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Baldassarre Labanca e la cultura del suo tempo.

(di Francesco Mazziotta)

Filosofo prima, iniziatore degli studi storico-religiosi in Italia poi, Baldassarre Labanca non solo ha dato il suo apporto all'indagine speculativa, ma ha anche contribuito, con pochi altri, a spezzare pregiudizi, difficoltà e ostacoli che da ogni parte venivano a intralciare l'opera di chiunque avesse inteso, da un punto di vista critico, occuparsi di questo tipo di studi. 
Data la vastità degli interessi filosofici e delle relative opere dell'intellettuale agnonese, conviene presentarne alcuni aspetti essenziali sottolineando le relazioni e le mediazioni storico-culturali. E’ significativo il riferimento alla polemica filosofica tra Labanca e Giovanni Gentile, che ha dato modo ai più di conoscere, sebbene sinteticamente e criticamente, il pensiero del primo. Il Gentile ha messo in discussione la validità della riflessione del Labanca e non ha favorito lo sviluppo di un’indagine storiografica più attenta e articolata sull'intera sua produzione. 
Tuttavia non mancheranno studiosi che sfuggiranno a certe tendenze riduttive, utilizzando metodologie funzionari al recupero di quei filoni di pensiero a lungo rimasti nell'ombra . Sulla base di questi lineamenti introduttivi conviene passare a una rapida esposizione della filosofia del Labanca. 
L'opera, in quattro libri, Della Dialettica, nasce con l'intento di conciliare universalmente le varie filosofie e di ricomporre in unità le apparenti contraddizioni ideali e reali: la scienza dialettica appare al Labanca come fondatrice dell'armonia e della riconciliazione universale . E dal momento che in Europa si erano affermate due filosofie, lo speculativismo e il positivismo, che, a suo giudizio, costituivano una ricapitolazione del pensiero filosofico, occorreva trovare un adeguato strumento dialettico in grado di superare le opposte unilateralità di entrambi gli indirizzi e di giungere a una sintesi conciliativa e armonica. Quindi rimane attratto dalla novità della logica hegeliana, la cui struttura portante è costituita dalle opposizioni, che si nascondono dovunque nei diversi ambiti della realtà 4 e che attendono di essere conciliate. D'altro canto, la contraddizione hegeliana non lo convince: infatti elementi tra loro contraddittori, che si escludono l'un l'altro, non possono dare luogo a una sintesi. Questa deve fondarsi su opposti contrari, non contraddittori. Così si rende necessario il ritorno alla logica tradizionale di derivazione aristotelica, abbandonata da Hegel. E in quest'ottica si giustifica il recupero del realismo filosofico, che impedisce il prevalere dell'idea sull'essere, e si spiega la simpatia per Kant, che propone una sintesi fra idealismo e realismo, senza sacrificare i fenomeni sensibili alle condizioni ideali dello spirito, fondamento della conoscenza delle cose reali; in tal modo, a differenza di Hegel, recupera dovutamente l'esperienza nella sua dimensione sensibile, fenomenica e reale . 
Pertanto, nella stessa sfera conoscitiva, Labanca propone una mediazione dialettica tra il momento soggettivo e quello oggettivo. L'interazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto esclude sia una soluzione aprioristica di stampo idealistico-speculativo che una aposterioristica di stampo positivistico. La logica antica richiedeva un'innovazione e la dialettica hegeliana l'ha sicuramente introdotta. Nel portarla alle estreme conseguenze, tuttavia si è screditata. 
Il ricorso ad Aristotele e a Tommaso d'Aquino consentirà a Labanca di riproporre la necessità di un recupero della dialettica dei contrari e di porre in evidenza come sia insostenibile il principio hegeliano della contraddizione. 
Tale concezione che Labanca ha della dialettica lascia perplesso il neoidealista Gentile, che vede «arruffarsi la matassa», perché l'antitesi di cui parla Labanca non avrebbe nulla in comune con l'antitesi di Fichte o con il secondo momento dialettico hegeliano, che è opposizione della tesi: essa rappresenterebbe lo stesso essere (che nella tesi è gravido di potenzialità) analiticamente scomposto nelle sue parti, opposte tra loro. Tuttavia queste nella sintesi trovano la conciliazione. 
In definitiva, la dialettica hegeliana, respinta nelle intenzioni, viene a mescolarsi con la dottrina aristotelica della potenza e dell'atto per dare vita a un tipo di dialettica conciliativa. «inclusiva di tutti i metodi e sistemi esclusivi». 
Un'operazione teoretica di questo tipo non trova spazio nel pensiero filosofico ufficiale dominato dalla supremazia dell'hegelismo, tanto che il Gentile non esita a liquidarlo alla svelta. In fondo, quella del Labanca è una voce isolata e forse il suo pensiero sfuggirà, più tardi, al conformismo neoidealistico imperante, proprio perché estraneo a una precisa classificazione. Tale isolamento, che potrebbe costituire un limite, ne segna in realtà alcuni pregi. Infatti le voci non ufficiali come la sua contribuiscono talvolta a fornirci delle cifre storiche segrete, ma significati- ve, spesso vanificate dalle ideologie dominanti. 
