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PREMIO INTERNAZIONALE ALLA LIBERTÀ

LA CULTURA DELLA LIBERTÀ

L'evento più importante per la nascita della libertà moderna è stata la riforma protestante che, agli inizi del 500', ha imposto il sorgere della libertà di coscienza: l'uomo veniva finalmente considerato un individuo spiritualmente autonomo. Segui - sul piano sociale e politico - la distinzione tra sfera civile e sfera religiosa e quindi lo Stato laico; l'organizzazione politica non derivava più la sua legittimità da una superiore autorità religiosa, ma diveniva sovrana nel proprio ordine tramite il diritto. Il risultato di questo fondamentale cambiamento fu la lenta ma costante affermazione di una cultura tesa a rivendicare la libera interpretazione del sacro e l'uso della ragione e della esperienza nella ricerca della verità. In misura sempre maggiore, fu avvertita la necessità di lasciare libero gioco alle forze spontanee di uomini e di gruppi, nella convinzione che solo dal loro scontro fosse possibile aspettarsi un maggiore sviluppo delle capacità umane e il progresso della società. Di qui l'apparizione di tutti gli elementi volti a realizzare l'idea competitiva tipica della concezione liberale: pluralismo dei valori, tolleranza, libera discussione e diritto al dissenso si affermarono come il prodotto di una concezione relativistica del mondo a seguito della riconosciuta vittoria dell'autonomia morale dell'individuo.
Ma l'avanzata della modernità, cioè il passaggio dalla "società chiusa", dove l'uomo viveva prigioniero dei costumi e della tradizione, alla "società aperta" dove, invece, all'uomo era riconosciuta la possibilità di modellare liberamente il suo piano di vita, fu possibile sopratutto grazie all'affermarsi del mercato. Il primato del commercio e del libero scambio consentì alla società civile di organizzarsi indipendentemente dallo Stato gestendo autonomamente le risorse economiche. Cosi la separazione della sfera religiosa da quella politica, l'affermarsi di una cultura fondata sulla concorrenza, sul pluralismo, sulla tolleranza e la nascita del moderno Stato di diritto, uniti al generale processo di emancipazione economica, finirono col determinare il sorgere di una società centrata su alcune istituzioni fondamentali che a tutt'oggi caratterizzano la vita dell'occidente: la proprietà privata, il contratto e tutte le garanzie giuridiche poste a protezione della libera iniziativa.

KARL R. POPPER

Figlio anch'egli di quella Vienna del primo Novecento che ha dato al mondo tanti uomini straordinari, Karl Popper è stato il protagonista assoluto della filosofia della scienza del Novecento: così che anche chi non condivide, in tutto o in parte, la sua lezione non può certo permettersi di ignorarla. In particolare, un ruolo importante nella ridefinizione della cultura liberale contemporanea ha giocato la teoria popperiana della falsificabilità, secondo la quale possiamo ritenere "scientifiche" solo quelle affermazioni teoriche che sono passibili di essere empiricamente smentite dai fatti (nel linguaggio di Popper, appunto, falsificabili).
A lungo avversato da dogmatici di varia tendenza e protagonista di una serrata polemica con i filosofi di "scuola critica" (Adorno, in particolare), nel corso degli ultimi decenni Popper è stato celebrato anche da famiglie politiche che dopo averlo lungamente ignorato hanno cercato di appropriarsene.
Costretto ad abbandonare l'Austria a causa dell'avvento del nazismo, Popper trascorse in Inghilterra e in Australia alcuni anni importanti per la sua riflessione intellettuale. È proprio nella fase conclusiva della guerra, d'altra parte, che egli porta a termine i suoi testi più direttamente "politici". Con Miseria dello storicismo (pubblicato da Hayek nel biennio 1944-45 sulla rivista Economica, dopo che era stato "bocciato" dalla rivista Mind), Popper mette sotto accusa quella linea di pensiero che collega Hegel e Marx, e quell'organicismo storico perfettamente riconoscibile anche in Spencer e in molti altri pensatori del XIX e del XX secolo.
Questi temi sono poi ripresi e sviluppati ne La società aperta e i suoi nemici, del 1945, che rappresenta certamente il testo in cui la riflessione politica popperiana emerge più chiaramente ed in cui viene prospettata quell'opposizione tra "società aperte" e "società chiuse" destinata ad ottenere un grande successo all'interno della cultura liberale.

