Condividi |

Nicola Matteucci

Il liberalismo in un mondo in trasformazione

INTRODUZIONE : Ridefinire il liberalismo
1. Chi interpreta?
2. La fine del liberalismo
3. Un liberalismo senza filosofia
4. La geografia del liberalismo
5. Filosofia della scienza e filosofia della libertà
6. Liberalismo e filosofia pratica

CONCLUSIONE : La rinascita del liberalismo
1. L'eclissi del liberalismo
2. Dalla critica dell'ideologia al razionalismo critico
3. Democrazia totalitaria e democrazia liberale
4. Dalla società industriale al governo della società complessa
5. La riscoperta dei diritti e della filosofia pratica

 

INTRODUZIONE
Ridefinire il liberalismo

1. Chi interpreta?

Ridefinire il liberalismo è un compito quanto mai urgente, perché sembra che esso abbia perso la propria identità, proprio nel momento storico in cui sta ridiventando attuale. Continuano a circolare sul liberalismo incomprensioni e pregiudizi, luoghi comuni e stereotipi, che sono difficili da demolire, tanto essi sono radicati nella comune opinione, che accetta i cliches, ma non va a fondo ai problemi. Ridefinire il liberalismo equivale a ripensarlo. Fra i più correnti luoghi comuni se ne possono - per ora - indicare essenzialmente due. Da un lato il liberalismo avrebbe una concezione individualistica (ed atomistica) della società, dalla quale necessariamente deriverebbe una mera difesa della sfera privata, cioè una concezione negativa della libertà (la libertà da), a sostegno di una pratica sostanzialmente egoistica. Dall’altro lato il liberalismo, abbandonando ogni fede in un valore assoluto e riconoscendo la validità di tutte le opinioni, preparerebbe la strada al relativismo, e quindi allo scetticismo e all’indifferentismo. Il ritratto - invero caricaturale - non è certamente lusinghiero, per cui bisognerà pur rispondere a queste due domande: "quale individualismo?", "quale relativismo?". Si pone ora un problema pregiudiziale: come ridefinire il liberalismo? E una questione filosofica, ma che - in due punti - tocca l’essenza del liberalismo. Il primo punto riguarda l’autorità legittima a definire o ridefinire il liberalismo. Siamo di fronte all’antica domanda di Thomas Hobbes: Quis interpretabitur? Se pensiamo alle ideologie, che sino ad oggi ci hanno dominato, troveremo sempre o un Partito o una Chiesa, che hanno rivendicato il monopolio dell’interpretazione. Questo non si è dato, perché non era possibile, per il liberalismo. Il problema non s’arresta qui: se il liberalismo non è una ideologia, ma una filosofia, ci dovrebbe essere, come in tutte le scuole filosofiche, un testo, meglio un classico, a cui riferirsi, anche se poi esso è passibile di interpretazioni diverse e disparate. Ma, nella storia del liberalismo, i testi sono tanti e - spesso - fra loro assai distanti: quali scegliere, quali privilegiare nella ricerca di una auctoritas?

Per risolvere questo problema pregiudiziale si possono soltanto dare due indicazioni, una che riguarda il metodo nell’interpretazione, l’altra che si riferisce all’auctoritas. Questi classici non possono essere letti con un metodo meramente filologico, erudito, disimpegnato dai problemi del presente: dobbiamo riscoprire il loro senso autentico e il loro significato epocale, diretto ad instaurare l’"ordine politico", e ricollegarci ad essi nella consapevolezza di una continuità storica: essi infatti hanno mostrato la loro presenza di fronte a problemi simili e insieme diversi dai nostri. L’ermeneutica e non il positivismo (vecchio e nuovo) è il modo liberale di leggere i classici. Ma il problema più importante è quello dell’auctoritas: tutto è rimesso soltanto alla decisione e all’arbitrio del singolo studioso? Certo: ogni interpretazione o definizione non può che essere individuale, ma essa è sempre sottoposta ad un tribunale: come ci ha insegnato il liberale Immanuel Kant, nelle questioni che riguardano l’umanità in generale lo studioso deve "fare uso pubblico della propria ragione", sottoponendosi al giudizio "dell’intero pubblico dei lettori"

l. Qui si ritrova una prima caratteristica del liberalismo: esso non ha un interprete ufficiale; ed ogni definizione nasce soltanto nell’ "opinione pubblica" pensante, meglio nel dialogo fra coloro che si sentono appartenenti a questa tradizione politica. Per questo il liberalismo è una concezione politica "aperta" e non "chiusa" o "totale". Il secondo punto pregiudiziale, per definire il liberalismo, è implicito nella scelta- or ora fatta - di privilegiare i classici: Il liberalismo è stato così spesso frainteso anche per colpa degli "storici", che ne hanno voluto tracciare la storia o le storie parallele, preferendo il certo al vero. Infatti essi hanno confuso il liberalismo con i movimenti e i partiti liberali, con i loro programmi e con la loro azione di governo, perdendo così la distinzione fra le concezioni partitiche e quelle meta-partitiche, fra le tattiche e le strategie, o - come ha recentemente affermato Ronald Dworkin - fra i princìpi "costitutivi" e le affermazioni "derivate"

2. Privilegiare i testi sulla storia, il vero sul certo, non è assolutamente una scelta di comodo, perché solo essa ci dà l’ottica corretta con cui giudicare il liberalismo. La verità è che il liberalismo, in quanto teoria o filosofia politica, non può essere appiattito o confuso con la realtà, della quale gli storici narrano la storia. Fra ideale e reale c’è sempre uno scarto, perché il liberalismo - in quanto teoria o filosofia politica - è un criterio direttivo per la prassi politica e, in quanto tale, è anche un principio con cui giudicare la storia reale. Lo scarto fra razionale e reale, fra i princìpi e la storia, fra il vero e il certo può essere maggiore o minore, proprio perché il pensiero, se vuole essere pensiero, nei confronti della realtà non può che essere un’"eresia" (al massimo ci sono state delle stagioni liberali, nelle quali l’incidenza del liberalismo sulla realtà è stato maggiore). Tutti i grandi pensatori liberali hanno vestito a fatica i panni dei loro tempi e non si sono certo presentati come apologeti della loro epoca: l’ordine liberale è sempre stato un traguardo da raggiungere e non una realtà da celebrare.

Con questa drastica distinzione fra i princìpi e la realtà, fra i valori e la storia, fra il vero e il certo non vogliamo però dare l’impressione di svalutare quelle storiche istituzioni "rappresentative" e quelle secolari tecniche costituzionali che sono state la massima creazione del liberalismo e contraddistinguono la "civiltà" dell’Occidente. Queste istituzioni, più o meno imperfette, restano pur sempre le "mura" della città libera, sono gli "argini", che devono resistere alla piena impetuosa del potere o, meglio, al potere nello stato puro e primordiale. Ma sono la filosofia o la teoria liberale che ci hanno spinto ed insegnato a costruire quelle mura e quegli argini e, insieme, che hanno preparato gli animi a difenderle, per garantire nella città l’ordine politico liberale: senza quegli animi, le mura restano - alla lunga - disarmate. Se non dobbiamo confondere la "forma" (lo Stato liberale) con la "sostanza" (il liberalismo), non dobbiamo però dimenticare l’importanza delle mura e degli argini: essi debbono non soltanto essere conservati, ma anche e soprattutto riedificati a seconda della nuova e diversa natura del "nemico" della libertà. Ma non ci si deve neppure cullare nell’illusione che esistano delle linee Maginot invincibili.

Torna all'inizio del documento

2. La fine del liberalismo

Questa premessa metodologica non risolve certo tutti i problemi, che s’impongono a chi voglia oggi ridefinire il liberalismo: fra le due guerre mondiali, da parti opposte o diverse, ne è stata dichiarata la crisi o la morte definitiva, per cui esso potrebbe essere soltanto oggetto di curiosità o di erudizione storica. Le due più ampie ricostruzioni storiche di questa tradizione politica, ricostruzioni che sono ancora un necessario punto di riferimento, ne portano le tracce, perché scritte nel momento di massima crisi del liberalismo reale; e gli autori non sono certo degli avversari dello spirito liberale. Guido De Ruggiero chiude la sua Storia del liberalismo europeo (1925) parlando di una "crisi" o di una "dissoluzione" dello spirito liberale, dovuta, da un lato, al capitalismo monopolistico e, dall’altro, alla crisi dei ceti medi; Harold Laski si limita a rintracciare Le origini del liberalismo europeo (1936), per concludere sulla sua fine nel secolo ventesimo, per la reazione capitalista ai movimenti socialisti e alla rivoluzione d’ottobre. Pur non detto in modo esplicito: il liberalismo, per sopravvivere, avrebbe dovuto inverarsi nel socialismo, la dottrina politica storicamente vincente. In questo dopoguerra altri liberali, come Sheldon Wolin e Leo Strauss, si sono fermati piuttosto a riscontrare la debolezza teorica del liberalismo. Questa crisi dell’idea liberale è diventata ben presto un luogo comune; nella società contemporanea, che corre appresso alle mode, la perdita di attualità è un’anonima sentenza di morte. Fra le due guerre mondiali la critica più serrata ed ostinata degli avversari del liberalismo venne dalla cultura tedesca, su due opposte direttrici. In questo dopoguerra è stata dominante ed egemone quella della Scuola di Francoforte. Se riesaminiamo la lunga storia di questa Scuola questa polemica non è stata occasionale: basta rileggersi, fra i tanti, i tre saggi più significativi o più emblematici come La situazione attuale del capitalismo e le prospettive di un riordinamento pianificato dell’economia di Friedrich Pollock (1932). La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato di Herbert Marcuse (1934) e infine, Lo Stato autoritario di Max Horkheimer (1940) La Scuola di Francoforte, che in tanti settori ha pur dimostrato una notevole autonomia dal marxismo, quando parla del liberalismo non lo giudica in base ai suoi princìpi (i diritti individuali, il costituzionalismo), ma lo riduce a semplice ideologia della società capitalistica: al centro del suo interesse è soltanto la trasformazione in atto del capitalismo da capitalismo concorrenziale o di mercato a capitalismo monopolistico e poi organizzato dallo Stato. Il liberalismo è, così, soltanto una (mera) forma di "dominio" borghese, necessariamente destinata a concludersi in uno Stato totale e autoritario.

Questa tesi, oggi, risulta del tutto semplicistica, se non altro perché abbiamo esperimentato la differenza fra il "dominio" liberale e quello totalitario. Ma ieri, per la Scuola di Francoforte, è stata una tesi suicida, che l’ha disarmata proprio nella difesa dei valori che pur voleva tutelare. Chiusa marxianamente nel primato dell’economia, si è dapprima imbattuta in nascoste incertezze teoriche, dato che alle volte sembra aver nostalgia del dominio borghese, basato sull’anarchia del mercato e sul primato del privato, altre volte sembra guardare con simpatia (socialista) a una pianificazione razionale e cosciente dell’economia nel primato della politica, o all’utopia illuministica della ricostruzione razionale del mondo. Ma, dato che entrambe queste forme sono condannate, la Scuola culmina con il saggio di Horkheimer, nel quale il concetto di "capitalismo monopolistico di Stato" finisce per comprendere tutto: non solo l’economia (capitalistica) pianificata della Germania nazista, non solo l’economia (capitalistica) con scarsi elementi di programmazione degli Stati Uniti nell’età rooseveltiana, ma anche, e soprattutto, l’economia (con la proprietà statale dei mezzi di produzione) pianificata dell’Unione Sovietica. Il pensiero, per sua natura, dovrebbe essere capace di fare delle distinzioni, ma qui, perseguendo il mito della "totalità", c’è un’ossessione nevrotica contro la società contemporanea simbolo del dominio, contro la scienza, contro i mezzi di comunicazione di massa, che rivelano la vera e - per tanto tempo nascosta - sensibilità della Scuola: è una reazione romantica contro la modernità, la fuga in una impossibile utopia dell’anima bella. Senza sbocchi pratici, perché non si sono voluti cercare: l’opposizione al dominio, all’autoritarismo, al totalitarismo è propria del pensiero liberale. Della Scuola di Francoforte, forse, non converrebbe parlare se, nel suo sincretismo, non contenesse alcuni elementi liberali, nascosti da questo rozzo - non si può usare altro aggettivo-economicismo. Questo tentativo di recuperare spunti liberali ha, però, bisogno di un chiarimento: la Scuola di Francoforte, mescolando male Marx con Freud, è tutta dominata dall’ansia di una liberazione finale e totale dell’uomo, quasi per recuperare un paradiso perduto. Nulla di più radicalmente opposto alle concrete libertà dei liberali - da difendere o da conquistare contro antiche e nuove minacce - di questa utopia messianica della liberazione assoluta: nel primo caso abbiamo una teoria politica, nel secondo una religione escatologica. Nella Scuola di Francoforte vi sono, inoltre, pensatori che non possono essere eliminati da una biblioteca liberale: il più importante di tutti è Franz Neumann, che - quasi contro i dogmatismi della Scuola - ha affrontato la tematica del costituzionalismo ed ha approfondito in chiave moderna il nesso, intuito dal Montesquieu, fra dispotismo e paura9. Anche Eric Fromm, nonostante la sua dipendenza da maestri così diversi e lontani come Marx e Freud, ha ragione nel vedere nella libertà anche un problema psicologico, quello di un rapporto positivo dell’individuo con la società, cioè il problema della autonomia dell’individuo. Per questo la totale incomprensione della Scuola di Francoforte per il liberalismo non ci deve vietare di esaminare, in chiave liberale, alcuni problemi che essa ha posto. La Scuola di Francoforte, infatti, se ha recuperato l’analisi economica di Marx, ha rivolto anche la sua attenzione alla psicologia e alla psicoanalisi, proprio per una migliore comprensione della realtà, anche a costo di cadere in palesi contraddizioni: infatti la coscienza dell’individuo è ancora marxianamente - l’espressione del suo essere sociale, mentre restano confinati e isolati la sua vita istintuale e l’inconscio Ma questa problematicità dell’io, che non si risolve tutto nella ragione, era anche presente - come vedremo -nel primo liberalismo. L’individuo non è una maschera, un epifenomeno, ma una vera realtà: ma, proprio per la natura delicata e problematica dell’io, per la debolezza della sua soggettività - esso deve essere tutelato da tutte quelle spinte sociali che provocano una "fuga dalla libertà", deve essere difeso da quelle angosce che, provocando nevrosi persecutorie, favoriscono il dispotismo. Ancora più importante: l’individuo deve essere difeso dalla società di massa, che tende silenziosamente a rendere sempre più uniformi ed eguali gli individui, per farne dei "gregari". Questo è un classico tema di Alexis de Tocqueville, che è spesso presente - più citato che pensato - nelle riflessioni della Scuola di Francoforte.

Altri due punti (o spunti) vanno ripresi con mentalità più critica, cioè meno totalizzante. Non bisogna fare del "dominio" una nevrosi apocalittica, ma occorre anche riconoscere che l’evoluzione economico-sociale del mondo contemporaneo, liberando l’uomo dal bisogno, produce nuove e diverse forme di dominio, sconosciute nel passato: la società scientificizzata e la tecnologia, che pervadono sempre più la nostra vita, pongono dei nuovi problemi di libertà; ma il liberalismo si è dimostrato vitale nel passato proprio come "risposta a sfida", ed ora le sfide sono diverse. Anche la critica al capitalismo "controllato", "organizzato", "garantito" del mondo occidentale, non va sottovalutata, perché le prassi politiche neo-corporate, in atto - in gradi diversi-in molti paesi, fanno pendere la bilancia dalla parte dell’autorità e non da quella della libertà. Ma, anche in questo caso, ci sono ancora degli spazi politici per la libertà: nella storia c’è sempre un momento ineliminabile di necessità, ma la storia non è tutta necessità. Si tratta pertanto di lavorare sul reale e non di fuggire nell’utopia, perché ci si ritiene già sconfitti in partenza. L’altro punto o spunto - anch’esso di sapore tocquevilliano - merita di essere ripreso: è la polemica contro il pragmatismo senza valori, che scambia la verità con il successo. E’ vero: le culture dominanti nelle nostre società democratiche, come il positivismo o il neopositivismo, sono meramente funzionali alla società industriale, rappresentano una resa all’esistente, in quanto abdicano di fronte al problema (filosofico) del valore, e, quindi, anche a quello della libertà. I positivisti dimenticano che la cultura non è solo scienza, ma è anche comunicazione di senso e di valori fra gli uomini in base alle loro esperienze vissute e che questa comunicazione è parte integrante di una comunità democratica. Per i Francofortesi il "dominio", con il controllo sociale e con i mezzi di comunicazione di massa, ha eliminato ogni autentica comunicazione, imprigionando l’individuo nel privato. In verità l’erede dei Francofortesi, Jurgen Habermas, ha affrontato sin dagli inizi il tema dell’agire comunicativo (il cui spazio è l’opinione pubblica) , senza però liberarsi dal catastrofismo e dal mito socialista dei maestri, concludendo poi la sua meditazione con la rivalutazione dell’etica del discorso. Partendo dalla comunicazione l’incontro fra la ragione soggettiva (che non è soltanto quella che guarda al rapporto fra fini e mezzi) e la ragione oggettiva (che non può essere una ragione metafisica trascendente, data, meta-storica) può darsi soltanto nel processo dialogico nell’opinione pubblica, che è la sola autorità razionale autorizzata a legittimare i valori. La ragione oggettiva - ma ora preferirei usare la dizione del liberale Montesquieu - l’esprit géneral, come risultante di una complessità di fattori ai quali non è certo estranea l’azione pensata degli uomini, si può auto-interpretare e auto-comprendere attraverso un processo ermeneutico in una comunità dialogante. Per questo il problema dell’opinione pubblica resta centrale nel liberalismo, perché è il momento della rappresentanza-rappresentazione.

