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LUCIANO PELLICANI

Domanda: Lei è stato a lungo nella redazione, e poi anche direttore, del mensile culturale del partito socialista "Mondoperaio" ed ha partecipato all'intenso dibattito popperiano degli anni 1980-1981. Come spiega tanto favore e tanto spazio dedicato al grande filosofo austriaco, che pure proveniva da una tradizione differente rispetto a quella alla quale faceva riferimento la vostra testata?

Risposta: L'interesse mostrato da "Mondoperaio" nei confronti della filosofia popperiana è meno sorprendente di quello che può sembrare a prima vista. Uno dei più noti divulgatori di Popper è stato Bryan Magee, socialista e deputato del Partito laburista, il quale, non a caso, fu invitato al grande convegno sul marxismo organizzato alla fine del 1978 da Paolo Flores d'Arcais, allora direttore del 'Centro Mondoperaio'. Nella seconda metà degli anni Settanta, grande fu l'attenzione degli intellettuali del Partito socialdemocratico tedesco nei confronti della filosofia popperiana, come è testimoniato dal volume di saggi dedicato a Popper con la prefazione di Helmut Schmidt. Quest'ultimo, che all'epoca era cancelliere, non ebbe esitazione alcuna a dichiararsi popperiano. Sicché si può dire che i socialisti italiani giunsero con un certo ritardo a scoprire le affinità esistenti fra l'ingegneria a spizzico teorizzata da Popper e il riformismo praticato dai partiti dell'Internazionale socialista. Come giunsero con un certo ritardo a scoprire le affinità esistenti fra la teoria della giustizia sociale di John Rawls e quella che stava sullo sfondo del compromesso socialdemocratico fra Stato e mercato. Due sono le ragioni di tale ritardo. Prima di tutto, la scarsa attenzione mostrata dagli studiosi italiani per la filosofia popperiana. Giulio Preti definì Popper un "positivista deteriore" (sic!). Nicola Abbagnano nella prima edizione della sua Storia della filosofia ritenne che non era il caso di menzionarlo. Persino Norberto Bobbio, che pure fu il primo a occuparsi di Popper scrivendo una recensione della Società aperta e i suoi nemici, non ne percepì l'importanza. La cosa è tanto più strana in quanto Popper si inserisce nella grande tradizione dell'illuminismo riformatore, di cui Bobbio è stato il maggior rappresentate in Italia. Sarebbe stato del tutto "naturale" un dialogo serrato fra Bobbio e Popper. Ma ciò non è avvenuto poiché - e con questo vengo alla seconda ragione del ritardo con cui si è verificata la recezione del razionalismo critico in Italia - esisteva un pregiudizio favorevole nei confronti del marxismo persino fra coloro che marxisti non erano. Come Bobbio, per l'appunto. Il quale in più di una occasione dichiarò che trovava eccessiva la critica popperiana del marxismo. Eppure, la storia del socialismo indicava chiaramente che non era neanche immaginabile una giustificazione filosofica del riformismo senza una critica serrata del marxismo. Basti pensare al fatto che il riformismo nel seno del movimento socialista fa il suo ingresso con la così detta "revisione" del marxismo di Eduard Bernstein, la quale, in realtà, fu una vera e propria demolizione del "socialismo scientifico". Ed è altamente significativo che l'attacco contro il marxismo fu condotto da Bernstein in nome di Kant e della tradizione illuministica. Quella stessa tradizione nella quale si inseriscono, come ho già detto, Popper, Rawls e Bobbio. E si inserisce anche il più influente teorico del socialismo liberale italiano: Carlo Rosselli, che fu, non a caso, un critico severissimo del marxismo. Insomma, fra socialismo liberale e marxismo esiste una incompatibilità organica. Ma essa, in Italia, fu percepita con grande ritardo. Il che spiega perché Popper fu scoperto solo negli anni Settanta, grazie soprattutto all'ammirevole impegno profuso da Dario Antiseri, cui si deve la pubblicazione della Società aperta e i suoi nemici.

D. Il notevole spazio che, nel corso del dibattito su Popper, "Mondoperaio" rese disponibile anche ad interventi di intellettuali di area diversa da quella socialista era superiore al normale, oppure si trattava di una tradizione che la testata aveva sempre avuto?

