L'Europa e il futuro della politica
IDEOLOGIA TECNOCRATICA E GLOBALIZZAZIONE
Claudio Finzi
Io qui vorrei esaminare, molto succintamente, in qual modo il mercato globale e più in generale la globalizzazione e la mondializzazione entrano nell'ideologia tecnocratica, questa corrente di pensiero che, nata come tutti sapete tra la fine del XVIII secolo e i primi anni dell'Ottocento, da quel momento non è mai scomparsa, anche se ha alternato momenti di stanca e momenti di fioritura. Oggi, da qualche anno, le istanze tecnocratiche sono di nuovo fortemente presenti in vario modo soprattutto in ambienti e in letteratura legati agli Stati Uniti d'America.
Inutile che qui io rifaccia la storia della tecnocrazia. Basta ricordarne alcuni principi fondamentali, che poi sono quelli fissati già dal fondatore o inventore: il francese Claude Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, e poi affinati, adattati, rielaborati in due secoli di sviluppo senza però mai tradire alcuni presupposti irrinunciabili.
La rivoluzione industriale in Inghilterra e il susseguente sviluppo industriale del continente europeo inducono Saint-Simon ad individuare una spaccatura drammatica fra il mondo della politica e quello dell'economia e della produzione. Il mondo prodotto dalla rivoluzione industriale è radicalmente diverso dal mondo precedente ed ha dunque bisogno di essere gestito in maniera altrettanto radicalmente diversa. La politica non è più sufficiente alla nuova situazione. La politica è infatti il mondo dell'incertezza e dunque della decisione fondata su elementi soggettivi, arbitrari, discutibili, mentre il costante desiderio umano di certezza non soltanto si va rafforzando, ma oggi può essere soddisfatto appieno grazie agli sviluppi della scienza e della tecnica.
Il mondo va male, perché al governo sono gli uomini della politica, regno appunto dell'incertezza, mentre ne restano fuori quelli che possono contare su un sapere certo e indubitabile: gli industriali, nei quali Saint-Simon comprende tutti coloro che in qualsiasi modo appartengono alla sfera della produzione. Per rimettere le cose a posto in questo mondo così cambiato occorre sostituire le incertezze della politica con le certezze della scienza e della tecnica; occorre che il controllo della società passi dalle mani dei politici a quelle degli industriali. Non abbiamo scelta: questa via è l'unica percorribile; meglio dunque imboccarla consapevolmente piuttosto che esservi trascinati comunque dagli eventi.
In due secoli di sviluppo questo principio fondamentale è rimasto sempre valido per la mentalità tecnocratica, comunque si sia espressa. Cambiano altri elementi, cambiano coloro ai quali deve essere affidato il controllo della società, ma non cambia il principio: sostituire l'incerto sapere politico con un altro diverso sapere certo e indubitabile.
Ed allo stesso tempo resta pur sempre presente un altro carattere dell'ideologia tecnocratica: il suo essere contemporaneamente descrittiva, predittiva, prescrittiva. Il mondo è così e si muove in questa direzione; continuerà a muoversi in questa direzione; è bene che si muova in questa direzione. Questo vale per Saint-Simon, per Thorstein Veblen, per Howard Scott, per Aurelio Peccei, per la fantascienza tecnocratica, per l'attuale tecnocrazia aziendalistica.
Detto questo, eccoci all'argomento centrale: la globalizzazione, che si accompagna necessariamente all'odio per lo Stato. Due argomenti complementari, che percorrono l'ideologia tecnocratica dalle origini ai nostri giorni.
Fra gli sviluppi inevitabili del processo, che il Saint-Simon vuole mettere in movimento, troviamo anche l'unificazione mondiale, che è contemporaneamente mezzo e fine di questo stesso processo. Non fine unico, ma certamente rilevante e non trascurabile.
