Sull’eredità di Bruno Leoni. Un dibattito a più voci
in "Il Politico", 1996, anno LXI, n. 4, pp. 671-698
intervento di Raimondo Cubeddu
Significativamente in apertura dell'ultimo numero della "Rivista internazionale di filosofia del diritto", in un denso ed interessante saggio dal titolo Diritto e legislazione. Rileggendo Leoni, Mauro Barberis, tratta della filosofia giuridica e politica di Leoni e, "anche per aprire una discussione", svolge pure una serie di considerazioni e di perplessità sugli intenti del curatore del volume di Leoni La libertà e la legge. Una pubblicazione che comunque Barberis riconosce essere "l'occasione per fare i conti, trent'anni dopo, con uno dei nostri filosofi del diritto e della politica più originali, oltre che più noti anche all'estero" (p. 232).
Da un lettore affetto dal ‘morbo di Strauss’, che induce a cercare di leggere tra le righe, l'articolo di Barberis potrebbe essere inteso nel seguente modo: la riproposizione di Leoni è un'operazione in cui le motivazioni ideologico-politiche (: "A Cubeddu si deve anche l'ampia introduzione al volume: la quale, fra altri pregi, ha pure quello di non nascondere le motivazioni politiche dell'intera operazione" (p. 233)), prevalgono nettamente su quelle scientifiche (: "Se poi la parte più "ideologica" di Leoni è l'unica che interessa ai suoi ammiratori italiani, tutto ciò che può dirsi è: peggio per loro" (p. 250)). Tuttavia, mi rendo conto perfettamente che riducendo in questo modo l'argomentazione di Barberis non solo gli si farebbe un torto, ma non si risponderebbe a tutta una serie di fecondi quesiti che egli solleva. Inoltre, in questo caso, non si tratterebbe di tentare di ‘leggere tra le righe’, bensì ‘tra le pagine’. E ciò non è irrilevante.Come curatore dell'opera non posso quindi tirarmi indietro. Anche per manifestare la soddisfazione per l'attenzione dedicata alla pubblicazione del volume, e, incidentalmente, alla mia Introduzione. Per di più, lo faccio con vivo piacere dato che Barberis, con le sue acute osservazioni –quasi tutte condivise–, mi invita a precisare le mie posizioni e a spiegare il senso di talune affermazioni.In questa nota, quindi, mi soffermo soltanto sulle parti del saggio di Barberis sulle quali non sono d'accordo, e chi lo ha letto si renderà conto del fatto che concernono soltanto una piccola parte del saggio medesimo.
Prima, tuttavia, vorrei precisare che i risvolti di copertina della traduzione italiana con le espressioni a cui Barberis fa riferimento (pp. 234-35) sulla ‘diligente ostracizzazione’ del liberalismo di Leoni da parte della "intellighenzia egemone nel nostro paese", non li ho scritti io. Ed anche che la decisione di tradurre Law con ‘legge’ –pur nella consapevolezza del fatto che poteva dar addito a dissensi e a critiche– è stata presa (da me e dalla traduttrice Maria Chiara Pievatolo), proprio per cercare di rendere evidente la tesi del libro: il pericolo che la legge, intesa come produzione legislativa del diritto, rappresenta per le libertà individuali.A dire il vero mi ero posto altre volte il problema di quella che anche Barberis chiama l'‘eclissi’ di Leoni, e, stimolato anche dalle pagine in cui Leonardo Morlino, ne ricorda la figura di rifondatore, insieme a Norberto Bobbio e a Giovanni Sartori, degli studi italiani di scienza politica nel dopoguerra, sollevai il problema nella Introduzione e nell'Intervento alla Presentazione di Pavia, pensando che la memoria storica dei filosofi del diritto e della politica doveva essere interrogata su tale dimenticanza. Non ritratto, ovviamente nulla, ma l'intervento in una presentazione (alla quale Barberis sovente si riferisce) è cosa diversa da un'Introduzione, anche perché, stimolato dalla partecipazione Valerio Zanone e di Antonio Martino, oltre che di Alberto Febbrajo, di Angelo M. Petroni e di Mario Stoppino, fui, lo riconosco, un po' provocatorio.Barberis, quando scrive che l'Introduzione al volume non nasconde "le