L'Europa e il futuro della politica
DESTRA E SINISTRA DA "MANI PULITE" A "GRANDE FRATELLO"
Roberto Racinaro
Il tema della distinzione tra "destra" e "sinistra" in politica ha sempre attratto l'attenzione: del sociologo politico, del filosofo della politica, dello scienziato della politica. E, direi, anche del pubblico colto. Pochi anni fa un volumetto di Norberto Bobbio ha avuto un successo editoriale straordinario, in Italia, del tutto inconsueto per questo genere di saggistica1.
Certo, sarà dipeso dall'autorevolezza dell'Autore, dal tenore piano della scrittura e dell'argomentare, dalla dovizia dell'informazione, sempre acutamente discussa. Ma un po' di merito andrà ascritto anche alla tematica. Alla tematica e, vorrei aggiungere, al momento storico: cinque anni dopo la fine del comunismo. Anche se proprio questa collocazione storica poteva spingere un po' più in là nella considerazione teorico-politica. Come del resto lo stesso Bobbio, nella sua vasta produzione che fa di lui un protagonista nel Novecento, in altri momenti della sua riflessione spinge a fare.
Non è facile trovare un discrimine universalmente valido tra i due concetti. Il riferimento alle metafore spaziali - per cui la distinzione tra "destra" e "sinistra" sostituirebbe quella ormai impraticabile tra "alto" e "basso" - non fa compiere molti passi avanti. Ma ancora peggio vanno le cose se si tenta di leggere la distinzione tra "destra" e "sinistra" a contenuti concettuali e di valore definiti. Per cui la destra sarebbe il "bene" e la sinistra il "male" (o viceversa); oppure la prima rappresenterebbe il "sacro", mentre la seconda il "profano" (o viceversa). Né ci è d'aiuto la "globalizzazione", che è per eccellenza sconfinamento, sfondamento di confini, deformazione di geometrie politiche"2.
In maniera forse indiretta un suggerimento ci viene dallo stesso Bobbio quando ricorda quella dimensione peculiare della politica che è il contrasto tra parti contrapposte, la dimensione della politica come lotta3. Perché è proprio questo l'aspetto che sembra oggi massimamente assente, al di là degli scontri di facciata inevitabili, a maggior ragione durante una o in prossimità di una campagna elettorale.
È proprio qui, però, forse, che la distanza dalle riflessioni di Bobbio, prima ricordate, appare ben maggiore dei sette anni che da esse ci separano. Il mondo è cambiato. La fine del comunismo pesa, certo, innanzi tutto, sugli ex comunisti, sulla sinistra più in generale. Ma la verità è più drammatica. Pesa su tutti, sulla sinistra, sul centro e persino sulla destra. Se Atene piange, Sparta non ride. Dimensione della politica come lotta, come contrapposizione; ma contro chi, se - non dico il nemico, ma, semplicemente, - l'"altro" non c'è più? Certo so bene anch'io che le guerre ed i conflitti - magari di quei generi che immaginavamo fossero finiti per sempre - ci sono ancora. Ma è a tutti evidente che sto parlando di altro.
La verità è che è la stessa forma della lotta politica che è cambiata (e non è detto in meglio), anzi è cambiato il modo stesso di concepire l'"altro", l'avversario politico (e non è detto che sia cambiato in meglio).
I primi sintomi del cambiamento hanno iniziato a divenire visibili, credo, proprio nel corso della campagna elettorale - in Italia - del 1994. Quando, per la prima volta, gli avversari politici - o quelli che come tali figuravano - nel corso delle "tribune elettorali" cominciarono a rivolgersi un'accusa fino ad allora impensabile: non quella di non aver capito niente e di aver raccontato una serie di baggianate. Ma quella, ben più grave, di aver copiato il programma. Oppure - come si è sentito anche di recente - : il mio avversario promette di fare quello che il mio movimento politico ha già realizzato negli anni in cui è stato al governo.
