L'Europa e il futuro della politica
GLI ORGANI NON-ELETTIVI NELLE 'DEMOCRAZIE'
Pasquale Pasquino
1. Nel corso degli ultimi due secoli si sono affermate in occidente, col nome di sistemi democratici, forme politiche tradizionalmente caratterizzate da tre elementi: 1. natura rappresentativa delle istituzioni di governo, 2. esistenza di una costituzione (scritta o basata su convenzioni) e 3. sostanziale omogeneità della popolazione. Analizzare precisamente o anche solo definire in modo univoco questi tre caratteri condurrebbe molto lontano. Bisognerebbe chiedersi cos'è esattamente una costituzione o cosa s'intenda per omogeneità e soprattutto omogeneità in che cosa quando si parla dei cittadini membri di uno stato nazione. Ma vi sono pochi dubbi sul fatto che i nostri stati sono sempre meno omogenei (etnicamente e culturalmente) e che non è pensabile oggi di poter far parte della comunità delle nazioni civili se non si possiede una carta costituzionale che definisce diritti dei cittadini e competenze degli organi dello stato.
Qui si vuole attirare l'attenzione su una trasformazione recente del governo rappresentativo, più precisamente, sul perché gli organi rappresentativi-elettivi dello stato abbiano ceduto una parte del loro potere ad organi che non lo sono e sulla compatibilità di questa trasformazione con ciò che chiamiamo legittimità democratica a governare.
Facciamo un passo indietro, per chiarire che cosa si intende qui con "governo rappresentativo". Credo che si possa accettare la seguente definizione stipulativa: è rappresentativo, o forse meglio rappresentativo-democratico un governo (nel senso lato del termine) in cui il potere legislativo è attribuito esclusivamente ad organi elettivi, responsabili, quindi, dinanzi al corpo elettorale (l'aggettivo democratico rinvia qui alla dimensione universale del suffragio). Questo tipo di governo è stato piuttosto un progetto e un ideale che una concreta realtà istituzionale; ma almeno la IIIa e la IVa Repubblica francese e la Gran Bretagna nel secolo XX° hanno ampiamente realizzato questo ideale. Il governo rappresentativo-democratico ha imposto una concezione della cittadinanza (i diritti politici) basata sull'estensione del suffragio, prima alla totalità dei maschi adulti, poi anche delle donne, appartenenti alla comunità politica, mentre dal punto di vista costituzionale ha preso per lo più la forma della sovranità parlamentare.
A partire dal secondo dopoguerra, un certo numero di trasformazioni importanti si sono prodotte dentro questa forma politica. In particolare, al livello della costituzione, sono stati introdotti organi non elettivi come le corti costituzionali - ma bisognerebbe aggiungere, per alcuni paesi, come la Germania, le banche centrali, e, su un piano diverso, le cosiddette autorità amministrative indipendenti, entro i singoli Stati; per non parlare delle numerose istituzioni dell'Unione europea, sottratte sia al principio elettivo sia a quello della responsabilità democratica. Vale la pena di precisare, per evitare equivoci, che con organi elettivi s'intende qui fare riferimento esclusivamente a quelle autorità che non solo sono elette dai membri della comunità su cui esse esercitano un comando, ma anche che vengono elette per un mandato piuttosto breve (alcuni anni) e rinnovabile, ed il cui rinnovo dipende da una nuova elezione da parte dello stesso gruppo di soggetti. In questo senso si afferma che tali autorità sono politicamente responsabili dinanzi al corpo elettorale. Diversa la posizione di organi eletti a vita (come il papa) o nominati da organi elettivi (come i giudici della Corte costituzionale tedesca)1, o non rieleggibili (come il presidente degli Stati Uniti, dopo un eventuale secondo mandato). La ragione di questa