Fra le due guerre - sempre nella cultura tedesca - il vero avversario del liberalismo, con ben più solida coerenza teorica, è stato Carl Schmitt, il quale - con la lucidità del suo pensiero - non è certo incorso in fraintendimenti teorici: mentre per i Francofortesi il liberalismo era destinato a concludersi in uno Stato autoritario (nel loro gergo: "fascista"), per Carl Schmitt la parabola del liberalismo avrebbe portato alla dissoluzione dello Stato con il suo (storico) monopolio del "politico". Per Carl Schmitt "il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove invece entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, cioè quelle di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà". In questa lapidaria definizione sono contenute due diverse, ma non opposte, critiche al liberalismo. In primo luogo il liberalismo, nella sua lotta contro lo Stato (assoluto), che aveva riportato la pace dopo le guerre civili e religiose, neutralizzando il conflitto con la spoliticizzazione della società, ha reintrodotto la politica (cioè il conflitto) nella società, minando l’unità dello Stato, il suo potere autonomo di decisione. Carl Schmitt rifletteva sulla crisi della Repubblica di Weimar, nella quale partiti e sindacati gli parevano ormai tanti Stati nello Stato. La degenerazione del Parlamento durante la Repubblica di Weimar è un argomento che fa ancora riflettere, ma la presunta ignoranza del liberalismo del "politico" è tutta da ridiscutere e da ridefinire, come deve essere riesaminato il progetto liberale di dissociare il "politico" dallo Stato: viene totalmente ignorata la tradizione del costituzionalismo.

La seconda critica è più pertinente: il dualismo fra liberalismo etico e liberalismo economico caratterizza la storia dei movimenti e dei partiti liberali, che sovente (ma non sempre) hanno sottolineato il secondo, dualismo che è stato oggetto di dibattiti nell’ambito della teoria liberale, spesso senza pervenire a soddisfacenti risultati, forse per l’incomprensione da parte dei contendenti delle ragioni dell’avversario. Ci troviamo di fronte ad un altro caso di mancanza di identità; e questa accusa di un dualismo fra un liberalismo etico e un liberalismo economico non può essere elusa, tanto più che nelle lingue inglese, francese e tedesca la stessa parola - liberalismo - copre i due diversi significati. Molti pensatori, che nello spirito erano liberali, hanno marcato la loro distanza dal liberalismo, proprio perché lo riducevano al liberismo dei partiti o dei movimenti liberali.

Ma il problema teorico del rapporto fra liberalismo e liberismo resta o, forse, è male impostato.

Torna all'inizio del documento

3. Un liberalismo senza filosofia

In questo dopoguerra la principale argomentazione contro il liberalismo-analoga a quella di Carl Schmitt - proviene da uno storico della filosofia politica, che certamente non è un avversario di questa concezione politica: l’americano Sheldon S. Wolin. Per questo pensatore il liberalismo settecentesco rappresenta il declino della vera filosofia politica, dato che esso viene sempre più perdendo la vera essenza del politico, la sua specificità. Le ragioni sono diverse, ma tutte concomitanti: dopo Hobbes la "società di natura" si trasforma in "società civile", pre-politica e non più anti-politica, armonica e non dominata dall’ostilità assoluta. In altri termini il vero protagonista diventa la società, che, o in una miriade di autorità sociali e di private lealtà o in un sistema di forze inter-agenti, mantiene autonomamente la propria esistenza e la propria unità, senza avere bisogno - come in passato - del "determinante" aiuto di un’azienda esterna (lo Stato), che personifica il politico, sola capace di realizzare il proprio ordine, che è artificiale e non naturale. Il fenomeno politico, in questa ottica, va scomposto ed esaminato nei suoi fattori sociali, dei quali è solo la risultante: il governo è una semplice agenzia, una mera funzione della società. La politica perderebbe così la sua natura drammatica, trasformandosi, con le scienze sociali, in mera amministrazione.

Le scienze sociali al posto della filosofia politica: correttamente il Wolin ricorda come le scienze sociali, sin dal loro nascere, si siano palesate come meramente descrittive, perdendo ogni legame con il normativismo non solo del "politico", ma anche dell’etica, quasi nella sicurezza di un’armonia prestabilita. Nell’ambito dei classici del liberalismo non credo – e lo vedremo più avanti - che questo sia integralmente vero: vero è che il pensiero politico dal Settecento in poi non poteva ignorare l’apparizione sulla scena politica della società, apparizione dovuta alla rivoluzione industriale e alla rivoluzione democratica, che creava nella società nuovi centri di potere. Ma di "potere" sempre si trattava, e quindi riconducibile nell’ambito del "politico". É  vero, però, che le nascenti e poi dominanti scienze sociali, le quali non necessariamente hanno un’ispirazione o un impegno liberale, hanno finito, proprio per la loro neutralità descrittiva, per erodere le fondamenta del pensiero liberale: sono esse - e non la teoria liberale - le protagoniste della crisi della filosofia politica e anche del declino del valore della coscienza individuale. Con le scienze sociali è rilevante per dirla con Hannah Arendt -il comportamento (animale) osservabile e non l’azione (umana) permeata di pensiero. Per Wolin il problema è lo stesso, che le scienze sociali hanno solo sottolineato ed accelerato: nel nuovo mondo sociale gli uomini, non più capaci di comunicare sulla base di una comune esperienza interiore, sono stati ridotti a riconoscere l’"altro" soltanto dall’apparenza esteriore, diventando così estranei fra loro. Su un piano analogo, ma meno argomentato, si muove Leo Strauss in Liberalism Ancient and Modern: non partendo da una chiara distinzione concettuale fra filosofia e movimenti liberali e a causa di una profonda nostalgia per il pensiero greco, lo Strauss finisce per portare più confusione che chiarezza nell’analisi dei problemi. Il liberalismo è ridotto agli umori della sinistra (liberal) americana, ottimista e progressista, e alla neutrale e a-valutativa scienza politica, che porta a un mero scientismo, incapace di intendere e di comprendere la realtà della vita e dell’esperienza politica, perché usa un linguaggio diverso da quello usato in politica: per la scienza politica ci sono affermazioni senza senso, che, invece, in politica hanno un senso. Sono due fenomeni che convergono nel più totale permissivismo, nel quale si dà una totale eguaglianza non tanto dei "valori", quanto dei "desideri". Per cui il liberalismo moderno (meglio: contemporaneo) è radicalmente condannato: nella filosofia pre-moderna, per Strauss, con "liberale" si indica quell’educazione liberale che indirizza alla virtù, al bene, ai valori, nei quali si esprime la vera razionalità politica. Ma questo dovrebbe essere vero anche per il liberalismo contemporaneo: se esso parte dal primato dell’individuo, la sua educazione, nel senso della greca paideia, dovrebbe essere il compito più importante, per salvarlo da ogni forma di indottrinamento sociale. Certamente ha ragione Strauss quando afferma: "I veri liberali oggi non hanno dovere più pressante che contrastare il liberalismo pervertito, che pretende che vivere sicuri, felici e protetti, ma per il resto senza regole, è la meta semplice, ma suprema dell’uomo e che dimentica qualità, eccellenza o virtù".

Ma Strauss non ci aiuta a ripensare il liberalismo: è giusta la sua sin troppo minuziosa polemica contro chi vuole ad ogni costo riscoprire il liberalismo, che appartiene al pensiero politico moderno, nell’antichità classica. Però si dimentica che il vocabolario politico liberale resta in gran parte quello forgiato dai Greci: basti pensare a concetti negativi, come tirannia, dispotismo e demagogia, o all’esaltazione della libertà, che non è soltanto l’opposto della schiavitù, perché risiede nel non dipendere dalle cose. Certo: a separarci c’è l’accezione diversa del termine democrazia, ora non più diretta, ma rappresentativa; tuttavia resta presente l’ideale dell’isonomia. Ma si può andare oltre su due punti, che sono assai qualificanti: il termine "politica", il cui significato è per i Greci estremamente ristretto, in quanto collegato alla vita politica della polis, ha oggi smarrito nel linguaggio comune il suo significato, per conservarlo solo come vedremo - nell’autentico linguaggio liberale. Poi, la politica non si radica in un mondo di certezze assolute, ma si iscrive in un regno ben più problematico, incerto ed insicuro, che è quello della "saggezza" o della "prudenza", della ragionevolezza e non della ragione, come ha ben visto John Locke, quando nega i princìpi pratici innati o distingue, con Aristotele, la filosofia pratica, che ha come oggetto il giusto, dalla filosofia naturale che ha come oggetto la verità. Ma, oggi, "saggezza" e "prudenza" hanno perso l’antico e moderno significato politico, e sono confinate - talvolta con un significato non positivo - nella mera sfera privata.

Torna all'inizio del documento

4. La geografia del liberalismo

Se vi sono liberali troppo facilmente portati a liquidare la consistenza filosofica del liberalismo moderno, altri, invece, sembrano divisi nel coglierne la natura e quindi l’area geografica del suo sviluppo: basti pensare all’opposizione fra Benedetto Croce e Friedrich von Hayek. Infatti, per il primo, abbiamo paesi, come l’Inghilterra, che ebbero la pratica liberale e non la teoria, ed altri, come la Germania, che ebbero la teoria e non la pratica liberale: lo spartiacque filosofico è dato dall’antitesi fra empirismo e storicismo, fra "utilitarismo" e "individualismo morale". Questa affermazione la troviamo radicalmente rovesciata in Hayek 18, il quale intende per liberalismo quella concezione dell’ordine politico sviluppata dagli (old) Whigs dalla fine del Seicento alla fine del Settecento, per cui propone - non paradossalmente - di rinunciare al termine ambiguo di liberalismo per quello di Whiggismo. In realtà la distanza è assai minore: il Croce (come Hayek) esclude dalla stona del liberalismo-in coerenza con la sua polemica contro lo Stato etico - lo Hegel l9, mentre Hayek (come Croce) vi include Immanuel Kant, Wilhelm von Humboldt; ed entrambi guardano a Benjamin Constant e ad Alexis de Tocqueville Vi sarebbero altri nomi da aggiungere per un’ideale biblioteca dei classici del liberalismo moderno, come John Locke, Montesquieu, David Hume, James Madison, John Adams.

Autori ricordati da Hayek e in parte scordati dal Croce. A questo punto è necessaria una breve parentesi: elencando i suoi maestri liberali, Hayek non menziona John Stuart Mill, mentre il Croce lo rende responsabile dell’interpretazione del liberalismo come individualismo utilitaristico ed edonistico. Ricordiamo, di sfuggita, che Luigi Einaudi aveva formulato un giudizio su On Liberty diametralmente opposto. La necessaria parentesi è dovuta al nesso, da molti stabilito, fra liberalismo e utilitarismo. Hayek, che non si ritiene certo un utilitarista, dà spazio anche all’azione utilitaria dell’individuo, ritenendo che lo Stato non debba agire in vista di una gerarchia di valori o di un corpo consentito di fini utilitari, ma debba limitarsi a massimizzare, in una situazione giuridica di eguale libertà per ciascuno, la massima gamma di opportunità di perseguire i propri fini utilitari, come i propri valori. Croce, che pur ha scoperto il momento dell’economia (cioè dell’utile), quando parla del liberalismo pensa che lo Stato debba essere soltanto uno strumento dell’individualismo morale (di qui la sua opposizione allo Hegel) e non dell’edonismo dei singoli (di qui la sua opposizione all’utilitarismo). In questa divergenza risiede l’origine del dibattito sui rapporti fra liberalismo e liberismo, sul quale dovremo ancora tornare.

Questa breve parentesi deve continuare, proprio per meglio focalizzare il rapporto fra liberalismo e utilitarismo. Hayek non cita Mill: la ragione non risiede nell’ignoranza verso questo autore (ha curato l’edizione di due sue opere) ma nella complessità del suo rapporto con questo pensatore Mill appare, alle volte, ambiguo, per un sincretismo che lo porta ad introdurre nel suo pensiero elementi non autenticamente liberali: è un pensatore di transizione, che però prepara la crisi del liberalismo inglese. Hayek ne critica la concezione (economica) della giustizia sociale, anche se il Mill pone - a differenza di molti altri utilitaristi, che vedono nella più grande felicità del più grande numero di persone il fine ultimo della politica - dei precisi limiti allo Stato nel perseguire l’utilità sociale. Hayek, inoltre, ne critica l’individualismo, perché troppo dominato da motivi romantici (e il romanticismo non è certo utilitarismo). Su un utilitarismo attenuato c’è invece un momento di consenso: John Stuart Mill lo attenua con il pensiero di Coleridge, Hayek con quello di Kant, ritenendo questa una posizione teoreticamente più forte. Tale ritorno a Kant è importante, perché l’autore della Critica della ragion pratica ha anche difeso, contro lo Stato paternalista, il diritto dell’individuo a perseguire liberamente il proprio benessere. Per questi motivi On Liberty di John Stuart Mill deve restare in un’ideale biblioteca della libertà, anche se alcuni problemi, che per ora ci siamo limitati a focalizzare, dovranno essere riesaminati. Ma non si può fare di John Stuart Mill il campione autentico dell’utilitarismo inglese.

Croce ed Hayek hanno interessi profondamente diversi: il primo vuole fondare una filosofia della libertà, il secondo pensa all’autentico, perché liberale, "ordine politico": eppure, nel tracciare la mappa dei pensatori a cui riferirsi, sono sostanzialmente vicini. A prova di questo c’è la comune polemica contro le teorie politiche di un certo Illuminismo francese. Hayek ha scritto un libro contro l’Abuso della ragion: egli mostra come nel Settecento francese prenda corpo l’illusione scientista, quella di estendere i metodi delle scienze naturali alle scienze sociali, con la pretesa di scoprire le leggi (naturali) dello sviluppo storico. Al posto della difesa della libertà, dell’individualità dell’azione e dell’interazione spontanea fra le diverse azioni, troviamo la pretesa di una direzione cosciente della storia, del controllo razionale dello sviluppo sociale da parte di una o poche menti. Hayek chiama tutto questo "razionalismo costruttivistico", ma l’illusione che ci siano gli ingegneri della società e delle anime che la compongono - non deve portare alla richiesta di poteri illimitati per chi o per coloro che si ritengono depositari dei dettami della ragione scientifica Per Hayek l’utilitarismo dei radicals inglesi venne influenzato proprio da questo razionalismo costruttivistico. Parimenti il Croce, in sede di teoria politica, vede nell’Illuminismo francese l’ambizione di ricostruire il mondo e di pianificarlo sul metro della ragione Ma è una ragione ricalcata sulle scienze esatte: essa perde la realtà, nella sua varietà e nella sua diversità, perché prodotta dalla storia, nella sua irripetibile individualità, che sfugge ad ogni schema.

Questa ragione sacrifica la vita ed i sentimenti di cui la realtà storica è intessuta, perché è astratta, geometrica, meccanica, matematizzante: essa viene calata di forza su un corpo vivo ad essa del tutto estraneo. Abbiamo il primato di una ragione numerante, misurante, calcolante dall’esterno, sulla ragione storica, attenta alla concreta vita della realtà sociale nella sua individualità e storicità. Per Hayek e per Croce l’esito storico di questo razionalismo, inizialmente espressione del radicalismo democratico e che ha la sua massima espressione nel giacobinismo, è l’autoritarismo e il totalitarismo. Jacob Talmon, nel cercare Le origini della democrazia totalitaria, si muove in questa stessa ottica; e non andrebbe trascurata tutta la meditazione di Hannah Arendt sul prevalere nel mondo contemporaneo dell’homo faber sull homo politicus, per cui si crede inconsciamente che la società possa essere costruita dall’alto con la ragione tecnica e non creata individualmente dal basso attraverso la prassi politica. Una analoga accusa è mossa all’Illuminismo francese che ha la sua massima espressione in Condorcet, anche se c’è chi in questo autore vede un apostolo del liberalismo.

