Sulla Libertà
Nicola Matteucci
[tratto dal libro "Società Libera"]
La mia lezione verte sulla libertà o meglio - come vedremo - sulle libertà. E' un tema - questo - che non si può svolgere su un piano meramente descrittivo, perché entrano subito in gioco i propri valori. Piuttosto che sottintenderli preferisco dichiararli sin dall'inizio: mi muovo nell'alveo della tradizione della filosofia politica liberale.
Prima di entrare nella particolare argomentazione che intendo svolgere, è necessaria una breve premessa. Nella letteratura è detta e ripetuta la distinzione, che a volte diventa una vera e propria contrapposizione, fra la "libertà da" e la "libertà di". Secondo la prima versione, detta anche "libertà negativa", essa consiste nell'assenza di impedimenti all'azione dell'individuo; la seconda versione, detta per contrapposto "libertà positiva", coglie, invece, l'azione del soggetto. Questa distinzione è assolutamente incomprensibile se non la storicizziamo: essa trova la sua classica formulazione nel saggio di Benjamin Constant
Della libertà degli antichi comparata a quella dei moderni. Benjamin Constant mostrava come i moderni godessero di una sfera di autonomia individuale nella quale lo stato non poteva intervenire: era una libertà privata. I greci, invece, concepivano soltanto la "libertà pubblica", cioè la partecipazione diretta alla decisioni della comunità, cioè della
polis. In questa distinzione c'era tendenzialmente la contrapposizione fra liberalismo e democrazia, anche se il Constant poneva chiaramente nella libertà politica - cioè nella partecipazione - la vera, ultima garanzia della "libertà da".
Quella classica distinzione rischia oggi di essere fuorviante, perché i termini del problema sono mutati. La parola eguaglianza, oggi, non indica più soltanto eguaglianza di fronte alla legge o eguali diritti di partecipazione politica. Il termine eguaglianza coinvolge sempre più il problema della giustizia sociale, per cui chi vuole contrapporre le due libertà parla di "libertà formale" del liberalismo e di "libertà sostanziali" del socialismo. Nel contempo le funzioni dello stato si sono trasformate anche per il liberale: lo stato diventa attivo nella produzione di servizi e di beni essenziali alla comunità. Inoltre realizzare la libertà dal bisogno e dalla paura, secondo la famosa formula
rooseveltiana, implica l'intervento dello stato e non già di una sua astensione.
La radicale contrapposizione fra "libertà formali" e "libertà sostanziali" ha dimostrato - alla prova dei fatti - il suo fallimento: si sono abolite le "libertà formali" e non si sono realizzate le "libertà sostanziali": l'illusione fatale del socialismo ha segnato soltanto la strada della servitù (parafraso il titolo di due fondamentali volumi di Friedrich von
Hayek).
Il problema del rapporto fra la "libertà da" e la "libertà di" è stato reimpostato in tempi assai più recenti da Isaiah
Berlin, il quale giustamente mostra come le due libertà non sono altro che due aspetti della stessa medaglia. Il primato però spetta alla "libertà da", perché senza di essa non è possibile alcuna "libertà di": basti pensare alla condizione dello schiavo. Però nelle moderne società, dove è dominante il problema della giustizia sociale, più empiricamente verificarsi - se esasperato - il conflitto fra queste due libertà, quando la sfera dell'autonomia dell'individuo venga ristretta per esigenze della società. Sulla stessa linea si muove anche Amarya K. Sen, che ritiene la libertà negativa alla base della libertà positiva. Ma non guarda all'intervento dello stato in modo così negativo, come faceva Benjamin
Constant. Lo stato è sempre un produttore di beni essenziali, di beni di base, che sono necessari sia per la libertà negativa, sia per la libertà positiva. Si va da un minimo, rappresentato dallo stato-gendarme, che dà efficacia al sistema giudiziario, al massimo dello stato redistributore del reddito, che assicura le condizioni per cui ciascun individuo possa usufruire delle sue libertà. Se filosoficamente non c'è un contrasto, sul piano politico i conflitti sono possibile, ma sempre compatibili,n appunto perché non c'è un'assoluta eterogeneità fra le due libertà.
Per concludere questa rapida ricognizione dell'attuale dibattito, occorre tornare indietro per chiarire cosa mai sia questa sfera privata, questa sfera di liceità, nella quale l'individuo ha diritto di muoversi liberamente, e come essa possa coesistere con la libertà degli altri. La soluzione di Immanuel Kant - oggi troppo dimenticata - rimane classica, ed è stata ripresa pari pari dal maggior pensatore liberale dei nostri tempi, Friedrich con
Hayek. Afferma il Kant nell'Introduzione alla dottrina del diritto: "... agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa accordarsi con la libertà di ogni altro secondo una legge universale", una legge universale - ovviamente - di libertà e di eguaglianza.
