L'Europa e il futuro della politica
TECNOCRAZIA, DEMOCRAZIA, SOCIETÀ LIBERA
Giuseppe Bedeschi
Nel Dizionario di politica diretto da Bobbio, Matteucci e Pasquino, alla voce Tecnocrazia, Domenico Fisichella ha rilevato che questa nozione è tra le più ambigue delle scienze sociali moderne. Entrata nel linguaggio scientifico all'inizio degli anni trenta, la parola tecnocrazia designava originariamente gli scienziati ed il ruolo che essi venivano assumendo nel processo di sviluppo della società del tempo. Da allora la parola è stata utilizzata nella letteratura per evocare, volta a volta, il potere o l'influenza di svariate categorie socio-professionali dagli ingegneri agli economisti, dai direttori della produzione ai cibernetici, dai burocrati agli stati maggiori militari e agli alti consiglieri scientifici delle autorità governative. Un primo elemento di ambiguità, dunque, nella nozione di tecnocrazia riguarda - diceva Fisichella - l'identità degli attori richiamati dalla nozione stessa.
Un altro elemento di ambiguità concerne l'essenza e la natura del kratos di cui sono detentori i tecnocrati. Si va, infatti, dalla tesi che configura tale potere come mera capacità di influenzare, mediante un ruolo di consulenza tecnica, le decisioni degli organi politici, alla tesi che individua nella tecnocrazia un regime sociale caratterizzato dall'emancipazione del potere dai suoi tradizionali connotati politici, e dall'assunzione di una diversa configurazione, spoliticizzata e "di competenza". In altri termini, secondo quest'ultima tesi si assiste ad un vero e proprio spossestamento della funzione di decision-making sulla cosa pubblica ad opera degli "esperti", i quali prendono il posto (o prenderebbero il posto) degli uomini politici, mentre la decisione di tipo politico, e per ciò stesso aperta ad una decisone intesa come risultato di calcoli e di previsioni scientifici, e quindi del tutto priva di residui discrezionali.
Un ultimo tratto ambiguo della nozione di tecnocrazia è quello relativo all'inquadramento sociale dei tecnocrati. Questi sono visti costituire ora una semplice categoria professionale, ora un gruppo sociale, ora infine una nuova classe sociale. È evidente che, nella misura in cui i tecnocrati sono l'una o l'altra cosa, i loro comportamenti variano sensibilmente, sia in ordine ai sentimenti di appartenenza e di identificazione, sia in ordine al perseguimento di scopi solidali. In effetti, se la tecnocrazia va intesa come una categoria professionale, è probabile che i singoli componenti conserveranno - almeno per quanto riguarda talune importanti scelte - orientamenti diversi e, conseguentemente, una larga disponibilità al perseguimento di finalità contrastanti. Viceversa, se i tecnocrati si percepiscono, e sono percepiti, come una classe sociale, ne deriverà la tendenza ad una identità assai più marcata dei loro scopi pubblici. (Fisichella, s.v.).
È evidente che, al di là delle sue connotazioni ambigue, la nozione di tecnocrazia si è imposta per molto tempo, in alcuni settori della cultura e delle scienze sociali, nel suo significato 'forte': e cioè nel senso che gli 'esperti' (ingegneri, economisti, managers, ecc.) spossessavano o asservivano i politici; che la classe politica, o le élites politiche, perdevano la loro funzione potestativa, e diventano mere maschere di un potere "altro", quello dei tecnici o degli esperti, appunto; che la stessa politica, quindi, intesa come lo spazio in cui si affrontano o si confrontano i diversi gruppi e i diversi partiti politici, si dissolve e viene sostituita da un ceto sociale costituito dai tecnocrati, che agisce ubbidendo a regole di pura e semplice 'razionalità' (dove per 'razionalità' si intende il funzionamento della società industriale e post-industriale, nella quale cresce continuamente la quantità di decisioni politiche concernenti questioni in senso lato tecniche, con un progressivo ma sostanziale mutamento dei contenuti e del processo governativo e legislativo, e nella quale gli apparati amministrativi pubblici e privati si trasformano continuamente in virtù dell'impiego di tecniche di organizzazione del lavoro volte a massimizzare l'efficienza).
