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Intervista a Piero Ostellino

15 giugno 2003

Piero Ostellino, membro del comitato scientifico di Società Libera, giornalista e saggista, ha raccolto in un libro - "Il dubbio" (Rizzoli, pp. 394, euro 17,50) - gli editoriali pubblicati negli ultimi quattro anni sul Corriere della Sera, di cui è stato direttore, all'interno dell'omonima rubrica. Si tratta, come recita il sottotitolo del volume, di riflessioni su politica e società in Italia da parte di "un liberale scomodo". Tale deve essere il liberale tout court: abituato a pensare con la propria testa, indipendente nel giudizio, scevro da preconcetti e lontano da ideologie ingessate e presuntuose. Sensibile, al contrario, al benessere dell'individuo e della collettività, che passa attraverso l'affermazione della loro libertà; attento a rivedere il proprio giudizio, consapevole - come ricorda Ostellino stesso - che esistono solo certezze relative esposte continuamente a confutazione dalle dure repliche della storia. Ecco perché il liberale, quello autentico, per sua stessa natura non può che essere scomodo.
Abbiamo cercato di approfondire con l'Autore alcuni dei temi trattati nel suo libro.

Domanda: Nell'introduzione, a proposito del liberismo - l'applicazione in campo economico del pensiero liberale - scrive che le aziende che possiedono una vasta rete di informazioni tecniche hanno il potere di influenzare le decisioni di governi e parlamenti. Se ciò è vero, è lecito dire che il liberismo ha prevalso sul liberalismo? E' dunque in crisi il principio dell'uguaglianza delle opportunità, cardine della dottrina liberale?
Risposta: <In qualche misura ciò è successo, e rappresenta la conseguenza della debolezza della politica. Che non è più in grado di rispondere alle domande della società civile e, dunque, di stabilire delle regole, valide anche per il mercato. Non è tanto il liberalismo a essere in crisi, quanto il mondo politico in generale. Che è in crisi perché è in crisi la sinistra e ciò che rappresentava, l'idea di progresso in contrasto con quella di conservazione: non esiste più la competizione tra due diversi modelli di organizzazione e sviluppo della società, così che la Politica non è più in grado di affrontare e risolvere i problemi del mondo contemporaneo, compreso quello di utilizzare il mercato come "mezzo", e non come "fine", per l'affermazione delle libertà individuali. Ma la Politica è in crisi anche per lo sgretolarsi del concetto di sovranità, effetto della globalizzazione economica: il concetto di appartenenza del cittadino a uno Stato e alle sue regole coincide sempre meno con quello di territorialità; e, conseguenza ulteriore, molti Paesi hanno una ridotta autonomia rispetto ad altri>.

D: I valori e i principi del liberalismo in Italia appartengono da sempre a una minoranza. Le cause di questo fenomeno sono da attribuirsi all'influenza del cattolicesimo prima e del marxismo poi?
R: <Entrambi hanno certo influenzato, e parecchio, la nostra cultura politica. Il cattolicesimo ha prodotto in Italia la Controriforma, senza che, prima, ci sia stata la Riforma. In Gran Bretagna, la Magna Charta è una realtà da 800 anni. Lo spirito ecumenico del cattolicesimo fa sì che la Chiesa pretenda ancora di imporre la propria morale alla collettività, quando, per un liberale, il giudizio morale attiene esclusivamente la sfera individuale>.

D: Le idee liberali saranno sempre destinate a essere minoritarie e ad avere cattiva stampa, in Italia?
R: <Resteranno minoritarie, perché il liberalismo chiede molto a se stessi in termini di capacità di critica e autocritica, meno agli altri. Ma l'uomo tende a essere intollerante, tutto il contrario di quello che predica il liberalismo, e cioè la tolleranza>.