definizione non è arbitraria, essa cerca di mettere in evidenza una condizione specifica in cui si trovano i soggetti o attori facenti parte degli organi elettivi, nel senso appena precisato, e cioè la loro dipendenza dal consenso del corpo elettorale per l'ottenimento ed il mantenimento del loro mandato. Certo, negli "Stati di partiti" il destino dei singoli rappresentanti può dipendere puramente e semplicemente dalla scelta del partito di candidare il signor Taldeitali in un collegio sicuro o di condannarlo alla sconfitta candidandolo in una circoscrizione nella quale non ha alcuna possibilità di essere eletto, o semplicemente di escluderlo dalle liste elettorali. Al livello aggregato del partito, il conto, però, torna, poiché esso (o, se si preferisce, i suoi organi dirigenti) si comporta(no) come un soggetto massimizzante. Il partito del "Pomodoro", in ciascuna tornata elettorale, avrà più o meno seggi (quote di rappresentanza) semplicemente in base alle scelte degli elettori, e tenuto conto del sistema elettorale in vigore. Supporre che un attore che si trovi in questa posizione abbia lo stesso statuto di un'autorità pubblica eletta a vita, o eletta per un solo mandato, significa vanificare il principio elettorale stesso riducendolo al semplice contrario della nobiltà di sangue, o ad un meccanismo di nomina alle cariche pubbliche alternativo all'estrazione a sorte o al concorso. Certo, anche chi mira ad essere nominato da un qualche organo ad una certa carica dovrà cercare di compiacere quell'organo. Ma se il suo mandato è a vita o non rinnovabile, avrà le mani libere, invece delle "mani legate", che è, appunto, la condizione che si è voluta imporre ai rappresentanti democratici, certo liberi da mandati imperativi, ma sottoposti alla necessità di una conferma da parte degli elettori. Condizione che vale, per l'appunto, come contrappeso alla libertà del mandato parlamentare. Sicché il rapporto fra elettori ed eletti si presenta sotto la forma dello scambio fra chi è libero di fare e disfare le leggi: il rappresentante, e chi è libero di "assumere" o di "licenziare" i membri dell'organo legislativo: il corpo elettorale - "Tu, legislatore (singolo o partito), governerai in base alle tue scelte, ma noi cittadini, decideremo in modo sovrano, cioè inappellabile, del tuo nome (o taglia, per il partito) e del tuo tempo di vita (in quanto rappresentante)".
2. È un fatto che la teoria politica non ha ancora compiutamente né sistematicamente analizzato le trasformazioni dello Stato costituzionale sulle quali vorrei attirare l'attenzione. Penso qui ai lavori di Giovanni Sartori ed alla sua Ingegneria costituzionale comparata (Bologna, Il Mulino, 1995), in cui l'autore si limita a considerare i rapporti fra esecutivo e legislativo, senza accennare nemmeno al ruolo delle Corti costituzionali o di altri organi non elettivi. Questo breve scritto vorrebbe semplicemente tracciare la mappa dei problemi che la teoria deve affrontare, il che non è mai inutile quando si avanza, come nel nostro caso, in una terra incognita. Non ignoro, naturalmente, che esiste una letteratura sterminata sulle corti costituzionali, le banche centrali o le autorità amministrative indipendenti. Quello che lamentoa è l'assenza di una trattazione sistematica del ruolo e della funzione di questi organi dal punto di vista della teoria politica della democrazia2.
Da qualche tempo, le mie ricerche riguardano essenzialmente gli organi di controllo di costituzionalità, ma è più in generale il problema dell'autorità delle autorità non elettive che mi interessa. Naturalmente si deve rispondere in ogni caso a due domande supplementari: a) qual è la funzione di questi organi e b) per quale ragione sono stati introdotti nei nostri sistemi costituzionali.