Motore dell'unificazione sarà ovviamente l'industria. Infatti "l'industria forma un tutto unico, tutti i suoi membri sono uniti dagli interessi generali della produzione, dal bisogno che tutti quanti sentono di sicurezza nel lavoro e di libertà negli scambi. I produttori di tutte le classi, di tutti i paesi, sono dunque essenzialmente amici; nulla quindi si oppone alla loro unione, e la coalizione dei loro sforzi ci sembra ... la condizione indispensabile affinché l'industria ottenga tutto l'ascendente di cui può e deve godere"1. Esiste dunque una condizione di amicizia fra gli industriali di tutto il mondo; occorre far sì che questa amicizia naturale, dettata dalle cose, si faccia realtà concreta, si faccia effettiva collaborazione a scala mondiale. Perché "la coalizione di tutte le industrie nazionali è necessaria per preparare l'instaurazione del regime industriale"2.
In questo primo momento secondo il Saint-Simon l'unificazione potrebbe avvenire gradualmente, incominciando da un accordo fra Francia e Inghilterra. La convergenza di interessi fra i due paesi in questo primo scritto per il Saint-Simon è un dogma, dal quale scaturiscono l'assoluta necessità di un accordo e la certa inevitabile sua fecondità. Pochi anni dopo però il discorso cambia. "L'instaurazione completa del regime industriale sarebbe impossibile in ogni nazione isolatamente, se tutti i popoli dell'Europa occidentale non se ne occupassero simultaneamente ..."3. Passa qualche anno di più e troviamo una indicazione ancora diversa: "... quando questa organizzazione sociale sarà stabilita in Francia, non tarderà a realizzarsi la celebre profezia fatta dai Padri della Chiesa; una stessa dottrina sociale diventerà comune a tutta la specie umana; si vedranno tutti i popoli adottare successivamente i principi che i Francesi avranno proclamato e messo in pratica."4.
In un primo momento, pare che se i vertici industriali dei singoli paesi non si metteranno d'accordo, come possono e debbono fare, poiché la scientificità dell'industria e della scienza pongono fine ai conflitti, ecco che la nascita del sistema industriale mondiale potrebbe non avvenire. Più tardi però, ecco apparire una nazione guida, che trascinerà con sé tutte le altre, nonostante resistenze e difficoltà.
Mondialismo e odio per lo Stato sono evidentissimi anche nel pensiero di Thorstein Veblen, singolare figura di sociologo ed economista statunitense di origine norvegese, vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo, che propugnava la rivolta dei tecnici, degli ingegneri. Questi avrebbero dovuto riprendersi il controllo della società, mettendo in ginocchio gli Stati Uniti d'America con uno sciopero generale, seguito da un soviet dei tecnici. Durante la prima guerra mondiale inoltre in due lavori sulla Germania e sulla possibilità della pace perpetua, Veblen individuava nella politica e negli Stati i veri ostacoli alla pace internazionale.
Qui Veblen si affanna a cercare i principi sui quali fondare una pace universale e duratura. Le guerre nascono a causa dell'esistenza degli Stati, che stimolano lo spirito patriottico e la contrapposizione fra popoli. Per ottenere una pace duratura è necessario quindi cancellare la cittadinanza, che lega indissolubilmente gli uomini al loro Stato.
L'esistenza degli Stati nazionali intralcia il diffondersi mondiale dell'economia e della produzione, per le quali tutti gli uomini, quale che sia la loro nazionalità, hanno gli stessi interessi e le stesse motivazioni. Ne consegue che, se non è possibile eliminare del tutto l'appartenenza statale, espressa nella cittadinanza, come primo passo è necessario rendere politicamente neutrali "tutti i diritti economici connessi con la cittadinanza."5. Liberati questi diritti economici da ogni rapporto con la cittadinanza, il processo di ricostruzione e correzione dell'economia e del distorto sistema dei prezzi, che impedisce agli ingegneri di esplicare tutte le loro capacità per il bene degli uomini, andrà avanti da solo. Si giungerà così a quella abolizione dei confini e delle divisioni fra Stati sovrani, che sola potrà dare al sistema industriale l'efficienza massima, che può e deve avere per soddisfare i bisogni degli uomini.