motivazioni politiche dell'intera operazione" (p. 233), rispondo che purtroppo, occupandomi di politica come studioso di filosofia, corro professionalmente e consapevolmente il rischio di fare ‘operazioni politiche’, anzi non faccio altro. Inoltre mi chiedo se, ponendomi il problema del perché la traduzione italiana di un opera che lo stesso Barberis ha definito con le parole prima richiamate, appaia solo 35 anni dopo, si faccia un'‘operazione politica’, o si sollevi un piccolo problema storiografico.A conferma dell'importanza dell'opera per la cultura liberale si potrebbero, oltre a quello di Barberis, portare molti altri esempi e citazioni. Avendo già dato indicazioni al riguardo, evito di ripetermi. Tuttavia, mi piace ricordare che negli stessi giorni della pubblicazione dell'edizione italiana, ad esempio, appariva la terza edizione spagnola, a cura e con una bella Introduzione, di Jesús Huerta de Soto, in una collana dedicata ad autori "neoliberali" (termine su cui tornerò), e che successivamente sono apparse recensioni nelle quali, pur non nascondendo i termini di un dissenso più o meno radicale alle sue tesi, Giuliano Marini e Danilo Zolo hanno trattato del rilievo del libro di Leoni.
Non essendo versato nella storia della filosofia del diritto italiana, e avendo trovato (oltre alle commemorazioni ricordate anche da Barberis) pochi riferimenti a Leoni, mi sono posto il problema del perché, se era tanto importante, tanti se ne fossero dimenticati. Ed anche Barberis, allorché ebbi occasione di chiedergli come mai non ci fosse traccia di Leoni nel suo volume Introduzione allo studio della filosofia del diritto, contribuì, sia pure indirettamente, ad indurmi a sollevare il problema.
Tuttora, e nonostante il saggio di Barberis, non sono riuscito a capire fino in fondo come mai, del pensiero di un autore così importante, non si sia quasi più parlato per oltre trent'anni. Converrà Barberis che, pur potendosi trattare di una circostanza casuale si tratta, per lo meno soggettivamente, di una circostanza stimolante.
Io (ma non sono il solo, lo fa anche Barberis) ho cercato di vedere se tale circostanza potesse avere qualche relazione col maturare, nella cultura giuridica italiana di quegli anni, di un indirizzo diverso da quello implicito ed esplicito nel pensiero di Leoni il quale, al riguardo, non aveva mancato di esprimere riserve e critiche. Erano, in altre parole e detto in maniera generica, gli anni del ‘kelsenismo trionfante’ e della sua fusione con la filosofia analitica e con l'avalutatività weberiana. E' indubbiamente vero che Norberto Bobbio, per quanto "non nominato [è] ossessivamente presente" (p. 237) nel mio scritto. Ma questa affermazione è vera solo in quanto è innegabile che il Maestro di Torino (nei cui confronti, al di là delle diverse opinioni politiche, i miei sentimenti rimangono quelli della dedica del mio primo libro), sia stato il principale protagonista di quegli eventi.Pertanto –e mi dispiace che involontariamente abbia potuto dar luogo a legittimi fraintendimenti, dei quali mi assumo, comunque, la responsabilità– non intendevo minimamente sminuire il suo prezioso contributo alla cultura italiana, né contrapporre Leoni a Bobbio; se non nella misura in cui il loro pensiero si trova in contrapposizione (e questo mi sembra, per altro, innegabile).Che poi in quegli anni si sia indugiato –e l'opera di Bobbio preferisco leggerla come un tentativo di far chiarezza su questo immane garbuglio che si andava creando– sulla possibilità di "una via italiana al socialismo in cui far confluire la dottrina giuridica kelseniana, l'interventismo di stampo keynesiano, l'avalutatività weberiana e neopositivistica, e la tradizione azionistica e liberalsocialistica", è una tesi che ribadisco. Nella pagina successiva, commentando questa affermazione, Barberis scrive: "Benché non sia chiarissimo come in "una via italiana al socialismo" possano "confluire" tutte queste cose, una cosa salta