Del resto, forse neanche i termini-concetto, neanche le parole sono casuali. Una volta c'erano i liberali, i conservatori, i cattolici, i comunisti, i socialisti, ecc. La politica, cioè, aveva a che fare visibilmente fin dalle denominazioni con un mondo di uomini. Tutt'altra cosa oggi. Non intendo per nulla fare facile ironia. Ma oggi - a proposito della nomenclatura delle forze e dei movimenti politici - si sente parlare di prodotti della natura che hanno a che fare con il giardinaggio, con la floricultura e non so bene con che cos'altro. Ripeto: l'osservazione non vuole avere nulla di sarcastico. Ma la differenza nei nomi vuole segnalare, forse, in maniera radicale una rottura rispetto al passato, anche quando - anzi, a maggior ragione - all'interno di quella organizzazione politica figuri un personaggio di cui si riconoscano subito le precedenti militanze. Ma anche la rottura più radicale può fare del tutto a meno della mediazione concettuale. È evidente il desiderio di farla finita con le vecchie identità; ma assai meno chiari sono i lineamenti delle nuove fisonomia politiche.
Non più cattolici o laici, comunisti o liberali, reazionari o rivoluzionari, dunque. Piuttosto rappresentanti di un albero, di una pianta o di un fiore. Sarà un caso, legato al fatto che anche la fantasia ha un limite. Ma potrebbe non esserlo. Perché dalla politica sembra fuoriuscita quella che per migliaia di anni è sembrata essere la sua peculiarità più precipua: cioè la scelta e la conseguente responsabilità. È estremamente difficile ed improbabile, oggi, imbattersi in un uomo politico, o in una forza politica, che segua un comportamento perché ha deciso di farlo. Piuttosto, perché non si può non farlo, perché non si può evitare di farlo. Può anche darsi che non sia vero e che la scelta, presentata come una scelta obbligata, sia una vera scelta. Ma, intanto, prudenza consiglia di presentare la scelta come un obbligo. La scelta implica un rischio. Può anche essere sbagliata. E poi? Chi paga? Di fronte all'elettore, innanzi tutto. Ma non solo. Perché se si compie la scelta che non si può fare a meno di compiere, nessuno poi ce ne potrà chiedere conto e ragione, neanche la magistratura.
Ma, prima di arrivare a questo, occorre rapidamente accennare ad un altro punto. La politica che non consce più scelte che non siano scelte obbligate è una contraddizione in termini. Ovvero: è un'altra cosa. Il contrario di quello che dice d'essere. È amministrazione. Ed è destinato a crescere il numero dei consiglieri comunali che diventeranno assessori, e degli assessori che diventeranno vicesindaci, e dei vice-sindaci che diventeranno sindaci, e dei sindaci che diventeranno consiglieri regionali e poi assessori e così via, fino al Parlamento nazionale e magari al Governo. E siccome c'è qualcuno che è più bravo di altri ed ha saputo riscuotere (in tutti i sensi) più consensi, può darsi che salti qualche postazione. Già Napoleone, del resto, faceva ampio spazio al merito. Una vera carriera. Da burocrate. Com'è giusto che sia nell'amministrazione.
E i cittadini? Lontano. Che cosa può interessare a loro questo movimento soltanto apparente? Tutt'al più, potranno aver bisogno di qualche cosa. E beh!, allora pazienza. Ci sarà pure qualcuno che conoscerà un vice-, un vice-qualche cosa. A parte il fatto che c'è sempre - ma forse sono ottimista; non c'è già più - un'altra soluzione: la magistratura. Che si è assunto il compito (gravoso) di soddisfare le promesse inadempiute dei politici4. Dei politici o degli amministratori?
Un momento. Qui pongo davvero problemi assurdi. E perché un politico dovrebbe scegliere, decidere, rischiare, assumere responsabilità? E poi, insieme con chi? Con il capo redattore o con il Direttore della testata? Già, il problema sta un po' anche qui. Aristotele, quando doveva prendere una decisione - o, come malauguratamente allora si diceva: adottare una linea - poteva parlarne in segreteria o nel comitato dei saggi o in quello degli stolti. E insieme si poteva concertare il fine da perseguire e magari anche i mezzi per raggiungerlo. Ma oggi? Di fini da perseguire non c'è traccia. È questo il motivo per cui non ci sono scelte che non siano scelte obbligate. E allora, a che servono le segreterie, i comitati dei saggi e degli stolidi, le sedi decentrate e quant'altro? Alla fine, poi, si è capito che tutti questi corpi intermedi invece di avvicinare la gente alla politica funzionavano da schermi. E allora si è fatto un passo avanti. Che è un passo avanti anche sulla strada della democrazia. Decidono direttamente gli illuminati, che conoscono le esigenze delle masse meglio delle masse stesse.
