L'Europa e il futuro della politica
DESTRA E SINISTRA ALLA PROVA DELLA STORIA
Claudio Martinelli
INTRODUZIONE. Le tappe che hanno portato alla costituzione dell'Unione europea dimostrano come il futuro della politica in Europa non possa prescindere da una riflessione attorno ai concetti di tecnocrazia e democrazia. Fin dalle sue origini il processo di integrazione tra gli Stati è sempre stato caratterizzato, probabilmente in modo inevitabile, da decisioni di carattere verticistico che molto raramente hanno visto la compartecipazione dei popoli alle scelte operate dai governi. Tutto ciò ha prodotto quello che solitamente viene definito deficit democratico, cui fa da necessario complemento l'alto tasso di tecnocrazia che caratterizza le fonti del diritto comunitario. Solo con i Trattati di Amsterdam e di Nizza gli Stati membri dell'Unione europea sembrano aver imboccato con decisione la strada dell'unione anche politica, dopo quella monetaria frutto del Trattato di Maastricht. Non a caso la Commissione ha recentemente preparato, su precisa indicazione emersa al vertice di Nizza, un progetto di regolamento degli Statuti dei partiti politici europei, forse criticabile in alcuni suoi aspetti, ma che dimostra come sia sentita l'esigenza del recupero di democraticità nelle grandi linee decisionali dell'Unione.
I tempi sembrano, quindi, maturi per un salto di qualità da un'Unione economica ad una politica, ma questo percorso comporterà necessariamente l'acquisizione di meccanismi di legittimazione dal basso delle scelte politiche, attraverso la costituzione di organi rappresentativi e di governo coerenti con la tradizione democratica che accomuna tutti i paesi membri.
Karl Popper ci ha insegnato che l'essenza della democrazia moderna non si trova affatto nel significato etimologico del termine: in questo sistema non è vero che il popolo ha in mano tutte le redini del potere. Ciò che distingue la democrazia da altre forme di organizzazione dello Stato consiste, in realtà, nella sua attitudine a mutare indirizzo di governo in modo incruento, senza l'utilizzo della forza.
Questa profonda analisi non può, tuttavia, essere in alcun modo intesa come una sottovalutazione della legittimazione popolare degli organi costitutivi dello Stato; anzi i cambiamenti di linea politica sono accettati in modo tanto meno traumatico quanto maggiori sono i valori condivisi dai cittadini.
Ora, proprio perché il processo di integrazione politica dovrà basarsi su di una sempre maggiore partecipazione popolare ai meccanismi decisionali, esso sarà chiamato a confrontarsi con un problema intorno al quale già si interrogano i sistemi politici dei singoli Stati, e cioè l'attualità della dicotomia destra - sinistra.
ANALISI DEL SIGNIFICATO DELLA DICOTOMIA. A me sembra che una delle ragioni della crisi delle classiche categorie di destra e sinistra sia da ricercare in un difetto di fondo di cui queste espressioni hanno sempre sofferto, e cioè un elevato grado di indeterminatezza del loro significato. Infatti, è sempre stato piuttosto difficile riuscire a delinearne con precisione e nettezza i contorni ed i reciproci confini. Basti pensare soltanto al diverso significato che queste categorie hanno assunto, da una parte, nei paesi anglosassoni, che non hanno mai vissuto alcuna esperienza totalitaria, dall'altra, in quegli Stati che nella loro storia sono stati attraversati da ideologie antidemocratiche. Nei primi, il senso di questa distinzione è funzionale all'esercizio del gioco democratico; esso rappresenta lo spartiacque non tra antitetiche visioni del mondo bensì, molto più semplicemente, tra opinioni politiche raggruppabili in due grandi schieramenti. Opinioni tutte interne ai valori sanciti nelle Carte costituzionali, o comunque consolidati, come nel caso dell'Inghilterra, da secolari consuetudini costituzionali, la cui cogenza nessuna delle forze in campo si sogna minimamente di mettere in discussione.
