Marco Minghetti e le sue opere
Minghetti e la destra storica
Aldo
Berselli*
Marco Minghetti non discendeva dalla tradizionale nobiltà cittadina. I
suoi antenati erano stati, nel '700, cultores terrarum, proprietari di un
fondo che coltivavano con le loro braccia. Il nonno aveva abbandonato la
terra per venire in città ad esercitare il commercio della canapa e di
coloniali. Abile, intraprendente, coraggioso ma anche fortunato. Gli era
appena giunto nel porto di Marsiglia un forte carico di zucchero, caffè e
spezie varie quando Napoleone Bonaparte, da Berlino nell'ottobre del 1806,
emanò il decreto del blocco continentale in base al quale tutti i porti
europei erano chiusi al commercio inglese, provocando uno smisurato rialzo
dei prodotti importati e di conseguenza notevolissimi guadagni per il
commerciante bolognese. Il figlio Giuseppe, padre di Marco, abbandonò il
commercio e investì nelle terre. Sposò Rosa Sarti, di ricca famiglia
borghese anch'essa proprietaria di terre. Alla morte del padre, Marco
venne a trovarsi in una situazione di agiatezza - come scrive nelle sue
memorie - che lo rendeva uomo libero e indipendente. Era in realtà un po'
più che agiatezza. Se proviamo a farne una valutazione approdiamo a dati
interessanti. Secondo il Catasto Gregoriano nel 1835 le proprietà
terriere di Minghetti avevano una consistenza di 1598 ettari ed erano
sparse in quasi tutti i comuni della provincia. E' importante aggiungere
che egli non era estraneo al mondo delle banche e del credito: nel 1837, a
diciannove anni, è azionista fondatore della Cassa di Risparmio in
Bologna e intrattiene, poi, anche rapporti con la Banca dello Stato
Pontificio, ottenendo somme cospicue di denaro per intensificare talune
particolari colture e rendere più produttive le sue terre.
Per quanto riguarda la sua educazione è noto che fu affidato in parte a
precettori per le lingue straniere e storia; ai padri barnabiti per il
latino e a Michele Medici, fisiologo e letterato, per gli studi
umanistici. Trascurabile l'insegnamento di Paolo Costa. Per quanto
riguarda il suo risveglio alla coscienza politica, esso è dovuto
all'influenza che esercitò su di lui lo zio Pio Sarti. Riferisco due
episodi sui quali merita riflettere. Ecco il primo: nel luglio del 1830
Marco si trovava in campagna a Cadriano quando vede giungere, in gran
fretta, su un carrettino lo zio Sarti che agitava da lontano alcuni fogli:
erano i giornali francesi che recavano le notizie della rivoluzione
scoppiata a Parigi. Madre e zio si misero a leggere insieme, lui presente,
tutto quanto i giornali narravano, esaltando le cosiddette le giornate
gloriose. Ne traevano grandi speranze per l'avvenire non solo della
Francia ma dell'Europa intera. Lo zio era entusiasta. La rivoluzione
spazzava via la monarchia di diritto divino restaurata dopo la caduta di
Napoleone e con essa finiva il dominio di due suoi pilastri: il clero e
l'aristocrazia ereditaria. Creava una nuova monarchia, nuova nel senso che
era nata dalla volontà della nazione la quale, riappropriatasi di tutti i
suoi diritti, aveva preparato una costituzione legittimata in particolare
dalla volontà del ceto più illuminato, colto, attivo di produttori e
delle professioni, vale a dire dalla borghesia.
Pio Sarti era un fervente fautore dell'idea liberale di lontana
incubazione nella nostra città, risalente alla ribellione del Terzo Stato
e al giuramento della Pallacorda, che si era fatta più consapevole, dopo
la restaurazione, in ceti non titolati, di ricchezza più o meno cospicua
frutto dell'attività, del lavoro e anche di professionisti (medici,
notai, avvocati, docenti universitari).
Penso ad esempio a Luigi Valeriani, docente di economia politica, il quale
nel 1821, quando fiorivano le sette di varie specie, invitava i giovani
studenti a prepararsi, con lo studio severo e l'impegno concreto, al
compito di congregare tutte le terre d'Italia in un'unica unità di
nazione indipendente con un solo re ad essa stretto con mutuo legame di un
patto costituzionale.