Nel quadro della cultura laico-borghese del tempo, in relazione al recupero di tendenze culturali rimaste nell'ombra, s'inscrive anche il rapporto tra Labanca e Benedetto Croce, come risulta dalla corrispondenza epistolare conservata nell'archivio agnonese .
In particolar modo una lettera del 1898 , scritta dal Croce al filosofo agnonese, sembra meglio rimarcare alcuni punti di contatto con la metodologia labanchiana.
In essa si rileva l'interesse suscitato nel Croce dalla lettura del libro di Labanca su Vico: «Di un tema, che sembrerebbe arido, voi siete riuscito a fare una trattazione piena di fatti e di pensieri, che si legge con continuo interesse. Il vostro giudizio poi, in questo come in altri lavori, è vera- mente solido, ed imparziale coi fatti non con le parole». 
E poi passa al problema della filosofia della storia: «Credo che sia difficile di essere in disaccordo con le vostre conclusioni. 
Avete ragione nel combattere la cosiddetta filosofia della storia o storia filosofica a priori, come ne seguita a fare il nostro Mariano. 
Ma perché chiamare poi filosofia della storia la storia concreta? Questa, portata alla sua ultima perfezione scientifica, alla più completa trasparenza, sarà sempre storia, e non filosofia. lo credo che se le parole filosofia della storia debbano conservare ancora un senso, l'avranno in quanto serviranno a designare il gruppo delle questioni metodologiche intorno alla storia. Ma forse anche in questo caso la denominazione sarebbe imprecisa. In realtà, filosofia della storia è denominazione tanto giustificata quanto quella di un libro spagnuolo, che mi è capitato giorni sono tra mano, intitolato: filosofia dei tori!». 
Sembra che il contenuto di questa lettera corrisponda alla fase, nella vita di Benedetto Croce, caratterizzata dalla passione per la ricerca erudita, per il particolare concreto, passione che aveva la sua matrice teorica in quell'opera del 1893 sulla Storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte, che, «detta, secondo Chabod, le affermazioni sul compito della storia: rappresentare il particolare come tale, cioè narrare» . 
Non poteva che essere d'accordo con Labanca il Croce di quegli anni, che fondava le sue ricerche su una precisa base di erudizione e che, come sostiene nella lettera, predilige il giudizio storico dell'intellettuale molisano, perché «è veramente solido e imparziale, coi fatti non con le parole». 
Non poteva dissentire da Labanca il Croce erudito, che, rifiutando qualsiasi posizione aprioristica e metafisica, accettava il primato dei fatti sulle idee e rifiutava la possibilità di una filosofia della storia. 
Il giovane Croce e Labanca si trovano così accomunati in una visione della storia che si basa su un’analisi spassionata dei fatti e che relativizza l'universale in nome del particolare corposo, la filosofia della storia in nome della storia. In tal senso si giustifica altresì una lettura del Vico, con la quale si tende ad accreditare il giudizio dei acritici indipendenti», inclini a ridimensionare la filosofia della storia. 
Gli interessi culturali del Labanca non sono circoscritti all'ambito filosofico, cui si è fatto riferimento, ma si estendono, come già osservato, al campo storico-religioso. Egli, infatti, vive fino in fondo i problemi e le ansie religiose di un'epoca drammatica della storia della Chiesa, che assiste alla nascita e allo sviluppo di notevoli movimenti di dissenso nel mondo cattolico, culminanti nella crisi modernista all'inizio del XX secolo . 
E’ l'epoca in cui, all'avvicendarsi delle dialettiche tra religione e cultura, Vangelo e dogma, fede e scienza, Chiesa e Stato, clericalismo e laicismo, le coscienze individuali spesso rispondono con ansie, attese e lacerazioni che portano a un pluralismo culturale e religioso .10 Sottolineando questo clima, Michele Ranchetti così scrive: «Negli anni della Rerum Novarum e di Murri, ma anche nell'Italia del primo partito socialista, solo la cultura del clero costituisce oggetto di interesse e soprattutto la disputa fra vecchio e nuovo, fra scolastica e critica e scienza, qui intese, o sembra, ben più nel loro valore alternativo che nella loro autonomia» . 
In questa prospettiva anche Labanca affronta il problema della dialettica tra scienza e religione, giungendo a conclusioni diverse da quelle del filosofo positivista Roberto Ardigò, con il quale avrà, peraltro, un rapporto epistolare . Se Ardigò ritiene che con il progredire della scienza la religione tenderà a scomparire, Labanca, invece, sottolinea che il progresso della prima non potrà mai sostituire la seconda, come si legge ne Il Cristianesimo primitivo: “Per la religione rimarrà sempre un posto, e non ultimo, nel vasto campo della vita individuale e sociale” . 