Anche per il Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei e che oggi sembra avere un erede nel Club di Budapest, il nemico è lo Stato che afferma la sua sovranità. Gli interventi debbono essere globali, sostiene il Club di Roma, e dunque non possono e non debbono essere ostacolati da poteri intermedi. Durissima è la critica agli Stati e alla sovranità statale, contro la quale Peccei si scaglia ben tre volte nella sua autobiografia, stigmatizzando "il grande disordine sotto il cielo" come suona il titolo di un capitolo. La via del futuro è invece quella segnata dalle aziende multinazionali6.
Le multinazionali hanno però dei difetti: soprattutto sono aziende che, pur operando in tutto il mondo, obbediscono ancora a decisioni prese in un luogo solo, quello della casa madre. Funzionano comunque già meglio degli Stati, chiusi tenacemente nel loro interesse particolare. Per renderle definitivamente adatte all'utile generale, occorre passare dalle multinazionali alle internazionali, dando loro domicilio e statuto internazionale (ricordate Veblen e l'abolizione della cittadinanza?), affinché possano operare liberamente in tutto il mondo, sfruttando al massimo le potenzialità economiche per il bene di tutti, trasferendo come necessario le risorse da un paese all'altro. Solo la manodopera non è spostabile oltre le frontiere, scrive Peccei nel 1976; oggi anche questo obiettivo è stato raggiunto7.
La mondializzazione della società e dell'economia è propugnata anche e con fermezza nelle opere di Alvin e Heidi Toffler, i due futurologi americani, che tanto successo e tanto pubblico hanno avuto ed hanno ancora da trenta anni a questa parte. È vero che i due sembrano non fare proposte, ma soltanto analisi della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi, ma non dimentichiamoci che oggi molto spesso normativismo e futurologia sono intimamente collegati, come nei discorsi del Club di Roma. Anzi, l'efficacia è tanto maggiore quanto più un discorso, che in realtà è prescrittivo, viene gabellato per analisi spassionata. Così è, quindi così deve essere; secondo un modulo, che abbiamo già ricordato prima.
"Il nuovo sistema di creazione della ricchezza consiste in una sempre più estesa rete globale di mercati, banche, centri di produzione e laboratori che sono in comunicazione istantanea l'uno con l'altro, scambiandosi continuamente enormi - e sempre più elevati - flussi di dati, informazione e conoscenza."8.
Ne consegue che "La globalizzazione della produzione e del marketing esige che i capitali circolino agevolmente attraverso i confini nazionali. Ciò, a sua volta, rende necessario lo smantellamento delle vecchie regolamentazioni finanziarie e delle barriere erette dalle nazioni per proteggere le loro economie ... Il globalismo, o almeno il sovranazionalismo, è un'espressione naturale della nuova economia che deve operare attraverso i confini nazionali, e diffondere tale ideologia è nell'interesse dei nuovi magnati dei media."9 Che poi possono essere indifferentemente di destra o di sinistra. Infatti: "ciò che più conta non è il fatto che questi signori dei media siano schierati a favore di politiche o di politici di sinistra o di destra. Assai più significativo è il fatto che promuovono, attraverso le loro azioni più che le loro parole, l'ideologia del globalismo"10. Ritroviamo qui ancora una volta l'indifferenza, anzi l'ostilità alle idee politiche in nome di una mentalità che le sostituisca tutte.
Quale struttura dovrà avere questo nuovo mondo? Non verticale, come la Comunità Europea e gli altri attuali organismi internazionali, ma orizzontale, come nell'azienda moderna e flessibile. "Il modello alternativo, coerente con le emergenti forme organizzative aziendali nelle economie avanzate, appiattisce la gerarchia anziché stenderla verso l'alto. Esso dovrebbe basarsi su reti di alleanze, consorzi, enti di regolamentazione specializzati, per svolgere funzioni che superano le competenze dei singoli Stati. In un sistema siffatto non esiste un livello più elevato di controllo dall'alto verso il basso, e gli enti specializzati non sono raggruppati gerarchicamente sotto un organismo centrale non specializzato. È l'equivalente di un'architettura composta di edifici bassi. È assimilabile all'azienda flessibile"11.
Il risultato finale potrebbe e dovrebbe essere un "Consiglio Globale delle Aziende Globali"12. Le aziende inoltre dovranno essere rappresentate anche presso l'ONU, il GATT, la Banca Mondiale e con diritto di voto; se così non fosse, potrebbero nascere controorganizzazioni13.