Un altro vivo ricordo di Minghetti riguarda la mattina del 6 febbraio 1831
quando lo zio andò a prenderlo nella sua casa di Bologna e lo condusse in
Piazza Maggiore: era stata alzata una bandiera tricolore; un mondo di
gente che andava e veniva; vi erano uomini armati di schioppi da caccia;
popolani e studenti, non pochi, affiliati a sette, che gridavano
"viva la libertà" e cantavano anche la Marsigliese. Il
Prolegato aveva ceduto il potere ad una commissione di governo da lui
nominata con cittadini influenti di tendenza liberale che, sotto la
pressione popolare, fu costretta a dichiarare cessato per sempre di fatto
e di diritto il dominio temporale della Santa Sede sulle provincie
sollevate e di lì venne la proclamazione dello Stato delle Provincie
Unite con tutto quel che a essa seguì. Dopo 45 giorni il ritorno degli
austriaci pose fine ad una rivoluzione che rendeva evidente l'impotenza
delle insurrezioni.
Ricordando questi due episodi Minghetti maturò la convinzione che era
impossibile sottrarsi al governo dei preti e al loro giogo mediante moti
insurrezionali, sommosse popolari, organizzazioni settarie. Il cammino
della nostra libertà era connesso con le evoluzioni, le trasformazioni e
le guerre che in Europa avrebbero mutato i rapporti, a tutti i livelli,
non solo fra Stato e Stato, ma anche fra le classi sociali entro ciascun
Stato.
Intanto, in questo contesto, restava solo la possibilità e la volontà di
promuovere una decisa attività riformatrice. Minghetti e altri liberali
bolognesi diedero vita nel '39 al rinnovamento della Società agraria,
dopo il '40 alle conferenze agrarie, nel '42 alla fondazione del
"Felsineo" che dibatté problemi relativi alle riforme (lavori
pubblici, scuole, ferrovie, sicurezza personale, amministrazione).
Minghetti vi tenne una rubrica relativa ai movimenti che si manifestavano
negli stati europei. L'11 giugno redasse un memoriale facendolo pervenire
ai cardinali riuniti in Conclave con l'indicazione di tutte le riforme
ritenute urgenti e necessarie. Fu fra i fondatori della Conferenza
Economica che nel maggio del 1847 accolse con grande entusiasmo Richard
Cobden salutandolo come il propugnatore del libero commercio. In
quell'occasione prende la parola per esaltare la Lega di Manchester che ha
già "operato immani imprese" e produrrà nel mondo profonde
mutazioni nella libertà commerciale; e conclude che nella libertà
commerciale si difende la libertà dell'uomo. Quando viene eletto Pio IX,
il papa che parve voler realizzare il sogno di Gioberti e assicurarne il
suo corso, Minghetti accetta la nomina alla Consulta che egli stesso aveva
ideata per collaborare al rinnovamento dello Stato; nel febbraio del '48
è nominato ministro di Polizia. Dopo l'allocuzione di Pio IX del 29
aprile '48, deluso e sconfortato, abbandona Roma e raggiunge in Piemonte
il campo di Carlo Alberto che ha mantenuto fede allo Statuto concesso.
Tornato a Bologna dopo l'esito infelice delle operazioni militari
piemontesi, trova i circoli politici in fermento e orientati per una
Costituente romana. Si rifiuta di promuoverla e si schiera nel partito
contrario. Per impeto di coerenza? Per debolezza d'animo? Il cronista
Bottrigari, liberale fervente e deciso anticlericale, esprime un giudizio
che mi sembra molto puntuale: "Marco Minghetti è un diplomatico e
non ha slanci di cuore. Non avendo fede nella Costituente vuol serbarsi
intatto per un divenire che vagheggia e che forse non è lontano".
Passato il biennio rivoluzionario, nella funzione di consigliere comunale,
indica ancora,con insistenza, la necessità di riforme e chiede,
appoggiato da don Ferranti, la secolarizzazione dello Stato. Nei circoli
bolognesi liberali democratici aperti alla sfida lo definiscono
costituzionale pontificio, ma Minghetti non demorde e non cambia la sua
tattica di creare strumenti nuovi, anche per lo sviluppo economico.
Esisteva a Bologna una succursale della banca dello Stato Pontificio, ma i
saggi di sconto e i cambi restavano elevatissimi. Nacque l'idea di
fondare, con sede a Bologna, la banca per le Quattro Legazioni (Bologna,
Ferrara, Ravenna, Forlì), banca di sconto per il Commercio, l'Industria e
l'Agricoltura. Minghetti fu fra i promotori e i soci fondatori. La banca,
nata nel '55, era indipendente da quella di Roma e autonoma nella
gestione. Costituiva un embrione di autonomia in uno Stato sui generis al
quale tale concetto era del tutto estraneo ed era un fatto che aveva un
importante significato politico.