Lo stesso concetto sarà espresso anche in un'opera più tarda, Il Papato: «La scienza, co' suoi progressi sorprendenti, ridurrà molto l'azione religiosa su gli uomini; che purificherà, inoltre, essa religione di non poche superstizioni; ma che possa cancellarla dal cuore del genere umano, ho i miei dubbi, avvertiti e riveriti da molti scienziati che non si chiudono nel campo della scienza da loro coltivata, ma che spaziano altresì nel vasto campo della storia» . 
Ci vorrà del tempo: dovranno succedersi delle generazioni prima che il Concilio Ecumenico Vaticano II, dopo un cinquantennio dall'emanazione dell'enciclica Pascendi dominici gregis (1907), che condannava il Modernismo, operi una sintesi storicamente costruttiva. 
Già nel 1967 Carlo Bellò poneva in evidenza il «clima di distensione del recente Concilio sul rispetto alla scienza e alla cultura, alla loro libertà, ai loro diritti» .Tuttavia, durante la crisi modernista, nell'ambito della cultura religiosa, non mancavano quei fermenti che più tardi avrebbero contribuito a produrre risultati positivi. 
E’ bene rilevare come la storiografia ufficiale abbia lasciato nell'ombra il Modernismo, privilegiando - almeno fino a qualche tempo fa - le istituzioni o gli studi delle élites intellettuali rispetto ai fermenti e alle manifestazioni popolari che - soprattutto in Italia - assunsero notevole rilievo . 
Il nuovo clima storico in cui esso si inseriva aveva, del resto, i suoi legami con il mutato contesto socio-economico. Ecco come si spiega, a giudizio del Bedeschi, il ritardo nella evoluzione culturale della religiosità italiana rispetto a quella di altri paesi europei in fase già avanzata di sviluppo economico: «In altre parole in Italia la crisi agraria si manifestava più tardi rispetto ad altri paesi per il minor legame della nostra economia con il mercato mondiale e per i retaggi semi-feudali» . E’ questo dunque il momento storico che segna la crisi dei modelli arcaici di una fede religiosa legata al contesto di una società precapitalistica e rurale e il passaggio a una formulazione su basi nuove del discorso religioso. Ciononostante i modernisti non sempre avevano una visione chiara della realtà ecclesiastica. Il loro radicalismo, favorito forse anche dalla repressione cui erano sottoposti, difficilmente si legava alle esigenze espresse dai fedeli, dalla base popolare, anzi spesso si esauriva entro modelli ispirati a visioni un po' individualistiche, quali solo le élites di studiosi potevano concepire. Tale interpretazione trova riscontro nella già citata opera di Carlo Bellò che, ravvisando nel modernismo «una civiltà individuale o elitaria» destinata a morire «entro la propria matrice coscienziale», riscopriva, invece, nel cattolicesimo, accanto alla dimensione dell'intelligenza «quella dell'esistenza solidale e continua: il fatto umano e non l'affresco» . Anche il giudizio di Emile Poulat è omogeneo a tale prospettiva: «il modernismo scientifico... non superò di molto le dimensioni di un movimento di Chierici, di professori, indifferenti ai grandi fatti esteriori, economici o politici, estraneo alle inquietudini e alle ricerche che si manifestavano, intorno a problemi diversi dai suoi, nell'ambito della Chiesa. 
Sprovvisto di ogni base sociale, esso fu senza sbocchi e senza prolungamento fuori di sé. Non si rivolgeva agli indotti che erano la moltitudine e che esso diceva perfino di non voler turbare, ma a 'quelli che sanno'... Il 'tumulto' che provocò fra i teologi non ebbe risonanza nel gregge dei fedeli. E la condanna romana finì per isolarlo, screditandolo e dissociandolo» . 
Del resto, anche prescindendo da questi giudizi, è piuttosto facile notare come all'evoluzione del discorso religioso sul piano scientifico, grazie ai metodi e agli strumenti critici della cultura storicistica e della tradizione laico-borghese, non corrispondesse un'analoga evoluzione sul terreno della prassi. 
Anzi la scissione di quella minoranza del clero che abbandonava il ministero sacerdotale trovando compensazione in una religiosità soggettiva, non già istituzionalizzata, e che inoltre attaccava tradizioni, gerarchie e contenuti dogmatici, finiva con il relegare ancor più i parroci, legati pastoralmente al popolo, in una situazione di inferiorità civile e culturale, non permettendo una effettiva crescita sociale delle masse. Il discorso scientifico sulla religione sembrava articolarsi nel chiuso delle biblioteche e fossilizzarsi nei rigidi formulari teorici partoriti dalla mente di intellettuali. Agli uomini di scienza non sempre interessava la voce del popolo, come al popolo non sempre interessava la voce 'neutrale' degli uomini di scienza. In. definitiva alle storiche spaccature tra gerarchia e basso clero, tra clero e laicato si sostituivano nuove spaccature o dualismi, come quelle tra il clero e gli studiosi, tra questi ultimi e le masse popolari. 
