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Un inedito di Baldassarre Labanca:

La Mia Prigione.

Manoscritto edito a cura di Antonio Arduino.

Fin dai più teneri anni la fortuna prese e travagliarmi: condussi i miei giorni sempre amarissimi; sempre all'una sventura seguì l'altra. Se avvenne caso che alcun conforto comparve nell'animo mio, subito sparì; anzi tornò nella più grave amaritudine. Sicché la consolazione fu per modo mista alla tristizia, che o questa poco temperai, o quella pochissimo sentii. Ma in mezzo le sventure, che in ogni dì crescevano di peggio, ne veniva una quasi per rivolgermi sempre in tenebre più dense ed in sonno più profondo. 
Era in sul fare della sera del primo agosto, quando io essendo a casa col mio domestico, d'improvviso si presentava un'ispettore (sic, n. d. e.) di polizia unito ad altre dieci persone. Vedendomi addosso cotale gente, dimandai a gran pena della loro venuta, ma eglino senza rispondere in parole, nel fatto misero tutta l'opera loro a fare cerca della delle mie cose. Osservato tutto per ordine con grandissimo studio e diligenza, trovarono che io era senza carta di soggiorno, e con libri, che a capo loro sembravano proibiti. Per questo l'ispettore ordinò che mi vestissi, affinché andassi loro appresso fino al commissariato, dove si sarebbe deciso il mio destino. A tutta fretta obbedii, ed a poco tempo passai nel commissariato con le scolte a fianco, e con altra gente che veniva a pochi passi lontana da me. Quivi mi trassero davanti al Commissario; il quale, come seppe che io era privo di carta giustificativa, e con libri proibiti, senza voler sentire pure una parola, subito mi fece tirar fuori della sua camera. Oh quante cose mi ridusse a memoria questo terribile momento!!... Lo mutai tutte della persona, ed il mio povero domestico in lagrime compassionava il mio triste stato. Poi fui condotto dal cancelliere per firmare un verbale; e credendomi che la dimane mi dovessi presentare di nuovo, chiamai senza più aspettare il domestico per ritornare nell'abitazione. Ma in quello che mi mettevo in cammino, ecco che si presenta persona del governo a mezzo la gradinata dicendo che doveva prendere la via della prefettura. A queste parole, che direi morte col Petrarca, seguitò tale una malinconia, che mai m’abbia travagliato; tanto che indugiato alcun tempo, e preso un poco di animo, con freddissime parole gli chiesi di grazia una carrozzetta. Egli non si negò, bensì negossi la fortuna, perché né il domestico, né via facendo ne potemmo trovare una. Onde mi toccò in sorte camminare a grandi passi fino alla prefettura, che dal luogo onde m'era partito è presso a due miglia. Quivi giunto che fui, la persona di polizia mi condusse avanti il custode delle prigioni, e questi disprezzandone con agre parole mi trascinò nella porta della carcere, ove mi parve leggere nella sommità quel verso di Dante: 
«Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate». 
Salendo per la scalinata, vidi un finestrino, dove io subito fui per accomiatarmi dal domestico: il che a grandissima fatica mi fu concesso. Più facendomi sopra, venni in un punto, che da una parte aveva un camerino, che metteva puzzo insoffribile, dall'altra un luogo tutto oscuro. Qui stetti buon pezzo senza trovare via che menasse al mio destino; ma finalmente andando attorno, mi avvenni in un compagno di sventura, di nome Francesco Muratori: costui con bella maniera mi addittò il luogo della mia prigione. Entrai, e per alcun tempo posi mente al luogo, ed alla gente che vi era dapprima: trovai una camera ben grande: nel mezzo vi era sospesa una lanterna con fioco lume, che appena lasciava scorgere pochissime cose. Girai lo sguardo e vidi altre due camere l'una più piccola dell'altra, ma a un di presso erano metà della prima. Tutti e tre avevano ugual numero di finestroni, uguali fra loro, e fatti a modo di mezzo cerchio. Due di finestroni guardavano solo il cortile, l'altro il cortile, e ad un ora una porta, che da mano diritta una scalinata che mena al commissariato, ed alla prefettura, e di rimpetto tiene la porta grande della prigione. Di poi considerai la gente, e vidi che alcuno