Alcuni - pochi, di solito - scelgono (questa sì è una scelta, ma non si può fare a meno di farla) chi dev'essere il candidato. E perché nessuno possa avere neanche il sospetto che stiano mettendo in atto qualche favoritismo, ovvero per esibire la loro imparzialità, di solito, scelgono se stessi. I cittadini, poi, con il loro voto vengono invitati a sancire democraticamente le scelte compiute da pochi illuminati. La democrazia è salva, anzi è modernizzata e resa più rapida. Al resto pensa la televisione. Quale? Non ha importanza. Una qualunque.
Qualcuno ha notato, anche in riferimento a recentissime vicende italiane, che gli avversari politici, in occasione delle elezioni, apparentemente hanno esibito - di fronte all'esito delle urne - atteggiamenti improntati al fair play ed alla reciproca legittimazione. Ma, sotto sotto, al di là delle belle apparenze, - si è detto - alberga ancora la tendenza a demonizzare l'avversario, a disapprovarlo moralmente, come inducono a fare i postumi di una democrazia bloccata "ove le aspre divisioni ideologiche convivevano con i compromessi più spregiudicati"5.
Ma allora, che fine ha fatto tutto quello che frettolosamente si diceva prima circa la riduzione della politica ad amministrazione, ovvero circa l'assenza di contrasti reali? E che fine ha fatto la distinzione tra destra e sinistra? È veramente diventata quel diavoletto che si tira fuori dal cilindro, all'ultimo momento della campagna elettorale, per indurre la gente ad andare a votare sotto la spinta del più forte collante politico: la paura6? E dov'è andato a finire lo spirito laico, quella piena laicizzazione della politica, cui la fine del comunismo dovrebbe aver aperto le porte?
Qui davvero torna ad essere preziosa una distinzione, recentemente riproposta, che Bobbio faceva valere nel 1946. Il nemico dello spirito laico "è, in politica, quell'atteggiamento in base al quale si porta nella discussione su questioni d'interessi lo spirito d'intransigenza dommatica proprio delle questioni di principio, onde le questioni politiche, che sono di interessi e non di principio, sono continuamente rinviate e lasciate non risolte, e alla loro ombra si trovano a prosperare troppi teologi in mala fede che trafficano principi per difendere interessi"7.
Il contesto in cui si collocavano le parole di Bobbio è incomparabilmente diverso da quello attuale. Ma ad esso - al ritorno attuale della "teologia" nel senso ora indicato - si attagliano perfettamente. Si pensi al modo in cui si è dapprima posto - e subito dopo nascosto - il tema delle riforme, riforme istituzionali, riforma elettorale, il nodo cruciale della giustizia e, poi, la grande riforma: quella della nostra norma fondamentale: tutto scomparso dopo la Bicamerale8. Con aumento evidente degli iati tra società, istituzioni e politica e con vertiginoso incremento del disorientamento dei cittadini9.
La politica è argomento ormai che può riguardare qualche vecchio dinosauro. L'ultimo grido, la moda imperante, invece è l'amministrazione. Il primato, cioè, delle scelte che non si può evitare di compiere. Ma una scelta che non si può fare a meno di fare, è ancora una "scelta"? Certamente no. Ma questo atteggiamento giova. Al politico che presenta la sua azione come obbligata e inevitabile nessuno (neanche la magistratura) potrà poi (di fronte ad un malaugurato fallimento di quella scelta) chiedere conto e ragione. Così trionfano: l'amministrazione e l'irresponsabilità.
Il fatto è che il politico è (o dovrebbe essere) come l'imprenditore, che investe, rischia e, se ha visto giusto, ha successo. Ma per fare questo deve avere qualche idea, qualche progetto o qualche valore da realizzare; e deve avere la passione di farlo. Tutti termini e concetti oggi a dir poco impronunciabili.