Non basta. Secondo i Toffler negli ultimi tempi il mondialismo aziendale potrebbe e dovrebbe riassorbire in sé persino quel fenomeno apparentemente così politico e lontano dall'azienda, che è la guerra.
Contrariamente alle aspettative e alle speranze, i conflitti armati sono sempre più frequenti. Che cosa avverrà, se le forze armate degli Stati e delle organizzazioni internazionali statali non riuscissero a imporsi? Semplice la risposta dei Toffler: "potrebbe venire il giorno in cui delle aziende transnazionali ritengano necessario mettere in campo le proprie brigate"14.
Attenzione! Questa non è la consueta lamentela contro gli eserciti privati e i mercenari. I Toffler sanno che le guerre locali potrebbero essere condotte da molti altri, che a loro non piacciono, come i gruppi religiosi o di delinquenza comune, e contro questi si esprimono. Ma non condannano le multinazionali, anzi. Sostengono che è male che l'ONU sia composta soltanto da Stati; occorre invece che al mantenimento della pace concorrano "le grandi società internazionali"15.
In altre parole "visto che le nazioni hanno perso il monopolio della violenza, perché non considerare la possibilità di creare delle forze mercenarie di volontari, organizzate da società private, per combattere le guerre sulla base di un accordo contrattuale stabilito con le Nazioni Unite ...?".
Visto dall'altra parte, dalla parte della pace, ecco che "è ipotizzabile anche la creazione di 'società di pace' affittate a livello sovranazionale, a ciascuna delle quali venga assegnata una qualche regione del globo. La fonte del loro profitto verrebbe dalla limitazione della guerra nella zona d'assegnazione. Il 'prodotto' fornito da queste società sarebbe una riduzione del numero delle perdite, rapportato a parametri di periodi recenti". Le norme internazionali "potrebbero consentire a queste compagnie ampia discrezionalità militare e morale nella conduzione di operazioni anche non ortodosse allo scopo di mantenere la pace, prendendo tutte le iniziative che ritenessero necessarie, dalla corruzione finalizzata, alla propaganda in casi di intervento militare limitato, fino alla fornitura di forze di pacificazione"16.
L'azienda al di là del bene e del male in nome della pace. Riecco dunque anche in un campo così delicato come quello del conflitto armato ricomparire l'azienda e il mondialismo come elemento salvifico. A meno che non esista una prospettiva ancora più oscura.
"La banca, questa regina del secolo dovrà impadronirsi delle terre, delle macchine, dei capitali; la banca diventerà la nazione, il governo; la banca diventerà il centro della nuova organizzazione sociale; la banca ingrandirà sino a creare un'epoca … ".
Chi esalta così la banca non è un qualsiasi, grande o piccolo, banchiere dei nostri giorni. Autore della frase è uno dei più noti rivoluzionari italiani dell'Ottocento: Giuseppe Ferrari, che così scrive negli anni trenta del secolo scorso, tracciando un rapido profilo della storia del pensiero europeo come introduzione alle opere di Giambattista Vico17. Ma non è il solo, che così esalti la banca e la sua funzione. Anzi, Giuseppe Ferrari è proprio l'anello di congiunzione fra il profeta della tecnocrazia, il nobile più volte ricordato Claude Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon, e il più avanzato sostenitore di tutto il potere alle banche, che sarà pochissimi anni dopo un altro italiano.
La società proposta dal Saint-Simon è fondata sul più spinto industrialismo. "Tutto per mezzo dell'industria; tutto per l'industria" è l'epigrafe apposta ad una delle sue opere principali, proprio quella L'Industria, che abbiamo già citato. Ma proprio in questa stessa opera egli sottolinea l'importanza fondamentale della legge finanziaria e di bilancio per la direzione dello Stato e dell'economia. Altrettanto rilievo l'autore dà alle banche, anche se per ora si tratta di quelle "territoriali"; il che potrebbe anche andarci bene, per la funzione di stimolo allo sviluppo, che sembrano avere in quel contesto per il Saint-Simon.