Ciò non toglie, ovviamente, che anche in questi casi destra e sinistra non siano mai stati concetti statici, stabiliti una volta per sempre, e per sempre validi; anzi, in un contesto sociale così proteso al pragmatismo è fisiologico che su molte tematiche le posizioni dei grandi partiti mutino con il mutare delle epoche storiche; così come è ben noto il fatto che all'interno di queste formazioni politiche convivano posizioni spesso radicalmente diverse, al punto che un esponente di partito si può trovare in maggiore sintonia con quello di un partito avversario che non con uno appartenente al proprio. Ma ciò che conta è che in quelle realtà lo spartiacque non è mai stato tra sostenitori del metodo liberaldemocratico e assertori di un cambiamento radicale di civiltà, tra fautori del sistema capitalistico e avversari della proprietà privata, tra illuminati propugnatori dei diritti umani e reazionari teorici dello Stato etico o autoritario; niente di tutto ciò. La lotta politica è sempre stata condotta sul terreno delle scelte in tema di politica economica, della maggiore o minore estensione dei diritti civili, del legame più o meno stretto con gli Stati alleati e, di converso, dell'atteggiamento da tenere nei confronti di quelli nemici, e così via su molteplici tematiche, ma mai sui fondamenti dello Stato, su quelli che ora vengono definiti "i valori condivisi", che in realtà altro non dovrebbero essere che quel minimo comun denominatore contenuto nei fondamentali precetti costituzionali su cui uno Stato moderno si fonda.
Potrebbe dirsi che in quei paesi tutto è stato reso più semplice da un sistema politico-elettorale di tipo maggioritario e bipartitico che ha consentito lo sviluppo di un gioco democratico basato su un'opzione chiara ma al tempo stesso non distruttiva; al contrario, io credo che il discorso vada completamente ribaltato, nel senso che l'adozione di un sistema politico con quelle caratteristiche fu resa non solo possibile, ma forse addirittura logica e naturale, proprio grazie al fatto che nessuna forza sociale dotata di consistente rappresentanza abbia mai messo in discussione i fondamenti dell'esistenza dello Stato: anche perché ciascuna forza politica si sente parte integrante di una nazione e di una patria che ha contribuito a creare e che quindi non avverte come estranea o ostile alle proprie aspirazioni ideali.
I termini destra e sinistra, invece, hanno sempre assunto un significato diverso in quei paesi che nel corso della loro storia abbiano conosciuto o una qualche forma di governo antidemocratico, o la presenza di importanti forze politiche antisistema. In queste realtà i due termini prescindevano totalmente dall'accettazione del metodo democratico e dei principi liberali, e anzi, spesso divenivano sinonimo di una radicalizzazione dello scontro ideologico tale per cui il gioco politico, per essere praticabile e gestibile, doveva necessariamente trovare in un terzo soggetto il suo fulcro imprescindibile. Ecco quindi il senso dell'esistenza di un grande partito di centro, o di diversi partiti convergenti nell'area centrale dello schieramento politico, a differenza di quanto normalmente accade nei sistemi bipartitici, in cui le posizioni politiche di centro si distribuiscono più o meno equamente sui due grandi partiti, proprio perché le loro opzioni politiche sono perfettamente compatibili con il sistema economico-giuridico e con le alleanze internazionali. Ed è evidente come il caso italiano possa costituire un paradigma della situazione di incertezza in cui si trovano i paesi che hanno subito ferite spesso laceranti nello sviluppo della democrazia.
Vent'anni di fascismo hanno compromesso, forse per sempre, la piena agibilità, nel nostro paese, della parola destra, e poco importa se questa coincidenza dei due termini sia veritiera e fondata, oppure sia più corretto giudicare il fascismo come un originale e tragico tentativo proprio di superare questa classica dicotomia, così connaturata alla storia della civiltà borghese plasmata dalla Rivoluzione francese e prima ancora da quelle anglosassoni. Ciò che conta, ai fini del nostro discorso, è che la dottrina e la vulgata del dopoguerra hanno individuato una coincidenza tra destra e fascismo, tale per cui tutto ciò che si trovava a destra dello schieramento politico doveva essere considerato estraneo all'ambito delle forze che avevano dato vita al patto costituzionale.
Contemporaneamente, l'egemonia a sinistra di un partito antisistema come quello Comunista ha impedito la nascita di un moderno partito socialdemocratico che interpretasse, dalle posizioni proprie di una sinistra democratica di stampo europeo, le istanze di vasti ceti sociali, facendo così nascere una inevitabile conventio ad excludendum, che ha impedito per decenni un corretto ricambio di classe dirigente e di opzioni politiche, il tutto catalizzato da un partito di centro come la Democrazia cristiana all'interno del quale erano rappresentate le più svariate opinioni politiche, tenute insieme dal collante cattolico, dalla gestione del potere e dalla convinzione dell'indispensabilità di un partito che fungesse da architrave di un sistema politico così asfittico e bloccato come quello italiano.