Chiamato in Francia nel '56 da Cavour, che partecipava al Congresso di
Parigi, Minghetti collaborò alla stesura di due note nelle quali si
dimostrava la situazione deplorevole e la condizione dolorosa e pericolosa
dello Stato pontificio.
Nell'estate del '57, Pio IX compì un viaggio nelle Legazioni; a Bologna
il 6 agosto ricevette Minghetti in un colloquio che non fu privo di intima
e spontanea sincerità. Il pontefice apparve irremovibile a concedere
riforme. Minghetti lo avvertì che il Piemonte sarebbe rimasto l'unico
erede delle speranze dei popoli. Il colloquio si fermò qui. Rappresentò
lo strappo definitivo dal suo passato di costituzionale pontificio.
Cavour, entusiasta della collaborazione prestata da Minghetti a Parigi, lo
volle a Torino per affidargli l'incarico di primo segretario al ministero
degli Esteri con il compito particolare di seguire gli "affari
italiani" e quindi a diretto contatto con lui. Affrontò le difficoltà
con il suo personale metodo fatto di prudenza e di capacità di decisione.
Per quanto riguarda le Romagne, perfettamente d'accordo con Cavour, affermò
il principio della volontà popolare contro quello di legittimità della
vecchia Europa. Presidente dell'Assemblea delle Romagne, il 7 settembre
'59 presentò e fece votare una mozione da lui stesso preparata la quale
dichiarava che "i popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto,
non vogliono più governo temporale".
Nel nuovo Regno d'Italia, nell'ottobre del '60, Cavour lo chiamò al suo
fianco come ministro dell'Interno vincendo a fatica le resistenze del re.
Lo riteneva, fra gli uomini politici, il più idoneo per attuare un nuovo
sistema di amministrazione.
Per fare l'Italia Cavour aveva accantonato, ma non certo abbandonato,
l'ideale di un Paese nel quale le autonomie locali fiorissero entro un
saldo legame di unità politica. Non diversamente la pensava Minghetti che
era fautore dell'autogoverno degli enti locali cui spettano le attività
amministrative che portano a migliorare la vita dei cittadini. Aveva già
dato prova di intendere il valore delle autonomie locali contribuendo alla
creazione della Banca delle Quattro Legazioni. Diventato ministro
dell'Interno, sempre più convinto come Cavour che bisognava realizzare la
libertà nell'amministrazione, allargarla, estenderla a un livello più
ampio, elaborò un progetto di riforma di carattere regionale e concepì
la regione come consorzio permanente di province per provvedere
all'istruzione superiore, alle accademie di Belle arti, agli archivi
storici, a quei lavori pubblici che non sono essenzialmente retti dallo
Stato, né sono propri dei consorzi facoltativi e delle singole province.
Da questo concetto di regione, come consorzio permanente di province,
derivava necessariamente la negazione del sistema di elezione diretta: la
regione come ente autarchico è amministrata da una commissione composta
di membri eletti dai consigli provinciali fra i consiglieri stessi; nel
suo aspetto invece di circoscrizione amministrativa dello Stato, aspetto
che vive accanto all'altro, essa è sede di un governatore rappresentante
dell'autorità centrale nella regione, organo esecutivo della regione
stessa e figura termine del massimo decentramento per via di delegazione.
La figura del Governatore doveva, secondo Minghetti, garantire contro il
rinascere "di piccoli Stati e di piccoli parlamenti". Spentosi
ai primi di giugno improvvisamente Cavour, Ricasoli, suo successore, si
rivelò assolutamente contrario alle regioni: era persuaso che la regione
fosse una ruota non solo inutile ma dannosa, e che il sistema regionale
costituisse la "distruzione di ogni governo". Ribadì questi
concetti nel discorso programmatico di governo. Minghetti si dimise.
Ricasoli, il barone di ferro, era la personalità più forte e di maggior
prestigio della Destra toscana che annoverava uomini come Cambray-,Digny,
Peruzzi, Bianchi e Bastogi, per citare solo i vertici. Era un gruppo coeso
che verrà fra poco definito, come altri gruppi della Destra, una
"consorteria".