Torna all'inizio del documento

5. Filosofia della scienza e filosofia della libertà

Un problema analogo (per circoscrivere l’ideale biblioteca dei classici del liberalismo) e insieme diverso (per puntualizzare la natura del discorso liberale) nasce dall’esame di quella corrente della moderna filosofia della scienza, che si autodefinisce "razionalismo critico", la quale ha i suoi esponenti in Karl Popper  e Hans Albert5. Certo, questa epistemologia è profondamente coerente con il pensiero liberale: la critica al dogmatismo e la fiducia in una ragione cosciente dei propri limiti, la consapevolezza che ogni verità acquisita è provvisoria, cioè non assoluta e definitiva, perché sempre confutabile, data la fallibilità della ragione, si iscrive nell’autentico spirito del liberalismo. Ancora: l’autonomia della scienza dal potere nasce con la civiltà liberale e il metodo critico implica la libertà politica, in una chiara distinzione di compiti e di funzioni fra la ricerca del vero e la decisione politica. Il razionalismo critico, tuttavia, nasce dalla filosofia della scienza, da un’attenta rilettura dei classici o dei testi fondamentali dell’epistemologia moderna e contemporanea: la rivoluzione scientifica non può identificarsi con la rivoluzione liberale, perché la prima nasce - nell’età dell’assolutismo - dalla solitaria ricerca dei dotti che misurano le loro teorie sull’esperimento, mentre la seconda ha la sua prova del fuoco nella durezza dello scontro politico. Il centro dell’interesse dei filosofi della scienza è di carattere teoretico e non già pratico; I’attenzione è rivolta alle scienze naturali (soprattutto alla fisica) e non ai ribollenti problemi della convivenza umana. Quando troviamo un’epistemologia critica, come in Locke, essa deriva da un pensiero politico liberale. Così i padri del liberalismo non possono essere cercati fra gli scienziati. Popper denuncia i suoi nemici: Platone, Hegel, Marx. Lasciando da parte Platone, non si può non essere d’accordo: sulla stessa linea si muove Hayek, che vede in Hegel e in Comte i padri del moderno totalitarismo, o Hannah Arendt, quando mette in luce come nelle filosofie dell’Otto-Novecento prevalga, come categoria principale del pensiero politico, il principio della necessità (storica) su quello della libertà e della cittadinanza (individuale), per cui il posto della "scienza politica" viene preso dalle filosofie della storia. Popper denuncia anche lo "storicismo", ma qui è necessaria una chiara precisazione per il lettore italiano: lo storicismo del Popper è l’opposto dello storicismo del Croce, dato che entrambi condannano tutte le filosofie della storia, le quali presumono di conoscere il vero scopo finale della società e, da questo, derivano forme di profetismo politico. Il vero storicismo (crociano), invece, è senso dell’individualità e non delle leggi generali, scoperta della storicità dell’esistenza umana e delle diverse società, che non si annullano in un disegno arbitrariamente e soggettivamente designato dalla ragione umana.

Dobbiamo pertanto respingere questa identificazione del liberalismo con lo spirito scientifico (inteso nel senso del razionalismo critico) non perché falsa, ma perché il primo è assai più ampio del secondo: il razionalismo critico, nel suo presentarsi come una teoria unitaria, anche se internamente articolata con metodi diversi a seconda delle diverse aree, non può sfuggire all’accusa di essere "olistico", di voler ad ogni costo procedere ad una reductio ad unum. Albert, ad esempio, accetta la distinzione fra ragion teoretica e ragion pratica, ma non la vuole radicalizzare per paura che questa scissione porti, da un lato, ad un "neutrale" positivismo e, dall’altro, ad un "impegnato" irrazionalismo. Ma questa radicale alternativa esiste soltanto nella sua mente, che vuole trovare, per uscire da questo dilemma, una corrispondenza fra epistemologia e politica, nonostante il dualismo, chiaramente ammesso, fra fatti e decisioni, leggi naturali e leggi normative, fra essere e dover essere, fra enunciazioni, che si fondano sui fatti, e proposte, che indicano politiche. Dicendo che tutte sono discutibili si dice una cosa vera, ma generica, perché il problema resta sul "come", nei due opposti piani, esse siano discutibili. C’è sempre il rischio che, in questa visione unitaria, si perda la sostanza della politica liberale.

Per il razionalismo critico la scienza - intesa in senso stretto - ha come punto di riferimento la "verità": in quanto non è mai raggiungibile, essa resta un ideale regolativo, per cui ci dobbiamo accontentare di una verosimiglianza, di un tentativo - mai riuscito - di una adaequatio nella corrispondenza del vero ai fatti. Ma si ragiona sempre in termini di "verità". Non contestiamo ora la (discutibile) estensione di questo metodo dalle scienze naturali alle scienze sociali, che rischia di farci perdere la distinzione fra il "fatto" fisico e l’"atto" umano, distinzione chiara a due liberali, teorici della conoscenza, come John Locke e John Stuart Mill. Resta tuttavia estremamente valida l’affermazione che nelle scienze sociali, rilevanti per la politica, debbano valere l’esperienza, meglio le ipotesi e le congetture, la falsificabilità o fallibilità, o - per tradurre tutto questo in linguaggio politico - l’esame della disponibilità dei mezzi in vista di un fine in un mondo dalle risorse limitate. Certo: il "dover essere" implica il "poter essere", principio che per l’Albert rappresenta il "ponte" fra il piano delle norme e quello dei fatti. Così le scienze sociali si trasformano in vere e proprie tecnologie, in metodi neutrali, né descrittivi, né prescrittivi, per trovare i mezzi per raggiungere il fine, in base al principio della "realizzabilità".

Ripetiamo la domanda: non è questa una concezione fortemente riduttiva della politica? Sembra quasi che, come, nel campo della natura, c’è - giustamente - un monopolio della conoscenza da parte degli scienziati, così, nel campo della politica, i veri protagonisti debbano essere soltanto gli scienziati sociali. La politica, intesa solo come esperimento sociale razionale, che ha il suo ideale regolativo nella verità, non può non avere come attori che gli "esperti". E’ vero: noi viviamo in una società sempre più scientificizzata, nella quale la tecnica e l’economia hanno un ruolo sempre più vasto; ed è necessario governarla in base a questi princìpi. Ma non si può ridurre la politica ad una tecnocrazia più sofisticata, proprio perché la società, con i suoi bisogni e i suoi valori, non s’identifica o non si riduce ai campi dominati dall’economia e dalla tecnica. Lo Stato non è un’azienda. In parole diverse: nel campo delle scienze (naturali e sociali) non possono operare legittimamente che gli scienziati, ma nel campo della politica - per un autentico pensiero liberale - ad operare devono essere tutti gli uomini, senza distinzione fra chierici, più vicini alla verità, e laici, relegati nell’opinione.

Prima di affrontare il nodo del problema giova mostrare come a questa impostazione del razionalismo critico sfugga la tradizione del pensiero politico liberale, i cui classici non possono essere annoverati fra gli epistemologi, né appiattiti nel genere delle scienze sociali, né degradati al mondo dell’opinione, né annoverati fra gli utopisti. L’autentico pensiero politico liberale non mira a descrivere il "vero", né a celebrare astrattamente il "valore": esso è teso a disegnare un possibile ordine politico in funzione del "valore" della libertà dell’uomo, a disegnarlo con realismo e insieme fantasia intellettuale, partendo dai problemi concreti, che la società deve affrontare, ma rivivendoli in una dimensione storica epocale, per cui questo pensiero non si consuma nel contingente. I pensatori liberali non sono meri tecnici come vorrebbe il razionalismo critico, né ingegneri, come aspirerebbe il razionalismo costruttivistico: il loro vero interlocutore non è lo Stato, cioè il potere, ma la società, cioè gli uomini, meglio le loro coscienze. Per gli scienziati sociali il pensiero dei liberali è troppo gravido di valori, per gli utopisti essi restano troppo ancorati alla realtà.

Ma veniamo al nodo teorico del problema. Il razionalismo critico, nel suo tendenziale olismo, confonde la "verità" col "valore", affermando che entrambi, per quanto inaccessibili, hanno una funzione regolativa o, se vogliamo deontologica. Ma la scienza mira alla verosimiglianza, cioè adaequatio ai fatti, mentre la filosofia pratica, nella misura in cui si richiama ad un valore, non può avere il suo criterio nei fatti: in altri termini la "verità" le resta "inaccessibile", il valore "irrealizzabile". Ovvero il metodo della congettura e della confutazione, che ha il suo (sempre provvisorio) tribunale nell’esperimento, non è valido per la filosofia pratica, che non può indurre una norma da un fatto. Bisogna ribadire - ancora una volta - che il discorso sulla realizzabilità dei fini in un mondo dalle risorse economiche limitate (discorso che consente un’indagine empirica) è assai riduttivo rispetto al mondo dei valori, che è assai più ampio: per molti valori non si pone neppure il problema del loro costo economico. Pensiamo ad alcuni problemi che riguardano la "vita", come l’aborto o l’eutanasia: il loro costo economico è insignificante, il loro costo emotivo enorme. Ma, forse, il razionalismo critico vuole relegare questi problemi nella teologia.

In attesa di riprendere il discorso, possiamo ora soltanto ribadire che la "comunità scientifica" (ispirata al razionalismo critico) e la "comunità politica" liberale non s’identificano, che le norme del metodo scientifico e le norme della democrazia liberale sono diverse; e per due ragioni. Di una si è detto: i protagonisti non coincidono, dato che nella prima sono solo gli scienziati, che mirano al progresso delle conoscenze (per cui la libertà rischia di essere un valore meramente strumentale); nella seconda sono tutti gli uomini, che mirano ad un arricchimento della loro "vita" (per cui la libertà è un valore assoluto), e, in questo, il valore, più che essere provato, deve essere sentito. Per quanto riguarda la seconda ragione è certamente vero che, nella comunità scientifica come in quella politica, deve prevalere il dialogo critico, ispirato al logos, deve essere accettata - come solo metodo - la discussione razionale, ma i protagonisti di questo dialogo non solo sono diversi, ma sono anche diversi i problemi e, quindi, il linguaggio e le sintassi dei rispettivi discorsi, per cui la falsificabilità scientifica mostra di avere un orizzonte estremamente limitato. Infatti fra il linguaggio, con cui gli uomini si comunicano le esperienze vissute nel mondo della vita, e il linguaggio degli scienziati c’è un abisso: il primo è impreciso, vago, concreto, vissuto, non quantificabile, esperito; il secondo è preciso, esatto, formalizzato, neutrale, misurabile, verificabile. Come ha scritto Hannah Arendt: "Il motivo per cui forse sarebbe saggio diffidare del giudizio politico degli scienziati in quanto scienziati" consiste nel fatto che "essi si muovono in un mondo in cui il linguaggio ha perduto il suo potere. E qualsiasi cosa l’uomo faccia o conosca o esperimenti, può avere un significato nella misura in cui se ne può parlare (...). Gli uomini nella pluralità, cioè, gli uomini in quanto vivono, si muovono ed agiscono in questo mondo, possono fare esperienze significative solo in quanto possono parlare e darsi scambievolmente un senso". Fra il mondo dei fatti e quello dei valori ci sta appunto il linguaggio, che è l’espressione del mondo della vita, di una vita esperita e vissuta. Per questo la filosofia della pratica non potrà mai essere ridotta alla filosofia della scienza.

Torna all'inizio del documento

6. Liberalismo e filosofia pratica

Il liberalismo, in quanto pensiero politico, rientra senza certo esaurirla - nella grande tradizione della "filosofia pratica", la quale non cerca "verità", ma la soluzione pratica di un problema pratico o, più in generale, la fondazione dell’ordine politico liberale. Per questo al pensiero liberale non interessa, da un lato, essere speculativamente profondo, e, dall’altro, risolvere tutti i problemi con la rea1izzazione di una futura utopia. Proprio in quanto pratico la sua aspirazione è quella di tradursi in realtà, criticamente consapevole, però, di una sempre maggiore o minore distanza fra il suo progetto e la realtà: deve essere critica, cioè non descrittiva, perché deve sempre fare riferimento ai grandi principi regolativi dell’azione politica. Ma i princìpi non sono - conviene ribadirlo - rintracciabili in una utopia "letteraria", che cerca l’impossibile, totale soluzione dei problemi pratici, nella quale questi problemi non possano poi più darsi. Il liberalismo non cerca un mondo certo, semplice, chiuso, autosufficiente, senza storia. Questa è soltanto una fuga dalla realtà, per cui - per dirla con Ralf Dahrendorf  - il pensiero liberale cerca piuttosto la propria strada fra l’evasione nell’utopia (che porta alla fine al fallimento) e un vuoto pragmatismo (che porta alla rassegnazione).

La filosofia pratica nasce con Aristotele e percorre, con le sue fortune e le sue sfortune, tutta la storia del pensiero occidentale (una storia tutta da riscoprire), quando specificatamente affronta i problemi della pratica: l’etica, la politica, l’economia e il diritto, in quanto momenti centrali della convivenza umana. Questa tradizione è stata riscoperta o rivalutata solo recentemente, sotto l’influsso della lettura di Vita activa di Hannah Arendt e di Verità e metodo di Hans Gadamer, in reazione alle scienze umane e sociali, descrittive, neutrali, prive di giudizi di valore, le quali perderebbero ciò che caratterizza l’azione umana.

Per Aristotele - come si è accennato - la theoria cerca la verità, può raggiungere l’episteme, in quanto ha, come oggetto, le cose che non possono essere altrimenti. Ma nel mondo della pratica tutto è soggetto a deliberazione, perché entrano in gioco dei valori, che appunto sono soggetti a deliberazione. La razionalità teoretica non è quindi applicabile al mondo pratico; ma, se in questa sfera non c’è episteme, non siamo però inchiodati in una mera doxa, nella mera soggettività dell’opinione. E’ possibile anche una razionalità pratica, la quale, partendo dall’autonomia della praxis dalla theoria e distinguendola dalla poiesis (dall’agire tecnico che ha fuori di sé il proprio fine), può raggiungere - nonostante la propria scarsa precisione - la fronesis o la prudentia, cioè un sapere capace di orientare l’uomo nella sua azione.

Su questa linea, proprio per superare la mera doxa, cioè la mera opinione, ci si è necessariamente imbattuti nel Kant della Critica del giudizio, estendendo al mondo della pratica ciò che è detto in quest’opera per il campo dell’estetica, ma in armonia con quanto il Kant aveva scritto sull’opinione pubblica. Il "giudizio riflettente" ci porta fuori dalla pura soggettività, senza però poi fondarsi nella pura universalità: riflettendo sulla realtà, l’opinione si sottomette all’esame del pubblico, cioè al senso comune (comune, in quanto comunicabile). Questa opinione, questo giudizio soggettivo diventa universale non per la sua validità oggettiva, ma in quanto, data la sua comunicabilità, è riconosciuto dagli altri. Di un "valore" non può dirsi che sia "vero", ma che sia condiviso. Pertanto, nella sfera pratica, non conta la dimostrazione, ma l’argomentazione, cioè il discorso, la retorica. Ci sono soltanto due regole: in primo luogo, pensare da sé, evitando l’eteronomia o la passività della ragione; in secondo luogo, pensare mettendosi al posto degli altri, aperti alla comunicazione.

Ora, l’opinione pubblica è lo specchio della comunità politica, che è anche una comunità linguistica, dato che gli uomini sono in rapporto fra loro attraverso il discorso. Questo discorso tocca i problemi della loro convivenza che, in sede filosofica, sono affrontati dalle scienze pratiche, senza che ci sia, come nelle scienze teoretiche, un abisso fra chierici e laici, perché a tutti è concesso l’accesso nell’arena dei disputanti e nessuno ha il monopolio della verità. La filosofia pratica è una filosofia pubblica, nel senso che è un discorso sulla società non esterno ad essa: infatti il vero interlocutore non è il puro filosofo, ma la società stessa, per portare le opinioni all’autocoscienza della rappresentanza. È proprio dall’arena dei disputanti che nasce la prassi politica, e, dalla prassi politica, il possibile ordine liberale. Proprio in questa sede possiamo giustificare il nostro richiamo allo storicismo e all’ermeneutica: se la filosofia pratica riguarda tutti, dato che entra in campo il senso comune, se il confronto dialogico riguarda tutti gli individui, con le loro diverse esperienze esperite e vissute, non si può certo prescindere dalla storicità del loro "mondo della vita", nel quale appunto affonda l’autentica azione dell’individuo. Il discorso, l’azione, la comunità linguistica (e quindi l’ordine politico, che storicamente ne deriva o che è prospettato normativamente dai classici) è passibile soltanto di una lettura ermeneutica, diretta a rilevarne un senso comunicabile e intelligibile da tutti, oggetto - a sua volta - di un confronto discorsivo.

CONCLUSIONE
La rinascita del liberalismo

Torna all'inizio del documento

1. L’eclissi del liberalismo

Alla fine della seconda guerra mondiale, con la sconfitta del fascismo e del nazismo, e quindi dei regimi autoritari o totalitari, il liberalismo poteva apparire vincitore. Gran parte delle nuove costituzioni europee si ispirarono, infatti, al principio del "governo limitato", limitato da una legge fondamentale, la quale assicura una garanzia per i diritti dell’individuo più vasta e più sicura di quella tradizionale offerta dalla separazione dei poteri e dallo Stato di diritto, dato che sottopone a un controllo giudiziario la stessa costituzionalità delle leggi: rispetto al passato il potere della maggioranza veniva, così, ulteriormente imbrigliato in chiare procedure legali. Inoltre, la rapida ripresa economica dell’Italia e della Germania, uscite sconfitte dalla guerra, veniva favorita dall’adozione di una politica economica liberistica auspicata, in particolare, da parte di Luigi Einaudi e di Ludwig Erhard: combattendo drasticamente l’inflazione, essa faceva affidamento, per la ricostruzione e la ripresa, sulle forze del mercato. Stato costituzionale dei diritti, distinzione tra potere politico e potere economico, riconoscimento dell’autonomia del potere "filosofico", che si esprime nell’opinione pubblica: questa era proprio l’architettura dello Stato liberale, come era stata delineata sin dai tempi di John Locke.