Intesa in questo senso "forte", tecnocrazia è un concetto fortemente polemico, che si contrappone frontalmente a democrazia. La tecnocrazia sopprime e sostituisce infatti, secondo i suoi teorici, la democrazia. Basti pensare, a questo proposito, all'analisi, che ha avuto largo corso, di Ellul, in un libro del 1977, intitolato significativamente L'illusion politique. Ellul presentava la tecnocrazia come l'autentica realtà al di sotto della duplice illusione di cui ormai si alimentano i sistemi politici contemporanei: l'illusione dell'uomo politico che si crede in grado di guidare versodeterminati obiettivi la macchina dello Stato, e l'illusione del cittadino che, confidando ancora nell'ideologia della sovranità popolare, pensa di partecipare con potere decisionale alla gestione degli affari pubblici, mentre egli ha soltanto la facoltà - come ha affermato a sua volta un altro studioso francese il Meynaud (La technocratie. Mythe ou réalité?, Paris 1964) - di "designare e sorvegliare degli uomini essi stessi privi di potere".
In questo contesto, la nozione di tecnocrazia individua dunque una specifica categoria di potere 'altro' rispetto al potere del popolo, una forma di politica 'chiusa' all'influenza del pubblico e in larga misura sottratta al suo diretto e talora anche indiretto controllo. Di qui, come dicevo, la tesi che la tecnocrazia sopprime inevitabilmente la democrazia. La tecnocrazia è infatti un'aristocrazia che si rinnova per cooptazione; essa è una meritocrazia, cioè una forma di potere basata su procedure rigorose di accertamento e di valorizzazione di qualità direttive che si contrappongono in linea di principio alla selezione fondata sul consenso dei molti. Mentre la democrazia è "governo dell'opinione", la tecnocrazia è "governo del sapere". La democrazia poggia sul consenso e sulla partecipazione, la tecnocrazia sulla competenza e sull'efficienza.
È evidente che, in un contesto di questo genere, i termini, o piuttosto i concetti, di destra e sinistra vengono a perdere qualunque significato, anzi scompaiono con l'eclisse stessa della politica. Destra e sinistra, infatti, hanno un senso del concreto articolarsi e dispiegarsi della democrazia (nel senso di liberaldemocrazia), dove i gruppi, i ceti, le classi, i diversi orientamenti culturali, danno vita ai movimenti e ai partiti politici, i quali lottano fra loro sui grandi indirizzi da imprimere alla vita sociale. Ma se la democrazia viene sostituita dalla tecnocrazia, non esisteranno più scelte o soluzioni di destra o di sinistra, bensì solo e soltanto scelte o soluzioni per così dire 'obbligate', 'razionali' (nel senso del funzionamento razionale del sistema sociale complessivo), 'scientifiche', per così dire.
Per fortuna, tutto questo non si è verificato, e la società "unidimensionale" di marcusiana memoria ci è stata risparmiata. Non a caso la nozione di tecnocrazia, dopo la grande diffusione e fortuna da essa avute negli anni sessanta e settanta, è venuta poi perdendo sempre più peso e importanza sia nelle scienze sociali che nel dibattito politologico. Già nel 1979 Giovanni Sartori parlava, a proposito della teoria tecnocratica, di "illusione". "La teoria della 'classe teoretica' - egli diceva - prevede che saranno i sapienti ad esercitare il potere. È, sotto nuove ad aggiornate vesti, la vecchia illusione platonica del filosofo-re. Dico illusione perché ritengo che tale sia destinata a restare. Anche se governassero gli scienziati, resta da dimostrare che governerebbero come scienziati. In ogni caso il potere resterà nelle mani degli 'specialisti del potere', di coloro che fanno all'acquisto e dell'esercizio del potere l'obiettivo primario, se non esclusivo, della propria esistenza. Altrimenti dicendo, la nozione di potere rinvia all'esistenza di una classe potestativa per antonomasia, tale perché detiene ed esercita quel potere che è sovraordinato ad ogni altro, e che viene identificato come potere 'politico', come il potere di comandare sulla città nel suo insieme". "La mia previsione è, dunque, - continuava Sartori - che anche nella società tecnologica più avanzata il governo resterà un governo dei politici, anche se diventerà sempre più un governo orientato e rinforzato dagli esperti". L'illusione tecnocratica era nata probabilmente - spiegava Sartori - dalla cosiddetta rivoluzione manageriale. Ma tra manager e uomo politico c'è una differenza profonda e sostanziale. "Il manager della grande industria o della corporazione gigante è chi esercita un potere la cui titolarità si è polverizzata, o che difetta di un titolare tecnicamente idoneo. Ma il caso del potere politico è del tutto diverso.