FRIEDRICH A. VON HAYEK

Pur appartenendo a pieno titolo alla scuola austriaca dell'economia, Hayek seguirà un percorso personalissimo che lo porterà ad occuparsi, dal 1944 in poi, di filosofia delle scienze sociali, diritto, filosofia politica e psicologia, abbandonando per mezzo secolo - salvo qualche piccola ma significativa incursione - il campo di studi che lo aveva reso noto. Quando nel 1974 gli fu assegnato il premio Nobel per l'economia veniva onorata dunque la carriera di uno studioso che da trent'anni non si occupava più di scienza economica, ma che a partire dai principi concettuali elaborati da Menger e dai successivi interpreti di questa tradizione aveva saputo sviluppare un pensiero sociale compiuto e di grande raffinatezza. In questo senso, si può certamente affermare che l'assegnazione del Nobel abbia rappresentato la rivincita della scuola austriaca stessa, marginalizzata e denigrata in quasi tutte le accademie del mondo.
Sostenitore del libero mercato e protagonista nel corso degli anni Trenta di un importante dibattito con Keynes, Hayek presenta alcune argomentazioni fortemente innovative sulla diffusione e l'aumento della conoscenza che l'economia libera garantisce e che nessuna pianificazione potrà mai sostituire.
Acerrimo nemico del "razionalismo costruttivista" (vale a dire dell'edificazione pianificata razionalizzatrice - e dunque artificiale - di una società ritenuta migliore), Hayek propose una teoria secondo la quale la civiltà e la società sarebbero il prodotto di azioni individuali non intenzionali, di un ordine spontaneo che deriva dall'interazione di milioni di esseri liberi nel corso della storia. Si tratta dunque di un "processo di auto-organizzazione non cosciente" che non tollera alcuna intromissione di politici illuminati e di governanti depositar! del cosiddetto "bene comune". Dato che il massimo esempio di questi pregiudizi fatali sulla superiorità dell'uomo di governo si ebbe nei paesi del socialismo compiuto, non deve stupire che il volume del 1944, The Road to Serfdom (La via della schiavitù) - nel quale Hayek affermava che la guerra e l'intervento statale che questa aveva prodotto conducevano direttamente allo Stato onnipotente - abbia avuto un'enorme diffusione, più di quaranta anni dopo, fra gli intellettuali dei paesi che si stavano liberando dal comunismo.
In Hayek vi è anche uno dei maggiori tentativi di questo secolo di rifondare i principi basilari del liberalismo classico e dello Stato di diritto, resi ormai opachi dalle dottrine sociali dominanti: dal marxismo al managerialismo.