Certo, nell'ultimo decennio la politica è andata incontro ad un poderoso processo di laicizzazione. E questo è un bene. Ognuno - soggetto o forza politica - vorrà realizzare il suo obbiettivo. Ma senza pensare che l'obbiettivo dell'altro sia il male o il disvalore. Bensì semplicemente un obiettivo diverso.
Ma è proprio qui che nascono i problemi. Il processo di laicizzazione non poteva essere abbandonato a se stesso, aspettando che producesse da solo i suoi frutti. Andava diretto e guidato. Altrimenti si sarebbe trasformato - come di fatto è avvenuto - in un semplice livellamento, che è l'altra faccia della trasformazione della politica in amministrazione, di cui poc'anzi si discorreva. In virtù della quale oggi è possibile seguire confronti politici, o "tribune" politiche, in cui gli avversari non si rimproverano più di pensare e volere cose sbagliate, - come si accennava prima - ma di essersi reciprocamente "copiati" i programmi. Il dissenso non riguarda più le cose da fare, ma, nella migliore delle ipotesi, il modo in cui farle. Nella migliore delle ipotesi, ripeto. Perché spesso si ha l'impressione che l'alternativa non sia tra idee, programmi o valori. E neanche quella tra le vie per realizzarli. Ma, semplicemente, tra uomini con le loro (sovente legittime) aspirazioni personali. Il che fa comprendere certi repentini inasprimenti dei toni del confronto politico. Ma lascia intuire anche - e questo è più inquietante - la profonda trasformazione della politica e dello stesso concetto di avversario politico.
Prima della laicizzazione "avversario" era colui che stava dall'altra parte. Ma oggi? Dov'è l'altra parte? Una volta si riteneva che il male fosse tutto extra moenia e che da questa parte ci fosse tutto il bene e solo il bene. Ma oggi, l'"avversario" - per non dire il male - possono essere dappertutto; possono essersi subdolamente infiltrati anche fra di noi. La "globalizzazione"di per sé non diffonde alcun valore, alcun progetto, alcuna rappresentazione collettiva. E questo aumenta le angosce, accresce le paure. "Lo spazio tutto aperto (o almeno che tende a presentarsi come tale) della globalità può essere tanto soffocante quanto quello angusto (che tendeva a presentarsi come chiuso) della statualità"10.
La criminalizzazione spesso può offrire un risarcimento di quei simboli comunitari che sono scomparsi. Quando la politica non dà più riferimenti per simbolizzare l'esperienza sociale - ha scritto qualcuno - "la trista figura del mascalzone fa il suo rientro in democrazia. In assenza di nemici esterni, sono il crimine ed il criminale a fornire le immagini paurose che creano l'unità"11. Il criminale o, semplicemente, lo "straniero".
Riduzione della politica ad amministrazione e processi di globalizzazione qui possono compiere un buon tratto di strada insieme. Nel movimento di autonomizzazione "del sociale, dell'economico, del diritto privato, dal politico-statuale, dal diritto pubblico, - si è osservato - c'è una delle caratteristiche più evidenti della globalizzazione"12.
Questo fenomeno di ri-privatizzazione (ri-fedaulizzazione starei quasi per dire) del pubblico ha avuto una delle sue forme più cospicue di manifestazione lì dove uno meno se lo aspetterebbe. In quel pan-penalismo che, per diversi anni, ha caratterizzato la repubblica penale italiana. Certo, fenomeni simili si sono avuti in altri paesi europei: dalla Francia alla Germania alla Spagna, oltre che, come tutti sanno, negli Stati Uniti (ove la storia è più antica), a Israele ecc. Ma in Italia, forse meglio che altrove, anche per il carattere dirompente che ha avuto "mani pulite" rispetto ad un'intera classe politica, l'intreccio paradossale tra ri-privatizzazione di risorse pubbliche (la magistratura) e pan-penalismo diviene visibile.