3. Con l'espressione contorta e apparentemente paradossale di "autorità delle autorità non elettive", e non responsabili politicamente di fronte agli elettori si vuol fare allusione al problema seguente. Nella società moderna alle credenze tipiche delle forme carismatiche e tradizionali di esercizio del potere politico si sono sostituite dottrine e credenze diffuse che vanno sotto il nome generico di "contrattualismo". In base ad esse (è questa la definizione, ancora una volta stipulativa, che adotto) chi comanda in seno ad una comunità politica può farlo solo se viene autorizzato a questo scopo da coloro che dovranno obbedire ai suoi comandi. A partire dalla Rivoluzione Francese, per tenersi al contesto europeo continentale, la dottrina del contratto sociale ha preso la forma giuridica del principio elettorale. Inventato dagli ordini mendicanti, durante l'autunno del Medioevo, questo principio sostiene, con le parole dell'abate Sieyes, che: "I cittadini che devono obbedire alle leggi devono anche partecipare in qualche modo a farle e, poiché nel governo rappresentativo - quello fondato sulla divisione del lavoro - il concorso non può essere diretto, esso prenderà la forma indiretta delle elezioni: la scelta popolare e periodica dei governanti-legislatori"3; di sorta che, se i cittadini non sono soddisfatti dei loro governanti, potranno sempre sostituirli alle prossime elezioni. Il "principio elettorale" non è dunque soltanto un meccanismo di scelta e selezione dei governanti, come ad esempio l'estrazione a sorte (di tradizione democratica antica), o il concorso, o l'unzione divina del re di Francia prima dell'avvento dell'età dei Lumi, ma costituisce un potente strumento di legittimità politica dei governanti stessi4. L'unico, prima facie, compatibile con la cultura moderna dell'autonomia: obbedirai alle leggi ed ai comandi dello stato perché ne sei in qualche modo l'autore. Per parafrasare ancora Sieyes, possiamo affermare che il governante eletto all'immagine di un micro-Leviatano sarà autorizzato a dire: "Voi cittadini mi dovete obbedienza poiché mi avete eletto, e perché potete sostituirmi alle prossime elezioni se non accettate di obbedire alle mie leggi" (che nella forma dell'auto-giustificazione diventa: ho diritto di darti i miei comandi poiché sono stato scelto da te che mi obbedisci "volontariamente" e dipendo, inoltre, nella mia esistenza in quanto legislatore dal tuo consenso).
Ci sarebbero, naturalmente, numerose osservazioni da fare su questo principio, sulle sue virtù ed i suoi limiti, ma qui solleverò un problema diverso che più immediatamente mi interessa. Cosa ha potuto spingere le classi politiche a spogliarsi di parte del loro potere a favore di organi non elettivi capaci di bloccare le scelte delle maggioranze elette?5 Mi piace riprendere qui una bella espressione di Andrea Manzella e insistere sul ruolo che hanno svolto nella storia politica e costituzionale dell'Europa del secondo dopoguerra le "costituzioni dei vinti". Sono infatti le costituzioni italiane del 1947 e quella tedesca del 1949 ad aver introdotto in Europa, sulla base del modello austriaco del 1920, ampliandolo però significativamente, organi para-legislativi (vedremo poi perché utilizzo questo termine) con funzioni di controllo sulle scelte dei Parlamenti eletti. Le ragioni essenziali non sono difficili da comprendere, se si tiene conto del contesto storico. L'Italia e la Germania erano uscite distrutte da una guerra voluta o approvata da Parlamenti docilmente assoggettatisi a regimi totalitari. Il fascismo si era affermato senza rotture costituzionali6 e in Germania il Reichstag aveva votato nel 1933 la Ermaechtigungsgesetz, la legge di autorizzazione di cui Hitler ed il suo governo si servirono per sospendere legalmente ogni garanzia liberal-democratica sotto la costituzione di Weimar rimasta formalmente in vigore fino al 1945.