giacendo su misero letto, placidamente dormiva, altri dormendo, fortemente russava; altri gettato a terra, metteva voce di lamentazione; altri andando a scontorundosi per le camere, bestemmiava il suo crudele destino. Tutto insomma moveva a pietà, tristizia, a compassione, non che ad ira grandissima ma non contento misi lo sguardo più dentro; e così vidi un monaco vestito con ad abito lungo e largo, che si dimenava a terra l’aura coverta. Mi feci a lui per sapere di qualche cosa; ma egli, forse per forte sdegno ond'era compreso, non fidandosi fare pure un sol motto, diede vista di dormire. Finalmente uno in mezzo gli altri volto con gli occhi verso me, mostrava che mi volesse tenere qualche poco in parola; io però non ebbi animo né a lui parlare, né agli altri di rompere il sonno. Onde lasciato tutto sopra me stesso, non pensai più agli altri; si bene passai buon tempo in lagrime, che mi porgevano molto conforto. In questo mezzo mi sentii chiamare dal custode, perché era venuta persona a parlarmi. Egli era D. Giovanni Carosella; il quale sapendo la triste nuova da gente che era presso la sua abitazione, in poco d'ora venne da me. Io appena potei fargli poche parole, e poi un'altra volta, tornai al luogo di prima. Da quell'ora presi a volgere moltissimi pensieri nell'animo; or di tristezza, ed ora di consolazione; or di speranza, ed or di disperazione, or di sdegno, ed or di pace. Sicché l'animo era tra due, come forte combattimento tra nemici, che dopo lungo combattere, non mette mai termine dall'una delle due parti. Ma alla fine cominciava a cedere la notte, e insieme cede- vano dall'animo mio le gravissime agitazioni: veniva il dì, e insieme venivano belle speranze che mi rivolgevano a novella vita. Il primo di però passò senza ottenere nulla e così la speranza che erano caldissime nel mattino, nella sera cominciavano a divenire fredde, come fiamma che tosto si accende, e poi man mano si spegne. Venne la seconda notte, e la passai mediocramente, anzi bene messa innanzi alla prima. A dire breve durai nove giorni a questa maniera: rendendosi l'un giorno meno penoso che l'altro, come l'una notte men triste che l'altra. Sicché la persuasione di soffrire di buon grado i miei mali giungeva a poco a poco alla ragione, e non seguitava quella guerra si forte, che spesso la regina della facoltà viene meno in affrontarla. Tale conflitto però per quanto universale in tra il genere umano, altrettanto impossibile a spiegare, se la ragione rimane coi confini di una filosofia mondana e tirrena. 
E nella verità l'uomo ristretto entro i propri limiti, vede in se stesso una tendenza continua alla felicità; la trova in ogni uomo buono o malvagio, religioso od empio; non può negare che sia nata con noi, in noi inestinguibile, anzi essenziale, perché è la fonte onde sono tutti gli altri diritti. Intanto non trova modo per compierla; perciocché se guarda se stesso, trova una limitazione, che non lo appaga, non lo sazia, non lo soddisfa; se nelle cose che cadono sotto i sensi, vede una miseria che lo affligge, lo travaglia, e continuamente lo inquieta. 
Però tra la gente minuta si vedono alcuni che predicano, beato il ricco, felice il voluttuoso, tale ancora l'onorato; mentre essi giunti a tale meta, altro vorrebbero, altro si aspettano; insomma rimane un vuoto nell’animo loro che li tiene fortemente agitati. Tra filosofi vi sono alcuni che pongo- no la felicità nel piacere, altri nella virtù, ma ognuno sa quanto è felice l'uomo dato ai piaceri, e l'altro che tocca il più alto punto della virtù. tra letterati, come Ugo Foscolo e Leopardi, credendo di trovare felicità nella speranza, in questa pongono il principio, il mezzo, il fine di tutte le nostre tendenze verso la felicità. Ma questa sentenza oltre ad esser contraddittoria, perché la speranza sarebbe obietto e tendenza ad un tempo, non essendo altro la tendenza che una speranza eminentemente connaturali all'uomo; se poi si vuole stare per il fatto, riduce l'uomo in ultimo risultamento a disperazione. Però la conciliazione è solo in una filosofia divina e cristiana, la quale componendo la ragione pura, coi veri beni della religione, trova senza