Il potere politico non è una proprietà, una 'cosa che si possiede', e da gran tempo non necessita di basi patrimoniali. Il potere politico è un 'potere razionale' che appartiene a chi lo esercita. L'argomento che vale per il rapporto tra managers e proprietari non vale [dunque] per il rapporto tra scienziati e politici". (La politica, Sugar, pp. 310-311).
A ciò si potrebbe aggiungere che l'ideologia o l'illusione tecnocratica aveva precise origini illuministico-scientistiche, e quindi era portata a schematizzare e a semplificare, cioè a ridurre o a impoverire i fattori e le forze che operano in una società, in ogni società: che sono fattori e forze culturali in largo senso, ma anche psicologici ed emotivi.
E non credo che né gli sviluppi della globalizzazione, né il futuro dell'unità europea muteranno questo quadro: nei singoli paesi europei, nelle singole società europee esisterà sempre il problema di ricercare il consenso su grandi questioni, sui grandi problemi: e questo potrà essere fatto solo dai partiti e dai movimenti politici. La sfera della politica conserverà quindi sempre il proprio spazio, e non ci sarà tecnocrazia - a livello delle istituzioni europee - che possa sopprimere questo spazio. In caso contrario, saranno le stesse istituzioni europee ad essere gravemente minacciate.
Ma se la società tecnocratica come concetto politico - cioè come governo o dominio dei tecnici, degli esperti, con relativa eclisse della dimensione politica, tradizionalmente intesa - si è rivelata in passato una illusione, e, a mio avviso, non avrà migliore sorte in futuro, ciò non significa affatto che alla luce degli sviluppi (economico-industriali e politici) degli ultimi decenni abbiano conservato un valore e un significato inalterati parecchie parole chiave del lessico politico. Tutt'altro. E penso proprio, in primo luogo, ai concetti di destra e sinistra.
Tali concetti hanno subito, con ogni evidenza, un processo di progressivo svuotamento, talché necessitano di una completa ridefinizione.
Essere "di sinistra" ha significato per un lungo tempo nel nostro Paese (ma non solo nel nostro Paese) ispirarsi a soluzioni "socialiste", al punto che, liquidato il marxismo dalle "dure repliche della storia", oggi ci sono ancora forze politiche che si richiamano al "liberalsocialismo". Si tratta, a mio avviso, di una operazione tanto spericolata quanto ingenua, culturalmente e politicamente arretrata e perdente. Proverò a spiegare il perché.
Quando si parla di 'liberalsocialismo' si parla infatti, in un primo luogo, di Carlo Rosselli. Ora, è vero che Rosselli respingeva (anche alla luce della tragica esperienza bolscevica), il vecchio programma accentratore, collettivista, che faceva dello Stato l'amministratore, il gerente universale; ed è vero che egli rifiutava di pensare che il semplice fatto della espropriazione, il passaggio delle attività produttive alla collettività, fosse capace di determinare una trasformazione miracolosa: produzione e ricchezza moltiplicate, lavoro ridotto e reso gioioso, soppressione automatica delle classi, delle lotte e delle guerre, trionfo della fratellanza, della giustizia e della pace. "Per i socialisti seri, colti, preparati (…) - egli diceva - coteste sono ormai favolette delle quali è più igienico non parlare. A tutti appaiono, oltretutto, chiari i pericoli della elefantiasi burocratica, della invadenza statale, della dittatura dell'incompetenza, dello schiacciamento d'ogni autonomia e libertà individuale, del venir meno dello stimolo nei dirigenti come negli esecutori".