Non sono state le potenze vincitrici della guerra come l'Inghilterra e la Francia, ma i vinti, smentendo per una volta il detto vae victis, che hanno dettato le norme che introducono limiti e vincoli alla sovranità del parlamento nei nostri sistemi costituzionali - vincoli che si sono ormai affermati in modo quasi universale nella cultura del costituzionalismo. Si obbietterà che dal punto di vista storico il controllo delle corti sulle leggi votate dal parlamento esisteva da lungo tempo nel sistema costituzionale di una delle potenze vincitrici: gli Stati Uniti. E l'obiezione va certamente accolta. Ma con alcune riserve. Da un lato, nonostante la rinomanza dottrinale della sentenza redatta dal giudice Marshall nel 1803, è difficile sostenere che il controllo di costituzionalità sulle leggi emanate dal Congresso abbia svolto un ruolo decisivo nella vicenda costituzionale americana fino agli anni '50 del secolo XX°, all'epoca, vale a dire, della lotta per i diritti civili in America, la quale trovò un appoggio generoso da parte della Supreme Court. In secondo luogo, non si può trascurare che gli Stati Uniti d'America sono nati come federazione fra 13 stati indipendenti e che era inevitabile concepire un giudice terzo per la soluzione di conflitti fra gli stati ed il governo centrale (che è certo una delle funzioni esercitate dalle Corti costituzionali, ma non il suo ruolo più importante dal punto di vista che qui ci interessa). Infine, non va sottovalutato che il modello del judicial review americano, che attribuisce al potere giudiziario in quanto tale il controllo di costituzionalità, non ha equivalenti nell'Europa continentale. Né, in particolare, che l'ideologia della rivoluzione francese, col suo pregiudizio della subordinazione del giudiziario nei confronti del legislativo, sbarrava la strada ad una scelta di questo tipo; inoltre, attribuire a giudici formatisi sotto governi fascisti o comunque autoritari il controllo sui parlamenti democratici sarebbe stato in ogni caso una scelta incongrua ed inaccettabile. Di qui l'impossibilità di esportare in Europa il modello americano, nell'immediato dopoguerra, così come, più tardi, dopo la caduta dei regimi fascisti nell'Europa del sud e di quelli comunisti all'est del continente.
Come che sia e sospendendo per ora il giudizio sulla storia del controllo costituzionale in America, è un fatto che la Francia ha resistito fino al 1958, ma in realtà fino alla metà degli anni '70, all'istituzione di un controllo, limitato (a priori), di costituzionalità delle leggi e che il Regno Unito continua a non conoscere alcuna istituzione equivalente nel suo diritto interno. Mentre ogni Stato che si sia dato in Europa una costituzione negli ultimi 25 anni - al sud o all'est del continente - ha introdotto in essa l'equivalente di una corte costituzionale, i cui membri non sono politicamente responsabili dinanzi ad alcuna istanza del sistema politico. Ciò non vuol dire né che le decisioni delle Corti siano decisioni sovrane, esse, infatti, possono sempre venire rovesciate dal potere costituente esercitato dalla maggioranza qualificata che ne è titolare, né che questi organi siano irresponsabili latissimo sensu; ma si sa che in senso molto lato tutti i gatti sono bigi e che risulta difficile distinguere a da b se si insiste sulla circostanza che sono entrambe lettere dell'alfabeto.
4. Possiamo però lasciare qui la storia e concentrarci in questa sede su poche osservazioni relative al problema della legittimità di questi organi. Per cominciare, varrà la pena osservare che il problema viene per lo più declinato sotto la forma del loro carattere democratico (o meno) o almeno nei termini della compatibilità fra democrazia e controllo di costituzionalità7. Forse la soluzione più ragionevole consiste nel rifiutare questo approccio e sostenere con Sabino Cassese che le corti costituzionali non sono organi democratici, ma di controllo della democrazia. Inoltre, questa soluzione ha il privilegio di evitare il paradosso che consiste nel fornire una ridefinizione della democrazia che la libera, certo, dall'identità assoluta col principio elettivo, ma finisce per escludere dall'ambito dei paesi democratici, non solo la Svezia, e la Finlandia, ma anche il Regno Unito ed i Paesi Bassi, tutti privi di corti costituzionali e tutti forniti peraltro d'impeccabile pedigree democratico. È chiaro che ci scontriamo qui con tutte le ambiguità di questo termine. Democrazia è un termine certamente usato oggi come equivalente della vecchia espressione "buon governo". Essa ha quindi un valore normativo. Si pensi che il Fondo monetario internazionale preferisce fare prestiti a paesi con una banca centrale indipendente (e forse una corte costituzionale), piuttosto che a paesi governati da soli organi elettivi. Non che il FMI consideri meno democratici o affidabili i Paesi Bassi, ma alcuni paesi (Inghilterra, Olanda, Svezia, Finlandia) possono esibire una tradizione di affidabilità che quasi nessun altro possiede. Da questo punto di vista, i paesi democratici (=ben governati) rassomigliano ad un club; i nuovi aderenti devono mostrare più garanzie formali dei membri fondatori. Si può, peraltro, usare l'aggettivo democratico in senso neutro ed avalutativo e renderlo sinonimo di elettivo. In questo senso nessuna Corte costituzionale sarà democratica, almeno se si usa elettivo in un senso non lato, come in queste osservazioni.