Il fatto è che rapidamente queste idee del Saint-Simon precipitano dichiarando che (è tesi di pochi anni dopo, del 1820-1822) il ministero delle finanze deve essere tenuto soltanto da un industriale, concentrando così potere industriale e potere finanziario statale nelle stesse mani. In sostanza il francese, almeno in alcuni passi delle sue opere, incomincia ad assegnare alla finanza una radicale prevalenza sull'industria operativa, quella che produce i beni.
Henri de Saint-Simon muore nel 1825. La scuola saintsimoniana accentua la sua fede nella banca e nella funzione regolatrice dell'alta finanza. La scuola si espande in Italia, dove i suoi principi, i suoi dogmi, le sue pretese salvifiche vengono portati all'estremo. Giuseppe Ferrari scrive la lode della banca nel 1837. Subito dopo, nel 1840-42, a Milano si pubblica un'opera in due volumi dal titolo quanto mai significativo: Bancocrazia. Autore è il siciliano barone Giuseppe Corvaia, personaggio dalla vita tumultuosa e vagabonda, protagonista di avventure economiche in tutta Europa (lo incontriamo a Parigi, Napoli, Malta, Torino, Londra) e di disavventure politiche in patria (arrestato a Napoli nel 1822, perde beni e libertà; condannato a dieci anni, ne sconta soltanto tre)18.
Giuseppe Corvaia è un deciso e fervente ammiratore e seguace del Saint-Simon, ma va oltre le tesi del maestro, individuando senza esitazioni nella banca il possente centro del nuovo desiderabile potere universale, destinato a sostituire anche il potere tecnico.
Chi in realtà controlla la società (sostiene Corvaia) sono le banche, che però agiscono nell'interesse degli speculatori privati, dei grandi azionisti e dei dirigenti, sfruttando tutti gli altri, risparmiatori e lavoratori. Per porre rimedio a questa situazione, non esiste altro mezzo che spostare il controllo dei capitali dai privati allo Stato, sostituendo le molte banche private con una sola unica grande Banca di Stato, in attesa della nascita di una sola unica enorme Banca mondiale. Occorre "poggiare il governo sopra una Banca … solo allargandone il numero degli azionisti sino all'ultimo dei cittadini"19. Occorre sostituire l'ordinata e positiva bancocrazia pubblica di Stato alla disordinata ed egoista bancocrazia privata; "sostituire al federalismo politico il federalismo finanziario."
È già un discorso da far paura; ma non basta. Giuseppe Corvaia vuole che tutto: ingegno, capacità, tempo, laboriosità, lavoro manuale, danaro, proprietà, sia versato alla Banca, che darà azioni e onorari corrispondenti al prodotto ottenuto. Tutto sarà valutato e amministrato dalla Banca centrale, al cui controllo nulla deve sfuggire. Insomma, quanto vediamo oggi svilupparsi in Europa e nel mondo, sembra quasi prefigurato nelle pagine fra il profetico e l'allucinato dell'ottocentesco barone siciliano, che alla Banca vuole consegnare anche le anime.
Da questo "contratto sociale politico", come lo chiama Corvaia20, nascerà il nuovo governo; governo della Banca, che sarà anche governo del popolo e dello Stato. Il re (come lo stesso Saint-Simon anche Corvaia vuole salvare la monarchia, perché spera di farsi appoggiare dai sovrani, in base al principio di fare la rivoluzione con l'aiuto di chi dovrà essere spazzato via) si identificherà col governatore della grande Banca; i ministri altro non saranno che i direttori generali; i deputati e il parlamento saranno una cosa sola con l'assemblea degli azionisti; i cittadini saranno i soci21. Il nuovo contratto politico sarà eterno; potrebbe chiederne la revisione soltanto chi fosse in grado di presentare un progetto migliore. Ma questo è impossibile. Poiché le leggi dell'economia bancaria sono esatte quanto quelle delle scienze naturali, ecco che nella realtà il supremo potere della Banca non dovrà mai combattere contro altre opinioni "perché queste non potranno più sostenersi contro la verità matematica del Governo"22. La discussione è finita, perché la Banca è arbitra e giudice persino della stessa verità, calcolata secondo leggi immutabili e fisse, perché matematiche. Non esisteranno più diritti naturali, ma soltanto diritti civili, stabiliti dai soci, a maggioranza qualificata dei due terzi23.
