, i due stati orientali avevano cominciato a invadere i mercati europei con rilevanti quantità di bozzoli e di seta naturale, recando grave danno al settore agricolo italiano. Industria agricola e tessile, unite in un'unica dura protesta, si affrettarono così a chiedere al governo un deciso intervento a protezione dei prodotti nazionali.
Sebbene non mancassero voci di dissenso, la politica economica italiana conobbe, nell'ultimo decennio del XIX secolo, un ribaltamento del precedente indirizzo liberoscambista: con l'elevazione di una solida barriera doganale, infatti, l'importazione e il consumo dei prodotti indu-striali e agricoli stranieri divenne tutt'altro che conveniente. Ciò determinò, almeno in una fase iniziale, un periodo di consolidamento delle industrie italiane, che, liberate dalla feroce concorrenza dei prodotti esteri, poterono giovarsi di larghi margini di guadagno; ma la nuova situazione doveva pure causare un grave sbilanciamento all'interno delle frontiere, poiché i complessi industriali del Nord, più sviluppati di quelli del Meridione, poterono facilmente imporre su scala nazionale una produzione che invece non trovava successo all'estero, soffocando così sul nascere ogni tentativo di industrializzazione del nostro Sud.
Ai problemi interni si aggiunsero ben presto serie difficoltà nei rapporti commerciali internazionali, in particolare con la Francia, i cui prodotti trovavano in Italia uno dei maggiori mercati, e che contemporaneamente rappresentava uno dei principali sbocchi commerciali per le merci italiane. In una situazione sempre più tesa, il 1888 segnò l'inizio di una vera e propria "guerra delle tariffe", un gioco al rialzo in cui i due Paesi colpivano reciprocamente i prodotti dell'altro applicando dazi via via più elevati. Gli effetti di questa politica doganale protezionistica, determinata dall'intervento di uno Stato debole e timoroso, desideroso di proteggersi dai meccanismi del libero mercato, si rivelarono - come del resto pronosticato da molti liberisti dell'epoca - semplicemente disastrosi. Se tale politica comportò un vertiginoso crollo dei prezzi a causa dell'accumulo di prodotti rimasti invenduti, originando così un gravissimo malcontento, il bilancio pubblico fu quasi soffocato dalla pesante sproporzione tra le importazioni (penalizzate, ma pur sempre necessarie) e le esportazioni, che si ridussero di oltre il sessanta percento. Insomma, quella dei dazi fu una guerra senza vincitori, ma con parecchi vinti.
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