Ritornò al governo nel marzo 1863. Presidente e ministro delle Finanze,
Peruzzi all'Interno, Visconti Venosta agli Esteri, Pisanelli alla
Giustizia e Amari all'Istruzione: una compagine governativa quasi tutta
costituita di non piemontesi. Si proponeva di procedere a riforme
amministrative-finanziarie che molti esponenti del mondo liberale
chiedevano con insistenza, convinti com'erano che i governi fossero sino
allora stati subordinati ad una egemonia piemontese a tutti i livelli:
nella corte, nella diplomazia, nell'esercito, nei grandi corpi dello
Stato. Ma il paese era in quei giorni in ebollizione: meeting in favore
del popolo polacco insorto, e Garibaldi raccoglieva volontari per muovere
verso Roma. Minghetti capì subito che non si poteva accantonare il
problema della Capitale nella quale erano ancora presenti le truppe
francesi. Riprese le trattative già avviate da Cavour con Napoleone III
e, come tutti sappiamo, riuscì in assoluta segretezza, a concludere la
cosiddetta Convenzione di settembre che presentò alla Camera e che fu
immediatamente approvata. Tra i voti favorevoli erano quelli di Sella,
Lanza e Lamarmora i quali, in particolare Sella, divennero perciò i
massimi esponenti della Destra piemontese. Torino insorse. Il re, che era
stato tenuto all'oscuro di tutto, definì Minghetti un
"ipocrita". Questi si dimise. Fino al '69 non ci fu più spazio
per lui. Nelle elezioni politiche dello stesso anno non riuscì ad essere
rieletto nel tradizionale primo collegio della sua città: i liberali
progressisti bolognesi ancora non gli perdonavano di essere stato ministro
pontificio e devoto al papa. Fu eletto nel collegio di Legnago che continuò
a confermarlo. Sempre nel '69 finirono i cosiddetti governi del re e si
formò il governo Lanza - Sella nel quale la figura dominante era Sella;
agli Esteri sempre e ancora Visconti. Scoppiata la guerra franco-tedesca,
Visconti inviò Minghetti a Vienna perché nessuno meglio di lui conosceva
la situazione generale europea. Dopo la sconfitta di Sedan spetta a Sella
il merito di aver fatto tutto quello che poteva per entrare in Roma.
Minghetti era del tutto d'accordo con lui e, da Vienna, esortava Visconti
a non avere esitazioni confortandolo. Aperta la breccia a Porta Pia,
assicurava Visconti circa l'atteggiamento dei governi europei, nessuno dei
quali nutriva più riserve anche sul plebiscito e l'annessione al Regno
d'Italia. Entrati nella Capitale, la questione romana stava ancora davanti
a loro nel suo aspetto più difficile che era quello di stabilire le
condizioni che dovevano essere date per assicurare la libertà e
l'indipendenza del capo della Chiesa Cattolica nell'esercizio del suo
potere spirituale. Alcuni pareri.
Ricasoli: la nazione deve spiegare la bandiera della libertà della Chiesa
e della separazione completa e assoluta, compiendo così una rivoluzione
politica e sociale la più splendida dopo la rivoluzione del
cristianesimo, ma a patto che non si intenda la Chiesa una mera
congregazione di sacerdoti. Sella: la nuova missione di Roma capitale è
la scienza, Roma centro di scienza equivale a una Roma laica solidamente
costruita di fronte al Vaticano e alla tradizione ecclesiastica. Molto
vicino a lui Luzzatti, giovane recluta della Destra, il quale confessa di
non riuscire a comprendere come si possano conciliare due principi opposti
come sono la Chiesa Cattolica e lo Stato moderno. Minghetti: l'Italia una
e libera è stata fatta; occorre determinare le garanzie dell'indipendenza
del pontefice e del libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa
Sede: compito dell'Italia è quello di portare nel mondo una nuova idea:
quella della libertà largamente applicata rapporti della società civile
con la religione e porsi così all'avanguardia del movimento liberale
europeo.
Il dibattito parlamentare fu avviato sul testo della Commissione che
divideva la legge in due titoli. Il primo si intitolava Delle prerogative
del Sommo Pontefice, il secondo aveva per oggetto Le relazioni della
Chiesa con lo Stato in Italia. Deus ex machina del progetto fu Bonghi. Il
progetto dimostrava né posizioni giurisdizionalistiche, né idee
riformatrici ricasoliane. Il dibattito fu intenso e vi parteciparono
fautori della formula cavouriana, deputati clericali, fautori del
giuridizionalismo, cattolici liberali della statura di Stefano Jacini.
Minghetti intervenne più volte con la sua seducente e raffinata
eloquenza, ma lo fece con grande energia sull'articolo relativo al placet
e agli exequatur contro coloro che, adducendo vari ordini di motivi,
sostenevano la necessità dell'ingerenza dello Stato nelle nomine dei
vescovi.