Vorrei partire da un'altra distinzione, quella fra la libertà naturale (o edonistica, o utilitaristica) e la libertà etica, una distinzione che oggi si è totalmente smarrita. A suggerirmi la necessità di riprendere questo tema sono molte pagine della
Democrazia in America di Alexis de Tocqueville. Nella seconda parte dell'opera, quella pubblicata nel 1840, Tocqueville - "profeta dell'età di massa", come è stato acutamente definito - intuisce il processo di secolarizzazione che sta investendo i paesi democratici: per lui lentamente si affermerà un materialismo onesto, un sentimento tranquillo, che è però una pericolosa malattia dello spirito umano. Questo materialismo onesto consiste nel desiderio esclusivo dei godimenti materiali, del mero benessere. E' una pericolosa malattia, perché rinchiude l'individuo in se stesso e nelle ristretta cerchia della famiglia e degli amici, ma lo separa dalla società e da Dio, lo porta ad avere un culto per il presente e a ignorare completamente il futuro. Questo materialismo onesto è una vera minaccia per la libertà politica, perché spinge l'individuo ad accettare un "dispotismo paterno" che gli assicuri la tranquillità della sua vita privata: insomma uccide la pratica e la passione per la libertà. Contro le pericolose conseguenze della secolarizzazione possono lottare - per Tocqueville - solo la libertà etica, che dà sostanza alla libertà politica, e la religione, che ricorda all'uomo fini ultraterreni.
Innanzitutto è opportuno considerare la libertà naturale, cioè la concezione naturalistica della libertà: l'uomo è veramente libero solo quando può fare tutto ciò che gli piace. E' una concezione naturalistica nella misura in cui l'azione umana segue o ubbidisce soltanto ai propri istinti, appetiti e bisogni occasionali; ma, per avere la possibilità di soddisfare i propri desideri, e quindi di essere libero, l'uomo non deve trovare ostacoli e, se li trova, deve avere la forza (o il potere) di travolgerli, anche subordinando gli altri uomini. E' una libertà che presuppone, dunque, la
diseguaglianza. Dato che la libertà coincide con il potere, chi ha più potere è maggiormente libero: non paradossalmente l'uomo veramente libero è il despota.
Questa libertà ci è stata descritta da Hobbes, quando puntualizzava la condizione dell'uomo nello stato di natura (salvo poi reintrodurre l'eguaglianza in funzione del contrasto sociale) o da
Freud, quando vedeva nel principio del piacere l'istinto costitutivo della natura umana. Tuttavia contrattualisti e psicoanalisti sono concordi nel mettere in luce la sproporzione esistente fra i bisogni o gli istinti dell'uomo, da un lato, e, dall'altro, i mezzi e le risorse per soddisfarli, che sono di fatto scarsi e limitati. Nasce così - necessariamente - la politica come potere di decisione sulla distribuzione di questi mezzi e di queste risorse: l'uomo non potendo avere tutto, almeno ha qualcosa, piegandosi all'autorità o, meglio, al principio di realtà. In altri termini, in ogni gruppo sociale che abbia un minimo di organizzazione, la libertà degli individui di fare ciò che a loro piace più o meno ristretta, in base all'opinione che la società ha sulla novità sociale di questa o di quella libertà naturale.
Vi è, infine, l'altra definizione della libertà: la libertà etica. Essa sottolinea l'autonomia o l'autodeterminazione dell'individuo che non vuole essere
etero-diretto. In modo diversi, essa si differenzia dalla prima. Infatti, da un lato, sottolinea coma la vera libertà non consista nella spontaneità naturale, ma nell'emancipazione etica dell'uomo; dall'altro lato, però, ritiene che non vi sia un criterio oggettivo e necessario per stabilire quale sia il bene e il male, e
tantomeno, un potere (la chiesa, lo stato, la classe, il partito, la scienza) che di esso sia l'esclusivo interprete. E' bene sottolinearlo: questa è una libertà etica e quindi si riferisce al mondo dei valori ultimi. La massima espressione di questa libertà è la libertà religiosa che - come ci ha insegnato Croce - è la madre di tutte le libertà.
Dobbiamo ora ritornare alla definizione della "libertà da", che va ancora chiarita come assenza di impedimenti e di costrizioni, in modo che l'individuo possa agire in vista di fini propri e non in vista di fini altrui, possa decidere e non essere deciso.