La totale omogeneizzazione sarà voluta e attuata dagli stessi cittadini. Si tratta infatti di "fondere al mezzo della Bancocrazia gli interessi materiali e morali dei governanti in quelli dei governati. Allora ogni cittadino, reso sicuro di quella migliore esistenza ch'egli poteva ottenere, mentrechè tutti i capitali del pensiero, della proprietà e delle braccia sarebbero alla disposizione generale, apprenderà col suo naturale instinto e buon senso, che l'ordine pubblico è il primo elemento delle ricchezze individuali e della vita." Cosicché il cittadino stesso sorveglierà ogni altro cittadino.
Queste idee bancocratiche sono tornate alla ribalta con George Soros, il famoso finanziere statunitense, che espone le sue opinioni in materia in discorsi, articoli, libri, ampiamente diffusi e tradotti. Vediamo ora La crisi del capitalismo globale. La società aperta in pericolo, testo molto recente, perché pubblicato nel 1998 e tradotto in italiano l'anno successivo24.
Secondo Soros il mondo contemporaneo è contrassegnato da due evidenti e fondamentali caratteristiche.
Da un lato i mercati, soprattutto finanziari, sono altamente instabili e tanto più lo saranno quanto più prevarranno quelli che Soros chiama i fondamentalisti del mercato, i sostenitori del liberismo ad oltranza, per i quali le virtù autoregolative del mercato sono capaci di dirigere pienamente e accortamente la società: "È tempo di riconoscere che i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili. Di conseguenza, imporre la disciplina di mercato significa imporre l'instabilità: ma fino a che punto la società è in grado di sopportare l'instabilità?"25.
Come non bastasse, ecco questa altra osservazione sul mercato: "La tesi centrale di questo libro è che al giorno d'oggi il fondamentalismo del mercato rappresenta per la società aperta una minaccia più grave di qualsiasi ideologia totalitaria"26. Infatti il fondamentalismo del mercato potrebbe portare persino "al collasso del sistema capitalistico globale"27. Frase significativa, perché dimostra che ciò che sta a cuore di George Soros è soprattutto la sopravvivenza del "sistema capitalistico".
D'altro canto (ecco la seconda caratteristica) dobbiamo ammettere che la politica ha fallito completamente nella sua funzione regolatrice della società. Detto con le parole di George Soros: "le carenze della politica si sono fatte molto più profonde da quando l'economia è diventata veramente globale e il meccanismo del mercato si è infiltrato in settori della società che finora ne erano rimasti immuni"28. Ciò dipende dal fatto che "allo sviluppo di un'economia globale non ha fatto riscontro lo sviluppo di una società globale. L'unità fondamentale della vita politica e sociale è e rimane lo Stato nazione"29.
In altre parole: "Per dirla senza mezzi termini, siamo di fronte alla scelta se imporre una regolamentazione internazionale ai mercati finanziari globali o lasciare a ciascun paese il compito di proteggere i propri interessi come può. Scegliere questa seconda via condurrà immancabilmente al collasso del gigantesco sistema circolatorio che va sotto il nome di capitalismo globale. Gli Stati sovrani possono svolgere la funzione di valvole all'interno del sistema. Può darsi che non si oppongano all'afflusso di capitali, ma si opporranno di certo al deflusso, una volta che lo abbiano giudicato permanente"30.
Ancora una volta l'elemento pericoloso di distorsione, il nemico da battere è la politica, incarnata nello Stato "strumento arcaico"31.
Dov'è dunque la soluzione? Se gli Stati e la politica sono incapaci e insufficienti per tentare di regolare il grande disordine, che ha investito il globo, la soluzione non può stare che nel prevalere di strumenti diversi da quelli politici. E poiché oggi il disordine è finanziario, ecco che soltanto strumenti finanziari potranno fermarlo, riportando l'ordine nel mondo. Se gli organismi finanziari preposti al controllo internazionale del mondo finanziario, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale, sono troppo deboli per contrastare le follie degli Stati, rafforziamoli e mettiamoli in grado di svolgere il loro compito; rendiamoli così forti da sottomettere al loro volere gli Stati 32.