D: Pierluigi Battista, nel suo Il Parolaio, dice di sé: sono un liberale, cioè contro la destra e contro la sinistra. Essere liberali significa questo?
R: <Io preferisco dire di essere e posizionarmi né a destra e né a sinistra, ma altrove, dalla parte dei cittadini. Mi riconosco in una collocazione che vada oltre la logica degli schieramenti e delle barricate, che superi vetuste ideologie e che sia portatore di interessi non particolari, ma generali>.

D: Nel primo capitolo, lei affronta la questione della sinistra riformista. Una sinistra che stenta a decollare, schiacciata dal massimalismo dei sindacati e dell'estrema sinistra. Non crede che le responsabilità maggiori di questa mancata maturazione della sinistra siano da attribuire, più che ai leader politici, agli intellettuali d'area e alla cosiddetta società civile, da lei tanto bacchettata nei suoi articoli?
R: <Gli intellettuali di sinistra non parlano e agiscono in base a idee massimaliste, ma solo ai propri interessi. Non crederò mai a un Nanni Moretti che fa il capopolo perché sinceramente preoccupato dal conflitto di interessi; le sue azioni sono piuttosto dettate dalla preoccupazione di perdere la rendita di potere accumulata in questi anni grazie a governi "amici">.

D: Nei secolari rapporti tra Stato e Chiesa, in Italia, denuncia l'ingerenza della seconda nei confronti del primo in tutte quelle materie - divorzio, aborto, contraccezione, procreazione assistita, ricerca scientifica - che sono regolate da leggi dello Stato e attengono al libero arbitrio. E' un'ingerenza da cui è impossibile uscire, se è vero, come lei sostiene, che la Chiesa è politicamente trasversale a tutti gli schieramenti politici?
R: <La Chiesa è già molto cambiata nel corso della sua storia, sulla strada di una modernità di dibattito e idee che era difficile prevedere ancora pochi decenni or sono. Considerate la sua natura e la sua struttura, ha fatto passi avanti - lo dico sulla base della mia visione laica del mondo - inimmaginabili. Questo Pontefice ha fatto ammissione di colpa per certi errori del passato: su Galileo e Giordano Bruno, l'Inquisizione. Certe prese di posizione di oggi verranno forse corrette in futuro, ma i tempi saranno molto lunghi: la Chiesa fa il suo mestiere. E' sensibile all'etica dei princìpi, come ogni autorità religiosa che si rispetti, e dunque non si interroga nell'immediato degli effetti che essa produce. Ma, essendo anche un' "organizzazione sociale", è attenta pure all'etica delle responsabilità, che si preoccupa delle conseguenze pratiche dell'applicazione dell'etica dei princìpi. Col tempo, è possibile dunque che certe posizioni assunte oggi possano essere corrette e addolcite, se i loro effetti si dimostrassero negativi per la società>.

D: Il tasso di liberalismo nel centro-destra è molto più basso rispetto a quanto ci si potesse aspettare. Baluardi del pensiero liberale restano personaggi come Urbani, Martino, Pera e pochi altri, che ricoprono ruoli istituzionali, mentre troppi, a cominciare dai padroncini del nord est, tendono a confondere il liberalismo con l'anarchia. Condivide?
R: <Sì: da parte di certi settori dell'economia c'è una legittima tendenza, in qualche misura semirivoluzionaria, a tagliare quei lacci e lacciuoli che impediscono il pieno decollo dell'economia. Ma torniamo al discorso della politica che ha perso il suo primato; il capitalismo non è né buono, né cattivo, ma solo ciò che la politica gli consente di essere.

D: Nei suoi articoli sullo stato dell'informazione in Italia, lei sottolinea la prevalenza della metodologia della conoscenza filosofica su quella empirica, di una cultura politica figlia dell'ideologia e non della razionalità, dell'osservazione del reale: è una deformazione impossibile da correggere?
R: <Sì, perché è figlia della nostra cultura panfilosofica, in base alla quale il giornalista italiano non si chiede "come" le cose sono, ma "perché" sono in un certo modo. Il risultato è quello di propinare al lettore una visione soggettiva e non oggettiva della realtà, frutto del proprio giudizio e pregiudizio, dunque distorta. Non è così che si assolve alla funzione di formare il cittadino-elettore e metterlo in condizione, se è il caso, di cambiare col voto gli attori protagonisti dell'agone politico>.