La libertà è sempre una possibilità: per essere liberi, devono verificarsi due precise condizioni. Da un lato è necessario massimizzare le oggettive possibilità di scelta in un contesto sociale che garantisca un reale pluralismo per realizzare le diverse vocazioni. Non è certamente molto libero chi è costretto a scegliere fra accettare o respingere, fra la presenza o l'assenza. Tanto è più libera una società, tanto minore è lo scarto fra le vocazioni e le professioni. Questa è una libertà che dipende soltanto dall'evoluzione economico-sociale e non già dall'intervento dello stato. Dall'altro lato, invece, è necessario minimizzare i condizionamenti esterni e interni; ci sono anche coercizioni occulte sui motivi o sui moventi dell'azione. E' necessario tener presente come non solo i normali processi di socializzazione (dall'educazione ai mass-media), ma anche la psicologia e la biologia - utilizzate sul piano strumentale dal potere politico - possono condizionare la scelta dell'individuo. Oggi il pericolo maggiore è dato dai mezzi di comunicazione di massa, i quali possono portare a un pericoloso conformismo, ad un'eguaglianza delle anime: bisogna cominciare a rivendicare non tanto un
habeas corpus, ma un habeas mantem. Per coloro che sono esclusivamente interessati alla libertà politica ("la libertà di") l'assenza di impedimenti e di costrizioni implica l'esistenza di un vero spazio pubblico, di una rappresentanza, cioè di un ordine politico, in cui sia possibile agli individui esprimere i propri valori politici.
Ma la "libertà da" - lo ripeto - è soltanto una situazione di possibilità perché spetta sempre all'individuo decidere e scegliere liberamente. In altre parole la libertà non si riduce a uno
status politicamente e socialmente garantito; è solo una condizione o un prerequisito per il possibile manifestarsi della libertà dell'individuo che dipende sempre da una sua scelta o, meglio, da una sua azione.
In questo senso, per azione libera, si intende quella che è capace di chiamare all'esistenza ciò che non era, che pone un nuovo inizio, rompendo così quei processi storico-sociali che, per la passiva ripetizione dei fini dell'azione, rischiano di diventare automatici e pietrificati. Resta ancora da stabilire se la sfera, in cui si manifesta questa libertà, sia solo una sfera essenzialmente privata o sociale, o non sia piuttosto la sfera pubblica, per contribuire alla formazione di un libero ordine politico nel quale si esprima la qualità della vita, cioè il proprio essere nel mondo.
Nessun pensatore liberale si oppone alla restrizione, da parte dello stato, della libertà naturale o della sfera di arbitrio di ciascun individuo, ma a due precise condizioni: da un lato si tratta di conciliare una massima sfera d'arbitrio per il singolo nella ricerca della felicità o del benessere con la coesistenza degli arbitri degli altri, in base a un principio di eguaglianza giuridica; dall'altro la restrizione della libertà naturale deve utilizzare come strumento di diritto - una norma giuridica generale e astratta valida per tutti -, un diritto che sia espressione di un volere comune. In altri termini, la decisione sulla nocività, o meno, di questa o di quella libertà naturale, e il conseguente controllo sociale attuato attraverso il diritto, deve rispondere all'opinione pubblica e alle forme istituzionali attraverso le quali essa è organizzata. Questa è la nota tesi di Immanuel Kant ribadita ora da Friedrich von
Hayek.
Storicamente i pensatori liberali hanno difeso due libertà naturali dallo stato. Nell'età del nascente capitalismo si sono battuti per la libertà economica: lo stato non doveva intromettersi nel libero gioco del mercato, che, per certi aspetti, appariva come uno stato di natura o, meglio, come una società civile basata su contratti tra privati. Si accettava lo stato solo come garante dei contratti, lasciando una completa libertà, nella composizione dei conflitti fra i lavoratori i datori di lavoro, al potere contrattuale delle parti o, nei conflitti tra le diverse imprese, alla capacità di resistere alla concorrenza, che premia il migliore. Ma poi si è giunti alla tesi dello stato arbitro, custode del mercato.
Nell'età postindustriale o, meglio, nella società dl benessere, invece, sono stati rivendicati la libertà (o la rivoluzione) sessuale e il libero uso di droghe leggere contro le inibizioni di una morale, che era insieme cristiana e borghese, sacramentale e produttivistica, per una resurrezione terrena della carne. Qui però sono necessarie una precisazione ed una distinzione: il liberale, che è un fermo difensore della privacy, accetta questa libera ricerca della felicità o del piacere, ma non può assolutamente accettare chi - sulla scia di Marcuse - vuol fare dell'eros la forza liberante e distruttiva della civiltà, intesa come mera repressione. Il liberalismo è espressione di questa civiltà. Resta il grave errore - oggi dominante fra molti filosofi - di ridurre la libertà (e quindi anche la libertà etica) a questa libertà naturale: come ci ha mostrato Alexis de
Tocqueville, l'amore per il benessere (o la ricerca del piacere) finisce con l'infiacchire la passione per la libertà politica.