Ma, all’indomani della Liberazione, il clima culturale era decisamente mutato, e i nuovi venti non soffiavano certo a favore del liberalismo. Non c’era solamente il mito dell’Unione Sovietica e del suo contributo alla sconfitta della Germania, mito che orientava gli spiriti verso l’ideologia marxista come la sola politicamente e teoricamente vincente sopra i regimi autoritari e, per questo, capace di realizzare una società più libera e più giusta; c’era inoltre il fatto che il pensiero liberale, politicamente messo in minoranza in Europa dai grandi partiti di massa, aveva perso fiducia in se stesso e vedeva ormai la necessità di "inverarsi" nel socialismo. L’intervento dello Stato nell’economia, realizzato prima in America con il New Deal e poi nell’Inghilterra laburista con il progetto del Welfare State, era divenuto il nuovo punto di riferimento della riflessione politica liberale, la quale cercava una terza via tra capitalismo e socialismo. In Germania questa riflessione ebbe come retroterra culturale la scuola dell’Ordoliberalismus, fiorita a Friburgo fra le due guerre.

A difendere l’indissolubilità fra liberalismo e liberismo restavano solo gli economisti, come Einaudi, von Mises, von Hayek, mentre il filosofo Croce, che pur fermamente respingeva ogni suggestione socialista in nome della giustizia, dissociava poi la concezione etica della libertà dalla concezione economica liberistica, la quale, in quanto meramente economica, restava a suo giudizio subalterna alla prima, per cui ogni provvedimento economico avrebbe dovuto essere giudicato non in base alla sua produttività, ma in rapporto all’accrescimento della libertà etico-politica che ne derivava. Altri liberali, come Dewey o Ortega y Gasset, ritenevano assolutamente indispensabile per il liberalismo accettare la socializzazione delle forze produttive, in modo da garantire la libertà dell’individuo tramite uno Stato socialista.

In questo cambiamento del clima culturale il liberalismo perdeva il suo peso: non che scomparissero i pensatori liberali, ma le loro opere entravano con difficoltà in circolazione ed erano quasi assenti nel dibattito etico-politico che aveva altri protagonisti, in primo luogo il marxismo col suo mito della rivoluzione, la sola rivoluzione che avrebbe portato a un’autentica liberazione dell’uomo assieme a quella dell’umanità. Lo Stato liberaldemocratico rischiava così di apparire una procedura vuota, priva di un autentico contenuto etico-politico.

Ci si accorse di questo pericolo quando scoppiò - in Europa come in America - l’insorgenza populistica del 1968: già nel 1955 il liberale Walter Lippmann ne aveva intuito la pericolosità e aveva visto nel populismo una controrivoluzione nei confronti della democrazia liberale. Il populismo è un coagulo di idee semplici e di passioni elementari, vissuto nell’azione, come protesta contro la tradizione e quindi contro quelle classi politiche e intellettuali che ne sono l’espressione. In nome della democrazia diretta, che sola può dare spazio a queste nuove minoranze dinamiche, il populismo avversa tutte le procedure legali e costituzionali, che sono d’impaccio alla sua passione per l’azione diretta. In nome di un estremo egualitarismo, dimentico delle libertà individuali, esso si ribella allo studioso, allo specialista, all’esperto in nome del proletario, del povero, dell’emarginato, cercando in questi la forza per scardinare il "sistema", considerato un dominio chiuso e onnipervadente. Proprio per questo, a differenza di quanto accade con i partiti rivoluzionari classici, il populismo non lotta solamente contro lo Stato, ma soprattutto contro le istituzioni fondamentali della società civile: le università, le Chiese, le fabbriche, gli ospedali. Il populismo non abbatte lo Stato, ma sconvolge la società civile, che è il tessuto in cui si radica il liberalismo.

L’insorgenza populistica ha dimostrato quanto fosse debole il retroterra ideale e culturale delle democrazie liberali, come le forme istituzionali non avessero più un’anima, uno spirito che le guidasse. Non solo: ha consentito la diffusione, o meglio il successo, di nuove filosofie chiaramente antiliberali negli ambienti della piccola e media borghesia, in precedenza scarsamente controllati dai comunisti, e soprattutto in quelle élites intellettuali che avevano un’egemonia nel dibattito culturale. Un fenomeno denunciato, ma con scarso successo, da Raymond Aron e da Daniel Bell.

La Scuola di Francoforte, con la sua teoria critica della società, aveva così un improvviso successo: il motivo politico ispiratore era l’ostinata sicurezza che il liberalismo, in quanto forma di dominio borghese, avesse come esito necessario uno Stato totale e autoritario. Se sul versante tedesco veniva proclamata questa morte (ignominiosa) del liberalismo, sul versante francese lo strutturalismo, affermando l’inesistenza dell’uomo, precludeva ogni discorso sulla sua libertà. Anzi, con le nuove parole d’ordine dell’antiumanesimo, dell’illusione dell’individuo, della morte dell’uomo, della distruzione dell’io - perché sovrane sono solo le strutture, dalle quali i singoli sono vissuti - si veniva disarmati nei confronti di ogni svolta autoritaria o totalitaria, anche se si credeva di condurre questa lotta soltanto contro i vecchi valori borghesi, individualistici e razionali. Così, nel grande mercato culturale, la moneta illiberale scacciava quella liberale: la cultura tedesca si imponeva con Horkheimer, con Adorno, con Marcuse e non con Dahrendorf, mentre la cultura francese seguiva Lacan, Foucault, Althusser, Lévi-Strauss, emarginando Aron.

Anche nell’area anglosassone i liberals o, meglio, i radicals respinsero l’eredità liberale: Robert Wolff denunciò la povertà del liberalismo di fronte alle dimensioni e all’organizzazione del moderno Stato industriale e, conseguentemente, la tolleranza vigente in questa società pluralistica così lontana dall’ideale democratico: il liberalismo, con l’idea di tolleranza che è alle sue radici, sarebbe soltanto la mera ideologia dello stadio più alto di sviluppo politico del capitalismo industriale, incapace di immaginare una nuova concezione della comunità sociale al di là del pluralismo e della tolleranza. Sulla stessa scia si mosse Crawford Macpherson, quando vide nella democrazia liberale, la quale è un sistema costituzionale con cui limitare il potere, soltanto un epifenomeno capitalistico, cioè la diretta espressione di un sistema economico, avendo la libertà e la proprietà una comune origine nell’individualismo possessivo. Pure Peter Bachrach si mosse in sintonia con le nuove mode: alla democrazia liberale, meramente procedurale, contrappose la democrazia sostanziale, una democrazia diretta nella quale tutto doveva essere politicizzato (anche la vita privata) e tutti dovevano essere mobilitati e coinvolti al fine di avere un governo di popolo senza élites. Nell’area anglosassone la democrazia liberale veniva così criticata non in nome dei suoi principi regolativi, al fine di mostrarne l’inadeguatezza rispetto ai suoi propri valori, ma in nome di un diverso principio (la vera democrazia socialista) che veniva però totalmente dissociato dal liberalismo. Il gioco era assai semplice: si riduceva il liberalismo a mera ideologia (borghese), per mostrare la superiorità etica del socialismo.

Anche dal versante cattolico vennero critiche al liberalismo, condotte sia sul piano storico, sia su quello teorico. T.P. Neill, in The rise and decline of liberalism del 1953, difende il liberalismo classico, che dura sino a metà dell’Ottocento, perché il principio della dignità dell’uomo, della sua autonomia e della sua responsabilità, affonda nella cultura cristiana; ma poi, con la secolarizzazione, il liberalismo diventerebbe prigioniero di una concezione materialistica, che privilegia il benessere e gli agi materiali, anteponendoli alla libertà spirituale: si privilegia, così, la freedom, una mera "libertà da", per dare spazio al proprio edonismo, sulla liberty, che deve essere vissuta in vista di valori come il bene e la verità. Così il liberalismo contemporaneo non rivendica più contro lo Stato la vera libertà, ma a esso chiede soltanto protezione e sicurezza, cioè la tutela di un mero benessere. Il liberalismo nella sua evoluzione sarebbe stato un solvente delle vecchie istituzioni sociali, producendo una società atomistica, nella quale trionfa l’individualismo più sfrenato e l’uomo sociale, che ha fini comuni con altri uomini, non ha più spazio. L’epilogo, per Neill, potrebbe essere quello del totalitarismo, secondo la profezia del "reazionario" Donoso Cortés. R.M. Unger (1975) muove una critica, che vuole essere "totale", all’intero corpus, teorico e pratico, del liberalismo, che viene pensato come una "concezione metafisica del soggetto e della società", concezione nella quale vengono inclusi anche gli avversari storici del liberalismo, come il marxismo, lo strutturalismo, la psicanalisi. Per l’aristotelico Unger il vizio di fondo del liberalismo è quello di non risolvere la separazione di universale e particolare, per cui in campo gnoseologico abbiamo l’antinomia tra teoria e fatto, in campo psicologico l’opposizione tra ragione e desiderio, in campo politico il contrasto fra fatti e valori. Così l’individuo, situato in un universo in cui i valori soggettivi vengono giocati contro le regole universali, entra a comporre una società che non conosce il bene comune. Contro il liberalismo, però, sa soltanto proporre la vecchia teoria dei "gruppi organici", animati da spirito comunitario, che dovrebbe superare la contraddizione esistente fra universale e particolare, restituendo così l’integrità all’individuo e alla società.

Circolavano in America e in Europa queste nuove idee proprio quando nei paesi dell’Est si riscopriva, per l’esperienza vissuta del totalitarismo e della sua "grande menzogna" ideologica, il fondamento stesso dei grandi principi dell’eredità liberale, che è la libertà di coscienza: per l’individuo essa è la vera realtà, nella quale si radicano i valori con cui arricchire il mondo umano. Vclav Belohradsky, Vclav Havel, Leszek Kolakowski, Czeslaw Milosz, Jan Patocka nelle loro riflessioni prendevano le mosse dalla riscoperta dell’individuo, con una profondità di analisi ignota ai pensatori occidentali. Non si trattava soltanto di una generica difesa della dignità della persona umana: solo nel mondo della vita dell’individuo - essi sostenevano - si radica la sua coscienza, la sua verità, quella coscienza nella quale soltanto l’azione trova la sua legittimità, quella verità che non può venire imposta dalle organizzazioni del potere.

In questo, che è il solo mondo veramente autentico, nasce la possibilità di una vera comunicazione con gli altri, tramite il linguaggio e con l’ausilio della memoria storica, per cui può formarsi una vera comunità senza rinunciare al contenuto della propria coscienza. Come ha affermato Milan Kundera, "la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio" imposto dall’ideologia al potere per rendere la mente prigioniera. Un’altra ragione della debolezza del liberalismo consisteva nel fatto che storici e filosofi, politologi ed economisti non s’accordavano sulla sua definizione. La sicurezza delle grandi ricostruzioni di un Guido De Ruggiero e di un Harold Laski, che vedevano nel liberalismo il prodotto della stessa storia europea, era venuta meno: dopo il prologo in cielo, dall’umanesimo all’illuminismo, la storia del liberalismo si era necessariamente frammentata - già con De Ruggiero, ma poi con Maurice Cranston e Salwyn Schapiro - in una storia parallela, nel corso dell’Ottocento, di diversi e fra loro lontani liberalismi. Il liberalismo non era più interpretabile come il filo rosso che tiene insieme la storia europea, come una necessità storica, in quanto rivelazione dello Spirito assoluto; e Max Salvadori ha giustamente parlato di un’"eresia liberale", di un fermento cioè che attraversa la storia, ma non coincide con la storia stessa. Nella storiografia sul liberalismo, se mai, si ama insistere sul suo tramonto o sulla sua fine: ma John Hallowell si limita a parlare del liberalismo tedesco, la cui debolezza di fronte al nazismo egli giustamente ascrive allo storicismo e al positivismo giuridico; Theodore Lowi limita il suo interesse agli Stati Uniti, per individuare la nascita di una seconda repubblica, in seguito all’affermazione dello Stato amministrativo, che avrebbe distrutto il liberalismo incarnato nell’antica Costituzione; Anthony Arblaster ha di fronte un orizzonte più vasto e una più lunga durata, e coglie il declino nel sempre maggiore scarto fra la vecchia teoria liberale, che esercitò una funzione liberatoria, e la pratica politica attuale, arroccata in una mera difesa di posizioni di classe e chiusa alle istanze sociali a causa del suo antico individualismo ontologico.

Questo mancato accordo sull’uso del termine liberalismo (o liberale) deriva dai criteri troppo soggettivi con i quali si interroga il passato: Ronald Dworkin giustamente avanza l’esigenza di distinguere fra strategie e tattiche del liberalismo, cioè fra principi costitutivi e politiche derivate, frutto spesso di necessità storiche, per non universalizzare il contingente e non scambiare la teoria con la realtà. Quando si parla del liberalismo non sempre si chiarisce a cosa ci si riferisca: a partiti o a movimenti, a concezioni filosofiche o a teorie economiche, a prassi politiche concrete o a forme di organizzazione del potere. Così, quando si usa il termine liberalismo, non si sa se se ne dà una definizione settaria (un partito o un movimento) o una definizione metapolitica, e non sempre si ha l’avvertenza di distinguere fra la teoria liberale e la realtà (o la pratica), perché i due piani non sono destinati a coincidere: la prima è forte, la seconda è debole. Un’altra causa di confusione è stata quella di ridurre il liberalismo a una semplice ideologia fra le altre, presentandone una versione assai confusa: si dimentica che il nocciolo duro del liberalismo non è un individualismo ontologico, ma sono i diritti civili e politici dell’individuo e l’organizzazione del potere atta a tutelarli e a garantirli. Queste confusioni dei liberali, ma soprattutto dei non liberali, nel definire il liberalismo sono state di certo uno dei motivi della sua debolezza. Esiste però un testo che può rappresentare un valido punto di riferimento: si tratta del libro di Friedrich von Hayek, The constitution of liberty, del 1960, nel quale in tono accessibile, al limite del divulgativo, egli condensa una lunghissima riflessione sul problema della libertà, riflessione che spazia nei campi più disparati: dalla psicologia all’epistemologia, dalla teoria politica a quella economica, dalla filosofia del diritto al costituzionalismo, dalla storiografia alla filosofia. Ma è proprio lo stesso Hayek a proporre di rinunciare a un termine per lui ormai così equivoco, come quello di liberalismo.

La principale debolezza del liberalismo nell’età delle ideologie e della propaganda di massa è certo derivata dalla sua incapacità di definire se stesso: ma questa debolezza - a ben guardare - era intrinseca alla natura stessa del liberalismo, che non ha né un’autorità che ne definisca dogmaticamente la dottrina, né una fonte, un testo sacro a cui ispirarsi. Ma, accanto a questa debolezza, c’era però un punto di forza, che spiega la fine dell’eclissi del liberalismo, la sua riaffermazione e la sua riabilitazione sul piano teorico negli anni settanta e sul piano pratico negli anni ottanta.

Molti pensatori liberali ritennero che il loro compito non fosse tanto quello di ridefinire il liberalismo, quanto quello di lavorare su problemi concreti, fossero essi di natura teorica o di analisi empirica: per poter parlare e dialogare era necessario ridefinire i concetti politici, per poter operare era necessario ricomprendere la realtà. Pur operando in ordine sparso e spesso lontani per origini culturali, i pensatori liberali - alla lunga - si dimostrarono più attrezzati per affrontare i problemi del presente e del futuro. Questo emerse chiaramente quando iniziò il tramonto delle ideologie, quando il socialismo reale mostrò la sua vera natura totalitaria, quando la crisi del Welfare State ripropose l’attualità del liberalismo, quando ci si accorse che le grandi trasformazioni sociali non erano tanto dovute a una deliberata politica dello Stato, ma costituivano il risultato di una spontanea interazione degli individui nella società. E ancora: questo emerse quando entrò in crisi quel largo "consenso socialdemocratico" in cui si amministrava l’esistente senza modelli per il futuro, in una società dominata dall’utilitarismo e dalla noia, senza pensare all’individuo e alle sue chances di vita, per cui sovente la fuga era nella droga o nel terrorismo. Proprio lavorando nel ri-definire e nel ricercare su singoli problemi, vecchi e giovani pensatori liberali dimostrarono che la fine del liberalismo era un problema mal posto, se con questo si intendeva la fine della teorica (non della pratica) liberale.

Torna all'inizio del documento

2. Dalla critica dell’ideologia al razionalismo critico

L’ideologia è certo il principale avversario col quale il liberalismo è stato costretto a confrontarsi. Questo termine copre significati diversi e disparati: già Alexis de Tocqueville aveva osservato che, in una società democratica di massa, all’individuo erano necessarie poche idee semplici ed elementari, per mezzo delle quali orientarsi nella realtà. La semplificazione è certo un fatto necessario all’individuo, un fatto quasi fisiologico, ma non lo è più quando vizia le teorie politiche, diffuse dai mezzi di comunicazione di massa: queste semplificazioni rischiano, così, di perdere ogni contatto con la realtà della vita e dei concreti processi sociali, nella misura in cui questa realtà si rivela sempre più complessa, ambigua e contraddittoria. Il pensiero si irrigidisce e si ossifica in stereotipi, accettati acriticamente, proprio quando la realtà presenta volti e sembianze diverse, per cui la coscienza-e quindi la politica - risulta in ritardo sulla realtà.