Su questi argomenti esiste ormai una letteratura critica, che individua gli aspetti - difficilmente riducibili ad uno solo o ad un'unica causa - più rimarchevoli di questo fenomeno. E qui si vuole richiamare per l'appunto l'attenzione su un aspetto, cui finora non sembra si sia data particolare importanza, collegato a ciò che un istante fa si definiva ri-privatizzazione del pubblico.
Gli anni di "mani pulite", allora, vanno presi per quello che sono: la manifestazione vistosa (ed il punto di momentaneo approdo) di un periodo di crisi organica della democrazia nel nostro Paese. Che ha avuto origine, probabilmente, dal fatto che poteri non deputati a ciò hanno spesso "invaso" le istituzioni, piegandole verso (e usandole in vista di) finalità improprie.
Si è assistito, cioè, all'appropriazione/privatizzazione di risorse pubbliche (la magistratura) da parte di forze e per fini non del tutto manifesti e, in questo senso, non "pubblici" (come diceva, in tempi non sospetti, N. Bobbio)13. Il ricorso indiscriminato alla magistratura ordinaria c'è il pericolo che risponda appunto non ad un'esigenza di superiore trasparenza o, addirittura, moralità pubblica, ma a finalità e aspirazioni opposte, semi-private o private: "La visibilità è una trappola"14.
Naturalmente, se c'è una norma, va rispettata comunque. E se c'è un reato, va punito in ogni caso. Questo sotto il profilo giuridico. Piaccia o non piaccia. E le conseguenze secondarie - gioia o dolore; vendette private o pubblici risarcimenti - non hanno nessun peso. Un momento: non hanno nessuna rilevanza giuridicamente. Ma politicamente sì. Diverso è se invoco il rispetto della Legge e del codice per amore della libertà, che è un bene di tutti; oppure se li invoco perché intendo fare piazza pulita dei miei avversari e dei miei concorrenti, di cui non riesco ad aver ragione in altro modo.
Ma come si fa a sostenere che il ricorso alla magistratura ordinaria non ha di mira un accrescimento della legalità e della trasparenza? È da folli o, peggio, da malviventi. Un momento; non è proprio così. Sarebbe da folli o da malviventi in un altro momento, in una diversa fase storica e politica. Oggi viviamo una radicale trasformazione della politica e della lotta politica. Che sembra ridotta ad una pura e semplice "lotta a vincere", per un verso. E che, per altro verso, non sembra avere più nulla da realizzare, non più obiettivi di grande respiro da perseguire, al di là di incrementi di posizioni individuali. Per cui "avversario" non è più colui che, militando in un altro partito movimento o area, persegua obbiettivi diversi. Ma chiunque - anche dalla mia stessa parte - minacci, con la sua sola esistenza, di occupare una posizione, che inevitabilmente sfuggirà alle mie mire.
"Chiunque", sì, proprio così. La crisi di ogni identità comunitaria - indotta anche dalla fine del comunismo - avrebbe potuto produrre effetti altamente benefici, ma a patto di essere diretta e guidata. Intanto, ha prodotto certamente la liberazione del "Chiunque". Dal momento che la mia condotta non è più orientata da nulla - poiché tutto è entrato in crisi, tutto è una tessera di una "mobilitazione totale" - beh!, l'unico orientamento può venirmi solo da me stesso, da quello che penso, ma, ancora di più, da quello che desidero o di cui ho bisogno. E qui il mio "Chiunque" vale quanto il "Chiunque" di chiunque altro. Sono io a decidere. Tutta la realtà è a mia disposizione - e la tecnologia contemporanea, dal comune apparecchio televisivo ad internet mi conferma ciò - se solo sono capace di disporne. Dipende da me.
Chi non ricorda, del resto, i minuti e le ore davanti agli schermi televisivi, in attesa di conoscere la notizia dell'ultimo avviso di garanzia inviato all'uomo politico di fama o quella della custodia cautelare comminata all'ultimo colletto bianco? Quella "rivoluzione" per televisione ha avuto anche questo significato.