R. Prima che la direzione della rivista fosse assegnata a Federico Coen, lo spazio riservato agli intellettuali liberali non fu mai molto ampio. Per decenni il Psi e il Pli si erano percepiti come reciprocamente incompatibili. L'apertura a sinistra, con la quale iniziò il dialogo e la collaborazione fra socialisti e cattolici, fu, contemporaneamente, una chiusura nei confronti del Partito liberale. Solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, i liberali e socialisti incominciarono ad avvicinarsi progressivamente gli uni agli altri. In quegli anni, Ugo Intini ed Enzo Bettiza iniziarono un dialogo all'insegna dello slogan "Lib-Lab". Subito dopo, ci fu un importante convegno, organizzato da Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano, al quale parteciparono numerosi intellettuali del Psi, del Pli e del Pri. Fu una svolta politico-culturale di grande importanza: grazie ad essa finalmente, anche in Italia, emerse la consapevolezza che la democrazia moderna era stata costruita grazie alla collaborazione fra liberali e socialisti. La cosa avrebbe dovuto essere chiara sin dal momento in cui in Gran Bretagna veniva costruito, grazie all'incontro fra le teoria economica di Keynes e il riformismo del Partito laburista, il Welfare State. Ma l'enorme prestigio di cui godeva il marxismo rese i più ciechi e sordi di fronte all'evidenza. Accadde così che il Partito socialista iniziò una collaborazione di governo con la Democrazia cristiana nutrendo nei confronti della tradizione liberal-socialista i pregiudizi e i sospetti tipici del marxleninismo. Una autentica assurdità, le cui conseguenze negative si videro ben presto. Il centro-sinistra naufragò e i socialisti ripresero a cantare la canzone della rivoluzione. Tanto più che nel frattempo era esplosa la contestazione studentesca, che mise sotto accusa l'intera civiltà liberale in nome della rivoluzione maoista. Solo quando, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, risultò chiaramente che il marxismo non produceva libertà e benessere, bensì schiavitù e miseria, il mito della rivoluzione permanente crollò e con esso crollò il prestigio del marxismo. Venne così a crearsi un contesto favorevole alla "riabilitazione" della tradizione liberale, di cui furono protagonisti anche molti intellettuali che avevano militato sulle barricate della contestazione (Lucio Colletti, Massimo Salvadori, Giuseppe Bedeschi, Paolo Flores d'Arcais, Ernesto Galli della Loggia ecc.). A partire da quel momento, divenne del tutto naturale frequentare le opere di Popper, nelle quali c'era, accanto a una critica demolitrice del marxismo, una giustificazione filosofica del riformismo e del compromesso socialdemocratico fra Stato e mercato. In quegli stessi anni si prese a leggere pensatori socialisti che erano stati demonizzati o ignorati dalla sinistra italiana, quali Proudhon, Merlino, Bernstein, Rosselli e Bruno Rizzi. Fu l'inizio della crisi irreversibile della mitologia rivoluzionaria e il marxismo incominciò ad apparire per quello che era: l'oppio degli intellettuali, non già, come esso pretendeva, il metodo scientifico per porre fine allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

D. Nel corso degli anni ottanta parteciparono al dibattito popperiano, che aveva il marxismo come bersaglio polemico, intellettuali di aree politiche diverse, che coincidevano pressappoco con le forze politiche che si trovavano alleate nei governi di quegli anni. Ritiene che si sia trattato di un fenomeno di interferenza della politica nella filosofia, oppure di una coincidenza di interessi in qualche misura casuale?