A tale proposito giova ricordare anche l'importanza assunta dalla riscoperta di documenti, di carteggi, di epistolari inediti, a lungo rimasti sepolti negli archivi, che ha portato e continua a portare a un’analisi più articolata e serena della cultura italiana, specie di quella religiosa, del periodo della crisi modernista. 
Nell'arco di tempo compreso tra la seconda metà del XIX secolo e gli inizi del XX, la figura di Labanca, nei suoi connotati caratteristici, contribuirà ad arricchire il quadro complessivo della cultura del suo tempo. In questa prospettiva si colloca l'epistolario agnonese che, pur se non sempre denso di scambi ideologici, raccoglie testimonianze e giudizi di personalità di indiscussa fama sul piano europeo, riguardo al ruolo svolto dagli studi labanchiani in Italia. 
Per esempio, le lettere di Jean Réville, direttore della «Révue de l'Histoire des réligions», rivelano l'entusiasmo per la causa della réligion libérale, le difficoltà gravanti sugli studiosi delle discipline storico-critiche sul cristianesimo, le incertezze e le contraddizioni dei modernisti, il conseguente merito del Labanca che, proprio a Roma, nel cuore del cattolicesimo, riesce a diffondere nuovi fermenti critici, a imprimere nuovi impulsi verso inattese direzioni storiografiche. 
Non a caso Luigi Salvatorelli scrive: «La storia del cristianesimo è parte integrante della storia del mondo, è parte integrante della storia d'Italia e della sua civiltà. Conoscerla e riviverla non è piacevole trastullo di erudizione; è dovere di nazione che nella coscienza e nella conoscenza del passato prepari, sapiente e coraggiosa, il futuro» .
Tale affermazione, non lontana dalla concezione che Labanca aveva della storia del cristianesimo, si dimostrava contraria alla visione dei laicisti, che nel cristianesimo, come in ogni dimensione religiosa, non trovavano apporti positivi al progresso della cultura, per cui erano condotti al rifiuto di ogni tipo di studio religioso. Nel prevalere, infatti, dell'indirizzo laicista, Labanca poteva essere ironicamente considerato da qualche marxista insigne, come Antonio Labriola, alla stregua di «oggetto di religione» . 
Gli studi religiosi italiani, pur caratterizzati da non indifferenti limiti e difficoltà, non meritavano di essere così facilmente liquidati. Quello religioso infatti resta il piano su cui si riflettono i toni e le manifestazioni più varie della cultura e della società civile. Labanca aveva capito l'importanza e la funzione della religione, della storia e dell'etica religiose. E su questa base, rifiutando energicamente le posizioni opposte dei clericali e dei liberali anticlericali, nonché dei socialisti intolleranti, si fa sostenitore di un insegnamento religioso di tipo non confessionale, ma storico ed etico .
A suo giudizio non si doveva consentire che la storia delle religioni e quella del cristianesimo venissero penalizzate sul piano didattico per il rifiuto pregiudiziale opposto dagli ambienti laicisti e dallo stesso cattolicesimo intransigente, che non era pronto a introdurre novità scomode in fatto di religione. Una tale proposta sulla libertà dell'insegnamento religioso sembra anticipare la posizione assunta, in periodo più recente, da alcune forze politiche minoritarie in merito all'ora di religione nella scuola italiana, che dovrebbe maggiormente liberarsi da condizionamenti di tipo confessionale. 
A questo punto, prima di considerare gli studi labanchiani anche nelle loro connessioni con giudizi storiografici non sempre concordi, converrà presentare un breve profilo biografico di questo intellettuale, partendo dalla testimonianza di un suo allievo, Gaetano Di Bernardo: «Lavoratore fenomenale, non sa stare a riposo un’ora, un minuto: sbriga da se stesso la giornaliera e copiosa corrispondenza; risponde e ringrazia dell'invio di moltissimi libri che gli arrivano; legge le più notevoli pubblicazioni italiane ed estere, non scrive meno di un articolo al giorno, d'una monografia al mese, e di due opere all'anno: trova tempo a leggere le migliori riviste e giornali quotidiani che vanno per la maggiore e fa il suo corso regolare di Storia del Cristianesimo all'Ateneo romano» .
Questi tratti distintivi della personalità del Labanca sembrano trovare conferma nell'immagine suggestiva dei professore di storia delle religioni, tratteggiata, con amara ironia, da Luigi Pirandello, in una sua novella, L'eresia catara .
Sì, esistono delle buone ragioni per sostenere l'identità fra il personaggio pirandelliano, quel famoso Bemardino Lamis, professore di storia delle religioni nell'Ateneo romano, e il personaggio storico di Baldassarre Labanca. 
A parte le iniziali - B. L. - compresenti sia nel primo che nel secondo nome, vi è una precisa corrispondenza cronologica, concernente il periodo in cui Labanca insegnava a Roma Storia delle Religioni e Pirandello era studente nella stessa università. Ma non è tutto qui. L’identità fra il personaggio storico e quello della novella viene ancor più evidenziata nel momento in cui Pirandello si ferma a dipingere la figura del Lamis, con contorni somatici simmetricamente corrispondenti a quelli del Labanca, quale appare non solo dalle varie descrizioni biografiche, ma dagli stessi ritratti dello studioso agnonese. 