L'EREDITA' DEL '900. Naturalmente, la situazione appena descritta trova una sua validità fino agli sconvolgimenti che hanno caratterizzato l'ultima parte del '900. Il secolo appena trascorso ci lascia in eredità molte incertezze, ma anche un fondamentale insegnamento.
In questo periodo la storia dell'Europa è stata pesantemente segnata dalle ideologie, da visioni, talvolta radicalmente diverse, dell'individuo, della società e dello Stato, che discendevano direttamente da precise concezioni ontologiche. Il ventesimo secolo, analizzato nel suo complesso, ci ha detto che quelle visioni del mondo, basate su una concezione dell'Essere statica e assoluta, sono necessariamente finite perché antistoriche. Queste ideologie, cioè, contrariamente alle aspettative che riuscirono ad ingenerare presso moltitudini di popolazioni, rappresentavano un salto all'indietro nel divenire della Storia, poiché negavano il principio fondante della modernità, e cioè il crollo di tutte le verità assolute, e dell'idea che si possa imbrigliare l'Essere all'interno di una camicia di forza - l'ideologia appunto - capace di creare una società perfetta ed armonica, dove tutto è preordinato da chi detiene il potere. Questo tentativo di fornire risposte a determinati bisogni basato sulla coercizione degli individui ha accomunato tutti i totalitarismi, catalogati, come detto, a torto o a ragione, "di destra o di sinistra".
La fine di tutto ciò comporta la necessaria conseguenza di riportare le scelte politiche tutte all'interno del metodo liberaldemocratico e quindi di riportare anche la dicotomia destra-sinistra all'interno di questo schema. Ma la difficoltà di ripensare le categorie deriva proprio da questa novità. In paesi come l'Italia il loro mutamento di significato è talmente profondo da suscitare fortissimi dubbi sull'utilità di poterle ancora utilizzare. Così, la domanda che si impone è proprio questa, e cioè se gli stravolgimenti del '900, e i relativi mutamenti di prospettiva sul piano della filosofia e del quadro politico, non consiglino di disfarsi di queste categorie. In altri termini, è possibile sostenere che destra e sinistra abbiano perso la loro capacità di identificare posizioni politiche diverse in virtù della fine di alcune di esse, e quindi sia necessario ricercare un'altra terminologia e soprattutto un altro approccio alle categorie politiche?
Credo che qualunque sia la risposta che si reputi più opportuna, un punto dovrebbe rimanere fermo, per ragioni logiche ancor prima che ideali: abbiamo detto che il metodo democratico ha prevalso nei confronti dei suoi storici avversari, con il risultato della sua indispensabilità per il prossimo futuro, anche per evitare il ritorno di idee che oggi ci appaiono sconfitte dalla Storia; ma sappiamo che uno degli elementi fondamentali di un sistema democratico è la possibilità di scegliere tra una o più opzioni politiche diverse, e anzi il funzionamento di una democrazia dipende in larga misura dalla possibilità per il cittadino di scegliere serenamente tra queste alternative; ne consegue che, anche per il futuro, la necessità di nutrire la scelta democratica con l'esistenza di un'opzione sulla quale i cittadini dovranno essere chiamati a pronunciarsi rappresenterà un punto fermo nell'analisi di queste tematiche. Naturalmente, le caratteristiche di questa opzione potranno variare da paese a paese a seconda delle diverse vicende storiche, della forma di governo e del sistema politico-elettorale, ma ciò che continuerà ad accomunare tutti i paesi di democrazia classica sarà l'esistenza della possibilità di scegliere tra progetti politici alternativi.
Ma se questo è vero, il quesito di fondo non è più se ci serva ancora una dicotomia destra-sinistra, bensì se quelle due categorie, così come le abbiamo conosciute, e con i diversi significati che hanno assunto nel corso dei secoli, siano ancora funzionali a catalizzare le opinioni e le passioni dei popoli; siano, cioè, utili a sintetizzare una certa visione del mondo da cui far discendere conseguenti scelte politiche coerenti con quell'idea di fondo.