BRUNO LEONI

All'interno della cultura italiana del dopoguerra, nessuno ha interpretato la tradizione del liberalismo classico con più coraggio di Bruno Leoni. Per anni la sua è stata una presenza provocatoria e stimolante, costantemente capace di andare controcorrente e mettere in discussione i dogmi più venerati. Particolarmente importanti sono le sue tesi sulla common law e sulla legislazione. Per Leoni, mentre un ordine giuridico basato sul diritto consuetudinario e sull'elaborazione giurisprudenziale fa emergere una sorta di "volontà comune" alla cui definizione prendono parte innumerevoli soggetti, la legge decisa dal sovrano o dal parlamento ha i tratti di un'imposizione autoritaria e, soprattutto, condanna la società a vivere in una condizione di perenne incertezza. La legge scritta presuppone l'esistenza di legislatori e quindi prevede che essi possano costantemente modificare le norme della convivenza civile.
Giurista e politologo, grande conoscitore della filosofia politica e del pensiero economico, all'interno della cultura europea Leoni si contraddistinse per l'estremo rigore con cui ripropose i principi del liberalismo classico. In un secolo che vedeva trionfare ogni forma di collettivismo, egli scelse di difendere la libertà individuale, non smettendo mai di ricordare che ogni autonomia della persona riesce del tutto impossibile se la proprietà privata non è rispettata e se la classe politica che controlla lo Stato si arroga la facoltà di imporre tasse, regolamenti e proibizioni.
In Italia egli svolse pure un ruolo fondamentale nel processo di svecchiamento della cultura giuridica e filosofica. Sulle pagine de II Politico e anche su Biblioteca della Libertà, di cui fu uno degli animatori, apparvero testi ed autori ancora sconosciuti o sottovalutati in Europa. In varie occasioni egli stesso rielaborò in modo personale temi ed analisi di origine americana al fine di difendere, dinanzi alla cultura politica italiana, le ragioni della libertà individuale. Sono molto significativi, in questo senso, alcuni suoi saggi contro la legislazione in tema di monopolio e sull'equiparazione tra diritto di sciopero e serrata, che rielaboravano tesi dell'allora giovanissimo Rothbard e che adottavano un punto di vista che ancora adesso - a decenni di distanza - resta quanto mai "rivoluzionario".