agli occhi: qui vengono nominati i maggiori responsabili dell'emarginazione di Leoni e della genuina cultura liberale. Eccoli, finalmente, i veri nemici del liberalismo in Italia: Kelsen, Keynes, Weber, i neopositivisti in genere e –non nominato, ma ossessivamente presente– Norberto Bobbio". Mi limito a rispondere: a) che per quanto non tutti i citati pensatori possano essere considerati dei ‘nemici del liberalismo’ (espressione che non adopero io, ma i neopositivisti indubbiamente lo erano), soltanto Keynes e Bobbio possono, per motivi diversi, e parzialmente, essere considerati liberali; b) che ‘tutte queste cose’ siano difficilmente omogeneizzabili è vero, ma che non ho tentato di farlo io; c) che è vero anche che il rapporto di Leoni con Weber è più complesso di quello che qui appare, ma che ne ho trattato in altra sede; d) che la loro ‘responsabilità’ (ovviamente indiretta) nell'‘emarginazione’ di Leoni consiste nel fatto che il successo delle loro teorie emarginò un liberalismo come quello di Leoni. Più in generale, concordo con Barberis quando indirettamente suggerisce che il problema, anche nell'ambito del mio intervento alla Presentazione, avrebbe dovuto essere affrontato con maggiore ampiezza e rigore. Comunque non capisco se egli intenda negare che quella sia stata la cultura egemone in Italia, che abbia avuto più influenza della ‘cultura cattolica’ (sia di ‘sinistra’, sia di ‘destra’), e liberale à la Leoni; se intende sostenere che contro questo ‘blocco storico’ non si può dir nulla; o se vuole suggerire con quali argomenti e in quali termini se ne può parlare. Ribadisco comunque la libertà di toccare il problema, e che Barberis è libero di dissentire e di confutare le mie affermazione.E vengo alla teoria del complotto premettendo che, avendo studiato e imparato da Popper, in genere non credo ai complotti, e che "per spiegare l'eclissi di Leoni" non ‘invoco’ (anche perché ‘seguace’ dell'individualismo metodologico) "entità collettive" (p. 235). Quella del complotto non è dunque la mia risposta alla domanda: perché non si è quasi più parlato di Leoni? Resta però il fatto che chiunque può porsi delle domande e cercare di dar loro risposte. Come studioso di filosofia politica non ho ovviamente remore ad occuparmi di questioni politiche, né attribuisco complotti a quanti la pensano diversamente da me. Tuttavia non credo, con Adam Smith, che dobbiamo contare sulla benevolenza di birrai, panettieri, macellai, etc.; ossia di coloro che la pensano in maniera diversa e che hanno interessi (anche politici) diversi dai nostri. Di conseguenza, per quanto creda che l'interesse scientifico sia distinguibile dalla condivisione delle idee politiche, sono anche convinto che non era da parte dei ‘marxisti’ o dai ‘cattolici’ che ci si poteva, e doveva, aspettare una sorta di pubblicizzazione delle idee di Leoni. Ciò che anche Barberis mostra di condividere quando, per spiegare l'‘isolamento’ di Leoni (p. 237), scrive: "perché mai un marxista, o un cattolico, dovrebbero sentirsi responsabili per la mancata diffusione di opinioni da loro non condivise ?" (p. 235). Tuttavia è anche vero che ci sono dei casi che falsificano questa mia credenza. Ad esempio, Popper è diventato popolare in Italia non grazie ai ‘laici’ neoliberali, ma per merito di un cattolico-liberale come Dario Antiseri e del vice direttore dell'‘Unità’ Giancarlo Bosetti.Volevo dire che di Leoni, e della diffusione delle sue idee, se ne sarebbero dovuti occupare i cosiddetti liberali. E invece non lo fecero, o, per essere indulgenti, si applicarono poco, e se lo fecero, lo fecero con scarsi risultati. Non capisco perché per pormi questi problemi debba passare per un sostenitore della "versione sofisticata" della teoria del complotto (p. 236). A costo di apparire ingenuo, confesso che credevo che per essere sofisticati fosse necessario qualcosa di più. Comunque, non ritengo di poter essere annoverato tra quei "neoliberali italiani" che