D: Per un liberale è sempre più difficile essere europeista, visto come l'Unione Europea stia diventando sempre più centralistica e protezionistica. Condivide?
R: <La tendenza che si va affermando è questa: sacrificare le autonomie locali a favore della centralizzazione del potere, un potere transnazionale. E' in atto una grossa contraddizione: da una parte, all'interno degli Stati nazionali, si tende a delegare quote importanti del potere centrale alle autonomie locali, dall'altra gli stessi Stati nazionali delegano il proprio ruolo a un organismo che li racchiude e supera come l'Unione Europea. Dove si realizza in maniera massiccia quella centralizzazione, burocratizzazione e omologazione di cui gli Stati nazionali cercano di liberarsi. Ecco perché l'Inghilterra, fedele al principio di sussidiarietà, che riconosce ai singoli Stati il diritto di esercitare quelle funzioni che la UE non assolve, è restia a entrarne a far parte a pieno titolo>.

D: In un articolo del '99, scriveva che con il sostegno dato alla Serbia durante la guerra del Kosovo, l'ex Unione Sovietica si era giocata la possibilità di diventare filooccidentale, assimilando dell'Ovest princìpi e idee. L'Iraq, e gli altri Paesi mediorientali, potranno mai diventare filoccidentali, come vorrebbe l'idea americana di esportare il suo modello di democrazia in quell'area?
R: <Gli Stati Uniti non vogliono e non pretendono di esportare il loro modello di democrazia in tutto il Golfo Persico, ma solo dove lo ritengono conveniente, per ragioni strategiche ed economiche>.

D: A questo proposito, ha scritto che tra gli scopi della guerra in Iraq non c'era quello di esportare con le armi la democrazia e il liberalismo. Dunque, contrariamente alle intenzioni espresse dallo stesso governo americano, l'invasione avrebbe, o ha avuto, l'unico scopo di eliminare Saddam?
R: <La destituzione di Saddam ha significato l'eliminazione di una fonte di sostegno al terrorismo. E' noto che il dittatore iracheno versava denaro alle famiglie dei kamikaze palestinesi, ed era altrettanto nota la sua capacità catalizzatrice dell'odio antiamericano del fondamentalismo islamico. E' vero che le armi di distruzione di massa credute in suo possesso non sono state finora trovate, ma questa guerra aveva comunque un grande respiro strategico: è servita all'amministrazione americana a dare un segnale forte ai terroristi>.

D: Il protezionismo dell'Occidente, soprattutto dei prodotti agricoli, è spesso alla base di alcune tragiche situazioni nei Paesi del Terzo Mondo. Eppure sulla stampa internazionale si imputa all'eccessivo liberismo la crisi dei Paesi in via di sviluppo. Com'è possibile?
R: <I Paesi industrializzati costano caro ai Paesi del Terzo Mondo; se il mondo occidentale si aprisse ai prodotti agricoli dei Paesi sottosviluppati, questi ne trarrebbero indubbio giovamento. E su questo si gioca anche buona parte della credibilità delle democrazie liberali e della stessa Unione Europea: entrambe dovranno dimostrare di voler e saper risolvere il contrasto fra il principio di organizzazione democratico-liberale e quella di ispirazione capitalistica. Il capitalismo presuppone l'eliminazione dal mercato del competitore più debole; la democrazia liberale, al contrario, prevede la difesa del più debole, in campo politico come in quello economico>.