In modo diversi queste libertà naturali premiano il più potente, tanto sul mercato quanto nella ricerca del piacere; pertanto esse possono generare conflitti e violenza. Molti pensatori liberali hanno, però, sempre accettato un tasso - più o meno alto - di conflitto e di violenza nell'ambito statale, proprio in vista di ampliare la sfera dell'arbitrio o della libertà naturale dell'uomo, senza mai però rinunciare al primato dello stato di diritto, all'intervento in ultima istanza del governo, come potere arbitrale fra le parti in lotta (mediazioni nelle contese di lavoro, leggi contro i monopoli) o come potere garante del mercato, delle posizioni più deboli, della tutela dei diritti civili, con particolare riguardo ai minorenni e alla condizione della donna.
Veniamo alla libertà etica. Il pensatore liberale nella sua concione - relativistica nella misura in cui si oppone a chi ritiene che ci sia un ordine necessario ed oggettivo, razionale, di cui qualcuno è interprete e garante - è costretto pur sempre a mantenere un valore assoluto, che è appunto lo stato liberale, inteso come procedura necessaria per le scelte pubbliche. Resta un valore assoluto, non negoziabile, anche se ad esso non pertiene la sfera dell'etica (libertà interna) e viene invece sottomesso a quella del diritto (libertà esterna). Lo stato liberale deve essere moralmente neutrale e consentire soltanto il libero manifestarsi della società, nella quale ciascun individuo e ciascun gruppo sociale sia in grado di perseguire liberamente i propri valori e di scegliere il proprio destino o il proprio essere nel mondo, senza che gli altri uomini o gli altri gruppi possono impedirglielo. Insomma è ancora uno stato ridotto a una mera procedura politica e giuridica con la quale prendere le decisioni, ma è anche un valore assoluto, proprio perché presuppone, come valore non negoziabile, l'individuo, inteso come fine e non come mezzo. Da questo deriva il principio del dialogo, la superiorità della persuasione sull'impostazione, il rispetto degli altri e, di conseguenza, il significato positivo delle differenze e delle diversità. In sintesi: il liberalismo assolutizza un metodo, non i singoli fini e valori degli individui, un metodo che si riassume nella parola tolleranza,
In conclusione. Per quanto riguarda la libertà naturale, lo stato liberale, come bene assoluto, resta pur sempre un ideale limite o regolativo dell'esperienza politica, perché i conflitti o le tensioni, inerenti ad una struttura pluralistica, non sempre vengono risolti nel dialogo con la persuasione, anzi spesso la forza della maggioranza entra come fattore determinante. Ma si tratta pur sempre di una forza che deve accettare una regola giuridica, quella per la quale le teste è meglio contarle che romperle. Ma, nonostante questo tentativo di regolare l'uso della forza, è necessario riconoscere che questa procedura non ha eliminato l'esistenza dei potenti e dei deboli nel mercato politico e sociale. Il tentativo di legittimare la forza, trasformandola in potere (legittimo), non la elimina mai completamente, continuando essa a sussistere in uno stato di natura, esistente proprio negli spazi o, meglio, negli interstizi lasciati aperti nella società civile (pensiamo al problema dell'ordine pubblico).
Un'altra definizione della libertà, quella che la intende come emancipazione o, meglio, come autorealizzazione dell'uomo, sembra cogliere la vera libertà liberale; tuttavia bisogna riconoscere che, nelle teorizzazioni che di essa sono state date, è spesso prevalente l'elemento etico (e quindi di una libertà che potrebbe realizzarsi nel mero piano privato) su quello politico della gestione del potere: al limite potrebbe essere anche intesa come libertà dalla politica, nella misura in cui, per essere liberi, bisogna fare solo ciò che è in proprio potere. Lo stato moderno conosce forti linee di tendenza, che portano ad un massimo di spoliticizzazione della società e di neutralizzazione dell'individuo nella sfera del mero privato, cioè del non politico.
Tale liberalismo etico rischia di presentarsi come una posizione aristocratica, rivendicata da ristrette
élites, come la politica degli intellettuali. L'assenza del momento squisitamente politico si spiega, in parte, col fatto che tali rivendicazioni etiche emergono soprattutto in periodi in cui le strutture autoritarie dello stato non consentono la politica, o in quelli in cui la mobilitazioni totalitaria degli individui riduce tutte le manifestazioni della vita a politica. Basti pensare alla rivendicazione della libertà religiosa nel periodo dell'assolutismo o alla "religione della libertà" del Croce, o al "potere dei senza potere" di Vaclav
Havel, nell'età dei totalitarismo. Tuttavia il pensiero politico liberale (con
Locke, Montesquieu, Constant) ha costantemente ribadito che la libertà politica, e cioè l'effettiva partecipazione dei cittadini al potere legislativo, è, in ultima istanza, la sola vera garanzia di tutte le altre autonome libertà, mentre il Tocqueville tendeva a vedere come l'istanza etica liberale potesse realizzarsi solo nella partecipazione politica, non certo nell'evasione nella solitudine del privato.
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