Daniel Bell, uno dei più sottili interpreti liberali delle trasformazioni socioeconomiche e dei mutamenti dei climi d’opinione in corso nell’Occidente, quando pubblicò The end of ideology, nel 1960, aveva certamente come scopo anche quello di mostrare la fallacia di tante teorie sociologiche e politologiche sugli Stati Uniti, dominanti presso il piùlargo pubblico, cogliendo il trasformarsi di un’interpretazione scientifica in una superstizione di massa. Ma il suo vero scopo era quello di mostrare la fine di un’ideologia utopica, quella socialista o meglio marxista. Nel 1960 egli precorreva i tempi; e troppo spesso, per contrastarlo, si scambiò la fine delle ideologie con la fine dei valori politici, mentre si trattava soltanto della possibilità di una liberazione di questi valori. Per Bell l’ideologia, in senso forte, è una concezione del mondo chiusa all’esperienza, sicura della propria verità, la quale, pur essendo debole in teoria, si dimostra invece capace di suscitare passioni e quindi quelle azioni che da esse derivano. L’ideologia socialista, fatta propria dagli intellettuali, ha una prospettiva millenaristica e una speranza chiliastica: per questo ha come sbocco una guerra civile e religiosa contro il capitalismo, quale forma di sfruttamento dell’uomo, in vista della sua totale liberazione. Per Bell le energie passionali ed emozionali dell’uomo erano state un tempo simboleggiate dalla religione e canalizzate verso fini ultramondani attraverso la liturgia, i sacramenti, le arti. La moderna ideologia mondana, invece, fonde queste energie e le canalizza nella politica, ma a prezzo della perdita dell’io, salvato dalla religione con la paura della morte: la salvezza è solo nella politica, che diventa necessariamente dominio sugli altri per la trasformazione della società. Bell ci ha dato in chiave sociologica un’interpretazione dell’ideologia assai affine a quella filosofica, che la interpreta come teologia secolarizzata in quanto pone la salvezza dell’uomo in questo mondo. Era questa l’ideologia di cui Bell prevedeva l’esaurimento, perché ormai troppo logorata dalla prova dei fatti.

La lotta contro l’ideologia da parte del pensiero critico liberale ha conosciuto altri validi percorsi, che dell’ideologia colpivano non tanto l’aspetto "religioso", quanto l’abuso della ragione insito nelle sue stesse premesse: in sede epistemologica veniva riesaminata la natura stessa della scienza, che sembrava immune, in quanto presunta neutrale, da passioni ed emozioni politiche. La controrivoluzione della scienza ha, per Hayek ( 1952), origini lontane nel Settecento francese e, per canali intellettuali diversi, continua a dominare il nostro tempo. Questo abuso nasce dall’illusione illuministica di poter estendere i metodi delle scienze naturali alle scienze sociali, dimenticando che, mentre le prime Si occupano dei fatti naturali, le seconde si occupano invece delle azioni umane, che sono libere e coscienti. Da qui sorge una duplice illusione: non solo quella di poter raggiungere una conoscenza oggettiva della realtà sociale e delle sue leggi, ma anche quella - assai più pericolosa - di poter controllare e manipolare la società come si controlla e si manipola la natura. Compare così, nel campo politico, una mentalità ingegneristica, un razionalismo costruttivistico che pretende di dirigere dall’alto i processi sociali e politici. Le ingenuità scientiste hanno dimostrato di avere una forte valenza politica e non solo nel campo del socialismo; esse però pagano poi sempre la pretesa della loro illusione con un rafforzamento dell’autorità, nel tentativo di domare una realtà indocile alle previsioni della scienza e ai miti di una direzione cosciente (cioè politica) che è in realtà quella di un unico cervello, munito non tanto dell’intelligenza quanto del potere. Nella diffusa mentalità del razionalismo costruttivistico affondano le loro radici la pianificazione, la programmazione, la progettualità.

Alla riscoperta - sulla scia di Locke e di Hume - dei limiti della ragione perveniva da un’altra sponda, quella delle scienze naturali, Karl Popper col suo razionalismo critico, metodo che poi estese alle scienze politiche e sociali, condannando l’illusione di chi crede di aver scoperto le leggi dello sviluppo storico o il fine della storia, per modellare su di esse, in modo autoritario, l’azione degli uomini.

L’ideale di Popper - in campo scientifico come in quello politico - era quello di una società "aperta" alle continue libere scoperte della ragione, contrapposta concettualmente all’olismo totalizzante di una società "chiusa" nelle pseudoverità di un razionalismo o di un naturalismo dogmatico.
Per Popper le scienze naturali possono guardare alla "verità" come a un ideale regolativo ultimo, che però non raggiungono mai. La scienza consiste nell’elaborazione di teorie, che possano essere non tanto verificate, quanto confutate: una teoria che non sia passibile di confutazione (come è appunto l’ideologia), non è scientifica, ma solo un atto di fede. La scienza procede pertanto in base a congetture e ipotesi, da un lato, e, dall’altro, in base a controlli, confutazioni e falsificazioni, perché si impara solamente dagli errori: la verità resta soltanto uno stato d’animo o un ideale limite, mentre la scienza, per progredire, ha bisogno non di certezze, ma di un continuo "dialogo" nell’ambito della comunità degli studiosi, che insieme verificano o falsificano le loro ipotesi. Popper e il suo allievo Hans Albert hanno giustamente ribadito il carattere liberale della loro epistemologia, anche se è difficile poi discernere se il liberalismo sia la premessa o la conseguenza del loro razionalismo critico.

Popper e Albert capovolgevano il discorso ideologico, che è tutto concentrato sui fini, per spostarlo sui mezzi disponibili in un mondo dalle risorse limitate: il "dover essere" doveva sempre confrontarsi con il "poter essere"; il vero problema, cioè, era quello della "realizzabilità". Il razionalismo critico batteva, così, l’accento sul "come", sulle conseguenze di ogni decisione politica, sul calcolo del rapporto fra costi e benefici, disancorando il discorso politico dalle fedi totalizzanti o dai valori astratti e ancorandolo invece al rigore concettuale delle teorie e alle successive verifiche empiriche. La società industriale era stata creata anche dalla scienza, ed era un’illusione governarla al massimo della razionalità tecnica e dell’efficienza economica con uno spirito antiscientifico, magari sostituendovi lo scientismo degli ideologi, valido soltanto a procurare acritici consensi all’autorità. Nel governo di una società industriale le scienze economiche dovevano così acquistare una piena cittadinanza.

La "società aperta" di Popper, non imprigionata e chiusa dai dogmatismi di una ragione assoluta e pertanto ideologica, era caratterizzata dalla sua capacità di liberare le valenze critiche dell’individuo. Questa teoria politica ha avuto maggiore risonanza di quella di Hayek, il quale perveniva a definire l’"ordine politico" (liberale) attraverso un itinerario assai più complesso, il cui punto di partenza era nella psicologia cognitiva. L’ordine che la mente conferisce all’esperienza o per meglio dire ai fenomeni in quanto distinti dai fatti fisici, è dovuto - secondo Hayek - a norme astratte metaconscie e presensoriali, le quali ci forniscono una mappa, un apparato di classificazione, con cui inquadrare gli stimoli e gli eventi. Poiché si tratta di norme metaconscie, ne consegue che i processi razionali e consci sono solo una minima parte dell’attività mentale: su questa attività, pertanto, è impossibile esercitare un controllo deliberato, perché tali norme non possono essere costruite dalla mente stessa. Una piena autocomprensione della mente risulta così impossibile, dato che la ragione è limitata, alle sue stesse origini, da queste norme metaconscie, che non possono essere oggetto di coscienza perché governano i processi consci senza apparirvi. La conoscenza a livello inconscio dell’individuo è assai più vasta della sua conoscenza conscia ed esplicita; ed è proprio nella prima che si radica l’origine delle sue azioni. Queste norme astratte e metaconscie non sono innate o naturali; sono invece il risultato di un lungo processo di selezione nel contesto dell’evoluzione naturale della specie: si tratta di un ordine spontaneo, risultato di forze autogenerantisi.

Queste norme astratte non sono soltanto interne alla mente, ma si concretizzano nei processi sociali spontanei (naturali, non artificiali), nelle istituzioni (come il linguaggio o i codici morali o normativi) che non sono certo il prodotto di una deliberata volontà razionale (come le organizzazioni o la legislazione). Anche le istituzioni evolvono naturalmente e spontaneamente in base al principio di selezione; poiché questa evoluzione costituisce il risultato dell’attività di un numero infinito di menti, ogni previsione è impossibile. Questi processi sociali non possono essere né controllati né guidati con le ingegnerie costruttivistiche, ma al massimo "coltivati". In questa complessa filosofia riposa la difesa dell’ordine politico liberale, che Hayek chiama catalaxy: la contrapposizione è fra un ordine spontaneo, che non ha un suo proprio fine, ma consente il perseguimento di più fini (nomocracy) nell’ambito di norme astratte, e un ordine organizzato in vista di un ben preciso e determinato fine (teleocracy): il primo ordine si autoregola, il secondo è disciplinato dall’alto. L’ordine liberale (il primo) è superiore all’ordine autoritario (il secondo), perché si può concentrare il potere, ma non il sapere pratico diffuso, da cui dipendono i processi sociali: solo il primo ordine consente una piena utilizzazione delle conoscenze tacite e disperse, incorporate in norme e abitudini, mentre l’ordine centralizzato dall’alto può utilizzare soltanto le conoscenze esplicite e quindi una minima parte del sapere socialmente significativo. Questa analisi non poteva non portare a vedere nella storia un lento e complesso processo, e quindi a riscoprire Burke: solo per una ragione illuministica questo processo può apparire opaco e non trasparente.

Da questa impostazione di Hayek deriva una rottura nel campo delle scienze sociali che approda alla teoria dell’individualismo metodologico. Le scienze sociali spesso partono da "insiemi", da totalità, quasi che queste astrazioni siano reali, e rappresentino un prius rispetto all’individuo. Queste astrazioni possono avere un’utilità pratica di discorso, ma nella realtà gli insiemi sociali sono la risultante dell’interazione delle azioni individuali: partendo da questi insiemi noi possiamo cercare di stabilire dei modelli di regolarità, senza però poter prevedere i singoli eventi; tali modelli restano costruzioni meramente teoriche per la descrizione dei fenomeni. Nel credere reali certi aggregati, che sono o costruzioni teoriche o credenze popolari, si manifesta solo una mentalità "collettivistica", portata a dissolvere l’individuo in una realtà che lo supera e lo trascende.

Questo nuovo orientamento epistemologico, che spazia dalle scienze della natura alle scienze sociali, ha avuto successori in una generazione più giovane, assertrice anch’essa di una razionalità limitata. Raymond Boudon mostra, contro le pretese del razionalismo costruttivistico, i possibili "effetti perversi" o inattesi dell’azione sociale in una società sempre più complessa; mette in rilievo, contro le teorie che partono dagli insiemi, la realtà dell’azione individuale, che produce il disordine e, quindi, il mutamento sociale, per approdare poi a una radicale revisione dell’ideologia. Nella stessa direzione si era mosso Michael Polanyi, il quale, riprendendo e sviluppando le tesi di Hayek, aveva riaffermato che la conoscenza fondamentale dell’uomo è tacita piuttosto che esplicita e che sappiamo di più di quanto possiamo esprimere; inoltre, distinguendo fra un ordine monocentrico e uno policentrico, ascriveva la scienza al secondo, perché essa è il frutto di un ordine spontaneo e non della dittatura di una nozione assoluta. Inoltre Polanyi metteva in luce come il tratto distintivo di una società libera non fosse tanto la preservazione della libertà privata dell’individuo, che non veniva negata neppure dai regimi assoluti, quanto l’ampiezza della gamma delle libertà pubbliche, attraverso le quali l’individuo svolge un ruolo sociale; è la libertà pubblica, Infatti, non quella privata, che caratterizza una società libera.

Negli stessi anni un altro pensatore andava muovendo analoghe critiche ai miti del collettivismo, della pianificazione centrale, della realizzazione di un mondo migliore in base a un astratto progetto razionale, che non teneva conto della "tradizione" di una società, a quello che, in breve, egli chiamava il "razionalismo" applicato alla politica: Michael Oakeshott. La sua analisi si muove su tre livelli: filosofico, morale e politico. Oakeshott prende le mosse da una specifica concezione della mente, che egli non considera un mero strumento per pensare, ma piuttosto il prodotto dell’attività e della conoscenza, e perviene a una suddivisione dicotomica della conoscenza in conoscenza "tecnica" e conoscenza "tradizionale": quest’ultima è essenzialmente una conoscenza pratica e, a differenza della prima, non può essere espressa in regole. Nella morale e nella politica - egli può quindi concludere - dove è richiesta non soltanto una conoscenza tecnica, ma anche una conoscenza tradizionale - pratica (perché ogni tipo di condotta si situa all’interno di una società avente una propria tradizione di comportamento), ogni tentativo di prescindere da quest’ultima è "razionalistico" e destinato al fallimento: in politica non esiste, infatti, una "soluzione migliore" elaborata in base a un ragionamento astratto, che possa essere adottata sempre e ovunque, ma solamente una "soluzione migliore in determinate circostanze". Nel pensiero di Oakeshott si possono, infine, distinguere due atteggiamenti di fondo: una critica totale e spietata della tradizione illuministica (moralista, riformista e attivista) del pensiero occidentale e una predilezione per il governo limitato che (e qui la disposizione è simile a quella di Kant) permetta agli uomini di perseguire i propri fini e non voglia imporre loro un modello di "felicità".

L’individualismo metodologico, la riaffermazione dei limiti della ragione, la valorizzazione dell’ordine spontaneo come sola fonte di sviluppo, la riscoperta della tradizione, non potevano non avere un risvolto politico: in primo luogo quello di riproporre al centro della realtà sociale l’individuo, sia pure in una continua interazione con gli altri, cioè con la società presente ma anche con quella passata, dato che questa eredità è radicata nella nostra mente e nel suo interno ordine. L’individuo è, così, un soggetto e non un oggetto, per cui trova un fondamento la difesa della sua libertà e dei suoi diritti. In secondo luogo in questo orientamento epistemologico si giustifica l’ostilità o la diffidenza verso le utopie razionalistiche della pianificazione, della programmazione o della progettualità, nel momento in cui queste, per realizzarsi, devono manipolare autoritariamente gli individui con una ragione ristretta, non dando spazio alle loro tacite conoscenze. In terzo luogo la totalizzante mentalità ideologica, che sacrifica gli individui reali in nome di astrazioni e per la realizzazione di astrazioni, non poteva non essere corrosa da questo razionalismo critico, che colpiva l’abuso o la superbia della ragione senza cadere nell’irrazionalismo.

Torna all'inizio del documento

3. Democrazia totalitaria e democrazia liberale

Alla fine della seconda guerra mondiale la propaganda aveva diviso il mondo in due campi: quello della democrazia e quello della dittatura fascista. Ma ben presto si cominciò a sostenere che la democrazia socialista era in realtà più democratica di quella occidentale, perché questa era basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè sul capitalismo, ed era quindi una democrazia meramente formale, cioè apparente, mentre, per raggiungere una democrazia sostanziale e reale, era necessaria una radicale trasformazione strutturale della società, che, espropriando l’espropriatore capitalista, rendesse gli uomini eguali. In questa situazione si raggiunse il massimo di confusione nell’uso del termine democrazia, confusione che - come già aveva ammonito Tocqueville - poteva servire soltanto "ai demagoghi e ai despoti". Tocqueville, a suo tempo, aveva definito la democrazia nella libertà e aveva messo in guardia contro i pericoli della tirannia della maggioranza e del dispotismo paternalistico. Ma in una propaganda di massa per cui contava soltanto il "nuovo" la sua lezione era stata dimenticata. Era quindi necessario ridefinire la libertà (liberale), come hanno poi fatto Aron, Bobbio, Berlin, ma soprattutto la democrazia (liberale) per intendersi su questa parola, per sapere di che cosa si stava parlando, per conoscere la realtà che stava dietro un’espressione divenuta così seducente per tutti e della quale tutti volevano impadronirsi. Anche i regimi totalitari dell’Est si fregiavano della parola democrazia: ci si dimenticava che il totalitarismo è un fenomeno politico radicalmente nuovo nella storia dell’Occidente, in piena rottura, anzi volto alla distruzione delle tradizioni, delle idee e dei valori del passato, al fine di stabilire istituzioni del tutto nuove.

Lo studio che rappresentò la rottura decisiva di questi interessati fraintendimenti fu certo The origins of totalitarianism di Hannah Arendt, del 1951, e l’autrice, per questo suo volume, non rifiutò la definizione di liberale. Esaminando la concreta forma di organizzazione del potere dei regimi totalitari e non il contenuto della loro ideologia, la Arendt identificò come regimi di tale natura il nazismo tedesco e il socialismo sovietico. La caratteristica del totalitarismo, a suo giudizio, è il partito unico che da un lato esercita un primato sullo Stato, docile strumento del suo potere, e dall’altro, attraverso organizzazioni collaterali, politicizza tutta la società civile, anche nelle aree più lontane dalla politica, come la famiglia, al fine di eliminare ogni sfera privata e con il risultato di ridurre l’uomo al silenzio e a non pensare Questo controllo sulla società civile è ottenuto, in primo luogo, attraverso la polizia segreta (uno spionaggio onnipresente) e i campi di concentramento, e, in secondo luogo, per mezzo di una ossessiva propaganda ideologica.