LA RINASCITA LIBERALE TRA VIENNA E CHICAGO

Lo Stato, che agli albori della dottrina liberale si giustificava quale difensore della vita e delle proprietà dei singoli, nel corso del Novecento cresce a dismisura e spesso viola questi stessi diritti. Mentre durante tutta una lunga fase di gestazione e fino alla fine della Seconda Guerra mondiale per gli Stati appare più facile esigere sacrifici invece che soldi dai propri cittadini, nella seconda parte del secolo la sensibilità popolare cambia.
Le ideologie imperialiste che giustificavano la guerra si tramutano allora in dottrine sociali dando luogo a quello che la teoria liberale più matura chiama ormai il "warfare-welfare state".
Naturalmente i mille rivoli nei quali la tradizione liberale si frantuma portano alcuni di questi a confluire nel grande fiume della socialdemocrazia. E pur vero che il compromesso sociale che caratterizza i regimi rappresentativi, spesso considerati figli legittimi della teoria liberale, appare discendere dal pragmatismo che caratterizza questa tradizione. In fondo, il liberalismo ha sempre avuto un nocciolo di "buon senso" ed è chiaro che una sottrazione di risorse danneggia meno di una mutilazione di guerra. Occorre notare, però, che gran parte delle democrazie contemporanee sostanzialmente avversano il libero mercato e tentano costantemente di tramutarlo in un'economia di comando. Sembra quindi molto fragile un liberalismo che rinunci alla difesa della libera economia o, per essere ancora più chiari, del capitalismo.
In questo secolo il "liberalismo" diventa anche un problema semantico. Dichiarato obsoleto da quasi tutte le dottrine politiche che hanno accompagnato l'avvento delle società di massa (comunismo, fascismo, sindacalismo, socialdemocrazia), e che si sono presentate anche come portatrici di una libertà non soltanto "formale", il liberalismo ha dovuto subire attacchi dal suo stesso seno.
Se l'Ottocento presentava già una forte frattura tra i differenti "liberalismi", dato che il permanere di una filosofia dei diritti naturali dell'individuo era messo sempre più in discussione dal trionfante utilitarismo, tuttavia una cosa accomunava i liberali di quell'epoca: la solida fiducia nel libero mercato. Mentre per la mentalità del diciannovesimo secolo un liberale contrario all'economia di scambio avrebbe rappresentato una sorta di contraddizione in termini, durante il Novecento molti intellettuali abbandonano l'idea che il mercato sia lo strumento migliore per soddisfare le esigenze degli individui senza tuttavia voler deporre la bandiera del liberalismo.
Tranne alcuni, i "liberali" si vergogneranno sempre di più delle loro radici storiche e soprattutto sposeranno l'idea, certamente suggerita dalla realtà contemporanea, che il mercato altro non sia che un'appendice dell'organizzazione politica.
Il problema posto alle scienze sociali del secolo è ormai quello di trovare un'alternativa possibile ed "equa" al sistema di mercato.
Nei paesi anglosassoni, poi, la convinzione che il capitalismo del laissez-faire avrebbe esposto ai rischi della rivoluzione, rende particolarmente fertile il terreno di coltura della pianificazione sociale - apparentemente saggia e moderata - di Lord Beveridge e Franklin D. Roosevelt, con John Maynard Keynes nel ruolo di suggeritore.
Contro questo liberalismo "dimezzato" un piccolo nucleo di studiosi, però, ha il coraggio di riproporre le ragioni dell'autentica tradizione.
In questo senso due grandi città possono assurgere a simbolo di tale resistenza, quanto meno intellettuale, di fronte alla deriva statalista.
Vienna nella prima parte del secolo e Chicago nel secondo dopoguerra ospitano scuole che lanciano una formidabile sfida intellettuale al social planning e alle pretese dello Stato onnipotente, ponendo così le premesse per quegli effettivi rivolgimenti politici che a partire dagli anni Ottanta segnano la storia politica.
La "preservazione" e la ricostruzione del liberalismo avviene, soprattutto, sul terreno della scienza economica.In tal modo, una tradizione che era data per scomparsa - quella del liberalismo classico - rifiorisce in modo inaspettato e mette in discussione dogmi e certezze a lungo accettati.
All'età di novant'anni uno tra i massimi punti di riferimento di questa nuova stagione liberale, Friedrich A. von Hayek, coglierà con chiarezza questa strana situazione: "quando ero giovane il liberalismo era vecchio, ora che sono vecchio il liberalismo è tornato giovane".
Le prime tappe di questa nuova storia liberale, che rinasce sulle ceneri di due guerre mondiali e sulle devastazioni di società burocratizzate e prive di libertà, sono ormai ben note. Senza una personalità come Cari Menger e senza i suoi allievi (Friedrich von Wieser e Eugen Bohm-Bawerk, in particolare) il liberalismo contemporaneo sarebbe molto diverso.