E tuttavia, detto questo, Rosselli invocava forme di conduzione economica "per quanto possibile autonome, sciolte, correlative ai vari tipi di impresa, che ne rispettino le tanto varie esigenze: forme municipali, cooperative, sindacali, gildiste, trustiste, forme miste, con innesto dell'interesse generale sul suo particolare, forme individuali e familiari, a seconda delle tradizioni, della tecnica, dell'ambiente, ecc.". Si è parlato, a proposito di queste formulazioni rosselliane, di economia a due settori: un settore pubblico e un settore privato. Senonché appare evidente da tutta l'opera di Rosselli che egli pensava a una netta prevalenza del settore pubblico (sia pure in forme autogestionarie e cooperative e non statalistiche) su quello privato.
C'è, a questo proposito, una pagina assai significativa di Socialismo liberale, in cui Rosselli esprime il propri accordo con Werner Sombart, il quale aveva previsto (sono parole di Rosselli) che "nell'avvenire coesisteranno, accanto a economie di tipo capitalistico, economie cooperative, collettiviste, individuali, artigiane, e la piccola proprietà rurale". Ma, mentre Rosselli esprimeva il proprio consenso alla previsione di Sombart, aggiungeva, di suo, che in futuro "è probabile che il capitalismo debba rinunciare alla sua egemonia, sottomettendosi sempre più a limitazioni e interventi da parte dei pubblici poteri; mentre si andranno estendendo le forme di economia regolata, nelle quali il principio del lucro".
Ora, a mio avviso, una sinistra moderna non può rifarsi a formulazioni di questo tipo. Una sinistra moderna deve riconoscersi non solo, come è ovvio, nelle libertà civili e politiche, ma deve anche accettare un modello di sviluppo fondato sulla libera iniziativa, sulla libera impresa, sul mercato, sulla concorrenza. Solo quella che Friedrich von Hayek ha chiamato la "società libera", ha dimostrato di essere una società vitale, capace di produrre ricchezza, e capace di produrre continuamente innovazione (non solo tecnologico-industriale, ma anche culturale in senso lato).
Accettare incondizionatamente questo modello di sviluppo non significa, ovviamente, non preoccuparsi dei problemi dell'equità sociale: cioè di garantire a tutti adeguati punti di partenza, di garantire uno stato sociale adeguato, di proteggere i ceti più deboli. Ma con la consapevolezza, appunto, che ciò si può fare efficacemente solo e soltanto all'interno della "società libera", e in virtù dei traguardi che la "società libera", ed essa soltanto, permette di raggiungere.
Anche la destra, a sua volta, ha problemi di ridefinizione della propria mentalità, della propria tradizione, del proprio patrimonio ideale. La difesa della "società libera" richiede infatti il ripudio della difesa dello status quo, richiede l'accettazione incondizionata dello sviluppo e dell'innovazione. Anche la destra è stata aduggiata per molto tempo da preoccupazioni 'organicistiche' spesso simili a quelle della sinistra e, più in generale, dalla paura della "modernità". Anche la destra, dunque, se vuole essere all'altezza dei tempi, deve rivedere e mutare la propria cultura.
Il futuro è dunque affidato alla capacità di revisione e di adeguamento culturale sia della sinistra che della destra. Ed è probabile che, se esse saranno in grado di fare tale lavoro di revisione e di adeguamento, esse potranno riconoscersi in alcuni punti comuni.
Qui, e non in un impossibile governo tecnocratico supernazionale, è da cercare la garanzia per il futuro, sia dell'Italia che dell'Europa.
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