Minghetti ricordò, a confutazione, che Cavour intendeva rinunciare a
qualunque diritto di nomina o raccomandazione dei vescovi; e chiarì il
proprio pensiero: "lo Stato ha il suo proprio fine e questo fine è
distinto e indipendente da quello della Chiesa; non già che lo Stato,
come con esagerazione straniera si dice, sia ateo, sia laico: esso è
incompetente in materia religiosa. La Chiesa è una associazione libera la
quale vive nello Stato e non deve avere vincolo alcuno che non abbiano le
altre società. I diritti della Chiesa non sono privilegi che le
provengono dalla propria essenza; scaturiscono dal diritto individuale di
ciascun cittadino che si accoglie in associazione. Certo la Chiesa è
grandemente rispettabile e per la nobiltà e per la grandezza della sua
missione e pel numero dei suoi membri, ma non perciò deve avere
privilegi: è una società che vive dentro lo Stato e quindi soggetta alla
legge comune".
Quando la legge per le guarentigie fu votata, la Destra, nonostante essa
fosse dal punto di vista giuridico non priva di antinomie e fosse di fatto
frutto di un compromesso politico, si dichiarò soddisfatta dell'opera
compiuta e di aver portato a termine una linea politica, iniziata con
Cavour nel '55, quando era stata aperta la breccia per entrare nella
fortezza del clericlarismo e costituire lo Stato moderno. E' un fatto
innegabile che all'ombra della legislazione ecclesiastica liberale fu
possibile la grande e mirabile ripresa delle istituzioni cattoliche nei
decenni successivi al '70.
Ma subito apparve una nuova urgente questione: quella del pareggio.
Protagonisti Sella e Minghetti che proprio non si amavano, anzi non si
sopportavano. Minghetti giudicava Sella un analitico al quale mancava nei
grandi affari di stato la sintesi decisiva. Sella giudicava Minghetti un
uomo di cultura letteraria, un uomo del Rinascimento al quale non si
poteva affidare con tranquillità i sommi affari di Stato.
Nel dicembre del '71 Sella presentò un piano inteso a raggiungere il
pareggio entro cinque anni, un piano rigoroso e nello stesso tempo un
omnibus, un insieme cioè di nuove imposizioni e di aggravi fiscali che
indiscriminatamente ferivano a morte troppi interessi.
Minghetti non si sentì questa volta di appoggiare e di avallare una
pioggia di nuove imposte e che si dovesse invece trarre maggior introito
riordinando quelle esistenti e rendendone più facile e meno dolorosa la
riscossione: occorreva far fruttare le imposte esistenti e dar tregua e
sollievo, nei limiti del possibile, ai contribuenti: sanare il deficit sì,
ma evitando di soffocare lo sviluppo dell'agricoltura, dell'industria e
del commercio. Sella rimase fermo nelle sue idee, ma la Camera, nella
tornata del 20 giugno '73, bocciò il suo piano quinquennale. Votarono
contro anche i seguaci di Minghetti e di Peruzzi. Fu segno grave di una
scissione interna della Destra. A Sella non restò che dimettersi.
La successione spettò al Minghetti. Riuscì a fatica a comporre un
ministero. Dovette accollarsi le Finanze, rimase Visconti Venosta agli
Esteri, agli Interni andò Girolamo Cantelli, consigliere di Stato, poco
conosciuto, legato ai gruppi più conservatori della Destra. Ai Lavori
pubblici andò Spaventa, politico temprato, coraggioso, di grande capacità
di lavoro. A Minghetti però mancava l'appoggio di Peruzzi e di Sella: per
sopravvivere aveva bisogno dell'appoggio di un gruppo della nuova Sinistra
che veniva costituendosi in modo autonomo rispetto alla Sinistra, per così
dire "storica". Con questa puntò alla creazione di una working
majority per una politica di riforme.
Per rafforzare il ministero, Visconti e Minghetti indussero il re a
intraprendere, nel settembre, un viaggio a Vienna e a Berlino che confermò
un accordo morale, una entente pacifica, senza che fossero sottoscritti
trattati. L'accordo comportava il riconoscimento definitivo dell'unità
raggiunta e l'ingresso del nuovo Stato fra le potenze europee, a pieno
titolo, come fattore necessario della pace e dell'equilibrio dell'Europa e
garanzia per i principi di ordine e di conservazione sociale. Un altolà
alla Francia e alle intenzioni del clericalismo francese. Un capolavoro di
politica estera. Rassicurata la posizione internazionale Minghetti mirò a
qualificare il suo ministero con una proposta di legge, intesa a
disciplinare la circolazione cartacea, nel periodo e per il solo periodo
forzoso. Con essa concedeva finalmente l'emissione a sei banche
principali, con corso legale, non più regionale, ma in tutte le città
dove avessero sedi succursali e rappresentanze. Era la prima legge
organica sulle banche d'emissione. Accontentava interessi particolaristici
e regionali e tutti coloro, ed erano tanti, che accusavano la Banca
Nazionale di egemonismo. La proposta fu votata nella tornata del 13
febbraio '74 da una maggioranza compatta quale non si era mai vista alla
Camera dopo Cavour: restavano all'opposizione il gruppo di Sella legato
alla Banca Nazionale, e a sinistra, il gruppo Crispi-Nicotera.