In sostanza, democrazia vale oggi essenzialmente e in senso lato come sinonimo di "buon governo"; stricto sensu, l'aggettivo si riferisce peraltro a quell'elemento di un buon governo che ha un nesso con la scelta popolare dei rappresentanti, dunque con la rappresentanza, il suffragio, il principio elettivo e la responsabilità politica dinanzi agli elettori. Il dibattito ruota intorno al punto di sapere se un regime democratico possa essere ridotto o meno al meccanismo rappresentativo8. E intorno a quali possano essere i criteri di legittimità degli organi non elettivi (su cui più avanti nel testo).
Vorrei tuttavia provare a delineare qui un diverso percorso 'argomentativo' che muove dall'ipotesi, non del tutto peregrina, secondo la quale esistono diversi modelli di democrazia (come recita anche il titolo del volume di David Held, recentemente tradotto in italiano9), uno di quali non solo è compatibile con il controllo di costituzionalità, ma anzi lo richiede. Che è un po' di più e forse un po' più soddisfacente di quanto sostiene Jürgen Habermas quando afferma (nei momenti in cui mi riesce di capire quello che sostiene sull'argomento) che la Verfassungserichtsbarkeit (controllo di costituzionalità) è, dal punto di vista della teoria della democrazia, inessenziale, e si riduce ad una questione di opportunità.
5. La concezione della democrazia che per comodità chiamerò roussoviana, e che è quella impostasi con il governo rappresentativo e con la sovranità parlamentare - per quanto questo faccia a pugni con le teorie e le forme istituzionali difesi nel Contrat Social! -, sostiene che in una comunità di membri eguali ed omogenei le decisioni pubbliche possono essere prese in base al 'principio di maggioranza', non solo e non tanto perché questo rappresenta un buon surrogato pacifico alla decisione presa attraverso il ricorso alle armi, come sosteneva Edoardo Ruffini nel Principio maggioritario [Milano, Adelphi,1976, la prima edizione del saggio è del 1927], ma perché il principio di maggioranza ha virtù epistemiche particolari, permettendo la scoperta della verità, che può essere considerata come il contenuto della volontà generale10. È appena il caso di dire che la tesi che sto esponendo è tutto fuorché della filologia roussoviana. È noto che il principio di maggioranza non ha secondo Rousseau, di per se stesso, queste virtù epistemiche. Ma è anche un fatto che il pensiero del ginevrino ha avuto una straordinaria influenza nonostante ed anzi grazie ad una notevole quantità di distorsioni e forse addirittura di falsificazioni interpretative. Come che sia e quale che sia il nome che gli si voglia dare, in questo modello di democrazia, la maggioranza dice la legge perché la minoranza si inganna; la prima non è dunque solo più forte, ma ha il privilegio etico della verità. In questa concezione non vi è necessità di pluralismo, nel senso forte di questo termine, poiché, come in ogni "scienza", di fronte alla verità ogni altra opinione scompare, dannata nell'inferno dell'errore o del pregiudizio. Certo questa verità democratica non è come quella eterna ed immobile di certe rivelazioni, essa non richiede sacerdoti che la custodiscano o interpreti che ne rivelino il senso nascosto (almeno così pretende la teoria). Essa muta o può cambiare col mutare della volontà del popolo sovrano. Ma in ogni tx c'è una sola verità e nessuna opinione di minoranza che meriti di essere rispettata o protetta. Certo in t', prima o dopo nel tempo, la verità / volontà può essere un'altra; ma, nello stesso momento, la verità democratica è una sola. Georg Simmel ha scritto delle pagine ammirevoli su questo tema nella sua Soziologie, in particolare nell'Excursus famoso sulla Uebereinstimmung11, alle quali si rinvia il lettore.