Mi pare che la risposta non possa che essere negativa. Vediamo di tracciarne le ragioni.
UNA DICOTOMIA INADEGUATA. Innanzitutto, ogni posizione politica è figlia della propria epoca. I grandi raggruppamenti politici nascono, si modificano e talvolta muoiono in ragione delle vicende che la Storia pone loro di fronte. L'epoca con la quale ci confrontiamo noi oggi comincia ad assumere caratteristiche completamente diverse dai decenni che ci hanno preceduto. Si dirà: anche in passato si sono verificati profondissimi mutamenti sociali, economici, di costume; eppure, dopo più di duecento anni, stiamo ancora facendo i conti con una terminologia coniata all'epoca della Rivoluzione francese.
Tuttavia, la fase che stiamo vivendo sembra portare con sé elementi sconosciuti e inimmaginabili fino a qualche tempo fa, talmente rivoluzionari da rendere obsoleti molti strumenti che la politica aveva utilizzato per governare i cambiamenti del passato. Per esempio, il classico conflitto tra capitale e lavoro, che per lungo tempo ha rappresentato il cuore dello scontro politico all'interno del mondo occidentale, viene oggi avvertito, non dico come un reperto archeologico, ma certamente come un tema tra i tanti che animano la vita pubblica. Allo stesso modo, la questione del rapporto tra religione e politica appare più come un feticcio, agitato da qualche uomo politico in cerca di facili consensi, che non come una delle storiche discriminanti tra opposte fazioni.
Il nostro tempo sembra essere caratterizzato da altre tematiche, da altri problemi, da altre esigenze, che la vita quotidiana ci impone, spesso con grande brutalità. Si pensi ai conflitti di coscienza che sempre più spesso ci propone la bioetica, di fronte ai quali la politica è disorientata perché disorientata è innanzitutto la filosofia, delle cui idee la politica, perlomeno quella intesa in senso alto, si è sempre nutrita. Stessa cosa dicasi per tutta la vastissima tematica dei nuovi diritti che, non a caso, provocano spesso, e non solo in Italia, spaccature traversali alle coalizioni. Si pensi, ancora, a come stanno mutando il concetto di famiglia e tutti i rapporti sociali ad essa collegati; o alle scoperte scientifiche applicate al campo medico o alimentare, nei confronti delle quali le forze politiche sembrano reagire più con l'istinto dell'emotività che con la fredda razionalità che i problemi richiederebbero. Alle prese con tutte queste tematiche, esempi tra i tanti che la contemporaneità propone, destra e sinistra mostrano la corda. E, secondo me, è inevitabile, e perfino giusto, che sia così. Infatti, quando una fase storica propone problemi sconosciuti fino a quel momento da una comunità, è doveroso che chi è chiamato a vivere quell'epoca si faccia carico di trovare le idee e gli strumenti più adeguati per governare il cambiamento. Talvolta questi strumenti possono essere trovati in un rapporto di continuità con le epoche precedenti, altre volte i cambiamenti hanno caratteristiche tali da rendere impossibile questa continuità, ed allora diventa indispensabile approntare ed organizzare il gioco della democrazia sulla base di categorie nuove che, come detto, garantiscano la possibilità di porre in essere delle scelte, ma sulla base di idee che sappiano rapportarsi ai problemi del momento.
Il tema che forse più di tutti è dirompente nella nostra epoca, e che manda in crisi le classiche categorie del pensiero politico, è probabilmente quello della cosiddetta globalizzazione. In realtà, il processo di globalizzazione costituisce un punto di rottura, probabilmente irreversibile, nella storia dell'età moderna, perché mette in discussione l'adeguatezza della dimensione nazionale a dare risposte efficaci alle esigenze e ai bisogni che questo fenomeno genera. Pur nelle loro radicali diversità, destra e sinistra hanno sempre avuto, fin dalla loro nascita, la dimensione nazionale come parametro del loro agire politico. Perfino chi contestava l'esistenza dello Stato nazionale - basti pensare all'internazionalismo comunista - ha sempre dovuto fare i conti con singole realtà locali che spesso erano caratterizzate da problemi di natura e portata ben diversa tra loro. La mondializzazione dell'economia e dell'informazione comportano invece un superamento dei confini, non solo di quelli geografici, ma sovente anche di quelli culturali, linguistici e di costume. Allo stato delle cose, l'unico strumento che sembra adeguato a rispondere a tali mutamenti è quello della costruzione di grandi Stati soprannazionali, capaci di governare problemi e prospettive sempre più, a loro volta, soprannazionali.