Baldassarre Labanca era nato ad Agnone il 17 agosto 1829 da una famiglia di media estrazione sociale . I genitori, «devoti cattolici, senza ipocrisia», erano molto stimati nel paese: il padre, Vincenzo, gestiva un «negozio di generi diversi», la madre «austera e insieme prudentemente assennata» assumeva un ruolo importante nella crescita e nella formazione di una famiglia numerosa: nove figli, di cui cinque maschi e quattro femmine. 
Con la morte del padre (1843), il fratello maggiore, Paolo, dovette sobbarcarsi il peso della gestione del negozio; un altro fratello era entrato nell'ordine francescano; Antonino e Baldassarre, ancora ragazzi, uscivano dal seminario di Trivento, dove erano stati inviati dal padre un anno prima. Costantino era l'ultimo dei fratelli. Baldassarre, avviato al sacerdozio, veniva mandato a Napoli dal fratello maggiore per continuare gli studi e insieme sbrigare gli affari del negozio. Qui viene guidato nello studio da due sacerdoti. F. A. Marinelli lo aiuta ad acquisire la padronanza della lingua italiana. Un suo libro giovanile (Lezioni di filosofia, 1861) destinato all'uso dell'insegnamento liceale, veniva apprezzato dal Tommaseo proprio per l'accuratezza di linguaggio non facilmente riscontrabile nei libri di filosofia. L'insegnamento linguistico napoletano dunque giova allo studente. Sempre nella capitale del Regno frequenta la scuola estetico-letteraria di Lamanna e, solo per pochi mesi, quella di De Sanctis, che si chiuderà all'inizio della rivoluzione del 1848. La Napoli ancora borbonica, ma nelle profonde configurazioni culturali caratterizzata da elementi liberali a tendenza moderata o democratico-rivoluzionaria, fu contesto ricco di stimoli e fermenti che non poco alimentarono gli interessi intellettuali e le passioni politiche segrete del giovane venuto dalla provincia. Il periodo napoletano rappresentò dunque per Labanca il momento dell'apertura ad altri orizzonti culturali. L'insegnamento di maestri quali il Margaris, il Cucca, il Palmieri, il Melillo, il Toscano, il Cioffi, avrà senza dubbio un'importanza determinante nella formazione culturale del futuro storico del cristianesimo . 
Ma l'atmosfera di Napoli fu per lui molto più inquieta di quanto potrebbe apparire, se non si considera solo il suo itinerario intellettuale: si trovò coinvolto nella reazione borbonico del 1848. Avendo preso parte a una dimostrazione, venne accusato dalla polizia di aver partecipato alle barricate. Dalla prigione, in cui fu rinchiuso per un mese e mezzo, non poté essere liberato senza l'obbligo di lasciare Napoli; ma il giovane, per impegni familiari, vi rimase sotto falso nome. Le ragioni che lo indussero a rimanere non riuscirono a convincere la polizia borbonica: riconosciuto e arrestato, per la seconda volta, si ritrovò in carcere, da dove non sarebbe uscito tanto presto se non fossero intervenuti Vincenzo Labanca e il grecista E. De Ruggiero di Castel Di Sangro. 
Dopo aver impartito le prime lezioni private di filosofia tornò ad Agnone. 
L'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1853, non impedì allo studioso di continuare l'insegnamento filosofico . 
Nel 1861 dal Governo italiano ricevette l'incarico dell'insegnamento di filosofia nel liceo di Chieti, dove rimase per sette anni . Da qui passerà a Bari e poi al Parini di Milano. 
Il soggiorno milanese gli permise di portare a termine, usufruendo dei libri delle biblioteche, la sua opera filosofica più importante, Della dialettica libri quattro e, contemporaneamente, di avere l'incarico dell'insegnamento di filosofia morale dall'Accademia Scientifica. Inoltre Milano fu per Labanca anche il luogo dove non mancarono esperienze e incontri significativi, come quello con Alessandro Manzoni . Ma, per l'intervento di R. Bonghi , ministro della pubblica istruzione, fu costretto ad abbandonare la città lombarda per tornare a Napoli, questa volta in veste di insegnante nel Liceo 'Genovesi' prima, nel 'Vittorio Emanuele' poi, dove era preside il suo compaesano I. Amicarelli. 
Nel 1879 vinse il concorso per titoli relativo all'insegnamento di filosofia morale all'Università di Padova ; per motivi di salute, dopo tre anni, si trasferì a Pisa e da qui passò, nel 1886, all'Università di Roma, dove tenne la cattedra di Storia delle Religioni, che l'anno successivo assunse il titolo definitivo di Storia del Cristianesimo. 