Riassumendo, al di là di un certo disordine formale del libro, restano chiari ed evidenti alcuni elementi:
a) lo Stato è uno strumento superato, che non riesce o non vuole tutelare i diritti e gli interessi degli uomini;
b) il mercato globale non funziona, perché altamente instabile;
c) occorrono nuovi organismi internazionali capaci di imporsi;
d) questi organismi debbono essere organismi e strumenti economici, ma soprattutto finanziari.
Soluzione che più tecnocratica, anzi bancocratica non potrebbe essere. La politica ha fallito, dimostrandosi incapace di governare il mondo e di imbrigliare il disordine finanziario. Consegniamo tutto il potere agli organismi finanziari, i quali così, forti del loro sapere certo e intrinseco al nuovo mondo sviluppatosi negli ultimi decenni, potranno regolare dall'interno e in modo intrinsecamente omogeneo il futuro, che ci attende. Esattamente come volevano Saint-Simon con la sua tecnocrazia industriale e Corvaia con la sua tecnocrazia bancocratica.
Si potrebbe obiettare che nella nuova edizione del suo libro, più un libro nuovo sulla base del precedente che soltanto una nuova edizione, lo stesso George Soros ammette di rinunciare alle sue tesi più arditamente bancocratiche. Ed in parte è vero: La società aperta. Per una riforma del capitalismo globale, pubblicato nel 2000 e tradotto in questo 2001, non soltanto è più organico, meglio articolato, privo delle fastidiose ripetizioni del primo testo, ma appare più moderato sul piano tecnocratico e bancocratico33.
Ma non significa affatto una rinuncia al programma di fondo. Soros propone infatti soltanto un ridimensionamento tattico del progetto di due anni prima, ma non ne rinnega i principi fondamentali. Si rende conto che pretendere l'annullamento degli Stati o almeno la loro radicale subordinazione alle autorità finanziarie internazionali suscita ancora reazioni e rifiuti, e dunque ripiega su "una riforma più modesta", ma propone comunque "una versione ridotta del mio programma originario". E conclude: "un'autorità finanziaria internazionale incaricata di mantenere la stabilità del sistema finanziario globale è costretta ad operare secondo linee radicalmente diverse da quelle di una banca centrale nazionale. Questo non fa venir meno l'esigenza di una simile autorità"34.
A questo poi affianca un progetto per una "Alleanza per la società aperta", sempre nel quadro della progressiva riduzione dell'autonomia della politica degli Stati, che suscita timori e perplessità altrettanto forti. Ma questo sarebbe un altro discorso.
Due osservazioni per concludere.
L'odio per lo Stato, che nell'ideologia tecnocratica accompagna strettamente e inscindibilmente il desiderio e la volontà di globalizzazione, copre in realtà il più profondo ed essenziale odio per la politica, che è all'origine della tecnocrazia stessa. Questa, come abbiamo più volte ricordato, intende infatti sostituire le regole della politica con regole tratte dal mondo tecnico e scientifico, eliminando la politica in quanto tale dalla vita dell'uomo. Nel concreto poi questa volontà antipolitica diventa volontà antistato, perché lo Stato è la massima realizzazione politica quanto meno degli ultimi secoli, così da costituire il bersaglio più evidente per chi vuole abbattere la politica. Lo scopo vero e reale è dunque distruggere la politica e non soltanto una o alcune delle forme istituzionali, nelle quali la politica si esprime.