Si può sostenere che una versione più debole della stessa teoria, perfettamente compatibile con il governo rappresentativo, è quella che considera il voto come controllo retrospettivo degli elettori sull'operato del governo (degli organi elettivi). Si può qui lasciare da parte il carattere in buona parte utopico di questa tesi (sul quale si vedano le obiezioni decisive di John Dunn12) ed osservare che anche in questo caso la minoranza non ha ragione di essere riconosciuta. Essa viene lasciata esistere e ha la possibilità di persuadere un numero sufficiente di elettori della maggioranza che la ragione e la verità stanno dalla sua parte e farlo valere alle prossime elezioni. È evidente che quanto appena detto presuppone l'esistenza di un sistema politico bipartitico o almeno rigidamente bipolare; in un sistema proporzionale contano regole ed incentivi di tipo diverso.
A questa concezione epistemica della democrazia, nell'ambito della quale non vi è posto, naturalmente, per il controllo di costituzionalità, si può opporre una concezione diversa che definirei scettica e pluralista. Questa, partendo dall'ipotesi che non esiste, o che almeno non è conoscibile con certezza, la verità di una volontà generale, ricorre al principio di maggioranza come strumento procedurale per giungere ad una decisione e produrre scelte collettive, faute de mieu. La volontà della maggioranza non è niente di più di questo - una procedura per giungere ad una decisione, in un tempo limitato - e non ha alcun particolare rapporto con la verità o con la giustizia. E la minoranza non è dalla parte del torto, ma solo per ragioni contingenti dalla parte del più debole. In una variante molto debole della prima concezione si può sostenere la stessa cosa. Ma, come si è già accennato, in questo caso la minoranza non ha che una chance, quella di non essere più tale alle prossime elezioni. Resta che i perdenti, per quanto visti con simpatia, hanno sempre torto - fino a quando non diventino vincenti. Questo modo di guardare al principio di maggioranza implica una protezione necessaria della minoranza, che non può consistere solo nella chance che le viene attribuita di trovarsi un giorno, grazie alle elezioni, dalla parte del vincitore - ci sono, infatti, minoranze (etniche o religiose o di altri tipi ancora) che restano tali per un tempo indeterminato.
È nell'ambito di questa concezione che trova spazio abbastanza agevolmente un'idea della democrazia, intesa come "buon governo", che non può ridursi al binomio: elezioni più principio di maggioranza. Non è solo la protezione delle minoranze che conta - e la minoranza non è fatta dall'insieme dei cittadini che sbagliano, ma dall'esistenza di posizioni e concezioni diverse che meritano di essere riconosciute e rispettate - conta, altrettanto, la vecchia preoccupazione liberale di limitare il potere dei governanti (fossero anche democraticamente eletti e responsabili), in vista della protezione della libertà individuale.
6. All'origine del parlamentarismo moderno, quello, per intenderci, che nasce con la Rivoluzione francese, c'è la lotta contro il potere monarchico di cui le assemblee elettive sono state, spesso, la punta di diamante. Il parlamento eletto è concepito e presentato come un contropotere nei confronti dell'esecutivo regio. Nell'evoluzione successiva del sistema verso forme repubblicane e parlamentari, l'esecutivo si trasforma nel gabinetto ministeriale espressione della maggioranza parlamentare. Con l'affermarsi nel secolo XX° dello Stato di partiti e del monopolio tendenziale degli organi elettivi, scompare dal governo rappresentativo delle origini quell'elemento di "moderazione", che aveva caratterizzato la versione inglese della monarchia costituzionale (la bilancia interna al legislativo, di natura poliarchica e non puramente elettivo, vista la compartecipazione del re e della Camera dei Lords all'esercizio di quel potere). Il sistema parlamentare s'impone come aristocrazia elettiva, come monopolio tendenziale della classe politica rappresentativa. È rispetto a questa aristocrazia elettiva dominata dagli specialisti della conquista del consenso (i "partiti pigliatutto", dei quali parlava Otto Kirchheimer) che lo Stato di diritto costituzionale odierno si presenta come una forma pluralista e "moderata" del governo delle élites. Sicché organi elettivi e non elettivi rappresentano i due poli di una nuova bilancia del potere normativo al vertice dello Stato.