Ma le rilevanti cessioni di sovranità che i singoli Stati sono chiamati a concedere per un processo di integrazione come quello perseguito dall'Unione europea, non si inseriscono solamente in un riposizionamento ad un livello territorialmente più esteso degli organi di governo di un sistema democratico, bensì costituiscono anche la presa d'atto che le nuove dinamiche dell'economia non tollerano di essere affrontate con vecchi strumenti come, per esempio, l'aumento della spesa pubblica per sostenere la domanda interna, storico cavallo di battaglia di una certa sinistra, per la semplice ragione che va scomparendo proprio il concetto di "interno".
La mia impressione è che le forze politiche europee riusciranno ad elaborare convincenti progetti di governo di questi fenomeni, magari ricreando così, su questi nuovi temi, una nuova destra ed una nuova sinistra, solo quando avranno accettato il fatto che la globalizzazione non è tanto il frutto di una politica decisa a tavolino, quanto il portato dei progressi della Scienza e della Tecnologia che, per loro natura, non conoscendo confini, sono arrivate ad un tale grado di sviluppo da abbattere i limiti territoriali e culturali rappresentati dagli Stati nazionali. È' vero che il liberalcapitalismo è per sua natura globalizzatore, in quanto, basandosi sul mercato, più il mercato è esteso e più il capitale viene remunerato; ma è la Tecnica che si è incaricata di aprire i mercati attraverso lo sviluppo degli strumenti della comunicazione e dell'informazione, innescando un processo che può solo essere governato, non impedito, perché per impedirlo bisognerebbe mettere in discussione i più elementari diritti di libertà che la civiltà occidentale ha conquistato, esattamente come tentavano di fare i totalitarismi sconfitti dalla Storia. Finché si continuerà a credere, come da più parti sembra affiorare, sia a sinistra che a destra, alla favoletta dei cattivi capitalisti che un brutto giorno si sono riuniti attorno ad un tavolo e hanno deciso di abbattere convinzioni culturali, tradizioni religiose e rapporti sociali per accrescere i loro profitti, allora difficilmente si potrà riuscire ad imbastire politiche adeguate ai problemi che, indubbiamente, questo fenomeno presenta.
IL RUOLO DEL LIBERALISMO. Anche sotto questo punto di vista, sembra importante riflettere sul ruolo che il liberalismo può giocare nell'elaborazione delle scelte politiche che attendono l'Europa del futuro.
Come detto, la fine del '900 può essere letta anche come la rivincita della liberaldemocrazia, sia come metodo politico, sia come concezione del rapporto tra l'individuo e lo Stato. La caduta del muro di Berlino rappresenta il simbolo della sconfitta del suo nemico più immediato e pericoloso conosciuto nel secondo dopoguerra. Ma questo straordinario fatto storico non poteva non portare con sé anche un'altra conseguenza: decretare la fine dello scontro politico tra comunismo e anticomunismo che, non solo in Italia, aveva costituito il vero e fondamentale crinale per più di quarant'anni. E non saranno certo i molteplici orfani del muro di Berlino che, a destra come a sinistra, tentano di riportare il nostro paese indietro di mezzo secolo, a poter mettere in discussione questa evidente verità che la Storia contemporanea ci offre sul piatto.
In questo stato di cose, la domanda che è lecito porsi è se il liberalismo si debba candidare a rappresentare uno solo dei due elementi dai quali dovrà essere costituita l'opzione politica del futuro, cioè se debba aspirare ad un ruolo di parte nella lotta politica (naturalmente considero un sistema binario solo per comodità espositiva, ben sapendo che il quadro politico potrà continuare ad offrire anche più di un'alternativa).