L’ideologia ha una sua interna coerenza religiosa impermeabile ai fatti e vuole imporre, come reale, il proprio mondo fittizio, spiegando con certezza assoluta il corso della storia, della quale ci si considera coscienti protagonisti. L’individuo perde, così, la capacità di esperienza e di pensiero: la realtà vissuta viene manipolata per adeguarla alla dottrina ufficiale del potere.

In totalitarismo presuppone individui sradicati dal tessuto sociale e isolati dalla vita sociale e pubblica: insomma estraniati dal mondo e privati del proprio io, nell’illusione di poter costruire così l’"uomo nuovo". L’individuazione di questa nuova forma di organizzazione del potere, ignorata nel passato, ha faticato a imporsi tra gli studiosi, perché in questa elaborazione concettuale i progressisti vedevano soltanto un’espressione ideologica della guerra fredda, sebbene anche altri studiosi avessero messo a fuoco il fenomeno e Talmon e Hayek, per esempio, avessero rintracciato le origini della democrazia totalitaria nel pensiero settecentesco. Una conferma di queste analisi venne invece negli stessi anni proprio dai paesi dell’Est: Milovan Gilas (1957), in un manoscritto mandato in Occidente dalla Jugoslavia, descrisse lo smisurato potere, ignoto nel passato, della "nuova classe", la burocrazia del partito comunista, che deteneva, oltre al potere politico, quello economico e quello ideologico. Tutta la successiva letteratura del "dissenso" è stata una denuncia del totalitarismo e degli ostacoli che esso pone all’uomo che vuole realizzarsi come tale.

Mentre, da un lato, veniva svelata la natura della democrazia totalitaria, dall’altra parte, a metà degli anni cinquanta, Robert Dahl e Giovanni Sartori cominciarono a ridefinire la democrazia liberale su linee diverse ma convergenti: più sociologico-esplicativa la prima, più teorica la seconda. Il successo editoriale di Democrazia e definizioni di Sartori (1957), la cui successiva e assai ampliata edizione inglese (Democratic theory) ha avuto numerose traduzioni, fa di questo volume il punto obbligato di ogni discussione su questo tema. Trent’anni dopo, inoltre, Sartori (1986) è tornato sull’argomento per un esame critico della vasta letteratura sulla democrazia apparsa in questo arco di tempo. Lo studio si basa su due presupposti metodologici. In primo luogo la necessità di definire concettualmente i termini utilizzati affinché si sappia di cosa si sta parlando. Dato che la teoria democratica di Sartori è quella liberale, questo approccio logico lo porta giustamente a ribadire che sia la democrazia sia il liberalismo sono concetti squisitamente politici, e solo nel vocabolario politico (e non in quello economico o sociale) hanno la loro legittimità: solo in questa sede sono confutabili, cioè in quella dell’organizzazione del potere. Da un punto di vista meramente logico, liberalismo e democrazia sono distinti, perché il primo mira alla libertà politica degli individui, mentre la seconda all’eguaglianza politica dei cittadini; ma, da un punto di vista storico-fattuale, la realizzazione della democrazia liberale, nella quale l’eguaglianza politica è stata raggiunta avendo come mezzo e come fine la libertà, ha dimostrato che i due principi, pur distinti, non si sono rivelati inconciliabili tra loro. Questa conclusione rappresentava una vigorosa ripresa del motivo centrale della Démocratie en Aménque di Tocqueville, una ripresa tanto più importante in un momento in cui da sinistra si amava ancora contrapporre il liberalismo (del passato) alla democrazia (del futuro). Nella realtà si vedeva che era possibile soltanto contrapporre il liberalismo ad altre e diverse forme di democrazia, come quella totalitaria, populistica, autoritaria-plebiscitaria.

Il secondo presupposto metodologico è quello di individuare una terza via tra i realisti, che si limitano a descrivere una democrazia reale, e gli idealisti, che amano prescrivere una democrazia ideale; una terza via che mantenga, come validi, entrambi i momenti, perché nessuna società può essere intesa e migliorata in termini esclusivamente descrittivi solo prescrittivi. Bisogna muoversi fra l’essere e il dover essere, anche se si devono tenere questi due piani logicamente distinti, perché il secondo resta pur sempre il criterio prescrittivo del primo. Una teoria della democrazia moderna ha bisogno quindi di entrambi questi momenti: da un lato un accertamento descrittivo, che illumini le condizioni di fatto nelle quali l’ideale democratico deve operare, dall’altro un orizzonte prescrittivo, senza il quale una democrazia non può esistere; pur essendoci uno scarto - fra questi due momenti, essi devono tuttavia essere tenuti sempre presenti contemporaneamente. La teoria sartoriana sfugge così all’accusa, tanto frequentemente formulata, di essere una teoria realistica: questa accusa può essere mossa soltanto da chi propone una teoria irrealistica o immaginaria, in ultima analisi utopica, della democrazia, una teoria che dà scarso o nessun aiuto alla prassi politica. Proprio per questo, invece, secondo Sartori, bisogna prendere coscienza della radicale diversità che esiste tra la democrazia dei moderni e quella degli antichi, alla quale troppo spesso ci si riferisce - seguendo Rousseau- per definire questo termine, dimenticando che la democrazia dei moderni, essendo per forza di cose una democrazia rappresentativa, ha altri problemi: questi problemi devono essere esaminati e non ignorati perché considerati estranei a un modello razionalistico e astratto, se si vuole far funzionare democraticamente la democrazia.

All’interno di questo impianto metodologico Sartori innesta poi un motivo già enunciato da Joseph Schurnpeter (1942), quando critica la teoria classica della democrazia, secondo la quale nelle elezioni si esprimerebbe la volontà popolare. Nella realtà del processo democratico le cose procedono altrimenti: nel mercato elettorale gareggiano diverse élites (i partiti), in competizione fra loro, che vendono politiche per ottenere il voto. In altri termini, il cittadino non è più sovrano, ma può soltanto scegliere fra diverse élites, che nelle procedure democratiche rappresentative si propongono e non si impongono: per cui, se perde la piena cittadinanza che aveva nella democrazia diretta, non diventa tuttavia neppure un mero suddito.

In questa prospettiva viene ridefinita la teoria pluralistica, che vede l’esistenza nella società di più gruppi o centri di potere, anche in conflitto fra loro, i quali dovrebbero limitare, controllare e contrastare il centro di potere dominante, identificato nello Stato. Così, per Dahl, il processo democratico porta alla realizzazione di una vera e propria poliarchia, che s’instaura fra una molteplicità di centri di potere in competizione fra loro, fra diverse élites in concorrenza per ottenere il potere di decisione: in questo pluralismo il potere dell’élite vincente è e resta sempre limitato da quello delle élites sconfitte, per cui si genera una situazione di equilibrio, che impedisce che uno di questi poteri diventi egemone o dominante. Il potere del popolo resta, pur sempre, il potere di esercitare un’influenza sulle minoranze che elegge.

Questa potrebbe sembrare una semplice esaltazione - come da molti è stato detto - delle teorie elitiste; ma anche su questo è necessario operare una distinzione. Che in un qualsiasi sistema politico sia una minoranza a governare, è un fatto che può essere confutato soltanto da altri fatti; questo fatto, del quale la scienza politica deve prendere coscienza, può però avere sbocchi assai diversi. Così, per Dahl, vi sono numerosi tipi di poliarchia: essi si differenziano in base alla partecipazione politica, al grado di competizione e alla possibilità di accesso all’arena politica. Tutte queste classificazioni non servono soltanto a meglio comprendere le democrazie reali, ma anche a mettere in luce, in base a un principio ideale, quale sia il miglior processo democratico: questo non sarà ovviamente quello che vede al potere un’oligarchia chiusa e senza competizione, ma quello in cui vi sarà una vera poliarchia competitiva sulla base di una vera partecipazione.

La teoria pluralistica, col privilegiare, nella sua analisi del processo democratico, il gruppo rispetto all’individuo, avrebbe potuto correre il rischio di trascurare tutta una serie di diritti civili, che fanno parte del più complesso diritto di cittadinanza dell’individuo. Ma in realtà l’interpretazione liberale della democrazia aveva già intellettualmente vaccinato le menti contro questo pericolo con la tematica del costituzionalismo. Fra costituzionalismo e pluralismo non c’è opposizione, in quanto essi rappresentano due momenti dello stesso processo politico: il primo quello dell’"archia", cioè del governo della legge, il secondo quello dell’"anarchia", cioè della libertà dei gruppi nella società; così, per definire la liberaldemocrazia, si può parlare di regimi "costituzional-pluralistici". Il testo fondamentale che ha introdotto la tematica (liberale) del costituzionalismo nella definizione della democrazia moderna è quello di Carl. J. Friedrich ( 1950). Per governo costituzionale si intende, in primo luogo, un governo limitato in tutte le sue attività da una costituzione scritta e rigida, elaborata attraverso ben chiare e definite procedure democratiche. La costituzione deve servire a garantire contro tutti (il governo, ma anche i gruppi) i diritti del cittadino (riassumibili in quello di cittadinanza) e a rendere "giustiziabili" questi diritti contro ogni abuso del potere legislativo per mezzo di una Corte costituzionale: il risultato a cui così si perviene è uno "Stato costituzionale dei diritti" e non un mero Stato di diritto. Inoltre la Costituzione serve a fissare le regole del gioco, e cioè le procedure democratiche attraverso le quali si possono prendere le decisioni, ponendo al centro della formazione della volontà politica dello Stato la "rappresentanza" e come suo esito una legge generale e insieme costituzionalmente legale.

Il vero obiettivo del costituzionalismo resta però quello della difesa dei diritti dell’individuo, la cui libertà è sottoposta soltanto alla legge. La democrazia costituzionale può presentarsi in modo unitario proprio perché il primo termine indica "chi" deve governare, il secondo "come". Riconsiderando questa interpretazione in chiave liberale della democrazia, si deve sottolineare come il liberalismo sia rimasto fedele a se stesso e abbia soltanto approfondito in mutate circostanze storiche il tema delle sue origini, cioè il tema della divisione del potere. Per tutto l’Ottocento è stato dominante il principio della separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), mentre oggi - attenuata la distinzione fra legislativo ed esecutivo - l’attenzione si è spostata verso l’autonomia del giudice dal potere politico.

Con le moderne teorie pluralistiche, con la concezione poliarchica, si afferma una nuova divisione del potere, non dei poteri dello Stato, ma dei poteri che si radicano nella società. Inoltre l’esperienza del totalitarismo ha reso attuale una nuova divisione, che però era già implicita in Locke: quella fra potere politico, potere economico e potere intellettuale. In altri termini, il progetto liberale consiste in una società a più dimensioni, nella quale ciascuna di queste dimensioni funzioni secondo la sua logica interna e non sia sopraffattrice delle altre, seguendo tentazioni monistiche che vogliono le diverse dimensioni subalterne a quella egemone.

Michael Walzer (1983), vedendo nella storia del liberalismo l’esplicitazione dell’arte della separazione, ha tracciato in difesa del pluralismo e dell’eguaglianza il quadro di un vero pluralismo istituzionale, che si basa sulla conquista - nel corso della storia - di alcune grandi distinzioni fra Stato e Chiesa, fra comunità politica e società civile, fra potere e università, fra vita pubblica e vita privata: distinzioni necessarie per delimitare con delle vere e proprie "mura" i diversi ambiti della vita sociale, ciascuno dei quali deve godere della sua autonomia, perché proprio questi ambiti sono i luoghi concreti della libertà dell’individuo. Queste mura dividerebbero i cittadini, se non esistesse, sovrano nel suo ambito, uno spazio comune a tutti, lo spazio della "politica", che pure bisogna difendere dalla intromissione da parte delle altre sfere istituzionali: in questo spazio deve agire l’intero corpo dei cittadini in vista dell’interesse generale. La politica liberale resta, così, ancora un’arte architettonica, che deve però soltanto armonizzare la ricca pluralità della nostra vita sociale e non già comprimerla e schiacciarla.

Torna all'inizio del documento

4. Dalla società industriale al governo della società complessa

Per ridefinire una prospettiva politica liberale era anche necessario riesaminare la realtà sociale nella quale ci si stava muovendo, soprattutto quando essa mostrava rapide ed accelerate trasformazioni: conoscerla sul piano di un’indagine empirica (sociologica e politologica), mentre il marxismo restava fermo ai suoi vecchi criteri interpretativi, cioè alla lotta di classe fra operai e capitalisti, alla centralità o universalità del proletariato nella trasformazione sociale e al traguardo politico della dittatura del proletariato. Si deve attribuire a due studiosi liberali, Aron e Dahrendorf, il merito di aver "riproblemizzato" questi concetti analitici e di averne verificato lo sbocco politico. Hanno potuto compiere questa operazione proprio perché avevano fatto i conti con il marxismo e lo utilizzavano come criterio di analisi empirica.

I risultati di questo approccio al problema sono stati soprattutto due: da un lato la messa in discussione del concetto di classe e, dall’altro, l’esame dell’intero problema da un punto di vista più ampio, quello della società industriale, una realtà comune sia ai paesi occidentali che a quelli dell’Est. Sarebbe opportuno anche sottolineare l’assenza, nel pensiero liberale, di spirito polemico contro la società industriale in quanto tale, che in questi anni ha trovato invece echi favorevoli, sia a destra che a sinistra, esprimendosi nel mito di una visione organicistica della società e nel principio di una totale subordinazione dell’economia all’etica. Il pensiero liberale ha preferito invece misurarsi con questa società, per gestirla in base ai valori di libertà e giustizia.

Nelle analisi liberali delle trasformazioni sociali in atto la categoria di "classe" dimostrò subito tutta la sua labilità: essa poteva avere un’eccezione semplicemente "nominalistica", per delimitare un’insieme di individui in base al loro status (ma in tal modo si finiva inevitabilmente per definire la stratificazione delle classi in base al criterio meramente quantitativo della differenziazione dei redditi); oppure poteva avere un’accezione "realistica", intesa a vedere nella classe un soggetto collettivo, che in modo cosciente agisce nella storia (in termini marxiani: quando il proletario è anche comunista). Ma questo soggetto collettivo non era sempre verificabile empiricamente, non solo a causa dell’esistenza di proletari non comunisti e di comunisti non proletari, ma anche perché il partito comunista agì spesso in nome di un proletariato "metafisico" e non del proletariato "reale" (come accadeva nei paesi dell’Est).

La realtà empirica si mostrava assai più complessa rispetto alle categorie formulate da Marx nell’Ottocento, proprio perché nelle società industriali dell’Occidente era in atto una forma di decomposizione delle classi: il vecchio capitalista tendeva sempre più a scomparire o, meglio, a ridursi a mero azionista, mentre il controllo delle forze produttive passava ai dirigenti, ai managers; la classe operaia si articolava, in base alle diverse professionalità, in operai specializzati, semispecializzati e non specializzati; si verificava poi un’impressionante espansione delle classi medie, del tutto imprevedibile ai tempi di Marx, e anche questa è una realtà complessa e decomposta. L’aumento, infine, dei tassi di mobilità sociale finiva per indebolire i confini fra le classi stesse. La società industriale poteva venire definita "postcapitalistica", proprio perché non era più possibile legare le classi alla proprietà privata e ridurre il potere politico al potere economico.

Pochi anni dopo, la definizione di "postcapitalistica", usata per descrivere la realtà socioeconomica del dopoguerra, era già divenuta obsoleta in seguito alle nuove trasformazioni e Bell parlava di una società "postindustriale". In essa non c’era soltanto la fortissima riduzione degli addetti all’agricoltura, che ormai rappresentavano una quota non molto rilevante della forza lavoro; c’era anche una costante e crescente riduzione della classe operaia, in seguito all’introduzione di nuovi sistemi produttivi automatizzati.

Si espandeva poi il settore terziario, ma un terziario altamente alfabetizzato, dedito ai servizi, all’informazione, alla ricerca scientifica. Nel passato lo sviluppo economico era dato dal capitale e dalla sua accumulazione; oggi tale sviluppo è possibile solo attraverso la ricerca scientifica e l’accumulazione tecnologica, per cui le università e gli istituti di ricerca si sostituiscono alle banche. Ieri, nel processo produttivo, l’uomo nel proprio lavoro era a contatto con le cose (la terra, le macchine); oggi, nella società dell’informatica, l’uomo è a contatto con altri uomini, in un "gioco fra persone". Nella società dell’informatica i nuovi mezzi di comunicazione di massa, che si rivolgono non ai colti, ma a un pubblico indiscriminato di alfabeti e di analfabeti, conferiscono a chi li detiene un enorme potere politico di mobilitazione delle masse e di condizionamento della vita politica.