Non sempre le ottiche storiografiche da cui si osserva la cultura religiosa italiana nel periodo in cui Labanca visse e operò si rivelano del tutto concordi. La tendenza prevalente della storiografia sottolinea la povertà culturale della Penisola rispetto alla situazione europea. Pertanto le posizioni di L. Salvatorelli o di B. Croce, quelle dei modernisti S. Minocchi ed E. Buonaiuti o dello stesso Labanca sostanzialmente concordano su questo punto. 
Salvatorelli rileva che in Italia «non si formò una nuova corrente di studi, ampia e continua nel campo della scienza delle religioni» e che «assai peggio stavamo per gli studi biblici e di storia del cristianesimo» . 
Croce scriverà: «Dove veramente si sarebbe potuto notare in Italia una decadenza rispetto all'età precedente era nel vigore e nella larghezza di pensiero» . Ed E. Garin esprimerà sostanzialmente lo stesso giudizio , facendo anche notare le ragioni storiche e sociali di un'inadeguata coscienza culturale nell'Italia dopo l’unità, con «i suoi squilibri e la sua arretratezza» . Labanca, in una delle sue opere maggiori, Il Cristianesimo primitivo, noterà il disagio circa gli studi religiosi: «Le indagini storiche, al presente, si fanno nel nostro Paese, e, per dire il vero, con accuratezza; ma non già per la religione cristiana. Il che tanto più posso affermare con sicurtà, senza che altri abbia ragioni per contradirmi a considerare quello che avviene degli studi religiosi, in ispecie cristiani, nei principali paesi civili d'Europa. Noi siamo, a parlar chiaro, estranei quasi del tutto al movimento storico-critico delle religioni. In un terreno religioso, com’è il nostro, o in nessun modo preparato, o preparato in modo contrario, può il mio libro (che si propone intorno al cristianesimo primitivo uno studio critico e non dogmatico; studio critico-storico, e non filosofico) venire o non curato o vilipeso» . 
D'altronde sarà ancora il Salvatorelli a sottolineare i meriti dello studioso: «Un lato dell'attività del Labanca va ancora posto nel giusto rilievo, giacché esso integra la sua figura di scienziato italiano, e ne accresce le benemerenze rispetto agli studi religiosi italiani: intendo dire dell’attenzione da lui costantemente rivolta allo stato degli studi religiosi in Italia e della propaganda per il loro incremento e la loro introduzione nelle Università» . 
Numerose lettere del citato epistolario, nel mettere in rilievo la ricerca scientifica del Labanca, tendono a svalutare il contesto complessivo della storiografia e delle scienze religiose italiane della seconda metà del secolo scorso. Tuttavia Carlo Bellò considera un po' artificiosa tale prospettiva storiografica che fa emergere il modernismo «dalla opacità di una condizione culturale... su cui devono essere dati giudizi più approfonditi» . Al di là di queste interpretazioni cui si è fatto cenno, al fine di meglio cogliere gli aspetti salienti dell'attività dell'intellettuale agnonese e le sue fondamentali linee di pensiero, non sarà superfluo risalire un po' indietro nel tempo, più precisamente all'epoca in cui Labanca cominciava a confrontarsi culturalmente e politicamente con il mondo laico, subendo quegli influssi che poi segneranno una svolta nella sua vita di uomo e di studioso. Già nel periodo immediatamente successivo alla caduta del potere temporale dei Papi, la Penisola era investita da un'ondata di anticlericalismo. Larghi settori della vita politica e culturale erano impregnati di spirito laico che molto concedeva alla polemica antireligiosa. La scienza aveva assunto una funzione totalizzante, onnicomprensiva: non esisteva problema che non avesse potuto affrontare e risolvere. 
Gabriele De Rosa mette in evidenza l'affermarsi del mito scientista nell'epoca postunitaria, come espressione tipica di «una minoranza qualificata che aveva molte volte in mano le leve del potere politico ed economico e capacità di influenzare la pubblica opinione» . 
In questo clima di disinteresse per le cose religiose, in cui si inscrive la legge Correnti (1872) sulla soppressione delle facoltà di teologia , nelle quali già si registrava una carenza di studenti, «la scienza della religione» nota Salvatore Minocchi «era avversata dalla Chiesa e trascurata dallo Stato, per naturale antipatia clericale ed anticlericale» .
Nonostante le disposizioni restrittive, due cattedre di discipline religiose riuscivano a sopravvivere: la cattedra di Storia delle Religioni a Roma e quella di Storia della Chiesa a Napoli. La prima sarebbe toccata a Labanca, che successivamente la trasformerà in cattedra di Storia del Cristianesimo, la seconda a Mariano . Emesto Buonaiuti, sottolineando come l'ascesa universitaria del Labanca fosse dovuta in parte alla sua condizione di ex prete in un'epoca di facile e superficiale anticlericalismo, così scrive: «Non aveva lasciato una scuola. Non aveva lasciato una produzione scientifica, su cui fosse consentito come su un solco fecondo continuare l'opera di un valido proselitismo critico-religioso fra noi. Si può dire che gli studi religiosi erano in Italia ancora da nascere» . 