D: Lei sostiene che l'applicazione dei diritti economici e sociali non può essere demandata a un'istituzione internazionale che non esiste, ma alle logiche e alle dinamiche di un mercato regolato dal principio di correttezza nei rapporti di scambio tra Paesi industrializzati e Terzo Mondo. Ma il mercato, e la sua degenerazione nel turbocapitalismo, possono assolvere a questa funzione?
R: <Il mercato è quello che la politica gli consente di essere. La politica è chiamata a fissare le regole del gioco: che non devono essere troppe, pena l'ingessamento delle contrattazioni, né troppo poche, perché darebbero luogo a quell'eccessiva libertà che imbarbarisce i rapporti, non tutela i soggetti più deboli e sconfina in ciò che chiamiamo turbocapitalismo, che tutto macina e a volte distrugge. Un giusto compromesso è la via migliore, sempre tenendo presente che, per un liberale, il mercato è lo strumento che tende al fine ultimo della piena realizzazione dei diritti individuali>.

D: Nel '92, oltre alla "rivoluzione giudiziaria", c'è stata anche la grande riforma elettorale nata sullo stimolo prodotto dal referendum promosso da Mario Segni. Da questa riforma, bene o male, l'Italia ha visto nascere un bipolarismo che ricalca quello delle altre grandi democrazie occidentali. Qual è il suo giudizio a 10 anni da quella svolta, in un momento in cui molti invocano invece il ritorno alla proporzionale?
R: <Il bipolarismo dovrebbe condurre a forme di bipartitismo, a coalizioni più omogenee di quelle attuali. La riforma ha dato maggiore stabilità al governo, ma è necessaria anche una revisione dei regolamenti parlamentari: i correttivi apportati non sono ancora sufficienti, perché troppi sono ancora i lacci e i veti incrociati tra maggioranza e opposizione che bloccano l'attività di governo e Parlamento, il primo chiamato a governare il Paese, il secondo tenuto a controllare che quella del governo non diventi dittatura della maggioranza. Le vicende politiche italiane sono purtroppo sempre più l'espressione di un reciproco divieto tra chi ha vinto e chi ha perso le elezioni, di un'ostinata e ottusa delegittimazione degli uni verso gli altri e viceversa. Tutto questo mi fa dire che l'Italia sia un Paese alle deriva, indipendentemente da chi ne tira le redini>.

D: Il governo Berlusconi ha affrontato il problema Giustizia con leggi ad hoc che hanno dato l'impressione di essere fatte solo in difesa del Presidente del Consiglio e di Previti. Urge invece una riforma complessiva. Quali dovranno essere i punti guida di questa riforma che possano impedire eccessive invasioni di campo del potere giudiziario?
R: <Berlusconi ha perso due anni di governo che avrebbe potuto utilizzare per una riforma della giustizia non più procrastinabile, perché il nostro sistema giudiziario è fra i meno garantisti del mondo libero. Il Cavaliere, invece, ha trasformato i suoi avvocati in parlamentari, che hanno dunque legiferato da avvocati, tutelando i soli interessi del loro assistito e dei suoi fedelissimi, e non con la testa del legislatore. Si è cercato di scendere a patti con gli interessi corporativi della magistratura, allungando i tempi di pensionamento delle toghe, facendo una riforma del Consiglio superiore della magistratura molto blanda, ma è stato un buco nell'acqua. Quanto alla separazione delle carriere dei magistrati, dico che sarebbe stato più utile, e probabilmente risolutivo della questione, separare la polizia giudiziaria dai pubblici ministeri. Oggi le inchieste sono pilotate in base al fine che il pm si prefigge: se dice alla polizia giudiziaria di guardare solo nella tasca destra dell'indiziato, lo faranno. Se gli agenti fossero svincolati dal pm e dunque dotati di autonomia, guarderebbero in entrambe le tasche>.