dovrebbero "recitare il mea culpa, prima di invocare (problematiche) responsabilità collettive" (p. 235), e mi resta l'impressione che riguardo al ‘caso’ Leoni, Barberis sia molto più indulgente di me nei confronti degli esponenti della tradizione liberale italiana.Ciò detto, ammetto di non riconoscermi in gran parte di ciò che in questo dopoguerra è passato in Italia sotto il nome di ‘liberalismo’. I miei punti di riferimento culturali appartengono ad un altro insieme. Mi limito perciò ad osservare che non mi sento di condividere il giudizio di Barberis secondo il quale "l'applicazione delle teorie neoliberali nella Gran Bretagna thatcheriana e negli Stati Uniti reaganiani –per tacere del Cile di Pinochet– ha finito per togliergli il fascino residuo" (p. 234).Ciò detto, mi sembra che Barberis fornisca una risposta ai miei quesiti quando scrive –non so se inavvertitamente– che: "il neoliberalismo à la Hayek o à la Leoni, nel panorama culturale italiano, è sempre stato considerato un liberalismo con un neo: quello di credere nel mercato e/o nel liberismo" (p. 234). A questo punto, però, debbo confessare che delle obbiezioni di Barberis alla mia ‘operazione politica’ non capisco più il senso. Sbaglio, o Barberis dà una risposta analoga alla mia? E ancora, tanto per essere pignoli, e sorvolando sul fatto che il termine ‘liberismo’ esiste solo nel linguaggio politico italiano, vuole forse dire Barberis che esiste un liberalismo che non ‘crede’ nel mercato ? (adopero lo stesso verbo usato da Barberis anche se non mi piace: cosa vuol dire, infatti, "credere nel mercato"?). Mi sovviene, a questo proposito, l'anedotto del giovane imperatore cinese il quale, recatosi in visita ad una delle sue province, rimane colpito dalla quelle che egli chiama pecore ma, dopo un bel po' si sente obiettare, in forma naturalmente molto garbata, da un mandarino del seguito che quegli animali rosa che grugniscono nel fango, purtroppo, in questa provincia, sono, curiosamente, chiamati maiali. Mi chiedo, perciò, che cosa distingua il liberalismo dalle altre filosofie politiche, se non il fatto di ‘credere’ nel mercato. E senza il suo ‘credere’ nel mercato, in che cosa il liberalismo si distinguerebbe dalla teoria democratica? Non sarà che Barberis scambia la tradizione Liberal con la tradizione del Classical Liberalism o voglia farci credere che solo la prima possa essere identificata con quello che in Italia viene comunemente chiamato liberalismo o col ‘vero liberalismo’? O non sarà che Barberis condivida la distinzione crociana tra liberalismo e liberismo? La mia impressione è non solo che Barberis abbia una concezione del mercato diversa da quella dei ‘neoliberali’ (e questo è più che legittimo), ma anche che attribuisca a costoro una concezione del mercato diversa da quella che essi in realtà avevano.In quella presentazione, tuttavia, feci un'altra affermazione che mi dispiace Barberis non abbia ricordato. Sostenni infatti che la rinascita della cultura Liberal in Italia non si deve ad un revival del liberalsocialismo, socialismo liberale, etc., ma alla meritoria introduzione, da parte di Salvatore Veca e di Sebastiano Maffettone, del pensiero di Rawls, di Dworkin, etc. Hanno fatto anche loro un'operazione politica? Io non sono –come Veca e Maffettone ben sanno– un estimatore di quei pensatori, ma ciò non mi impedisce di credere che la loro introduzione nel dibattito politico e giuridico italiano sia stata feconda, importante, ed abbia dato nuove idee alla cultura Liberal nostrana. Tuttavia, mai mi sognerei di definire "un'operazione politica" il tentativo di richiamare l'attenzione su un pensatore politico. Ciò che mi sembrerebbe, se non altro, riduttivo.Ovviamente non parlo di liberalsocialismo, di socialismo liberale, o, più in generale dell'azionismo (p. 236), perché chiunque è in grado di constatare da sé quanto poco questi più che rispettabili movimenti di pensiero abbiano in comune con le idee di Leoni.