Tuttavia il Salvatorelli, al contrario del Buonaiuti, riconosce la funzione e l'importanza dell'opera labanchiana, se non altro perché questa costituiva il primo tentativo di «ricostruzione critica complessiva del Cristianesimo primitivo, fatta secondo l'indirizzo e tenendo conto dei risultati del lavoro del Secolo XIX» . 
Alla base della sua attività scientifica vi era cioè l'esigenza di assimilazione da parte della cultura italiana di quell'insieme di metodi, ricerche e contenuti espressi in altri paesi europei. Che questa esigenza poi fosse accompagnata da un atteggiamento di dipendenza nei confronti della scienza straniera era certamente discutibile, ma forse anche, tenuto conto della fase particolare della ricerca storico-religiosa in Italia, comprensibile. Per esempio, come osserva ancora il Salvatorelli, la concezione moralistica e idealistica di Gesù sostenuta dal Labanca risentiva dell'influsso primitivo della scienza protestante. «Ma per la scienza protestante l'Italia doveva pur passare, ed in questo l'opera del Labanca era di somma importanza» . Occorreva comunque superare questo stadio di dipendenza straniera, occorreva che la cultura italiana acquistasse una propria autonomia. 
Il contributo del Labanca al progresso degli studi storico-religiosi è stato, come si è detto, molto apprezzato da non pochi studiosi e ridimensionato da altri. Pare che il graduale spostamento dei campi di interesse dello studioso agnonese da quello speculativo a quello storico-critico della religione sia frutto, almeno in una certa misura, della sua passione per la ricerca su un terreno ancora poco noto in Italia. 
Sul piano dell'indagine storica il Labanca si faceva altresì sostenitore di un canone interpretativo di impronta nazionalistica. 
La tendenza a spogliare i Vangeli di ogni contenuto soprannaturale e dogmatico, privilegiando la dimensione morale della figura del Cristo, la scissione netta operata dalla teologia liberale fra nucleo evangelico e dogma, la volontà di sostenere la naturalità del cristianesimo contro ogni posizione teologica di derivazione cattolica, l'affermazione che il cristianesimo vive e vivrà non per i dogmi ma per la moralità religiosa - che tuttavia presenta qualcosa di diverso dalla semplice morale umana - sono i motivi che ritornano spesso nelle sue pagine e che fanno del Labanca non tanto uno storico imparziale, come egli ritiene di essere, quanto piuttosto uno studioso vicino al razionalismo teologico della scuola liberale di Harnack. 
Nel primo capitolo de Il Cristianesimo primitivo (1886), che costituisce la prima parte di una delle opere più importanti, Della religione e della filosofia cristiana, egli sostiene il valore del metodo storico a posteriori e rigetta il metodo a superiori dei sopra-razionalisti o dei teologi, come il metodo a priori dei nazionalisti, i quali si sforzano «di scorgere nei fatti cristiani tante necessarie idee, aventi per causa interiore la ragione» , o tendono ad interpretare la religione cristiana secondo i loro criteri di religione razionale. 
Privilegia un tipo di indagine storica il cui centro è costituito dall'esame dei fatti oggettivi, inoppugnabili e prioritari rispetto all'interpretazione dello storico. Però così facendo finisce per adottare un'ottica storiografica un po' riduttiva. Forse fu il prezzo che lo studioso fu costretto a pagare all'imperante positivismo di fine secolo. Infatti gli stessi studi storico-critici sulla religione presero un certo taglio, che in qualche misura era il corrispettivo della mentalità scientista dominante. 
E’ facile dunque al Labanca celebrare il mito dell'impersonale: «Nell'impersonale possono stare molti, intendersi ed anche convenire. L'impersonale, nel nostro caso è la storia obbiettiva dei fatti bene assodati, storia in cui la persona, con tutti i suoi sentimenti, rimane come fuori di scena. lo, dunque, metterò da banda l’altrui ed il mio sentimento... In fatto di religione, s'è dato, pur troppo, scandalo d'intolleranza» .
Quindi si sofferma a criticare lo stesso F. Baur, iniziatore della scuola storica di Tubinga. Dopo aver messo in rilievo l'importanza della critica storica bauriana «per lo scrupoloso riscontro dei luoghi biblici, e per la ricerca delle varie cause che cooperarono alla apparizione del cristianesimo», ne mostra poi il limite: essa diventerebbe - scrive - «in una causa, nell'ambiente fisico, pur fatto storico tanto importante, che senza di esso il critico procedere di lui diventa incompiuto ... » . 
Quindi Labanca passa allo studio del cosiddetto ambiente metafisico del cristianesimo, cioè della religione e della filosofia del tempo, dell'evoluzione della religione israelitica e del giudaismo e, successivamente, alla ricerca dei nessi fra essenismo e cristianesimo. Fa altresì un'esposizione piuttosto particolareggiata delle idee di Filone, del platonismo e dello stoicismo. 