Questi organi ed i soggetti che li compongono possono essere visti come elementi di un sistema di checks and balances se solo si pone mente alla razionalità che guida il comportamento di questi diversi attori. Gli organi elettivi, come ho accennato, sono composti da individui (o partiti) che hanno lo scopo di mantenere (o ampliare) la loro posizione di comando (o quota di rappresentanza). In questa prospettiva, è evidente che saranno mossi anzitutto da preoccupazioni di ottenimento, mantenimento, ampliamento del consenso. Questo dipende semplicemente dal loro stesso carattere "elettivo". I rappresentanti eletti sono al tempo stesso 'padroni' e 'servitori' degli elettori. Liberi nel loro mandato, non possono continuare ad esercitare questa libertà se non riescono ad ottenere il consenso e l'avallo degli elettori. Obbligati a governare nell'interesse della nazione, - il che giustifica la libertà del loro mandato - sono necessitati a farlo in vista dell'interesse della loro rielezione. Al contrario, i membri di organi non elettivi, come le corti costituzionali, non possono avere di mira un rinnovo del loro mandato e non rappresentano nessuna concreta constituency alla quale rendere conti e dalla quale ottenere favori13. Questi organi non sono tenuti a rispettare né la volontà di una maggioranza popolare, né possono avere di mira un consenso al quale non devono né la loro posizione né la possibilità di una sua proroga. In quanto tali sono perfettamente in grado di controbilanciare il potere della maggioranza e di difendere i diritti, costituzionalmente proclamati, delle minoranze e dei singoli individui. Che ciò accada, è una questione empirica che non è compito né possibilità della teoria verificare ex ante.
La concezione scettica della democrazia sostiene che il popolo è meglio protetto da una pluralità di élites che si controllano l'una con l'altra che dall'esistenza di una sola élite controllata dal popolo una volta ogni 4 o 5 anni14. In questa concezione anti-monocratica, scettica e pluralista della democrazia, l'esistenza di organi non elettivi non solo è compatibile con la democrazia (con il "buon governo"), ma è, piuttosto, essenziale al suo esercizio.
Note:
1 Si ricorderà che dei 15 giudici della Corte costituzionale italiana un terzo viene nominato da un organo elettivo, il parlamento, un terzo da un organo a sua volta scelto dal Parlamento, il presidente della repubblica, ed un terzo da organi che non hanno alcun rapporto con il suffragio, le alte corti.
2 Alle poche eccezioni a me note sarà fatto cenno nelle note.
3 Sieyes chiama gouvernement représentatif questa forma di governo, che egli tiene distinta rigorosamente dalla democrazia (in cui il concorso dei cittadini alla produzione della legge è diretto). All'origine dell'uso contemporaneo che assimila, invece, democrazia e governo rappresentativo c'è, sorprendentemente, un testo di Tommaso d'Aquino il quale, nella sua ridefinizione del governo misto di tradizione aristotelica, afferma che l'elemento democratico dello stesso consiste nella elezione dei membri dell'assemblea (l'elemento aristocratico) da parte del popolo (si veda su questo punto: J.M. BLYTHE, Ideal Government and the Mixed Constitution in the Middle Ages, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 51-54).
4 Qui si intende "legittimità" nel senso weberiano di giustificazione e auto-giustificazione dell' esercizio di potere di alcuni soggetti di una comunità su altri (cfr. Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, vol. 4, pp. 55-57). Certo anche gli altri sistemi di scelta hanno, in particolari contesti storico-culturali, una funzione legittimatrice.