Tutto ciò detto, mi sembra che l'articolo di Barberis sia un'esauriente spiegazione del perché le teorie di Leoni siano importanti e tuttora feconde. Barberis ovviamente non le condivide del tutto, ma ciò è, a mio parere, naturale e positivo.
Da questo punto di vista avrei sostanzialmente alcune osservazioni da fargli.
La prima è che mi sembra che riguardo al problema della legislazione Barberis ritenga che la distanza tra Leoni ed Hayek sia meno grande di quella che, a mio avviso, realmente è. Hayek, come noto e ricordato da Barberis, non era, come invece era Leoni, pregiudizialmente contrario alla legislazione. E questo, per quanto nutrisse non poche né secondarie riserve sul processo che fa dipendere il diritto da una decisione politica e, al pari di Leoni, valutasse severamente il pensiero giuridico-politico e, in generale, l'eredità di Kelsen. Questo perché Hayek, diversamente da Leoni, riteneva che la legislazione fosse necessaria per diffondere tempestivamente, e regolare sotto la fattispecie delle norme di condotta universali ed astratte, quelle novità continuamente emergenti dal processo della catallassi, senza la cui diffusione il mercato non si sarebbe potuto più definire in termini positivi come un ‘processo di scoperta’, o come un ‘processo di trasmissione di informazioni tramite prezzi’.Da questo punto di vista, la necessità della legislazione risiede dunque, per Hayek, nel fatto che essa è un indispensabile strumento per diffondere informazioni sui possibili esiti delle azioni umane. Il processo della catallassi, se lasciato a se stesso, potrebbe infatti produrre: a) disparità di distribuzioni di conoscenze che non consentirebbero a tutti i suoi partecipanti di poter prevedere i possibili esiti delle proprie azioni e, quindi, di scegliere in condizioni di libertà, e, b) temporanei monopoli ‘naturali’ che comunque potrebbero essere di ostacolo al suo funzionamento. Ciò che, se non altro, dà la misura della distanza della catallassi hayekiana dalla teoria del mercato propria del laissez faire.Di qui l'invito a rileggere il problema del diritto, della legislazione e del suo rapporto col mercato. L'ordine spontaneo di cui parla Hayek, è ‘culturale spontaneo’, e se si dimentica che egli intendeva continuare il programma scientifico di Menger (e non quello di Smith o di Kant), e che comunque prende le mosse da Menger, si finisce per non capire quasi nulla delle tesi di Hayek e di Leoni concernenti il rapporto tra diritto, mercato e legislazione. L'aggettivo ‘spontaneo’ di Hayek, pertanto, lo leggo in connessione a quanto scrive Menger: "la scienza non deve mai rinunciare, ed è questo il presupposto fondamentale della questione, a mettere alla prova la razionalità delle istituzioni sorte per "via organica", e a trasformarle e migliorarle, quando un'accurata indagine lo richiede, in base alla visione scientifica e alle esperienze pratiche disponibili. Nessuna epoca può venir meno a tale "vocazione".. E salterei quasi del tutto Smith e Kant. Diversamente, fuorviati dall'uso della metafora della ‘mano invisibile’, si finisce per ingarbugliarsi non solo in una selva inestricabile di problemi che non sono di Hayek, ma anche per attribuirgli intenzioni che non erano le sue, e soprattutto per non comprendere il nesso tra processo della catallassi e legislazione.Infatti, non si capirebbe il senso dell'analogia tra diritto e mercato se non ci si rifacesse all'impostazione di Menger e alla sua critica delle (ovviamente diverse) tesi della Scuola Storica del diritto, e del pragmatismo di Smith e della sua scuola riguardo alla nascita e allo sviluppo delle istituzioni sociali, tra le quali lo stesso diritto. Il citato passo delle Utersuchungen spiega una quantità di problemi non solo sull'analogia tra diritto e mercato, ma anche sull'evoluzione e sulla natura delle istituzioni politiche. La comprensione delle modalità di soluzione di questi problemi rischia di restare preclusa a chi non abbia dimestichezza con il sovente contorto linguaggio mengeriano. Qui, tuttavia, e si tratta del problema dell'origine dell'ordine da norme di comportamento che si sviluppano spontaneamente in seguito ad un processo di selezione culturale, la famigerata ‘mano invisibile’ (p. 245ss.) non c'entra per nulla, ed il paragone è fuorviante perché a Leoni non poteva sfuggire che l'opera di Menger era anche diretta alla critica di Smith (ovvero il padre dei ‘neoliberali’ non era propriamente un estimatore di Smith !).Pertanto, sarebbe in larga misura errato pensare che Leoni ed Hayek avessero del mercato la stessa concezione che ne avevano i ‘manchesteriani’ ed in genere i fautori del laissez faire. E' indubbiamente vero che ‘credevano’ nel mercato: ma la loro idea di mercato è quella dell'economia soggettivistica del marginalismo austriaco, e non quella del laissez faire e del capitalismo figlio della teoria del valore-lavoro dell'economia politica classica. E ciò, al fine di capire il senso dell'‘operazione politica’ dei neoliberali, ha la sua importanza.Inoltre, se è vero che il fatto di reggersi senza l'aiuto della ‘mano invisibile’ è ciò che consente di accomunare la teoria dell'‘evoluzionismo giuridico’ di Leoni e quella di Hayek, è anche vero che riguardo al problema dell'intervento sul processo della catallassi, le loro posizioni si differenziano perché alla ‘vocazione’ (richiamata da Menger), Leoni, a differenza di Hayek, si sottrae. Col risultato che la sua teoria finisce inevitabilmente per prendere la strada di quella che giustamente Barberis chiama "un'impercorribile utopia" (pp. 245ss.) che, molto probabilmente, è responsabile anche del suo ‘isolamento’.Più che la soluzione, ad essere attuale mi sembra sia dunque la denuncia di Leoni dei pericoli della legislazione per le libertà individuali. Per quel che mi riguarda, non è quindi "la parte più "ideologica" di Leoni [...] l'unica che interessa ai suoi ammiratori italiani" di modo che si possa dire "peggio per loro" (p. 250). E si pensi, sempre a tal riguardo, anche alle riserve espresse da Stoppino sull'impostazione di Leoni del rapporto tra mercato, diritto e politica, e riguardo alla quale Stoppino, e giustamente, si chiede se "sia possibile ridurre pienamente il campo della politica alla logica dell'economia di mercato".
Per concludere, mi sembra che per inquadrare la filosofia delle scienze sociali di Leoni, nonché la sua concezione del diritto come ‘scambio di pretese soggettive’, sia opportuno far riferimento ad un complesso di tesi (sulla catallassi, sul rapporto della politica col mercato e con la teoria dei valori suggettivi) le quali, per essere trattate adeguatamente, richiedono conoscenza anche generiche della teoria economica austriaca e della sua teoria dell'azione umana. Ma soprattutto, occorre tener presente che tale teoria generale dell'azione umana non ha niente a che vedere con l'homo œconomicus. |
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