Siamo in pieno Illuminismo, per metà. Siamo nell'Illuminismo, ovvero nel mondo della "cultura" di cui parlava - con accenti critici - Hegel. Il mondo in cui tutto è "utile" e utilizzabile. E in cui il massimo di unificazione che è possibile immaginare è quella dei signori che vanno a scroccare una cena a casa di Bertin, come racconta Diderot in un suo celebre romanzo. Ove il massimo di lucidità è nella follia di quel parassita, che è consapevole della sua natura parassitaria. Ovvero è quella dei giullari: "Presso un popolo in schiavitù - scriveva una volta Diderot - tutto si corrompe. Bisogna avvilirsi nel tono e nel gesto, per togliere alla verità il suo peso e la sua asprezza. Allora i poeti sono come i buffoni alla corte dei re: possono parlare apertamente solo perché sono disprezzati da tutti". I buffoni possono essere anche il tramite di una politica che, fatta uscire per la porta, ricompare inaspettatamente dalla finestra (o dallo schermo televisivo). E fin qui va bene. Ma i re si fanno sempre più astuti e le cose si complicano sempre di più. I re imparano che il potere contemporaneo dev'essere "legittimo" e che quindi è fondamentale la costituzione di un "senso comune". Può così anche succedere che i giullari siano gli unici cui è consentito dire la verità, anche perché dicono la verità che al re piace ascoltare.
Ma siamo in pieno Illuminismo per metà. Siamo infatti distanti anni luce - come finora si è tentato di dire - dall'Illuminismo di Kant, dal sapere aude. Esso infatti allude a quell'assunzione di responsabilità che è il contrario della conclusione odierna di tutti i salmi, che ci riconducono all'amministrazione.
Si accennava, prima, all'opportunità di guardare in maniera disincantata agli anni di "mani pulite", che vanno presi per quello che sono: la manifestazione vistosa (e il punto di momentaneo approdo) di un periodo di crisi organica della democrazia nel nostro Paese. L'epoca dei processi in tv potrebbe inoltre aver avuto un suo provvisorio epilogo - e nessuno si stupisca - in quel contemporaneo Panopticon che è stato il "Grande Fratello".
La nozione di primato dell'amministrazione rinvia, in maniera non casuale, a quel concetto di realtà "amministrata" in cui una volta - ai tempi della scuola di Francoforte - si scorgeva una minaccia per le società contemporanee. Ma non meno fa riflettere quella estrema parcellizzazione che riconduce ogni decisione all'anonimo "Chiunque": si discopre qui una dimensione propria del potere nell'epoca dell'immanenza (prima parlavo di livellamento), del potere non sovrano che si trasforma in una macchina che può essere controllatae fatta operare da chiunque15 .
Note:
1 N. BOBBIO, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994
2 C. GALLI, Spazi politici. L'età moderna e l'età globale, Il Mulino, Bologna 2001 p.133.
3 N. BOBBIO, op. cit.,p.46. Cfr. anche N.BOBBIO - G. BORSETTI - G. VATTIMO, La Sinistra nell'era del Karaoke, Donzelli, Roma 1994.
4 A. GARAPON, I custodi dei diritti, tr. it., Feltrinelli, Milano 1997; A. GARAPON - D. SALAS, La repubblica penale, tr. it. Liberlibri, Macerata 1998.
5 A. PANEBIANCO, Le due Italie, "Corriere della sera", mercoledì 16 maggio 2001
6 R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. 6-7
8 N. BOBBIO, Tra due repubbliche, Donzelli, Roma 1996, pp.36-37. R. RACINARO, Colonne infami. Presente e passato della questione giustizia, Marsilio, Venezia 2000, pp.112 e ss.
9 I. DIAMANTI, Politica all'Italiana. La parabola delle riforme incompiute, Prefazione di V. Foa, Il sole 24 ore, Milano 2001, p.5.
10 C. GALLI, Spazi politici. L'età moderna e l'età globale, cit., p.133
11 A. GARAPON - D. SALAS, La repubblica penale, tr. it. cit., p.94
12 C. Galli, op. cit., p.138
13 N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984
14 M. FOCAULT, Sorvegliare e punire, tr.it., Einaudi, Torino 1976, p.218
15 M. OJAKANGAS, Il sovrano: "chiunque"…?, in "aut aut", n.298 (luglio-agosto 2000), p.97.
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