Si sofferma anche a considerare il processo storico del cristianesimo. Nel discorso prende rilievo la figura di Gesù come di una personalità eccezionale, in cui si realizza la pienezza della vita morale e in cui si attua «il regno divino del Santo e del Giusto» . Fu ad opera di Gesù che «la religione giudaica ebbe una salutare e feconda trasformazione. Da religione in massima parte legale si trasformò in religione del tutto morale. Da religione in massima parte esteriore si trasformò in religione interiore, da religione in massima parte nazionale si apparecchiò a divenire universale e internazionale» . 
Il regno di Dio prospettato da Gesù è il regno morale, in cui domina- no il pentimento, il perdono e l'amore. Gesù dunque - sostiene ancora Labanca, prendendo qualche distanza dalle posizioni del Rénan - non è soltanto, come appunto dice l'autore della Vita di Gesù, «la più alta coscienza di Dio» ; è colui che sente Dio non solo come padre di tutti gli uomini, ma in modo particolare ed eccezionale come padre suo. Il Salvatorelli non mancherà di fare le sue osservazioni critiche all'impianto metodologico del Labanca, sul Cristianesimo primitivo, ma riconoscerà che, malgrado queste, l'importanza dell'opera rimane. 
Fra gli altri scritti labanchiani vanno ricordati: Gesù di Nazareth e Gesù Cristo nella letteratura contemporanea straniera e italiana . In quest'ultimo si propone di esporre e di esaminare sinteticamente le pubblicazioni contemporanee straniere e italiane intorno a Gesù Cristo, e in modo particolare quelle venute in luce dopo le due biografie dello Strauss e del Rénan, apparsa la prima nel 1836 e la seconda nel 1863. A questi si aggiunge un’altra importante opera storico-scientifica già menzionata, Il Papato, sua origine, sue lotte e vicende, suo avvenire. 
Meritano ancora di essere sottolineati i suoi contributi scientifici nella formulazione e introduzione del metodo comparativo nell'ambito della storia delle religioni. I Prolegomeni alla storia comparativa delle religioni , pur nella loro brevità, costituiscono infatti uno schema introduttivo a tale ordine di studi. Nello scritto vi è la definizione della religione, la descrizione dei rapporti fra storia delle religioni e storia comparata, nonché la classificazione delle varie forme di religione. Gli altri numerosi scritti, compresi quelli a carattere divulgativo, testimoniano l'instancabile operosità e la sua costante attenzione ai molteplici aspetti dell'esperienza umana e religiosa . 
Certo, le prospettive che si presentano di fronte al cristiano di oggi non sempre sono rispondenti alle esigenze di uno schema teologico di tipo liberale, quale poteva essere. tracciato in epoca modernista o pre-modernista. Difficilmente oggi si potrebbe ignorare la lezione di un don Mazzolari o di un don Milani, per non citare che alcune delle personalità significative del cattolicesimo contemporaneo, che, nella loro intransigente fedeltà alla Chiesa - forse non troppo modernista e liberale - sono riuscite profeticamente a riproporre il Vangelo in termini accessibili all'uomo moderno. Tuttavia non andranno dimenticati gli apporti che potrebbero provenire da una «rilettura determinata e puntuale di temi e figure del modernismo cattolico, inteso come momento storico-religioso-culturale in cui il problema mondo moderno si è dispiegato con particolare drammaticità per la coscienza cattolica» . 
In questa prospettiva, pur entro i limiti che si è cercato di tener presenti, può essere ricordata la figura del Labanca: con lui infatti, come si è visto, si apre la pagina degli studi storico-religiosi italiani, punto di partenza per un più maturo sviluppo della cultura religiosa. In conclusione Baldassarre Labanca è l'uomo che si è mosso tra l'ideologia e l'utopia. E’ stato l'uomo del passato e dell'ideologia quando, per esempio, ha sperato, in occasione della guerra italo-turca (1911) nella pace basata sulla vittoria delle armi italiane, ignorando i diritti degli altri popoli e razze. E’ stato l'uomo dell'utopia, quando ha lottato e sperato nell'affermazione della tolleranza, nella solidarietà religiosa universale e in un avvenire nuovo per la Chiesa. La figura di questo intellettuale atipico, che progressivamente si è distaccato dal mondo contadino-artigianale di provenienza, per inserirsi in quello degli intellettuali; che ha abbandonato l'abito talare e il cattolicesimo per votarsi alla causa della religione liberale; che è passato dalle barricate della rivoluzione del '48 a Napoli a un atteggiamento fondamentalmente moderato o addirittura reazionario, può forse assurgere a simbolo di un dramma storico, che ha le sue radici nella cultura ottocentesca. Una cultura che oscilla fra tradizione e progresso, fra reazione e rivoluzione, fra fuga nel passato e attesa di un futuro inedito. 

Frédéric Bastiat

Baldassarre Labanca
Bruno Leoni
Nicola Matteucci
Giovanni Sartori
Interviste su Karl Popper
I Levellers della rivoluzione Inglese

Cenni biografici

Baldassarre Labanca e la cultura del suo tempo

La mia prigione

Le opere

Bibliografia fondamentale

 

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