La geografia sociale è radicalmente mutata e con essa mutano la geografia politica e i conseguenti rapporti di autorità. Mettendo a confronto, secondo l’ottica della società industriale, i regimi liberaldemocratici occidentali con regimi socialisti dell’Europa orientale, Aron (1962) aveva potuto facilmente dimostrare la superiorità dei primi sui secondi. Entrambe le società industriali devono aumentare - per loro natura - la produttività e diminuire i costi: la vera differenza tra loro non consiste nella presenza o meno del profitto, del plusvalore, dello sfruttamento (nei paesi socialisti questi elementi non scompaiono, anzi il lavoro salariato si generalizza, per di più senza che vi sia un sindacato autonomo), ma nel potere dato al mercato (cioè ai consumatori) rispetto al potere dato alla pianificazione. I due sistemi dovranno quindi nel futuro - anche se in gradi diversi - contemperare i due momenti. Tuttavia, la pianificazione integrale e l’ostilità al mercato, considerato come mero residuo capitalistico, implicano, sul piano economico, l’impossibilità di operare un calcolo razionale, che comporta quindi decisioni più irrazionali rispetto a quelle prodotte dall’anarchia capitalistica; sul piano politico questi fattori implicano il potere assoluto dei pianificatori, l’eliminazione dell’autonomia del sindacato, perché possibile interprete dei bisogni dei consumatori, e la scomparsa dello Stato di diritto per il primato del piano stesso. La dittatura del proletariato è così una dittatura sul proletariato, non solo perché esso di fatto non governa, ma anche perché, mancando i meccanismi di mercato (fra i quali il potere del sindacato), la diseguaglianza dei redditi fra le classi è assai alta, mentre i rapporti fra dirigenti e operai non sono certamente migliori rispetto a quelli esistenti in Occidente.

Proprio da questa analisi comparata delle due società industriali emerge chiaramente come nel mondo occidentale, contrariamente alle affermazioni di Marx, la classe dirigente non sia la classe economicamente dominante: mentre all’Est esiste una sola classe politica (anche se con nascoste tensioni fra politici e managers), in Occidente vi sono più classi politiche e più poteri sociali (sindacati, imprese); si evidenzia inoltre che la lotta per il potere non ha come protagonisti le classi sociali, ma le classi politiche. Il discorso del liberale torna, così, sempre al problema del potere, per verificare le relative autonomie e le relative dipendenze del politico dal sistema sociale e viceversa.
Il vecchio liberismo, quindi, è ormai ridefinito in termini di mercato, più che in termini di proprietà e di libera iniziativa, di un mercato che nel suo funzionamento resta un meccanismo neutrale rispetto alla politica. Esso storicamente ha dimostrato di essere, dal punto di vista economico, più efficiente nell’aumentare il benessere e più produttivo di innovazioni tecnologiche, perché, da un lato, coinvolge più attori economici, consentendo una migliore utilizzazione delle risorse e venendo incontro ai bisogni del consumatore, e, dall’altro, è una struttura elastica, nella quale gli errori di un singolo attore provocano danni minori rispetto agli sbagli di un solo attore economico che decide per tutti. Senza dimenticare che è il mercato - e non la pianificazione - a garantire la libertà dei cittadini, consumatori o imprenditori che siano. E ovvio poi che, nell’opposizione tipologica fra Stato e mercato, di fatto si presentano, fra la pianificazione integrale e il liberismo puro, tutta una serie di soluzioni intermedie: esse vanno da uno Stato che si limita a stabilire le regole del gioco a uno Stato che - in misura minore o maggiore - è giocatore anch’esso, dalla politica economica alla programmazione, e può manifestare tale ruolo nella diversa allocazione dei "valori", tramite il prelievo fiscale, o nella misura e nei modi in cui si attua lo Stato sociale. Infine il pensiero liberale puntualizza sempre le conclusioni politiche, assolutistiche e totalitarie, conseguenti alla scomparsa del mercato, che risulta pertanto strettamente connesso alla libertà politica.

Mancur Olson si è opposto alla semplice opposizione, che sembrava dominare questi dibattiti, fra un mercato "buono" e un governo "cattivo": muovendo dall’individualismo metodologico e utilizzando la logica dell’azione collettiva ha elaborato uno schema teorico dell’ascesa e del declino delle nazioni (Olson, 1965 e 1982). Così ha mostrato in sede storica come il declino delle nazioni sia attribuibile a reti di coalizione di interessi (del capitale come del lavoro) con strategie volte a meri fini distributivi o protettivi, e non produttivi, che abbassano il tasso di crescita economica.
Pertanto la funzione del governo è quella di garantire la libertà nel mercato dal potere di queste coalizioni: ovviamente ci vuole un governo forte, ma può essere forte solo se limita i suoi compiti a stabilire le regole del gioco e se agisce attraverso norme giuridiche generali, valide per tutti. In questo Olson si riallaccia agli altri liberali contro un luogo comune assai ripetuto, secondo il quale il mercato produce solo ineguaglianze, mentre soltanto l’azione del governo può produrre eguaglianza: un mercato veramente libero favorisce maggiormente l’eguaglianza di un governo che subisca la pressione delle reti di coalizione di interessi.

La società postindustriale appare, così, come una società assai complessa, come complessi e contraddittori sono i suoi conflitti, i quali attengono alla ricchezza, al potere e al prestigio, come ha ben dimostrato Dahrendorf (1959). Ieri la lotta di classe contrapponeva frontalmente l’operaio e il capitalista, ma il conflitto restava circoscritto alla fabbrica. Oggi, invece, in una società altamente sindacalizzata uno sciopero dei servizi colpisce in primo luogo altri lavoratori, perché da questi servizi dipendono ormai tutti, e proprio la complessità della società tecnologica fornisce a piccoli gruppi un forte potere di ricatto. Il conflitto, che ieri era fra capitale e lavoro, oggi è interno agli stessi lavoratori, perché non è più detto che, in quanto lavoratori, essi abbiano interessi comuni: in una stessa fabbrica emergono contrasti fra operai comuni, operai specializzati e quadri intermedi.
Nella società esiste inoltre il conflitto fra coloro che dipendono dallo Stato, che vogliono aumenti salariali, e i lavoratori del settore privato, che desiderano invece meno tasse; fra gli occupati, che vogliono garantire la loro posizione anche a scapito della produttività, e i disoccupati e i marginali, che vogliono rientrare nel mercato del lavoro. Vi saranno inoltre conflitti fra i ceti sociali emergenti, che si vogliono affermare sul piano dello status e cioè del reddito, e i ceti sociali in declino, che rifiutano di lasciarsi emarginare e di accettare passivamente la sconfitta.

Altri conflitti riguarderanno invece l’autorità e coinvolgeranno chi detiene un potere decisionale e chi non lo detiene, in nome di un principio di eguaglianza. Anche per quanto riguarda il prestigio, un conflitto latente divide l’università, che è ormai il centro propulsore dello sviluppo economico, e i mezzi di comunicazione di massa, nei quali operano altri intellettuali: questi - come ha mostrato Bell - diffondono su ampia scala le controculture, che, ispirate all’edonismo e al permissivismo, sono caratterizzate dal rifiuto della realtà, e cioè del sistema, soprattutto fra le giovani generazioni, esercitando così un vero e proprio contropotere rispetto al potere politico legittimo e alla cultura industriale. La complessa società postindustriale non è certo quindi una società pacificata e tutti i suoi conflitti si addensano sempre più sul tavolo del governo rappresentativo, che è costretto pertanto ad assumere il ruolo del mercato nella redistribuzione del reddito.

Al di sopra di questa complessità altri pensatori liberali, seguendo von Hayek e Milton Friedman, hanno mostrato come si andasse estendendo uniformemente una nuova forma di Stato, che pure i liberali avevano contribuito a creare. Lo si è chiamato variamente: Welfare State, perché il benessere diventava la nuova legittimazione del potere e il nuovo fine dello Stato; Stato sociale, per le relazioni sempre più strette fra Stato e società; Stato assistenziale, perché i nuovi fini venivano raggiunti non attraverso l’azione volontaria degli individui in collaborazione con lo Stato - come auspicava il genuino liberalismo - ma attraverso la protezione paternalistica dello Stato, passando così dalla previdenza all’assistenza. Contro questa nuova forma di Stato si è appuntata soprattutto l’analisi economica, in particolare per esaminare il rapporto fra costi e benefici o per cogliere - in sintonia con R. Boudon - tutti gli "effetti perversi", cioè non rispondenti ai fini sperati, prodotti dall’azione dello Stato. Lo Stato assistenziale è stato pagato sia con un crescente prelievo fiscale, sia con l’inflazione, sottraendo risorse agli investimenti e allo sviluppo economico. I risultati non sono stati quindi soddisfacenti non solo per la cattiva qualità dei servizi, ma anche e soprattutto perché le spese sociali sono andate a vantaggio del nuovo ceto medio burocratico e non certo dei poveri, dati i costi (burocratici) dell’erogazione della spesa. Si è smascherata così l’illusione che lo Stato pensi soltanto al bene generale, mostrando come i politici agiscano pensando solo ai loro interessi elettorali e favorendo quindi i gruppi particolarmente forti, mentre le burocrazie pensano non già a servire lo Stato, ma a difendere gli interessi delle proprie organizzazioni.

La polemica liberale contro lo Stato assistenziale non è stata tanto sui fini della previdenza e dell’assistenza, quanto sui mezzi burocratici adottati: assicurato, attraverso l’imposta negativa sul reddito, un salario minimo agli indigenti, era necessario puntare sull’azione volontaria del cittadino e sul mercato. Da un lato andava di nuovo responsabilizzato socialmente il cittadino, assicurandogli possibilità di scelta e forme di partecipazione negli enti di previdenza, e dall’altro andava riprivatizzato lo Stato, reintroducendo la logica del mercato anche nei servizi collettivi, attraverso il loro decentramento e il loro pluralismo, stimolando forme di autogestione, cooperative di produttori o di utenti di servizi, imprese private, al fine di introdurre forme di concorrenza.

Il pauroso aumento della spesa che tendeva a crescere più del Prodotto Interno Lordo (Pil), e la paura dell’inflazione congiunta alla stagnazione ridavano così cittadinanza alle idee liberali, le quali, nella generale crisi dello Stato assistenziale, avevano un progetto che non era di mero ritorno al passato. L’immagine che si presentava mostrava da un lato una società estremamente complessa, piena di tensioni latenti o manifeste; dall’altro lato uno Stato assistenziale e anche interventista nell’economia, il quale però più estendeva i propri compiti, più diventava debole e quindi soggetto a ricatti. Il problema ritornava così alla politica, perché la scelta era ormai, come sottolineava James Buchanan (1975), fra l’anarchia e il Leviatano. Il pensiero liberale aveva sottolineato con Dahrendorf la positività del conflitto che è alla base del mutamento sociale, purché esso fosse però istituzionalizzato, avesse cioè luoghi e procedure per una sua composizione non violenta. Buchanan fece un passo oltre: affinché il conflitto non sia distruttivo occorrono, secondo il suo ragionamento, ben precise regole del gioco, le quali consentano che, alla fine, tutti siano vincenti e non tutti perdenti o che una sola parte sia vincente, che ci sia cioè un gioco cooperativo, con somrna positiva e non negativa. Il non liberale, che ha paura della crisi e della catastrofe, ha sempre puntato, invece, a un gioco a somma zero, dove a prendere tutto sia lo Stato artefice dell’ordine.

Da una versione meramente sociologica della teoria pluralistica, secondo la quale la competizione è soltanto fra gli opposti interessi organizzati e la politica si riduce all’arte del compromesso e della mediazione, è nata - sulla base di fondate rilevazioni empiriche in alcuni paesi europei - la proposta politica del neocorporativismo. Avendo come obiettivo la pace sociale, si propone un’economia concertata: le decisioni che riguardano la politica economica e quella sociale devono essere prese in un accordo triangolare fra il governo, i rappresentanti dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro, ciascuno dei quali dovrebbe avere una vera e propria potestà d’imperio con l’esclusività della propria rappresentanza. Questo accordo, questo contratto fra soggetti di pari dignità (uno pubblico e due privati) dovrebbe sostituire la potestà d’imperio dello Stato (o meglio dell’assemblea rappresentativa), quale si esprime nella legge. Queste prassi e queste teorie neocorporative, pur essendo fiorite in Stati liberaldemocratici e pur essendo definite - impropriamente - liberali, rappresentano l’antitesi di una società pluralistica liberale. Questa privilegia la mobilità e la competizione, la società neocorporata la rigidità e l’ossificazione; la prima vuole un centro debole e una periferia forte (la dispersione del potere), la seconda propone un centro forte e una periferia debole (la concentrazione del potere); la prima vuole liberi gli accessi al mercato del potere, per avere una società espressiva, la seconda privilegia le grandi organizzazioni, per avere una società pacificata. In breve: la società pluralistica mira a un ordine sociale spontaneo, la società neocorporata a un ordine realizzato dall’alto, tramite un patto fra potenti organizzazioni, patto che toglie però a quella pubblica il suo fondamento nella universalità della rappresentanza politica, perché la scavalca con la rappresentanza degli interessi privati. In questo modo inoltre il singolo cittadino viene privato della cittadinanza, dato che egli vale politicamente solo come appartenente a una corporazione.

Per il pensiero liberale restava però centrale il problema delle nuove regole del gioco con l’obiettivo di stimolare un gioco cooperativo: una tematica prettamente di natura costituzionale, quella dei limiti di governo. A questo proposito Buchanan distingue tra lo Stato protettivo e lo Stato produttivo, o, in altre parole, tra lo Stato costituzionale, nel quale le scelte fondamentali sono date, e quello post-costituzionale, nel quale si opera politicamente per fini contingenti. I1 primo fissa le norme che stabiliscono i diritti personali e reali degli individui e le regole del gioco in base alle quali si potranno legittimamente prendere le decisioni: lo Stato protettivo (o Stato arbitro) ha bisogno solo di un magistrato esterno o di un arbitro, il quale, tramite sanzioni, faccia rispettare diritti e regole; in questo campo ogni forma di democrazia partecipativa è un’assurdità. Lo Stato produttivo o post-costituzionale o giocatore si riferisce invece a tutte le decisioni inerenti alla produzione e allo scambio dei beni privati (economia politica) e dei beni e dei servizi pubblici (scienza delle finanze), decisioni che - in questo secondo caso - possono essere prese venendo meno alla regola aurea dell’unanimità. La violazione dei due diversi ruoli produce soltanto l’anarchia costituzionale o il Leviatano, da cui si esce unicamente con uno Stato arbitro del gioco e non con uno Stato giocatore. Inoltre lo Stato protettivo deve moderare gli eccessi dello Stato produttivo, soprattutto quando questo si pone obiettivi ridistributivi, obiettivi che sarebbero invece legittimi soltanto a livello costituzionale, ove si definiscono i diversi diritti di proprietà.

Pertanto, per impedire alla maggioranza di violare i diritti della minoranza, è necessario introdurre il limite di maggioranze altamente qualificate per le scelte collettive, destinate a incidere sul bilancio della "grande famiglia pubblica". Così Buchanan, assieme a Hayek e a Friedman, al fine di avere un bilancio in equilibrio in tempi di inflazione e di dilatazione della spesa pubblica, propone una "costituzione fiscale": ogni spesa dovrebbe essere coperta da una ben precisa entrata e contemporaneamente dovrebbe essere limitato il prelievo tributario; la spesa pubblica non dovrebbe aumentare di una percentuale superiore all’aumento del reddito nazionale lordo, percentuale che verrebbe ridotta in caso d’inflazione, mentre l’espansione della massa monetaria dovrebbe anch’essa essere rigorosamente limitata. Per decidere le spese straordinarie in una situazione di emergenza (e le conseguenti imposte straordinarie) sarebbero richieste maggioranze altamente qualificate. Si tratta - ancora una volta - di una proposta per limitare il potere del governo-maggioranza, per tutelare quindi il cittadino anche contro quelle maggioranze che sono soltanto il risultato della coalizione di diversi gruppi minoritari, i quali, per trionfare, sommano i loro diversi (e talvolta divergenti) interessi.

Torna all'inizio del documento

5. La riscoperta dei diritti e della filosofia pratica

Agli inizi degli anni settanta il clima culturale cominciò lentamente a mutare con un netto ritorno alla filosofia liberale, una filosofia che si presenta come filosofia morale prima che politica, perché la politica, da sola, non sarebbe in grado di autolegittimarsi. Si ritorna in particolare al periodo classico della moderna filosofia liberale, al Seicento e al Settecento, e, più specificamente, all’individualismo e al contrattualismo. Questo ritorno appare dovuto a un duplice ordine di fattori, che erano stati operanti anche nel passato: da un lato il processo di secolarizzazione aveva intaccato anche l’ideologia, il cui nucleo era ancora fideistico e teologico, in modo da doversi affidare soltanto all’argomentazione razionale; dall’altro lato, come nel passato il contrattualismo era stato la risposta intellettuale alla costruzione dello Stato moderno per fondarne la legittimità, così oggi il neocontrattualismo si presenta come la risposta a una sua nuova forma, quella dello Stato assistenziale. Questo Stato non si limita - per usare i termini aristotelici - a garantire la giustizia commutativa (gli scambi fra i cittadini), ma procede a realizzare una giustizia distributiva, cioè all’allocazione dei "valori": così, mentre ieri il termine legittimità era collegato al consenso, oggi è collegato alla giustizia, alla giustizia nello Stato liberale. Sul piano della traduzione pratica dei principi è possibile poi trovare un liberalismo più attento al mercato e un liberalismo più attento all’eguaglianza, ma entrambi si muovono all’interno di una stessa grammatica e sintassi.