meno che le sventure sono necessarie, e perché l'uomo non si abbandoni tutto sopra sé e sopra le cose che gli sono sotto la vista, e perché si perfezioni nel corso della sua vita. Ma ritorno onde mi sono partito, non essendo mia intenzione entrare in cose che mi metterebbero fuori del mio proponimento. Però dirò di altra sventura che mi colse tanto nuova, e tanto terribile, che parve a primo aspetto fulmine che scocca dal cielo. E qui non posso lasciare dire, che solo in ritornare a mente il suo principio, io mi vedo involto e sepolto in gravissimo dolore; e di contra preso, anzi compreso da grandissima consolazione, ponendo mente al suo fine. Del principio non terrò parola, che non mi pare necessità mostrare quanto sia facile e tristo ad un tempo cadere tra denti di uomini, che non asientendo mai il vero, asientono sempre il male altrui. Correva il giorno decimo di mia sventura e di fatica grandissima per D. Giovanni Carosella, che si trovava in Napoli per sue faccende. Egli viveva, sicuro della sua persona, agitatissimo della mia disgrazia; tanto che non curando più le cose sue, mise ogni studio per liberarmi dalle prigioni. Ma in quello si adoperava per un fine, ne seguì un'altro (sic) tanto amaro, quanto non si potrebbe dire. D'improvviso venne preso da due persone a casa mia, e condotto in prefettura. Quivi venne interrogato per buon tempo dal commissario, e poi gittato in luogo, largo presso a palmi otto, e alto intorno a dieci. 
Chiudeva tale carcere un cancello di legno, il quale da presso guardava la porta della prefettura, da lungi della prigione. Ai due lati del fondo vi erano due porte: l'una mena ad un camerino da fare gli atti necessari, l'altra ad un'altra carcere più oscura e più nera, che non è la prima. L'aria entrava per le aperture del cancello, e questo la riceve da un corritoio (sic), che mette ad altre carceri, e dal luogo ove sono i custodi di tutte le prigioni. Sicché il luogo, il cancello e l'aria faceva noia grandissima al corpo, e timore gravissimo all'animo. Io vedendolo dalle mie prigioni in sì basso luogo, entrai in tanto dolore e sdegno, che fui quasi in punto di scoppiare in corpo; ma per buona ventura scoppiai in lagrime, che mi porsero in quel momento non piccolo conforto. Passò la notte, ed appena fatto mattino mi feci all'uscio della mia prigione, che era a pochi palmi lontano dal suo, affinché potessi ottenere dal custode di dirgli almeno una parola: questi mi guatò un poco, e poi fortemente gridando disse: date la volta a mano manca, e tornate onde vi siete partito. Queste tenebre così dense durarono per due giorni, in sul fare del terzo cominciarono a diradare e la sera si dissiparono in tutto. Perocché le autorità, mosse a pietà del nostro stato, misero e deplorevole, a lui mandarono dalla prigione, ed a me le rotte relazioni appena si riaprirono col domestico. Ma pur vedendo quel poveretto fuori dalle prigioni, la mia grandissima tristizia cambiò in grandissima consolazione, come tempesta che dura per poco e poi tosto muta in calma. Da quell'ora tornarono in calma eziandio le altre sventure della prigione, perché avanti a quella mi sembravano così piccole che, o non le sentiva, o le sentiva appena. Da quell'ora l'amicizia di molti cominciò a penetrare entro l'animo mio, che con questo mezzo non pure temperava i mali, ma gli componeva tutti in pace. Oh quanto era dolce lo sfogo tra gli amici della prigione!!... lo non so dirlo; solo posso confessare che alcune volte sentiva tanto forte tale dolcezza, che io meravigliava, con me medesimo, come tanto potesse l'amore altrui, massime quella scambievole tra compagni di sventura. Voi vedevate, e non v'era momento che non avvenisse, che alcuno entrava in malinconia, e subito accorreva un altro, perché lo passasse da una somma tristizia ad una temperata consolazione. Incontrava che altri era preso da grandissimo sdegno, e incontanente veniva uno per mitigarlo, e per persuaderlo con dolci parole. Insomma era assai bello a vedere, come l'amore dentro le prigioni, svolta in tutta la sua estensione, partorisce tanti soavi e vari frutti. lo mi aveva amici così buoni e così cari, che non dimenticherò finché avrò vita. 