E certamente sarebbe stata molto differente la parabola intellettuale di Ludwig von Mises, l'economista "austriaco" per eccellenza di questo secolo, che già nel 1920 aveva dimostrato l'impossibilità del socialismo sulla base dell'analisi di ciò che accade necessariamente in una società che, abolendo la proprietà privata rinuncia ai prezzi di mercato e quindi alla circolazione delle informazioni che questi rivelano.
È importante ricordare, inoltre, come i seguaci di Menger (Mises e Hayek, in primo luogo) si trasferiscano negli Stati Uniti e come tale "emigrazione intellettuale" renda possibile la rivitalizzazione e, per certi versi, la radicalizzazione della tradizione politica americana, già tanto nutrita dei principi dell'individualismo e del capitalismo. Intorno al nucleo di adepti misesiani della New York University crescono studiosi di prima grandezza come Murray N. Rothbard e Israel Kirzner.
Quest'ultimo, ad esempio, da contributi rilevantissimi nel momento in cui pone al centro dell'analisi economica la figura dell'imprenditore, fino a quel momento fraintesa o, più spesso, del tutto ignorata. Gli studi di Kirzner sull'imprenditore come innovatore sociale e vero protagonista della libera economia si impongono negli anni Settanta all'attenzione anche della scienza economica "ortodossa", che dopo decenni di critiche feroci al mercato condotte dai teorici del keynesismo, comincia ad avvertire una certa stanchezza.
Conviene ricordare come, a partire dagli anni Trenta, pur senza ritenere di avere abbandonato la tradizione liberale, Keynes avesse diffuso la convinzione che il capitalismo produca sempre a livello sub-ottimale e che senza il correttivo della spesa pubblica esso sia soggetto a cicliche crisi di sottoproduzione e sottoconsumo. Per certi versi la critica al capitalismo di Keynes risulta assai più insidiosa di quella marxista, dato che proviene dal cuore della riflessione economica londinese e non dalla periferia della filosofia hegeliana.
A seguito del trionfo di un simile paradigma, sulle maggiori riviste di economia il mercato inizia ad essere rappresentato quale radice di tutti i problemi, anziché della loro possibile soluzione.
In questo modo gli economisti si ritagliano il ruolo di consiglieri del principe: essi prescrivono alla classe politica le soluzioni che essa ha più interesse ad adottare. La conclusione dei più sofisticati modelli matematici è sempre la medesima: il libero mercato non produce un livello "sufficiente" di spesa per la sanità, per lo sviluppo tecnologico, per l'istruzione e così via.
Tutti i settori sui quali la mano pubblica aspetta ansiosa di estendere i propri artigli vengono dichiarati "soggetti ad una sorta di rattrappimento della mano invisibile" e quindi bisognosi di intervento governativo.
È quindi importante comprendere che la rinascita del liberalismo non può che avvenire sul terreno della scienza economica, perché lì esso era caduto e da lì si doveva risollevare.
Un'altra importante offensiva alle posizioni keynesiane proviene dalla scuola di Chicago. Il vantaggio di questo orientamento è quello di non rinunciare all'utilizzazione di modelli matematici (ritenuti impraticabili, invece, dalla scuola austriaca) sfidando i pianificatori sul loro stesso terreno.
Per certi aspetti più vicina alla cultura economica ortodossa la scuola di Chicago non ha potuto subire quel rigetto pregiudiziale che per lungo tempo, al contrario, ha circondato le opere di Mises o di Hayek.
Parlare di Chicago, d'altra parte, significa riferirsi ad una costellazione di premi Nobel per l'economia, dominata da tre figure: quella di Milton Friedman, il padre del "monetarismo"; George Stigler, teorico della deregolamentazione; e Ronald Coase, studioso dei costi di transazione e dei diritti di proprietà. Più in generale il contributo della scuola di Chicago è quello di avere ripristinato la centralità del mercato, luogo di incontro di attori liberi e razionali, imprenditori, consumatori, lavoratori, genitori e figli, non particolarmente bisognosi di attenzioni statali.
Un altro autore chiave per comprendere gli itinerari del liberalismo del Novecento è certamente James Buchanan. Fra i fondatori della scuola della Public Choice (chiamata anche della Virginia), egli è riuscito ad integrare la struttura statale nell'analisi economica, evidenziando come i riferimenti all'interesse generale nascondano, in realtà, gli interessi particolari degli individui che in vario modo "fanno parte" degli apparati pubblici.