Netto e chiaro è il ritorno alla centralità dell’individuo (con la sua dignità e i suoi diritti), ritorno che supera la vecchia antitesi individuo-società, che aveva portato a un falso individualismo o a un falso collettivismo. L’individuo si forma soltanto nella inter-azione con gli altri (e fra gli altri ci sono anche gli individui del passato), perché egli non esiste di per sé, ma coesiste in un processo che è anche o soprattutto di comunicazione linguistica: la comunità politica liberale è essenzialmente una comunità linguistica, perché basata sul dialogo, che è alla base di ogni autentico consenso. L’individualismo metodologico delle scienze sociali e della filosofia pratica è la necessaria premessa concettuale dell’individualismo che si esprime, come sua costante, nel pensiero politico liberale: se il vero soggetto è l’individuo, sul piano pratico bisogna allora realizzare il suo diritto di cittadinanza, garantendogli specifici diritti contro il potere, che agisce invece sempre in base a concetti astratti.

Il più fermo assertore di questa linea è stato Ronald Dworkin (1977): contro la policy, che sostiene la decisione politica della maggioranza, oppure un decreto amministrativo o una sentenza giudiziaria in vista del bene della comunità, contro cioè chi ragiona nei termini utilitaristici della nuova ragion di Stato, quella del Welfare State, egli riafferma i principi non contingenti che riguardano i diritti dei cittadini, che per il legislatore, l’amministratore e il giudice dovrebbero essere superiori agli obiettivi del Welfare State. Infatti la policy è occasionale e arbitraria, frutto di una "decisione", mentre i diritti o principi - morali prima che giuridici - possono essere soltanto scoperti da una "retta ragione": ne consegue che, se qualcuno ha diritto a qualcosa, è ingiusto che il governo glielo neghi, anche se ciò fosse nel contingente interesse generale. Dworkin rifondava, così, lo Stato costituzionale dei diritti contro il positivismo giuridico, che riteneva essere un comando legittimo qualsiasi legge dello Stato, e contro l’utilitarismo, che sacrificava l’individuo al perseguimento della media delle utilità: come egli afferma, se lo Stato non prende i diritti sul serio, allora non può neanche prendere sul serio il diritto.

La rinascita del contrattualismo è strettamente connessa a questa premessa individualistica, che vede nella libertà dell’individuo un valore-morale prima che politico-assoluto. Il contratto è essenzialmente il patto di unione e non quello di soggezione, serve a formare una società giusta e non a instaurare un governo legittimo. John Rawls, nell’opera che ha aperto questa nuova stagione, A theory of justice del 1971, vede nello stato di natura una "posizione originaria", nella quale più individui, liberi ed eguali, si accordano su alcuni principi di giustizia. Questo accordo è necessario e razionale, perché in loro c’è un "velo di ignoranza" (simile all’epoché di Husserl): essi ignorano la loro futura posizione nella società e la futura distribuzione dei talenti e delle capacità naturali, anche se conoscono i problemi generali di una società umana. In questa posizione l’individuo può essere un kantiano legislatore universale, perché agisce come spettatore disinteressato o se è interessato - tende a massimizzare la condizione di chi si trova nelle posizioni minime (maximin). Solo così il contratto è intrinsecamente razionale, sottratto agli interessi e agli appetiti dell’uomo fenomenico.

Così, per Rawls, è possibile fondare razionalmente, al di là dell’intuizionismo e dell’utilitarismo, una teoria della giustizia, di una giustizia che rende legittimo l’ordine politico. La sua teoria della giustizia si basa su due assiomi. Il primo suona: "Ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri"; questo assioma è nel solco del liberalismo kantiano, pienamente condiviso anche da Robert Nozick. Radicalmente nuovo è invece il secondo: "Le diseguaglianze sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo tale da essere: a) volte al vantaggio dei meno favoriti e b) connesse a posizioni e cariche accessibili a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità". La funzione dello Stato giusto si radica in questo secondo principio, anche se esso, per realizzarlo, non deve mai violare il primo principio.

Se - aristotelicamente - Rawls insiste sulla giustizia "distributiva", Nozick non si discosta d’un palmo da quella "commutativa", basata sui contratti fra privati, che lo Stato (minimo) deve solo garantire. Per passare all’ordine politico, Nozick non parla di un contratto ma di più contratti, che hanno però sempre un carattere privatistico e non pubblico e politico. Nel reale stato di natura, secondo Nozick, gli uomini vivono nella costante paura di vedere violati i propri diritti, per cui in una prima fase si uniscono in associazioni di mutua protezione. Questo però crea degli inconvenienti: non sempre si è disposti a essere mobilitati, non sempre si sa se un socio abbia ragione o no, ecc. Per tale motivo si passa da questo "patto di unione" a un nuovo tipo di contratto rigorosamente privatistico, perché basato sul principio del mandato (trust): sul mercato ci si "assicura" con una compagnia che è disposta a garantire protezione, ma la compagnia non può eccedere il mandato conferitole dall’assicurato e non può quindi costituirsi come ente autonomo, con un suo nuovo diritto, contrapposto e distinto rispetto a quello dei singoli che si assicurano; i diritti li possiedono soltanto gli individui in un mutuo processo di scambio, che consiste nei liberi contratti da essi stipulati.

L’impalcatura teorica di Nozick non cambia nell’esame delle trasformazioni di questa compagnia di assicurazione, trasformazioni che egli attribuisce alla mano invisibile di Smith; ma la sua analisi ha un sapore aristotelico, là dove pare adombrare una sorta di sviluppo politico dalla famiglia alla polis. Dalla libera concorrenza, su uno stesso territorio, fra più compagnie di assicurazione si passa infatti a una compagnia protettrice dominante (lo Stato ultraminimo), poi a una compagnia territoriale, che garantisce la propria protezione anche agli indipendenti (a coloro che non pagano l’assicurazione) in base al principio del risarcimento, perché essi sono svantaggiati dal fatto che non possono far valere i propri diritti contro i clienti della compagnia. Questo è lo Stato minimo, il solo Stato non solo legittimo, ma anche giusto.

Nozick, nella sua polemica contro lo Stato distributivo, non usa mezzi termini: "La tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato", la giustizia distributiva realizza solo ingiustizia, perché serve a premiare soltanto l’"invidia" di coloro che sperano di vivere di rendita alle spalle degli altri, per cui attraverso una serie di sofismi si passa da un uomo libero a uno schiavo. Non è però possibile ricondurre la tesi di Nozick a un paleoliberalismo, perché in verità la sua è una posizione anarchica, la quale ha fatto i conti con il principio di realtà che impone l’esistenza almeno di uno Stato minimo. Infatti dove c’è uno Stato non minimo, cioè dove c’è uno Stato forte, là è anche il potere: e, dove c’è il potere, i gruppi economici potenti sono subito tentati di servirsene per propri scopi, per ottenere vantaggi economici differenziali. In realtà Nozick vuole garantire nella sua società il massimo di anarchia possibile e anche la possibilità di realizzare concrete utopie, ma solo se sono promosse da piccoli gruppi che non vogliono imporre i loro ideali agli altri. E, fra le tante utopie possibili, egli difende anche la filantropia, la filantropia basata sull’azione volontaria, e non la filantropia attuale, che si attua a suo giudizio spendendo i soldi degli altri (Nozick, 1974).

Al di fuori del metodo contrattualistico i liberali americani hanno affrontato il problema della giustizia anche per altre vie, sempre però partendo dall’individuo. Michael Walzer ( 1983) mostra come in realtà non vi sia una sola giustizia valida in tutti i campi del vivere sociale, ma una pluralità di giustizie, ciascuna valida nell’ambito della sua propria sfera. Si tratta, quindi, non solo di riscoprire la giustizia adeguata alla distribuzione dei vari beni in ogni sfera, dando a ciascuno il suo secondo i diversi criteri, ma anche di difendere l’autonomia di ogni sfera dai criteri che a essa non sono pertinenti, affinché ogni sfera sia governata da principi di giustizia a essa propri. In altri termini: bisogna combattere ogni concezione unitaria e totalitaria della giustizia, che azzera ogni differenza fra le diverse sfere del vivere sociale; fermo restando, però, il primato della scienza politica nel senso aristotelico, la quale, come scienza architettonica, deve mantenere l’autonomia e l’armonia fra le diverse sfere.

Sempre partendo dall’individuo, ma da un individuo concreto, storicamente condizionato dai suoi bisogni e quindi con una sua fisionomia irriducibilmente diversa rispetto a quella degli altri, Bruce Ackerman ( 1980) imposta il problema della giustizia sociale nell’ambito dello Stato liberale. E al senso comune dell’individuo e al suo linguaggio che, secondo Ackerman, bisogna richiamarsi, senza imporre dall’alto e arbitrariamente un’idea di giustizia, attraverso ragionamenti astratti (alla Rawls) o calcoli sofisticati (quelli degli utilitaristi): è opportuno, infatti, far fruttare la ricca varietà e diversità che si dà nel vivere sociale, attraverso il dialogo e l’argomentazione che, soli, possono chiarire le intuizioni confuse o dissolvere le oscurità ideologiche in tema di giustizia. Contro i contrattualisti e gli utilitaristi Ackerman immagina i dialoghi che si danno in una nave spaziale, di fronte a ben precisi conflitti per la distribuzione della "manna", fra uomini reali che si sono già formati in un’interazione con la società. Questi uomini non credono in un progetto assoluto, in un sommo bene, in un modello - in ultima analisi - teocratico, al quale perviene o l’uomo col velo d’ignoranza o l’osservatore ideale che, senza egoismo, freddamente e obiettivamente calcola e massimizza la media delle utilità. Nella nave spaziale di Ackerman non ci sono terzi superiori, per risolvere i numerosi conflitti. Essi vengono risolti soltanto attraverso il dialogo, un dialogo dove i partecipanti devono rispettare soltanto tre regole: la neutralità (l’eguaglianza nel non-possesso della verità), la razionalità dell’argomentazione e la coerenza nelle proprie argomentazioni. La democrazia liberale può fondarsi soltanto su questo dialogo diretto e svolto in un visibile e trasparente foro pubblico, per rimettere in discussione ogni legittimità, anche quella dei "sacri diritti", al fine di poterli poi rifondare sul consenso. Resta, però, irrinunciabile un diritto dialogico per tutti gli individui.

Il momento della comunicazione, dell’interazione discorsiva, si sta rivelando un tema assai fecondo. Nella cultura italiana era già stato avanzato da Guido Calogero (1950). Ora è stato ripreso, con modalità ed esiti fra loro estremamente diversi, dalla "filosofia pratica" tedesca, ad esempio con Karl Otto Apel, Otfried Hšffe, Manfred Riedel, ai quali nomi bisognerebbe aggiungere per certi versi anche quello dell’ultimo JŸrgen Habermas. Essi non si professano esplicitamente liberali, ma il loro interesse a una nuova impostazione dei problemi della "pratica" muove anche se in modo non esplicito - dall’esperienza totalitaria. Pur appartenendo a indirizzi filosofici diversi, il loro tema centrale è quello della "comunicazione", cioè del dialogo: essi non affrontano problemi brucianti nella loro concretezza, come Ackerman, e cercano invece la possibilità dell’ordinamento comunicativo, il "poter essere della comunicazione", più sul piano trascendentale di una "metafisica" dei costumi che su quello "fisico" di concrete istituzioni politiche. Nella comunicazione si fonda non solo l’etica personale, ma si radicano anche le decisioni politiche liberali, le quali devono ubbidire ai principi di razionalità, pluralismo e umanità. L’aver visto l’azione in termini di inter-azione simbolica fra gli individui, lontana dalla neutrale meta-etica della filosofia del (o sul) linguaggio normativo o dall’indifferente sociologia dei valori come dall’impegnato e soggettivo decisionismo della filosofia esistenzialistica, l’aver colto che l’uomo può essere soltanto nella comunicazione dialogica e nella partecipazione alle istituzioni della socialità ridanno spessore alla filosofia pratica del liberalismo, che le mode della neutralità etica e della tendenza a considerare la scienza come l’unico tipo di sapere valido avevano relegato nell’ambito delle ideologie, le quali generano un sapere autoritario, che può essere oggetto di indottrinamento e non di dialogo.

Il liberalismo, come filosofia pratica, riguarda "i" valori e non "la" verità. Nel pensiero liberale dal dopoguerra a oggi questo principio si è espresso nel rilievo dato all’ordine come fatto spontaneo e alla forte valenza antiideologica di questa concezione, all’individuo come soggetto politico irriducibile in quanto latore di specifici diritti, al dialogo come momento necessario di ogni vera filosofia politica liberale.

Queste istanze filosofico-pratiche - pur assumendo, ora l’una ora l’altra, maggiore importanza - sono fra loro profondamente unite. L’ordine o il cosmo politico non sono un fatto, ma un farsi per opera degli individui inter-agenti fra di loro. Proprio per questo motivo, e per gli ancoraggi nell’etica dell’azione umana, il modello dell’azione politica non può essere desunto dalla razionalità dell’azione economica, secondo alcune tendenze che si rifanno alle teorie economiche della democrazia. Se l’uomo non è riducibile al mero "uomo economico", bisogna tener presente che all’universo politico appartiene anche una dimensione simbolica: lo scambio, senza essere formalizzato in un contratto, può darsi anche nel dialogo con un contenuto simbolico, dove esso è ambivalente e qualitativo e non meramente equivalente e quantitativo. In altre parole, questo "scambio" argomentativo e simbolico, dato che non si fonda immediatamente su interessi contrapposti, possiede modelli o codici propri, al fine di creare cosmi di senso, di significato e di valore, in una partita che non è di mero dare e avere, come in un contratto o, meglio, in uno scambio politico. Questo scambio simbolico, che nasce dal mondo della vita, deve certamente essere tenuto sullo sfondo da parte di chi disegna le fondamenta istituzionali dell’ordine politico, ma non può essere ignorato o respinto, perché vi è anche un "uomo simbolico" e non bisogna aprioristicamente sacrificare la complessità della sua natura, pena la violazione di un suo diritto e l’impoverimento della società.

Ogni comunità politica è anche una comunità linguistica: quella liberale è fondata sul dialogo, un dialogo senza logo, se per logo ne intendiamo uno metafisico o scientifico. Bisogna partire dall’individuo, che non è soltanto portatore di interessi, ma anche di opinioni, valori, simboli, perché soltanto l’individuo ha la capacità di dare un significato e un senso alle cose. Nel dialogo conta la persuasività dell’argomentazione in un processo pubblico, che mette l’autonomia di ciascuno in relazione con gli altri. Questo dialogo etico-politico è legato al linguaggio comune del pubblico e non a quello delle scienze specialistiche. Nel primo esiste sempre il rischio di una diversa intellegibilità intersoggettiva, ma dal dialogo può emergere e chiarirsi il significato più profondo dell’"opinione", per pervenire alla "prudenza" e alla "saggezza", che sono appunto i valori del sapere pratico, di un sapere pratico più profondo e più condiviso, in una comune costruzione di cosmi di senso e di significato. Proprio partendo dal dialogo possono essere ripensate due antiche istituzioni liberali, fra loro strettamente connesse: la rappresentanza e l’opinione pubblica, delle quali oggi, spesso, non si scorgono più le potenzialità: la prima perché è ridotta a mera rappresentanza di interessi, la seconda a manipolazione massificata. Ma dove esiste un dialogo pubblico lo spirito liberale trova solidi ancoraggi: le istituzioni della libertà devono, appunto, ripartire da questi due momenti, che hanno però, sempre, come protagonista l’individuo; e nella difesa dei suoi diritti è da ravvisare la costante storica del liberalismo.

Così l’attuale riflessione etico-politica sul liberalismo, pur presentando contenuti nuovi, perché sempre nuovi e imprevisti sono i problemi che deve affrontare, resta fedele ai principi delle sue origini. La "forma" politica del liberalismo, il momento della sua archia, resta il governo limitato, il quale soltanto può consentire un "contenuto" anarchico o meglio quell’ordine autonomo e spontaneo che nasce dalla libera interazione degli individui. Proprio per questo il liberalismo non può non rivendicare di continuo - contro vecchie e nuove minacce - i diritti dell’individuo, per difendere e riaffermare la sua identità personale e la sua autonomia. Nei rapporti interindividuali l’attuale liberalismo, contro la soluzione della forza e della violenza, propone l’azione sostenuta dal discorso, cioè il dialogo. In questo comune orientamento è necessario riscontrare una frattura fra chi cerca nel logo, nell’uomo noumenico, il fondamento della possibilità del dialogo e chi si affida invece alla capacità argomentativa degli uomini fenomenici per stabilire nel consenso comuni valori. Ma una società senza dialogo non è più una comunità politica: essa, per esistere, deve essere in primo luogo una comunità linguistica di uomini fra loro liberamente comunicanti. Solo così può autorappresentarsi.

Torna all'inizio del documento

Frédéric Bastiat

Baldassarre Labanca
Bruno Leoni
Nicola Matteucci
Giovanni Sartori
Interviste su Karl Popper
I Levellers della rivoluzione Inglese