Io penso di no, per ragioni anzitutto di ordine ontologico. La superiorità del liberalismo, ciò che gli ha consentito di sopravvivere ai suoi nemici storici, dipende proprio dal fatto di non essersi mai trasformato in un'ideologia, con i dogmi e i precetti tipici di una Chiesa o di una caserma, ma anzi di avere abbracciato, nel solco della propria tradizione filosofica, posizioni spesso anche molto distanti tra di loro. Per lungo tempo queste caratteristiche sono sembrate costituire una debolezza del liberalismo nei confronti dell'apparente compattezza e solidità di altre idee, nonché dello spirito di militanza di molti intellettuali che le abbracciavano. Alla prova della Storia, però, tutto ciò è crollato, dimostrando che lo spirito di adattamento all'evolvere dei tempi palesato dal liberalismo era più forte di qualunque tetragona concezione del mondo. Ora, come è pensabile che una tale filosofia si possa trasformare in patrimonio di una parte contro un'altra? Compito del liberalismo sarà, anzi, di mettere radici sempre più profonde in tutti gli schieramenti politici, ben sapendo, però, e, anzi, considerando questa una ricchezza, che il metodo democratico richiede la compresenza di diverse idealità e filoni culturali, dalla cui dialettica e inevitabile commistione sorgerà la dicotomia politica del futuro. È definitivamente tramontata l'epoca dei partiti che rispondono ad un unico ideale di società costruito a tavolino, e che si incaricano di renderlo concreto e vivo nella realtà di tutti i giorni. In questo quadro, il liberalismo dovrà dimostrarsi capace di costituire un autorevole parametro per interpretare i fondamentali temi che la nostra epoca ci pone di fronte, e con i quali le forze politiche saranno costrette a misurarsi.
Un classico tema liberale come la difesa dell'individuo dall'ingerenza dello Stato dovrà necessariamente evolversi in una difesa delle prerogative individuali nei confronti di qualunque coercizione di carattere culturale, religioso o tradizionale, e questo perché le minacce nei confronti della libera espressione del singolo potranno venire da centri di potere molto meno facilmente individuabili rispetto allo Stato nazionale, con il quale da secoli i liberali classici fanno i conti.
Dovrà essere ripensato anche il concetto di uguaglianza; si pensi, infatti, a quanto appare oggi anacronistica la dicotomia libertà-uguaglianza, figlia di un mondo che si avvia a scomparire, e che da più parti è stata spesso indicata come il principale spartiacque tra destra e sinistra. Finite quelle ideologie che predicavano l'appiattimento degli individui al rango di ingranaggi della macchina statale o a quello di docili servi del potere, oggi il principio di uguaglianza viene vissuto sempre più come parità di opportunità per poter esprimere, da parte di ciascuno, tutte le proprie potenzialità; cioè, in sostanza, l'uguaglianza viene pensata non più come un contraltare della libertà, bensì come una sua necessaria componente.
Di conseguenza, sarà fondamentale ripensare il rapporto tra cittadino e comunità, soprattutto in un'epoca che sembra avere perduto i consueti collanti sulla base dei quali le persone avvertivano un senso di appartenenza. Oggi non è più possibile ritenersi parte di una comunità esclusivamente sulla base di tradizioni nazionali, linguistiche o religiose. Questo è reso sempre più difficile, a mio parere fortunatamente, dal sempre maggiore grado di apertura di cui godono le società occidentali. Tale processo comporterà la necessità, da parte dei diversi filoni filosofici, di individuare altre e più convincenti ragioni di appartenenza, basate non più sulla coercizione delle tradizioni ma sull'orgoglio di appartenere ad un'area del mondo i cui fondamenti siano costituiti dall'inscindibile binomio libertà-responsabilità individuale.
Viva è anche l'esigenza della nascita di un nuovo costituzionalismo liberale, capace di trovare forme nuove ed adeguate di organizzazione dello Stato che, nell'era della globalizzazione, sappiano affermare i fondamenti del principio democratico, preservato il quale anche inevitabili elementi, più o meno estesi, di tecnocrazia possano risultare tollerabili.
Insomma, nel solco della propria secolare tradizione culturale, il liberalismo dovrà farsi carico di proporre nuovi strumenti e nuove idee per organizzare una società di cittadini liberi e responsabili, capaci di affrontare le nuove sfide della modernità senza la pretesa di realizzare un'ideale certo, infallibile ed immutabile, ma anzi applicando il metodo popperiano del procedere per tentativi, che tanti risultati ha dato in campo scientifico ed umanistico.
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