La dimostrazione dell'esistenza di un autentico "mercato politico" procede così attraverso la decostruzione dei miti dello Stato-Leviatano: i governanti offrono beni pubblici in cambio di voti e gli elettori, dal canto loro, si comportano come consumatori razionali di tasse. La burocrazia, la caccia alle posizioni di rendita e la corruzione sono tutti elementi che fanno parte delle democrazie contemporanee che, grazie al fondamentale contributo della scuola della Virginia, risultano più chiari e quantificabili. Forse è proprio a questa tradizione di studi che si deve il maggiore tentativo del secolo di far rivivere il liberalismo nella sua forma originaria: come limitazione costituzionale alla libertà di agire dei politici.
Naturalmente gli artefici della riscoperta del liberalismo non sono stati solo economisti. Un figura di rilievo nel panorama liberale è quella di Bruno Leoni, professore di filosofia del diritto a Pavia e noto in tutto il mondo per un volume del 1961, La libertà e la legge, scritto in inglese e proposto al pubblico italiano solo nel 1994. Il contributo originale dato da Leoni al liberalismo è da riconoscere nell'idea che esista un nesso molto forte tra il diritto codificato (le leggi promulgate dai parlamenti) e la pianificazione economica. Contro questa degenerazione illiberale del diritto, infatti, egli prospetta una riscoperta della common law molto più rispettosa dei diritti individuali e maggiormente compatibile con una società di mercato.
Ma non meno importante è, nell'ambito della filosofia politica, il contributo di Ayn Rand, intellettuale eccentrica che esercita un enorme fascino su varie generazioni di giovani statunitensi. Emigrata russa il cui nome originario era Alyssa Rosenbaum, la Rand diventa nota in terra americana quale giornalista, romanziera, sceneggiatrice e perfino filosofa free lance, prodigandosi nel tentativo di fornire una rilegittimazione morale al capitalismo. Nei suoi scritti la tesi classica di un governo limitato alle sole funzioni di protezione dei diritti individuali è argomentata sulla base della moralità dell'egoismo (e, conseguentemente, all'assurdità dell'altruismo), dell'esaltazione della ragione e di un ateismo militante.
A dispetto delle molte critiche ricevute, le argomentazioni randiane a favore del mercato e della natura razionale dell'uomo hanno il merito di aver fatto breccia nel cuore e nella mente di molti cittadini americani che difficilmente si sarebbero accostati ai saggi più impegnativi di autori come Mises o Hayek. Per i milioni di lettori della scrittrice, il capitalismo cessò di essere un sistema bisognoso di correzioni, vincoli e interventi.
In campo accademico, e nel cuore dell'establishment universitario americano, è però un dibattito sulla giustizia a riportare il liberalismo al centro dell'attenzione.
Questo avviene in occasione della pubblicazione dei principali testi di John Rawls (autore nel 1971 di Una teoria della giustizia e fautore di una concezione tendenzialmente egualitaria) e di Robert Nozick, che in Anarchia, Stato e Utopia, sulla base di argomentazioni direttamente ricavate dal repertorio libertario, tre anni dopo offrirà una critica radicale di ogni concezione redistributiva.
Ad ogni modo, questo dibattito filosofico che oppone Rawls e Nozick non può essere del tutto compreso se da un lato non si coglie che la grande costruzione teorica del primo va letta alla luce di una più ampia tradizione liberal (sia europea che americana) e ancor più se il celeberrimo e sofisticato Anarchia, Stato, Utopia non viene ricondotto a quel filone di ricerche e proposte che hanno trovato nell'opera di Murray Rothbard la loro espressione più alta.
In effetti, Nozick con il suo libro presenta un modello di giustificazioni dello Stato minimo che presuppone (con tutta evidenza) la grande sfida anarco-capitalista che era stata lanciata da Rothbard. Allievo di Mises, quest'ultimo applica una rigorosa analisi economica alla società, giungendo ad ipotizzare la preferibilità di un "ordine senza Stato", di una società priva di istituzioni monopolistiche e regolata dai meccanismi della concorrenza, della domanda e dell'offerta, anche nel campo della sicurezza e della giustizia. L'affermazione del comunista russo Plechanov, secondo la quale gli anarchici altro non sarebbero che gli enfants terribles del liberalismo del laissez-faire, sarà così inverata (quasi cento anni dopo) dall'anarchismo individualista americano.
Tale proposta teorica, collegata ad una riscoperta del giusnaturalismo liberale e proprio per questo capace di "provocare" gli intellettuali contemporanei, va considerata come la manifestazione più evidente del fatto che è ormai alle nostre spalle l'epoca in cui il liberalismo appariva del tutto disgiunto dalle relazioni di mercato, dal diritto di proprietà e dall'ordine capitalistico.
Di fronte ai guasti dello statalismo novecentesco, il liberalismo è tornato a riscoprire le proprie origini intellettuali, trovando in esse anche le ragioni per nuove e sorprendenti utopie.

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