Fu il momento più fortunato del nuovo corso politico sperimentato da
Minghetti. Ma quando presentò i provvedimenti finanziari l'appoggio
cominciò a venirgli meno, in particolare era combattuto il provvedimento
relativo agli atti non registrati. Si trattava di una misura ispirata a
principi di giustizia e di moralità: si citava il caso di "ricchi e
potenti elettori" che non avevano né denunciato né registrato
proprietà appartenute a corporazioni religiose soppresse nel 1866, e
numerosi erano i contratti simulati fatti in quegli anni per i beni
dell'asse ecclesiastico. Minghetti non intendeva rinunciare al pareggio
che aveva programmato di raggiungere nel '76, ma il provvedimento relativo
agli atti non registrati venne respinto a scrutinio segreto per un solo
voto. Sella e Peruzzi non gli erano venuti in soccorso, e tuttavia riuscì,
con altre misure, a raggiungere il suo obiettivo.
Minghetti presentò le dimissioni ma il re le respinse. Non riuscì mai più
ad aggregare la Destra attorno a un obiettivo condiviso da tutti i gruppi
che la componevano.
Nelle elezioni politiche del novembre '74 produssero sgomento i risultati
del Mezzogiorno: il partito liberale moderato aveva guadagnato nelle
Provincie settentrionali, aveva conservato le posizioni in quelle
centrali, ma era stato battuto in misura grave nel Mezzogiorno. Minghetti
scriveva a Ricasoli: "Questo accentuarsi di due Italie, una
meridionale e una settentrionale, è fenomeno grave". In effetti
l'Italia dello sviluppo aveva votato la Destra, l'Italia dell'arretratezza
la Sinistra. Era nel panorama generale del Paese un'altra anomalia che si
aggiungeva alle troppe difficoltà di ogni genere che allarmavano la
classe dirigente.
In un contesto dominato, senza pausa, dal dibattito sulla strada da
percorrere per mettere concretamente in moto il processo di trasformazione
dei partiti e della società, intanto era spuntato e cominciava ad
affermarsi il socialismo anarchico libertario per la predicazione
affascinante di Bakunin. La lotta politica incominciò ad assumere un
volto sino allora impensabile. La classe dirigente di destra, sempre
vigile e dominata da paure di ogni genere, fu tratta ad usare lo strumento
tradizionale della repressione per troncare con durezza "le mene dei
sovversivi". Ciò avvenne nella primavera del '74, quando
l'Internazionale bakuninista era una forza in espansione e anche Andrea
Costa predicava la rivoluzione sociale, annunciandola imminente. Uguale fu
l'atteggiamento di intervento inteso a sgominare le fila del sovversivismo
repubblicano. Ciò avvenne nell'agosto del '74 nei confronti di un gruppo
di mazziniani romagnoli e di altre parti d'Italia che si erano riuniti a
convegno a Villa Ruffi nel riminese. Si fece una retata di tutti i
convenuti che vennero arrestati e incarcerati. Non si trovò nemmeno una
striscia di carta né a Villa Ruffi né altrove a prova della temuta vasta
congiura. In Sicilia, deputati di sinistra denunciavano che l'autorità
dello Stato era quasi annientata, il diritto di proprietà violato e la
sicurezza personale esposta a gravissimi pericoli, e chiedevano misure
eccezionali per estinguere la mafia. Minghetti, al di là di ogni scrupolo
costituzionale, accolse l'invito a restaurare l'ordine e presentò, nel
dicembre '74, un progetto di legge contenente provvedimenti straordinari.
Lo schema di legge incontrò subito aperte opposizioni alla Camera, nella
stampa di ogni tendenza, siciliana e nazionale, nei gruppi politici, anche
in uomini che si sentivano parte della Destra. La discussione della legge
rivelò il disimpegno anche di suoi amici che finirono per svuotarla nel
suo contenuto e a ridurla ad un articolo unico assolutamente riduttivo.