5 Si veda, per un po' più di dettagli, P. PASQUINO, "Constitutional Adjudication and Democracy", Ratio Juris, vol. 11, n. 1, marzo 1998, pp. 38-50.
6 L'Assemblea Costituente insistette con forza sui rischi di una costituzione "flessibile", come lo Statuto albertino, e sulla necessità di dotare il paese di una costituzione "rigida" (si veda su questa distinzione fondamentale: J. BRYCE, Costituzioni flessibili e rigide, Milano, Giuffrè, 1998; l'edizione originale inglese è del 1901).
7 Si veda su questo punto: DIETER GRIMM, "Constitutional adjudication and democracy", in Israel Law Review, Vol. 33, N. 2, Spring 1999, pp. 193-215.
8 Così, SABINO CASSESE, Maggioranza e minoranza, Milano, Garzanti, 1995, p. 81, che, a ragione, risponde in modo negativo.
9 Qui, naturalmente, si intende democrazia come sinonimo di "buon governo". Il volume di Held è Models of democracy, Cambridge, Polity Press, 1998 (2a ediz.) è stato tradotto da il Mulino (1997).
10 Sullo stesso tema si veda di GIULIANO AMATO, "Il dilemma del principio di maggioranza", in Quaderni Costituzionali, a. XIV, n. 2, agosto 1994, pp. 171-186. Più in generale, si possono consultare: U. SCHEUNER, Das Mehrheitsprinzip in der Demokratie, Opladen, Rheinisch-Westfaelische Akademie der Wissenschaften, 1973; W. HEUN, Das Mehrheitsprinzip in der Demokratie. Grundlagen - Struktur- Begrenzungen, Berlin, Duncker & Humblot, 1983 e M.A. CABIDDU, Maggioranza, Minoranza, Eguaglianza, Padova, CEDAM, 1997.
11 "Sul soverchiamento delle minoranze" (trad. it., Torino, Edizioni di Comunità, 1998, pp. 162-169).
12 "Situating Democratic Political Accountability", in A. PRZEWORSKI, S.C. STOKES, B. MANIN, Democracy, Accountability, and Representation, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 329-344.
13 Questo è perfettamente vero per i giudici della Corte suprema americana nominati a vita. In altri casi si possono verificare patologie del meccanismo, come nel caso di giudici che lascino la Corte in età sufficientemente giovane da poter avere di mira altri incarichi di natura elettiva (diretta o indiretta, in questo caso la differenza non è rilevante). Ma non è un caso che si parli qui di patologia, termine che non ha senso per rappresentanti eletti ripetutamente dai cittadini un'elezione dopo l'altra, in virtù dei meriti acquisiti dinanzi ai cittadini (sulla natura di questi meriti non è questo il luogo per pronunciarsi).
14 In una prospettiva non dissimile da quella qui esposta ragionano ANTONIO LA SPINA e GIANDOMENICO MAJONE nel loro recente saggio Lo Stato regolatore (Bologna, Il Mulino, 2000) dove scrivono: "Il modello non maggioritario [della democrazia] è particolarmente attento a proteggere tanto le minoranze dalla tirannia della maggioranza, quanto le funzioni giudiziarie, esecutive e amministrative dalle assemblee rappresentative e dall'opinione incostante della massa […]. Quindi, anziché a concentrare il potere nelle mani della maggioranza, esso punta a limitare e a disperdere il potere fra istituzioni differenti"(p. 168).
Sabino Cassese (nel suo Maggioranza e minoranza, Milano, Garzanti, 1995, p. 80) osserva giustamente che nelle democrazie sono state introdotte "correzioni: la prima [delle quali] consiste nel sostituire - per alcune decisioni - la maggioranza con un diverso modo di decidere"; e più avanti (p. 93): "Dovunque possono trovarsi correttivi, che servono a limitare il potere conferito dal popolo e a controbilanciarlo. Limiti e contropoteri finiscono per essere, dunque, una componente essenziale delle democrazie moderne, pur essendo estranei al principio della supremazia del popolo" - e a me non sembra che si potrebbe dire meglio.
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