Ieri Giuseppe Bedeschi ha ricordato e sottolineato il carattere utopico dell'ideologia tecnocratica, di per se stessa irrealizzabile nella concretezza della vita politica e sociale dell'uomo. Sono perfettamente d'accordo; ma questo carattere utopico non ne sminuisce la pericolosità; al contrario la accresce. Ogni volta che nella storia l'uomo ha tentato di realizzare l'utopia, di realizzare l'irrealizzabile, la natura umana e la realtà concreta del mondo si sono ribellate all'impossibile, cosicché lo scontro fra una pretesa utopica e la realtà ha sempre portato al disastro, a lutti, dolori, morti. Così avverrebbe anche nel tentativo di attuare l'ideologia tecnocratica. E se l'utopia marxista ha provocato un numero di morti misurabile in decine o centinaia di milioni di uomini, certamente molto peggio avverrebbe nel tentativo di attuare la tecnocrazia.
Note:
1 CLAUDE HENRI DE SAINT-SIMON, L'industria o discussioni politiche, morali e filosofiche nell'interesse di tutti gli uomini che si dedicano a lavori utili e indipendenti, in Opere, a cura di Maria Teresa Bovetti Pichetto, Torino 1975, pp. 261, .396, precisamente p. 331.
2 Ivi, p.337.
3 CLAUDE HENRI DE SAINT-SIMON, Il sistema industriale, in Opere, cit., pp. 585-892, precisamente p.712; ma si veda anche p. 727.
4 CLAUDE HENRI DE SAINT-SIMON, Catechismo degli industriali, in Opere, cit., pp.915-1036, precisamente p. 1028.
5 THORSTEIN VEBLEN, An inquiry into the nature of peace and the terms of its perpetuation, New York 1917; traduzione italiana Ricerca sulla natura della pace e le condizioni della sua perpetuazione, in Opere, a cura di Francesco De Domenico, intr. di Franco Ferrarotti, Torino 1969, pp. 629-906, precisamente p. 906.
6 AURELIO PECCEI, La qualità umana, Milano 1976, p. 40. Ma tutte le altre opere di Aurelio Peccei e i rapporti al Club di Roma sono ricchi di affermazioni simili.
7 Ivi, pp.61-69.
8 ALVIN TOFFLER, Powershift, New York 1990; traduzione italiana: Powershift. La dinamica del potere. Conoscenza, ricchezza e violenza alle soglie del XXI secolo, Milano 1991, p. 479.
9 Ivi, pp. 76 e 415.
10 Ivi, p. 559.
11 Ivi, p. 558.
12 Ivi, p. 557.
13 War and anti-war, New York 1993; traduzione italiana: La guerra disarmata. La sopravvivenza alle soglie del terzo millennio, Milano 1994, pp. 326-7.
14 Ivi, pp.328-29.
15 Ivi, p.329.
16 Ivi, pp.329-30.
17 GIUSEPPE FERRARI, La mente di Giambattista Vico, Milano 1837 (volume I delle Opere di Giambattista Vico, delle quali costituisce l'Introduzione), pp. 234-35.
18 GIUSEPPE NICOLA CORVAIA, La bancocrazia o il gran libro sociale, novello sistema finanziario che mira a basare i governi su tutti gl'interessi positivi dei governati, Milano 1840-1842, 2 volumi (ne erano previsti ben otto). Negli anni successivi il Corvaia torna sull'argomento più volte con altri lavori.
19 GIUSEPPE CORVAIA, Bancocrazia, cit., vol.I, p. 12.
20 Ivi, p. 15.
21 Ivi, p. 13.
22 Ivi, p. 16.
23 Ivi, pp. 20-21.
24 GEORGE SOROS, The crisis of global capitalism, 1998; traduzione italiana: La crisi del capitalismo globale, Milano 1999.
25 GEORGE SOROS, La crisi del capitalismo globale, cit., p. 223.
26 Ivi, p. 20.
27 Ivi, pp. 25-26.
28 Ivi, p. 249, ma si veda anche p. 21.
29 Ivi, p.18, ma si veda anche p. 140.
30 Ivi, p. 223.
31 Ivi, p. 275.
32 Ivi, pp.190-92, ma anche p. 14 e soprattutto pp. 226-32.
33 GEORGE SOROS, Open society. Reforming global capitalism, 2000; traduzione italiana: La società aperta. Per una riforma del capitalismo globale, Milano 2001.
34 GEORGE SOROS, Open society. Reforming global capitalism, cit., pp. 336-42.
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