Solo Ricasoli era apparso sicuro sostenitore di Minghetti. Per il Governo
divenne infine una partita persa. E' però un fatto che, caduto l'ultimo
governo della Destra, la Sicilia si trovò abbandonata a se stessa.
La Destra visse in quegli anni momenti di grande tensione e di dissenso
interno nell'impegno di salvaguardare insieme la libertà e l'ordine
sociale. Il suo comportamento non fu mai monolitico e dogmatico e la
formula "la libertà nella legge" non venne adottata senza la
consapevolezza della sua astrattezza e del suo equivoco formalismo. E
dunque non senza travaglio, talvolta drammatico e profondamente sofferto.
Infine, si presentò un altro grosso nodo da sciogliere e che riguardava
"il conflitto degli interessi". Dopo il '70, le Società delle
strade ferrate avevano cominciato a trovarsi di fronte a difficoltà
sempre crescenti che finirono per coinvolgerle tutte dalle Romane alle
Meridionali e infine all'Alta Italia. Il Governo si trovò ingaggiato con
esse in una serie di conflitti a non finire. Spaventa, nel maggio del '74,
presentò alla Camera le convenzioni recentemente stipulate con le Romane
e con le Meridionali e preannunciò, non lontano, il momento in cui lo
Stato avrebbe dovuto sostituirsi alle Società e ne disse anche le
ragioni. L'autonomia della industria ferroviaria non è conciliabile con
gli interessi supremi dello Stato; le strade ferrate, in certe
circostanze, assumono un'importanza eccezionale per la difesa nazionale,
perché esse sono le vene e le arterie per le quali si raccoglie e circola
il sangue della ricchezza nazionale e quindi il loro stato di salute si
ripercuote istantaneamente e profondamente sul corpo sociale. Lo Stato
perciò deve vigilare e intervenire, e l'industria ferroviaria non può
considerarsi industria come le altre: in essa non è possibile la
concorrenza, e dunque è un monopolio. Lo avevano accusato di statolatria
e tanto più lo fecero in quest'occasione. Egli riaffermò la sua idea
dello stato "civile" che è "la coscienza direttiva per cui
una nazione sa di essere guidata nelle vie, la società si sente sicura
nelle sue istituzioni, i cittadini si veggono tutelati negli averi e nelle
persone". Anche Sella, che aveva vissuto l'esperienza del Piemonte
dove le ferrovie erano state costruite dallo Stato con ammirabile
efficienza, era d'accordo con Spaventa nell'inflessibile difesa dello
Stato e in pieno rispetto dei patti con i padroni delle Società
ferroviarie. Quando Spaventa propose il riscatto delle ferrovie,
soprattutto delle Meridionali e dell'Alta Italia, lo appoggiò. Nacque così
un conflitto tra il Governo e uomini della consorteria toscana: Peruzzi,
Bastogi, Cambray- Digny, tutti coinvolti nella gestione delle Meridionali
e dell'Alta Italia. Il conflitto di interessi fu durissimo. Occorre
precisare, a questo punto, che era in atto uno scontro tra Ferrara e
Luzzatti. Ferrara, liberale e liberista intransigente, seguito da Peruzzi,
muovevano a Luzzatti accuse di germanismo economico, bismarckismo,
statolatria, diserzione dal campo liberale e così via. Luzzatti e i suoi
seguaci (erano tanti: da Sella a Villari, Fortunato, Morpurgo) erano
convinti che il progresso, rendendo più complessi i rapporti sociali,
postulava l'intervento dello stato entro i limiti che non offendono in
nessun caso la libertà, per equilibrare e armonizzare le contraddizioni
esistenti nella società. Il conflitto si estendeva anche ai trattati
commerciali e quando Minghetti ne affidò la negoziazione a Luzzatti, i
liberisti lo ritennero un traditore. Minghetti non era un seguace del
liberismo puro, astratto e dogmatico: gli pareva che dietro la lotta dei
liberisti ad oltranza si nascondesse, al di là dei sacrosanti principi,
il fine egoistico proprio degli affaristi di non trovare intralci in uno
Stato che si poneva accanto alla libera iniziativa privata, assumendosi
campi di controllo, di coordinamento, di promozione e di integrazione.
Aveva in qualche misura ragione.