Oh con quanto dimestichezza usavamo tra noi!... quanto era dolce qualche diletto che prendevamo!... In un sol giorno non mi potei contenere da grandissimo furore, ma le parole altrui mi potevano frenare, perché a tutti seguì medesimo fatto. 
Da due giorni che un certo Pasquale Conforto era nelle prigioni: vivea insieme con noi, alquanto tranquillo di animo, mediocremente della persona. Fra questo mezzo venne a vederlo la moglie con due figlioli: uno di anni quattro, l'altro di sei.
Il più fresco di età venuto alla porta della prefettura, e riconosciuto suo padre dalle finestre della prigione (che si può dire la prima conoscenza che acquista il fanciullo) ben tosto lo chiamò con dolce nome di papà. Il padre corse ad abbracciarlo, ma come egli era proibito di parlare a chi che sia, il custode delle prigioni non volle pure permettere di baciare quel tenero ragazzetto. Oh dove giunge l'infamia e crudeltà dell'uomo!... Non è egli in alcuni casi barbaro più dell'animale e fiero più della tigre?... 
Forse nell'animale in un simile caso l'alto senso si sarebbe fatto intelletto; mentre in quello l'intelletto si ridusse tutto in senso. Vedere la madre che presentava i due figliuoli che chiamavano il padre; il padre che si avvicinava per abbracciarli; noi che lo pragavamo a lasciare compiere tale generoso desiderio del padre, della madre e dei figliuoli. 
Egli pure senza rispondere, di niuna cosa si strinse a pietà, niun priego lo mosse a compassione; tanto che fece tirare, fuori dalla prefettura la madre coi figliuoli, ed il padre ritornare al suo destino. Chi avrebbe sostenuto a tanto terribile spettacolo? qual cosa ci avrebbe contenuto dal più crudele sdegno, e contro al custode, e contro a quello che aveva l'ufficio della porta, e contro all'altra gente che pure si oppose? 
Non voglio dirlo: bene si può immaginare. 
Questo fatto sebbene mi tenne buon tempo in gravissimo dolore, pure mi persuase a sopperire con più pazienza le mie pene; ché vidi quanto erano meno dure poste presso a quelle di un povero padre di famiglia. Ma in quello che mi volgeva in mezzo tante pene sempre con più devota e santa rassegnazione, in quello finalmente che il mio destino crudele aveva quasi mutato in soggiorno ameno, veniva alla fine in un dì tanto felice da mettere innanzi a tutti gli altri di mia vita. 
Era il giorno dieci settembre; e proprio in sulle ore sedici del mattino sentiva una voce nelle mie orecchie, che significa continuamente la natura, gridano tutti i popoli, e predicò il Cristo, quando l'uman genere era caduto nel più terribile servaggio. Era la voce di libertà: parola per quanto cara all'uomo, altrettanto difficile a questi tempi, che si vuole la vera composizione della civil società in quella via che mena agli estremi. Ma pure si dovrebbero avvedere che ogni associazione civile, la migliore che sia, può dare il massimo di bene, scompagnato da tutti i mali possibili.
Ora toccando gli estremi, o si avrebbe il massimo dei beni, o il massimo dei mali: ma il massimo dei beni in questo mondo è contro natura, è contro ragione, è insomma contro tutte le leggi che regolano l'ordine cosmico. Però seguiterebbe senza più il massimo dei mali, il quale dura per poco, e poca ridurrebbe ogni cosa a distruzione. Vedo però che il campo che mi si è aperto è troppo largo, troppo mette il piede innanzi alle mie forze, al mio proponimento, e che è più, alle discussioni che debbono esser fra noi in questi tempi così miseri; onde lascio di ragionare di queste cose. 
Ma ora tornerò un’altra volta a parlare delle sventure di mia prigione? oppure prenderò a dire di altri malanni che già vedo apparecchiati, entro i quali dovrò volgermi continuamente! No. Il mio animo nol consente. Solo dirò che se la fortuna continuerà aspramente a travagliarmi, finché mi basta la vita, mi basta ancora l'animo di affrontare tutto con pazienza e costanza grandissima. 

Frédéric Bastiat

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Cenni biografici

Baldassarre Labanca e la cultura del suo tempo

La mia prigione

Le opere

Bibliografia fondamentale

 

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