D: Passiamo al capitolo terrorismo. Dopo l'omicidio D'Antona, lei parlò di un terrorismo settoriale e corporativo. L'omicidio di Marco Biagi pare confermare la sua ipotesi.
R: <Certamente. Il nuovo terrorismo è selettivo, non ha in sé una concezione autenticamente rivoluzionaria della propria azione, come accadeva vent'anni fa, quando la lotta armata aveva un respiro globale e catalizzava e in qualche modo esprimeva il disagio proletario delle fabbriche. Questi, invece, cercano solo di arrestare il processo riformistico legato al mondo del lavoro. Un processo che massimizza le libertà, comprese quelle dell'impresa>.

D: La spaccatura nel sindacato - Cgil da una parte, Cisl e Uil dall'altra - avvenuta sulla firma del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, può in qualche modo alimentare il terrorismo?
R: <Non credo: sono episodi che rientrano nella normale dinamica sindacale. Piuttosto, a proposito di involontarie spinte propulsive a favore dei terroristi, molti politici criminalizza spesso le dichiarazione di Fausto Bertinotti. Io lo difendo: il suo estremismo verbale assorbe gran parte delle forze che, altrimenti, sarebbero autenticamente eversive. Bertinotti mi pare uomo di grande misura e intelligenza: non criminalizza mai nessuno. Sergio Cofferati, al contrario, ha ecceduto nell'estremismo per cercare uno spazio politico all'interno della sinistra che altrimenti non avrebbe avuto. Il congresso di Pesaro aveva sancito il successo dell'ala riformista dei Ds, rappresentata da Fassino e compagni. Per avere visibilità, a Cofferati non è rimasto altro che diventare il leader riconoscibile e legittimato dei girotondini>.

D: Lei è stato spesso critico nei confronti degli eccessi della magistratura milanese negli anni di Tangentopoli. Ma è stata tutta colpa dei pm milanesi? La corruzione dei politici non era arrivata ormai oltre il livello di guardia? E non ritiene che la colpa maggiore dell'invadenza del potere giudiziario sia dovuta alla mancata risposta del potere politico, al non aver affrontato seriamente il problema della corruzione e del finanziamento della poltica?
R: <Senza dubbio. Ma quando alcuni magistrati ritengono la carcerazione preventiva un mezzo idoneo a ottenere la confessione del presunto colpevole, sposano una concezione medioevale della giustizia che è inaccettabile per un liberale. Non credo a un complotto politico della sinistra e della magistratura contro Berlusconi. Ma, attraverso la propria cultura, figlia del '68 e l'idea di un mondo come vorrebbero che fosse e non com'è nella realtà, un gruppo di magistrati ha in effetti messo in piedi una serie di procedimenti contro l'attuale presidente del Consiglio che sono frutto, anche, di una visione ideologica dei fatti. Insisto: la politica italiana è sempre più fatta di vuote parole, "verifica" e "rimpasto", per esempio, e sempre meno di contenuti aderenti agli interessi dei cittadini. In un mio articolo sul Corriere di qualche settimana fa, citavo l'esempio dello Statuto dell'economia redatto da Guido Carli e mai approvato dalla stessa Confindustria. Sarebbe stato uno strumento essenziale per la regolamentazione di un sistema economico come quello italiano, capitalistico e protetto dalle tangenti>.

D: Ultimo argomento, l'immigrazione. Lei parla di un trattamento differenziale tra cittadini italiani e immigrati nella distribuzione delle risorse e nel godimento dei beni collettivi, purché lo svantaggio sia tollerabile per chi lo subisce, dunque per gli immigrati. Come si realizza tutto ciò?
R: <Attraverso un'integrazione per tappe dell'immigrato, che in tempi brevi non può essere assimilato totalmente al cittadino. Questi reagirebbe nella maniera sbagliata, dando sfogo a forme di razzismo e di sfruttamento del nuovo venuto. L'integrazione e l'assimilazione devono invece avvenire attraverso passi successivi, fino a portare agli stessi diritti e doveri del cittadino>.

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