Per quanto riguarda le ferrovie, vi faccio un esempio. Nella relazione del
consiglio di amministrazione delle Meridionali del 15 giugno '74 si legge:
"Nascemmo Italiani e fummo sempre Italiani e possiamo dire alto agli
amici e ai nemici che fummo benemeriti della Nazione. Ma tutto ha un
limite. Noi non abbiamo la missione della Provvidenza e non dobbiamo farci
strumento di civiltà a grave scapito nostro. Un patto assurdo stabilisce
un antagonismo fra gli interessi nostri e quelli del pubblico e
dell'erario: ebbene, si abbia il coraggio di accettarne tutte le
conseguenze, e di riconoscere che noi abbiamo il diritto e il dovere di
non occuparci ormai che dei nostri interessi".
Si capisce bene allora l'atteggiamento tenuto da Peruzzi e dai suoi soci
quando giunse in Parlamento la legge sul riscatto delle ferrovie
nazionali. D'accordo con la Sinistra il 18 marzo 1876 fecero cadere il
governo. L'evento fu detto allora "rivoluzione parlamentare".
Così finì l'età della "Destra storica" che, pur con le sue
luci e le sue ombre, appare come un'inconfondibile stagione della nostra
storia. Fu una classe di governo, tenuta unita sda forti elementi di
coesione: decisa volontà di portare a termine la loro opera preparando
per l'Italia, finalmente unita, l'ingresso in piena dignità nel concerto
delle potenze europee, con la questione romana risolta e con le finanze in
ordine, tenuta unita da grandi elementi di coesione: decisa volontà,
forte senso dello stato, la ferma ispirazione liberale e il rifiuto ben
determinato di slittamenti verso posizioni reazionarie.
Minghetti tentò un accordo organico con Depretis, ma fallì. Le ragioni e
gli obiettivi della lotta politica condotta nei suoi ultimi anni sono
testimoniate nel brano di una lettera , scritta il 6 novembre 1883, alla
regina Margherita, della quale era divenuto intimo consigliere:
"Impedire che la democrazia venga a partecipare ognor più al Governo
sarebbe vano, è questa l'ubbìa dei partiti retrogradi che pur dovrebbero
aprir gli occhi alla verità: bisogna dunque educarla, chè se la
democrazia istruita e morale viene a partecipare al Governo la condizione
delle nazioni civili potrà vantaggiarsene d'assai, se viene a
parteciparvi ignorante e brutale avremo quell'alternativa di anarchia e di
dispotismo di cui già la Francia ci diede saggi non pochi. Perciò il
compito della Monarchia è nei tempi nostri ancora più necessario e
importante che nei tempi passati".
Il "roseo" Minghetti, come erano soliti definirlo amici e
avversari, sempre sorpresi e talvolta irritati per la serenità con cui
affrontava difficili tornanti del suo impegno politico, incominciava a
volgere verso uno stato d'animo con toni di pessimismo per quanto riguarda
l'evolversi politico e sociale del nostro paese.
Scrive Bonghi che tre giorni prima di por fine al suo cammino terreno,
Minghetti disse alla moglie:" Io voglio morire nella religione dei
miei padri; ma non intendo che neanche mi si chieda ritrattazione o
dichiarazione di sorta sugli atti della mia vita politica; li ho tutti
compiuti con chiara e sicura coscienza e con convinzione profonda".
Fu la regina Margherita a inviargli il sacerdote che gli amministrò gli
ultimi conforti della religione. Si spense a Roma il 10 dicembre 1886.
Bibliografia
Riferimenti bibliografici relativi a questo mio intervento:
1. Lettere fra la Regina Margherita e Marco Minghetti (1882 - 1886) a cura
di Lilla Lipparini, Milano, Longanesi, 1947;
2. L. Lipparini, Minghetti, Bologna, Zanichelli, 1942 - 1947;
3. Luigi Dal Pane, Economia e Società a Bologna nell'età del
Risorgimento, Bologna, Zanichelli, 1969;
4. Giorgio Porisini, Condizioni monetarie e investimenti nel bolognese. La
Banca delle Quattro Legazioni, Bologna, Zanichelli, 1969 ;
5. Aldo Berselli, La Convenzione di settembre e il trasferimento della
capitale da Torino a Firenze, in Il Parlamento Italiano, vol. II, 1861 -
1869, Milano, Nuova CEI, s. d., pp. 147 - 171;
6. A. Berselli, Marco Minghetti e le leggi di unificazione amministrativa,
in L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, a cura di F.
Benvenuti - G. Miglio, Vicenza, Neri Pozza, 1969;
7. A. Berselli, Il governo della Destra. Italia reale e Italia legale dopo
l'Unità, Bologna, Il Mulino, 1997.
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Professore ordinario di Storia Contemporanea Università di Bologna |
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