R. Più che di interferenza della politica nella filosofia direi che si trattò del contrario: fu la filosofia che invase il campo dei politici e per alcuni anni giocò un ruolo politico significativo. Basti pensare al famoso dibattito sulla teoria marxista dello Stato aperto da Norberto Bobbio e ospitato da "Mondoperaio". Dal momento che il Pci, vista la sua grande avanzata nelle elezioni amministrative del 1975, si trovava ormai a un passo dal potere, Bobbio chiese ai comunisti in nome di quale teoria dello Stato essi si apprestavano a governare l'Italia. Le risposte degli intellettuali organici furono penose. Come furono penose quelle che essi diedero all'altro grande dibattito che si svolse, sempre sulle pagine di "Mondoperaio", a partire dalla fine del 1976: il dibattito su Gramsci. Tali dibattiti ebbero un grande impatto sull'opinione pubblica poiché trovarono nell'"Espresso", allora diretto da Livio Zanetti, una potente cassa di risonanza. Da essi emerse quella che chiamai, in un volume pubblicato nel 1984, la "miseria del marxismo". D'altra parte, quello che stava accadendo nei paesi del così detto "socialismo realizzato", trasformati dai partiti marxleninisti al potere in immensi lager, costituiva una massiccia conferma che comunismo e libertà erano cose incompatibili. Se c'era il primo, moriva la seconda. E moriva anche l'economia, poiché la pianificazione totale era in aperto conflitto con la razionalità strumentale e con lo sviluppo delle forze produttive. Ebbene, i pensatori della Scuola austriaca - Popper, Mises e Hayek - aiutavano a capire le ragioni strutturali del fallimento storico delle rivoluzioni fatte in nome di Marx. È per questo che la crisi del marxismo ha coinciso con la loro "scoperta". Ignorati per decenni, o bollati come ideologi attivi della borghesia plutocratica, essi finalmente incominciarono ad essere letti, studiati, discussi. L'oppio ideologico, assunto a partire dalla contestazione studentesca in dosi massicce, aveva impedito di percepire la realtà per quella che era. E aveva altresì impedito di capire l'importanza della lezione di metodo della Scuola austriaca. Tant'è che, mentre L'uomo a una dimensione di Marcuse andava a ruba, L'abuso della ragione di Hayek finiva al macero.

D. Quali ritiene che siano gli errori - se di errori si può parlare - commessi dagli intellettuali "laici", negli anni passati, nei confronti della filosofia politica di Popper?

R. A rigore, ci fu un solo errore, ma di decisiva importanza: averla ignorata. Torno a ripeterlo, a parte Antiseri e pochissimi altri, per decenni Popper in Italia è stato un pensatore ignorato anche da parte degli intellettuali che si muovevano dentro la tradizione dell'illuminismo riformatore. La sua recezione è avvenuta con un colpevole ritardo, con il risultato che uno dei più grandi pensatori del XX secolo ha esercitato sulla nostra cultura filosofica una influenza pressoché nulla, almeno sino alla pubblicazione della Società aperta e i suoi nemici. Poi, con una rapidità impressionante, Popper è diventato un classico, cioè a dire un autore indispensabile. Il che non significa che la sua filosofia non presenti punti deboli o che possa addirittura essere considerata la "filosofia insuperabile del nostro tempo", per usare la nota e infelicissima formula con la quale negli anni Cinquanta Sartre decretò che fuori del marxismo non ci potevano essere che errori e confusioni. Del resto, è lo stesso Popper che ci ha insegnato che la scienza non è altro che un sistema di congetture più o meno corroborate e che le nostre conoscenze sono, sempre e inevitabilmente, parziali e provvisorie. In questo senso, si può senz'altro dire che Popper è stato l'anti-Marx. Infatti, ciò che caratterizza in maniera forte il marxismo è la pretesa di conoscere le leggi oggettive della storia e di sapere quale sarà l'esito necessario dell'umana odissea. Ebbene: Popper, con la sua teoria epistemologica, ha disintegrato tale pretesa, ha dimostrato che essa è pseudo-scientifica e porta direttamente al totalitarismo. Per questo non posso condividere la formula adoperata da Bobbio e che dà il titolo a un suo recente volume: Né con Marx né contro Marx. Nel mio libro Le sorgenti della vita ho cercato di dimostrare che si deve essere contemporaneamente "contro Marx e con Marx", cioè a dire contro la filosofia politica di Marx, irrimediabilmente totalitaria, e con la sociologia di Marx, che è un metodo di indagine di fondamentale importanza, il quale, se adoperato in modo critico, conduce a conclusioni diametralmente opposte a quelle cui lo stesso Marx volle, forzando i risultati delle sue indagini, giungere a tutti i costi. Infatti, se effettivamente i mezzi di produzione sono, giusta la definizione che si trova nel Capitale, le "sorgenti della vita", allora l'abolizione della proprietà privata non può non condurre all'onnipotenza dello Stato onniproprietario. Il che, poi, è esattamente ciò che è accaduto ovunque i partiti comunisti hanno preso il potere. Espropriando gli espropriatori, essi in realtà hanno espropriato la società civile e, conseguentemente, hanno raso al suolo la base economica della società aperta.

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